Con il termine Vedismo (o religione dei Veda) gli storici delle religioni e gli orientalisti intendono la religione e la cultura dei popoli indoeuropei denominati Arii che intorno al XV secolo a.C. migrarono verso l'India nord-occidentale (allora indicata come Saptasindhu सप्त सिंधु, Terra dei sette fiumi, in avestico Hapta Hindu, oggi denominata Punjab dal persiano Panjāb 'cinque acque') provenendo dall'area di Balkh (oggi in Afghanistan settentrionale). Un altro raggruppamento di questo popolo, gli Iranici, sempre provenienti dalla medesima area, invase invece l'attuale Iran fondandovi una cultura religiosa che successivamente fu in parte raccolta nell'Avesta. Fu dunque nell'area dell'Afghanistan settentrionale che tale cultura vedica acquisì le sue prime caratteristiche religiose e linguistiche[1].
Il periodo "vedico"
Il periodo "vedico" (Vedismo) è considerato tale dall'ingresso degli Arii nell'India settentrionale fino alla invasione da parte di questi della piana del Gange, VIII secolo a.C., e la costituzione di prime entità statuali nonché alla compilazione delle parti in prosa dei Veda, i Brāhmaṇa, e delle Upaniṣad, i commentari redatti a partire dall'VIII secolo a.C. e per questo denominati come Vedānta (fine dei Veda)[2]. Il periodo successivo al "Vedismo", a partire dall'VIII secolo a.C. fino a primi secoli della nostra Era, gli storici delle religioni lo denominano come Brāhmanesimo, mentre quello successivo a questo e fino ai giorni nostri viene indicato come Hindūismo[3].
Il passaggio dal "Vedismo" al Brāhmanesimo corrisponde alla progressiva sostituzione delle figure sacerdotali coinvolte nei riti sacrificali. Se nel primo Veda, il Ṛgveda, l'officiante delle libagioni è lo hotṛ (corrispondente allo zaotar dell'Avesta), accompagnato da altre figure sacerdotali minori, con il passare dei secoli e con l'elaborazione dottrinale all'interno degli stessi Veda, sopraggiunge la figura dello udgātṛ il cantore delle melodie del Sāmaveda, sostituito poi anch'esso come figura sacerdotale primaria dallo adhvaryu, il mormorante i mantra relativi allo Yajurveda e, infine con il Brāhmanesimo, dal brāhmaṇa, l'ultimo dei sacerdoti che sovrintendeva alla correttezza del rito, riparando a qualsiasi errore, e detentore dell'ultimo Veda, lo Atharvaveda[4].
La società e la cultura religiosa "vedica"
Il sopraggiungere del popolo degli Arii nella regione oggi denominata come Punjab provocò i conflitti tra questi nomadi guerrieri e le popolazioni locali, eredi delle cosiddette Civiltà della valle dell'Indo. I testi vedici descrivono le popolazioni autoctone come di pelle scura oggi identificate come dravidiche. Gli Arii indicavano sé stessi come Ārya (nobili) riservando il termine Dāsa (anche Dasyu, successivamente col significato di "schiavo") alle popolazioni autoctone con cui erano venuti a contatto. Secondo gli Arii, questi Dāsa non veneravano divinità né possedevano riti religiosi quanto piuttosto veneravano un "fallo" (pene eretto, sanscrito Liṅgaṃ, denominato dio-pene o dio-coda śiśnadeva). Secondo lo studioso Alf Hiltebeitel[5] la scoperta di oggetti di forma fallica nella Valle dell'Indo fa supporre come corretta la descrizione vedica di questi culti, peraltro anticipatori del culto del Liṅgaṃ nello Śivaismo[6].
Successivamente gli Arii si spostarono verso Sud e verso Est in un processo di conquista che non fu mai terminato essendoci tutt'oggi vasti territori dell'India meridionale ed orientale dove ancora si parlano dialetti dravidici e munda[7].
