martedì 6 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 12. Diana Orsini e la Signorina De Toschi

Diana Orsini non poteva ignorare una convocazione ufficiale da parte della signorina De Toschi, i cui innumerevoli agganci nell'Alta Società erano necessari per far fronte alla situazione di crisi finanziaria in cui si trovava la sua famiglia.
L'invito si estendeva anche alla madre, la contessa Emilia.
Vennero ricevute, come sempre, dalla cameriera Assuntina, la madre del parroco, nella stanzetta degli ospiti, nel gelido seminterrato del Villino De Toschi.
Nessuno, tranne il personale di servizio, era mai stato ammesso ai piani superiori.
Gli appartamenti privati della professoressa Mariuccia De Toschi erano, come si è detto, un Sancta Sanctorum inaccessibile da parte dei comuni mortali, escluso, naturalmente, il Babbo... il Generale.
Dopo il classico quarto d'ora accademico, la De Toschi comparve in tutta la sua massiccia imponenza, con il faccione obeso pesantemente truccato, gli occhi da batrace fuori dalle orbite, l'immancabile sigaretta nella mano destra e l'altrettanto immancabile fazzoletto da naso nella mano sinistra. 
L'espressione del suo viso era sdegnata e nel contempo teatralmente affranta.
Sia Diana che la contessa Emilia si alzarono in piedi, come se fosse entrato il Papa.
La signorina De Toschi ne fu compiaciuta.
«Avete fatto bèene a rivolgervi a mée» disse col solito accento toscano fasullo.
La contessa Emilia, colma di gratitudine, le baciò la mano, quella del fazzoletto umido:
«Vi ringrazio per averci ricevute, so che il vostro tempo è così prezioso. Ma per noi era un'emergenza: e quando la situazione si fa critica, il mio primo pensiero è sempre: “non c’è che la Signorina!” Lei è l’unica che ha l’autorità morale, culturale»
La signorina De Toschi si schermì agitando il fazzoletto come un aspersorio, ma lasciando trapelare un certo compiacimento e una malcelata aria d’importanza.
«Per mée Diana è come una figlia…» e guardò con occhio possessivo la ragazza «e i Conti Orsini so’ i parenti della mi’ povera mamma» (e qui sospirò, indicando con il fazzoletto bagnato una vecchia foto della compianta Violetta Orsini, coniugata De Toschi).
La contessa Emilia si unì al sospiro e aggiunse:
 «Che Dio benedica la sua anima, e che possa intercedere per noi, in questa valle di lacrime>> commentò la contessa Emilia, e poi tornò al punto <<Il fatto è che Diana si è intestardita: non vuole più vedere il signor Ricci e nemmeno sentirne parlare>>
Mariuccia De Toschi spalancò i grandi occhi da rospo: 
«Cosa? Ma stiamo scherzando?» e fulminò Diana con lo sguardo divenuto paonazzo.
Temendo che la Signorina potesse fare una scenata senza conoscere i dettagli, la contessa Emilia intervenne: «Purtroppo, non è affatto uno scherzo. Se Diana continuerà a rifiutare la proposta di matrimonio da parte di Ettore Ricci, il padre di lui farà valere le ipoteche sul Feudo e sulla Villa, e ci sbatterà fuori di casa»
La signorina De Toschi scosse ripetutamente il testone, mentre le gote e il doppio mento tremolavano e la sigaretta che teneva nella mano destra faceva cadere tutta la polvere sul tavolino di mogano.
Poi, con aria solenne, esclamò:
«Nooo! Nooo! Dio liberi da certe idee! Il buon nome degli Orsini non dovrà mai essere macchiato da uno scandalo del gèenere! Io non potrei mai permetterlo, ne va anche della mia reputazione… Gli Orsini ridotti sul lastrico? Non sia mai detto!
Ricordatevi che in questi momenti di difficoltà io ci sono sèempre!»
