Già negli ultimi mesi del '45 l'Azienza Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere tornò in attività e si inserì in un gruppo di cooperative, ottenendo vari appalti per opere di canalizzazione e scolo nelle campagne del faentino.
La sede legale fu spostata a Faenza, dove già abitavano Romano Monterovere, sua moglie Giulia Lanni e i loro tre figli Francesco, Enrichetta e Lorenzo.
L'alloggio era in condizioni precarie, ma aveva un vantaggio, seppur discutibile: si trovava nelle vicinanze della residenza di un'anziana Dama di San Vincenzo, la marchesa Matilde Zucconi di Vignola, una specie di "Donna Prassede" in chiave novecentesca, che aveva dedicato la propria vita alla missione di "salvare i bambini dal comunismo".
Inizialmente si era fatta l'idea che i Monterovere fossero devoti cattolici, dal momento che li aveva notati varie volte a messa, poi però il parroco l'aveva informata che, per quanto il signor Romano fosse credente, la maggioranza dei suoi fratelli non lo erano e anzi professavano idee di sinistra, per non parlare del vecchio capofamiglia, Enrico, considerato "una testa calda", nonostante l'età.
Il vecchio Enrico Monterovere ripeteva a figli e nipoti che lui era "per un socialismo democratico" e aveva preso le distanze da Stalin.
Romano invece non parlava mai di politica, anche se la marchesa Matilde lo aveva etichettato come catto-comunista. In compenso suo suocero, l'ingegnere Lanni, esprimeva fin troppo spesso la sua fede nel progresso e si definiva un radicale progressista.
Ferdinando, il primogenito e capo dell'Azienda, aveva sposato una donna molto religiosa, per cui manteneva un basso profilo.
I rapporti con la politica locale e regionale furono affidati a Edoardo Monterovere, tornato dalla Francia, dove, così almeno diceva lui, aveva combattuto in prima linea nella resistenza contro l'occupazione nazista. Con queste credenziali mai del tutto provate, Edoardo si iscrisse al PCI e riuscì rapidamente a fare carriera politica nelle amministrazioni locali.
Più defilata era la posizione di Anita, da un lato per il fatto di aver avuto il suo assaggio di socialismo jugoslavo mentre fuggiva da Fiume, scampando per un soffio alle foibe, e dall'altro, come insegnante riteneva professionalmente più giusto mantenere un atteggiamento super partes.
Anita Monterovere era nubile e viveva con i genitori e i figli di una sorella morta di tisi.
Aveva una certa simpatia anche per i figli di Romano, in particolare Francesco, che però era anche il preferito della marchesa Matilde.
Le due zitelle finirono così per interagire, a volte in maniera competitiva, a volte cooperativa.
In ogni caso, quando il bambino compì dieci anni, nel 1948, sia Anita che la Zucconi concordarono sul fatto che dovesse proseguire gli studi.
La famiglia non si oppose, ma per il momento non poteva ancora permettersi di sostenere le spese per un'educazione superiore.
La marchesa Zucconi manifestò allora l'idea che le era venuta fin dall'inizio e cioè che avrebbe provveduto lei stessa alle spese, purché Francesco si iscrivesse al collegio dei Salesiani, dove sicuramente "si sarebbe salvato dai miasmi del comunismo".
Questa proposta fu all'origine del secondo grande trauma dell'infanzia di Francesco (dopo gli anni della guerra e i periodi trascorsi nella stia dei polli).
Il bambino infatti non era portato per la vita da collegio, dove alle regole rigide si sommava un forzato spirito comunitario che non lasciava spazio alla libertà, alla privacy e alle predisposizioni individuali.
In seguito non seppe mai dire se questo fu un bene o un male, alla luce degli sviluppi successivi della sua vita, ma una cosa era certa, e cioè che fin dal primo giorno in cui mise piede in collegio, Francesco Monterovere si sentì come rinchiuso in una prigione e passò il resto del tempo ad escogitare un modo per evadere.
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