Gli Arii erano suddivisi in jāna (sanscrito, corrispettivo del latino gentes) a loro volta suddivisi in "clan" (viś) guidati da un capoclan (viśpáti). Erano allevatori nomadi che progressivamente si stanziarono in cittadelle fortificate con mura di terra battuta (sanscrito vedicopúr पुर, corrispondente al greco antico πόλις polis) come già prima di loro i nemici Dāsa. Dalle scritture vediche questi Ārya appaiono ricchi, dediti a feste cerimoniali a base di carne e di madhu (liquore a base di miele come l'idromele)[8]. I villaggi degli Arii venivano eretti dopo un cerimoniale di consacrazione complesso che prevedeva l'aratura del luogo e la messa in posa di nove colonne (sthūṇā) destinate a sostenere gli edifici. Al centro del villaggio era posta la colonna più importante (skambha) posto come albero primordiale che sostiene il Cielo (Div o Dyú).
Elemento centrale della cultura sociale e religiosa degli Arii era la dimensione della purezza (puṇya[9]) conservata all'interno del villaggio (grāma). Tutto all'interno del villaggio era o doveva essere puro, tutto fuori dal villaggio era estraneo (araṇya), diverso e temibile: invaso da mostri leggendari e dai disprezzati quanto temuti Dāsa (i senza faccia-anās, i non-uomini-amānuṣa).
L'uomo vedico conservava nel suo spazio sacro la purezza e riti di purificazione che lo rendevano puro da ciò che è impuro: sangue, unghie recise, capelli tagliati o caduti, sperma, cerume, muco, sudore e vomito, ma anche i feti abortiti e il mestruo[10]. Allo stesso modo erano considerati impuri coloro che per la propria attività venivano in contatto con tali elementi: i macellai, i lavandai, i boia; tutti coloro che venivano a contatto con tali persone si dovevano poi sottoporre a riti purificatori. Le divinità punivano coloro che compivano tali peccati (pātaka) soprattutto se rivolti contro le divinità stesse. Particolarmente temuto era l'asura Váruṇa, rigido custode dello Ṛta che puniva con orribili malattie lo spergiuro o l'incestuoso.
Non erano invece impuri il latte delle madri 'arie' e le urine (mischiate ad argilla e utilizzate come sapone) e le feci (utilizzate come combustibile) delle vacche.
Non erano invece impuri il latte delle madri 'arie' e le urine (mischiate ad argilla e utilizzate come sapone) e le feci (utilizzate come combustibile) delle vacche.
La "purezza" consentiva all'uomo "ario" il proprio stile di vita che doveva essere contraddistinto dalla rettitudine (rju) e dalla semplicità.
I ritmi della vita "vedica" sono contraddistinti da una ritualità in cui l'elemento fuoco ha un ruolo del tutto peculiare. Il fuoco, anzi i tre fuochi sono ospitati nella casa del brāhmaṇa:
- il più importante, denominato gārhapatya, è posto ad Ovest su una sede circolare ed è il luogo dove dimora l'Agni originario; con questo fuoco alimentato esclusivamente dal capofamiglia, dalla moglie o dal primogenito viene attinta la fiamma per il secondo fuoco;
- il secondo fuoco, sede dell'Agni sacrificante, è posto da Est su base quadrata; denominato āhavanīya;
- il terzo fuoco (lo anvāhāryapacana) , di base semicircolare è posto a Sud ed è di supporto al fuoco orientale in quanto è il fuoco del sacrificio del riso situato a destra dell'officiante quando egli è rivolto verso l'Oriente, questo fuoco è il fuoco che consuma con i suoi sacrifici i pericoli e la morte (mṛtyu) che dal Meridione provengono.
Questo fuoco benedirà il bambino appena nato, da questo fuoco saranno attinte le fiamme che consumeranno i cadaveri degli Arii dopo la loro morte, a questo fuoco si destinerà parte del pasto prima di consumarlo e a questo fuoco si rende onore appena rientrati nella propria casa. Insieme al Sole (Sūrya) è il fuoco ad essere particolarmente onorato da questa cultura che gli offre due sacrifici (Agnihotra) quotidiani: a mezzodì e al tramonto.
Anne-Marie Esnoul[11] evidenzia come nella civiltà e nella letteratura religiosa vedica (comprensiva in questo caso dei Veda e dei loro commentari Brāhmaṇa) non si riscontra alcuna riflessione sulla 'sofferenza' nel mondo, sul ciclo delle rinascite (saṃsāra) e, di conseguenza sui percorsi di liberazione da esso quanto piuttosto il godimento (bhukti) della vita terrena. È quindi solo con le prime Upaniṣad (IX secolo a.C.) che si avvia la riflessione teologica indiana sulla sofferenza nel mondo e sulla necessità di un percorso di liberazione da essa. E questo corrisponderebbe all'avvio del periodo assiale individuato da Karl Jaspers.