Diana fraintese il discorso:
<<Intende dire che ci concederà un prestito?>>
Il volto della De Toschi da paonazzo divenne viola.
Un'idea del genere non le era passata nemmeno per l'anticamera del cervello.
Il solo pensiero che qualcuno potesse anche vagamente immaginare di disporre sia pure di un solo centesimo del suo immenso patrimonio, accumulato tramite eredità, emolumenti paterni, lezioni private fino a notte fonda, ma soprattutto per mezzo di un'inflessibile applicazione dell'arte della spilorceria e dello scrocco, le provocò quasi un colpo apoplettico.
Ci volle qualche secondo per riprendersi dallo shock.
Infine, sfoderò lo sguardo melodrammatico delle grandi occasioni e si preparò a recitare uno dei suoi cavalli di battaglia.
Gli occhi le lacrimavano, le dita tremavano, il naso si inumidiva, l'espressione del suo volto assunse un'aria derelitta di compiaciuta autocommiserazione:
<<Ah, bambina cara, mi piacerebbe tanto, ma purtroppo io so' povera. 
Eh, sì... so' povera, ma avvezza a viver nel pulito. 
Ora spiegami perché insisti nello spezzare il cuore a quel povero ragazzo, che tra l'altro è così ben piantato che se solo fossi un po' più giovane e il mi’ babbo fosse d’accordo… me lo sposerei io!>>
Diana, conoscendo i gusti dozzinali della De Toschi, non ne aveva dubbi.
«Io non lo amo»
La signorina Mariuccia rimase per un attimo indecisa se ridere o indignarsi, poi alla fine scoppiò in una risata la cui eco fu avvertita a tre isolati di distanza.
Rise a tal punto che poi fu colta da un attacco di tosse, che si risolse in un epico sputo nel fazzoletto.
«Eh, cara mia!» sbottò mentre piegava in quattro il fazzoletto imbrattato «mica si può pretendere che arrivi il principe azzurro a prendersi i debiti degli altri!
E poi cosa ne sai tu dell'amore? Ami forse qualcun altro? Dillo! Sai che a mmméee puoi dire tutto!»
Diana scosse il capo:
<<Non c'è nessun altro. Ma un giorno potrebbe esserci>>
Un'altra risata della De Toschi la travolse, ma per fortuna non degenerò nella tosse catarrosa precedente:
«Un giorno? Ma tu sei in età da marito adesso! Se lasci passare questo periodo, non ti vorrà più nessuno!» 
<<Meglio soli che male accompagnati>>
La Signorina si oscurò in volto e si preparò a recitare un altro pezzo forte del suo repertorio teatrale:
<<Tu non sai niente neanche della solitudine! Dell'andare a dormire in un letto freddo, del sentire la mancanza di un abbraccio, del trascinarsi nella vecchiaia senza fremiti, senza palpiti, senza neanche un momento di tenerezza umana>>
Commossa dalla sua stessa interpretazione d'arte drammatica, si soffiò violentemente il naso, sempre più costipato.
Poi si ricompose e con voce più salda riprese:
<<E comunque, mia cara, qui non si tratta di una questione d'amore, o di romanticismo, ma di matrimonio, il che è tutta un'altra cosa>>
A Diana sarebbe piaciuto chiedere a quella vecchia zitella cosa ne sapesse lei, del matrimonio, ma non era nel suo stile colpire con colpi bassi.
La De Toschi continuava a pontificare:
<<Il matrimonio è un sacramento, ma è anche un contratto. Non a caso il sostantivo femminile matrimonio va di pari passo con quello maschile di patrimonio E' il fondamento della nostra civiltà, come dice sempre il Babbo. Non a caso gli antichi Romani consideravano inscindibili i due concetti>>
E poi sferrò il colpo finale:
<<Del resto, senza un adeguato patrimonio, dovrai mettere da parte le tue abitudini da ragazza viziata, il tuo atteggiamento di superiorità, il tuo tenere a distanza le persone...>>>
Diana la fissò negli occhi, perché questa volta era stata punta sul vivo:
«Non è per presunzione che tengo a distanza la gente. 
E' che non voglio affezionarmi, perché non voglio soffrire. Chi si affeziona si pone fin da subito in una condizione di inferiorità. Chi si affeziona è ricattabile. 
L'attaccamento genera la paura di perdere ciò a cui siamo affezionati. 
La paura di perdere ciò che si ama genera la rabbia. La rabbia genera il rancore e la guerra.
Io non voglio seguire questo cammino. Lo hanno seguito i miei avi, ma io non lo seguirò. 
Ci sono molti modi di intendere la nobiltà... e questo modo mi ripugna!» 
La De Toschi aspirò profondamente dalla sigaretta.
In quel discorso aveva visto una deliberata offesa al Generale De Toschi, il che era peggio che bestemmiare Dio in persona.
Il silenzio era totale. L'aria greve di fumo.
Puntò il dito e il fazzoletto contro di lei e sfoderò il suo ennesimo monologo ad effetto:
<<Tu! Tu della rea progenie degli oppressor discesa... non è così? 
Non l'hai forse appreso in questa stessa stanza il Coro dell'Adelchi? 
In un certo senso è anche colpa mia se ti sei messa in testa certe idee strampalate. 
Ma se da qui è venuta la malattia, da qui verrà la guarigione!
Tu non sei Ermengarda, non ci saranno per te i tepidi lavacri d'Aquisgrano...
Tu non sei nessuno! Hai capito? 
Nessuno! 
Ricordatelo bene, perché è questo ciò che il mondo ti dirà, se continuerai a intestardirti.
Sai, io non riesco proprio ad immaginare come saresti se fossi povera.
Una come te, schizzinosa come te, non ce la vedo a vivere in un tugurio, e non solo téee, ma anche i tuoi genitori, i tuoi fratelli, le tue sorelle... 
E tutto per un capriccio insensato!»
Espirò una nube di fumo che, come nebbia, rese ancora più minacciosi i contorni del suo volto.
Diana guardò fuori dalla finestra, nel cortiletto ghiaioso e arido del Villino De Toschi, dove nemmeno la gramigna riusciva a crescere.
Cercò di prendere tempo:
<<Se fosse per me, sceglierei la libertà, a qualsiasi costo. Ma sento di non poter condannare le mie sorelle a questa stessa sorte. Sono ancora troppo giovani. Non capirebbero.
Però voglio che anche loro si rendano conto di com'è fatto Ettore.
Per questo concederò ad Ettore Ricci una seconda possibilità: se vorrà passare in visita a Villa Orsini, tutta la famiglia lo riceverà e cercherà di conoscerlo meglio>>
Un sorriso sornione si dipinse sul volto da ippopotamo della signorina De Toschi, che fece un cenno alla contessa Orsini, come per dire: "Vede... la mia autorità morale, culturale..."
Poi esplose in un'esclamazione:
<<Bèeeene, bèeeeeeene!!!>>
E si alzò, considerando terminata l'Udienza.
La Contessa le baciò la mano, che teneva ancora, tra le dita, il fazzoletto pieno di virus e di microbi.
Diana fu costretta a baciarle la gota dipinta di terra di Siena pesante e screpolata, su una peluria giallastra.
L'odore del fondotinta misto a quello del fumo e del fazzoletto le fece venire la nausea.
O forse era tutta quella situazione.
O la vergogna di aver ceduto a un ricatto per paura della povertà.

Vite quasi parallele. Capitolo 11 Chi viene e chi va


Pochi giorni dopo la nascita del primogenito di Romano Monterovere e Giulia Lanni, nell'ottobre 1938, le condizioni di salute della madre di Giulia si aggravarono.
La signora Elisa Lanni soffriva infatti di un'insufficienza cardiaca e dissezione aortica.
All'epoca non si poteva intervenire chirurgicamente, pertanto la situazione poteva precipitare da un momento all'altro.