Le divinità "vediche"
I riti sacrificali
La letteratura vedica
Note
- ^ Il testo più antico dei Veda è il Ṛgveda, una raccolta di inni sacri che risalgono – nella redazione a noi pervenuta – probabilmente al secondo millennio a.C., nel periodo compreso tra il 2000 a.C. e il 1700 a.C. Va tenuto presente tuttavia che le datazioni anteriori al X secolo a.C. sono del tutto ipotetiche. Qui vengono proposte le ipotesi dello studioso Ramchandra Narayan Dandekar riportate nella Encyclopedia of Religion edita dalla MacMillan di New York nel 2005 (Vol. XIV pag. 9550). Tale fonte, la Encyclopedia of Religion, ha il pregio di essere uno strumento condiviso, curato e rivisto da numerosi studiosi di fama internazionale. Tuttavia altri autorevoli studiosi offrono datazioni più recenti. Così Saverio Sani (Ṛgveda, Venezia, Marsilio, 2000, pag.19) data tra il XV e il V secolo a.C. la composizione del Ṛgveda. Mario Piantelli (Hinduismo a cura di Giovanni Filoramo, Bari, Laterza, 2007, pag.5) data la composizione dei Veda con l'arrivo degli Arii in India, indicando questo arrivo nel XVI secolo a.C. Michelguglielmo Torri (Storia dell'India Bari, Laterza, 2000, pag. 32) entra nello specifico quando riportando la nuova tesi promossa dopo gli anni ottanta sull'origine autoctona degli Arii, ricorda: «I due punti di forza di questa teoria fanno riferimento al fatto che, fermo restando l'indicazione del 1000 a.C. come data di completamento della composizione degli inni raccolti nel Rig Veda, non è affatto certa quale sia la data d'inizio. Questa potrebbe essere assai più antica del 1500 a.C. e risalire al 3000, al 4000 o addirittura al 7500 a.C. Il primo elemento a supporto di questa è tratto dall'astroarcheologia, cioè dal fatto che all'interno dei Veda vi sia una serie di riferimenti astronomici che, una volta decodificati, fanno pensare che i compositori degli inni vedici abbiano vissuto sotto un cielo caratterizzato da configurazioni stellari e da parabole solari caratteristiche di periodi ben più antichi del 1500 a.C.». Tra gli indologi che spostano ben oltre la data del 1500 a.C. Torri cita: David Frawley, K.D. Sethna e Shrikant Talageri. S. W. Jamison and M. Witzel (Vedic Hinduism pag. 5) se da una parte linitano il periodo vedico al 1500-500 a.C. dall'altra notano che: « The RigVeda, which no longer knows of the Indus cities but only mentions ruins (armaka, [mahå]vailasthåna), thus could have been composed during the long period between 1990 and 1100 BCE.». Per J. L. Brockington (in Concise encyclopedia of language and religion Oxford, Elsevier, 2001, pag.126) invece i più antichi inni dei Veda, appartenenti al Rig Veda, vanno fatti risalire al 1200 a.C.
- ^ Mario Piantelli, in Hinduismo (a cura di Giovanni Filoramo). Bari, Laterza, pagg. 3 e segg.
- ^ Mario Piantelli. Op.cit..
- ^ Cfr. al riguardo Alf Hiltebeitel. Religions of the Brāhmaṇas in Hinduism, Encyclopedia of Religion vol.6. NY, MacMillan, 2004, pag.3991.
- ^ Op. cit. pag. 3990.
- ^ Alf Hiltebeitel. Op. cit. e Mario Piantelli Op.cit.
- ^ Francisco Villar. Gli Indoeuropei. Bologna, Mulino, 1997, pag. 558.
- ^ Mario Piantelli. Op. cit..
- ^ Dall'indoeuropeo *pūr da cui anche il latino purus, il greco antico pyr e l'ittita pahur.
- ^ Particolarmente impuro era considerato il sangue mestruale. La donna mestruata doveva appartarsi e chiunque avesse contatto con lei doveva sottoporsi a delle abluzioni complete. Una donna che moriva in stato di mestruo non poteva venire arsa.
- ^ A. M. Esnoul. Enciclopedia delle Religioni vol.9. Milano, Jaca Book, 2004 pag.250.
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