Giulia sapeva che a sua madre restavano solo pochi giorni di vita: le portò il bambino appena nato, a cui era stato dato il nome di Francesco, in onore dell'ingegner Lanni.
Enrico Monterovere non aveva nascosto il suo disappunto e pretese che il prossimo figlio si sarebbe dovuto chiamare Enrico, o Enrichetta nel caso, per lui malaugurato, che fosse nata una femmina, come poi, per l'appunto, avvenne.
Nonostante l'estrema debolezza, la signora Elisa accarezzò il piccolo nipote.
Poi, con grande fatica, a voce bassa e roca, disse:
<<Una vita incomincia e una vita finisce. Una vita per un'altra vita. E' una ruota che gira. Ora tocca a te, piccolo mio>>
Essendo una donna istruita e interessata ai grandi temi della vita e della morte, volle prendere congedo con parole che rispecchiavano il suo pensiero.
Così, rivolgendosi alla figlia, al marito e al genero, sussurrò:
<<Come disse un antico saggio: è tempo di andarsene, io a morire e voi a vivere. Quale sia la sorte migliore, nessuno lo sa. Pertanto non piangete per coloro per i quali è giunta l'ora. Riservate le lacrime per i vivi, perché ci sono cose ben peggiori della morte>>
Quel discorso l'aveva stancata.
Chiuse gli occhi e si assopì.
Poco dopo entrò in un sonno sempre più profondo, e gli unici suoni che emetteva furono i terribili rantoli che soltanto chi ha accudito un moribondo può riconoscere come segnale della fine.
Giulia rimase a vegliare la madre fino a che non si spense, il mattino dopo.
Non poteva sapere che un giorno anche lei, prematuramente, sarebbe andata incontro alla stessa sorte, per la stessa malattia.
Né poteva sapere che si trattava di una malattia ereditaria, che si trasmetteva con elevata probabilità dai genitori ai figli.
E mai avrebbe immaginato che anche il figlio che teneva in braccio, un giorno, si sarebbe ammalato allo stesso modo, ma a differenza della madre e della nonna, si sarebbe salvato più volte, grazie alle nuove cure e agli interventi chirurgici, riemergendo dalle anestesie felice per essere ancora in vita e poter vedere il futuro.
A differenza di suo padre e nonostante le difficoltà a cui andò incontro, Francesco era un amante della vita, forse perché riusciva a rimuovere facilmente i brutti ricordi.
Giulia si trovava a metà strada tra la concezione radicalmente pessimista della madre e del marito, e quella possibilista e curiosa del figlio.
Ripensò spesso alle ultime parole di sua madre.
Le ponderò con attenzione nella sua mente, serbandole nel suo cuore, ma non le condivise del tutto, perché sperava per suo figlio e i gli altri figli e nipoti che sarebbero arrivati col tempo, potessero vivere in tempi migliori, e avere più opportunità, e forse, chissà, magari anche un destino importante.
In fondo i Monterovere avevano, nonostante suo marito volesse negarlo, una strana vocazione per le avventure e le epopee dinastiche.
Pensò ai discorsi di suo suocero sul castello di Monterovere Boica, vicino al villaggio di Querciagrossa: secondo il vecchio Enrico, la sua famiglia discendeva da un ramo decaduto degli antichi castellani, di origine longobarda e prima ancora celtica.
E a questo discorso si mescolavano le leggende del bisnonno Ferdinando disarcionato all'Orma del Diavolo, l'apparizione degli elfi dei boschi, le peregrinazioni raminghe di Enrico, la sabbia del deserto portata da Romano, dopo la guerra d'Africa, con gli occhi ancora pieni del colore dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Verso dove faceva rotta una simile Odissea?
Qual era la Terra Promessa verso cui si dirigeva la nuova generazione della famiglia Monterovere?
E infine, dove avrebbe fatto naufragio questa nave?
Perché prima o poi, nella vita, si fa sempre naufragio.