La guerra tra i Lancaster e gli York per conquistare la Corona d'Inghilterra è forse una delle fasi più romanzesche della storia britannica e come spesso succede nelle guerre civili, alla fine si concluse con una specie di sterminio reciproco, da cui trasse giovamento una fazione "terza", capeggiata dalla Enrico VII Tudor, un gallese vagamente imparentato con i Lancaster, che dopo aver sconfitto Riccardo III di York, ne sposò la nipote, Elisabetta, da cui ebbe come figlio il terribile Enrico VIII.
La Rosa Tudor, che Shakespeare lodò come "il più nobile dei fiori", fu la "terza rosa", quella che non era stata prevista: bianca al centro, come quella degli York e rossa all'esterno, come quella dei Lancaster, a significare la sempiterna riappacificazione, negli eredi dei Tudor, delle due fazioni rivali.
Ora, si pava licet componere magnis, le cose andarono più o meno così, nel mezzo secolo di faida familiare che oppose i Monterovere ai Ricci-Orsini e che terminò con il vantaggio di una terza fazione, che per molto tempo si tenne nell'ombra, per poi colpire al momento opportuno.
Ma toniamo agli inizi, ossia all'anno di grazia 1972, quando ebbero inizio gli eventi mirabili e terribili di cui spero di poter essere, sine ira ac studio, narratore trasparente e cronista fedele.
Com'era da prevedersi, la ferrea avversione di Anita Monterovere nei confronti di Silvia Ricci-Orsini, e l'iraconda opposizione di Ettore Ricci a Francesco Monterovere, non fecero altro favorire la nascita di una relazione tra Silvia e Francesco, fornendo loro un elemento di complicità che altrimenti non ci sarebbe mai stato.
Fu tale complicità a esaltare ciò che avevano in comune, che purtroppo era molto meno di ciò che li distingueva, ma questo sarebbe emerso dopo, quando era troppo tardi.In fondo anche Silvia, nonostante una certa dose di pragmatismo che le derivava dal padre, era intrisa delle romanticherie della sua epoca: i film con Audrey Hepburn, le canzoni di Mina e di Battisti, la moda Hippie, il ribellismo giovanilistico che proveniva da oltralpe, oltre Manica e oltre Oceano, e tutti quegli elementi annessi e connessi che avevano reso la sua verde età una sorta di Eden spensierato, lontanissimo dalla concretezza e dall'opaca trafila delle cose della quotidianità che l'attendeva, silenziosa e paziente come un predatore, dietro al giro di boa dei trent'anni e del matrimonio.
Le sue sorelle non erano state nemmeno sfiorate da quell'ondata neoromantica: per loro il mondo iniziava e finiva nella Contea, con qualche propaggine "tra i monti e il mare", tra l'Appennino e la Riviera. Guardavano Silvia e non capivano, ma non disapprovavano nemmeno: semplicemente la osservavano come qualcosa di esotico, influenzato certamente dalla vita di città e da quella universitaria, ma anche dai sogni ad occhi aperti della loro madre, la leggendaria Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che con inimitabile classe era passata indenne da uno scandalo all'altro senza mai perdere la devota ammirazione generale.
E questo perché Diana si era sempre battuta per garantire ai lavoratori del Feudo Orsini le migliori condizioni in termini di salario, orario di lavoro, ferie, sicurezza, contributi, laddove invece suo marito era assai recalcitrante a spendere anche un centesimo in più. Ma alla fine lei riusciva sempre a convincerlo, ponendolo di fronte all'evidenza secondo cui un lavoratore che si sente rispettato e valorizzato sarà sempre più motivato a svolgere nel modo migliore la propria attività.
Ma Diana era una "progressista" senza saperlo, senza rendersene conto, ed Ettore la prendeva in giro, chiamandola la Contessa Rossa, accostandola ad altre nobildonne della sinistra al caviale, come Luisa Alvarez de Toledo, Duchessa di Medina-Sidonia o Maria Teresa di Borbone-Parma, detta "la Principessa Rossa".
Forse era anche per questo dissidio tra i genitori che Silvia non aveva mai preso partito di fronte alle questioni politiche e tanto meno quelle riguardanti gli affari di famiglia.
Francesco le offriva un'orizzonte più ampio e consapevole, e cioè quello tipico dell'intellettuale impegnato, ma non organico, del filosofo che passa dalla visione d'insieme della conoscenza scientifica a quella specifica dell'ideale politico. Anche questo faceva molto "Anni Settanta"
Silvia ascoltava affascinata tutti quei discorsi e non sapeva che in seguito avrebbe finito per detestarli e considerarli alla stregua di pericolose utopie, tornando quindi con l'età ad avvicinarsi alle destrorse posizioni paterne.
Ma questo avvenne molto dopo, quando lo scialo di triti fatti, vano più che crudele, delle necessità quotidiane e materiali, finì col distruggere ogni alone di romanticismo, come accadde, seppur in termini più drammatici, a Madame Bovary.
Nel 1972 la nostra Silvia era ancora una "poetessa" che si commuoveva contemplando i chiari di luna e perdendosi nelle dissertazioni di Francesco sulle stelle e sulla vastità dell'Universo.
In quelle serate le pareva incredibilmente profondo lo sguardo del suo corteggiatore, che sembrava sondare tutti i misteri del cosmo, smascherandone le contraddizioni e sopportandone il peso, come un eroe wagneriano.
Per tutte queste ragioni, ed altre ancora, ella consentì a Francesco di trasportarla in un mondo che aveva per lei il fascino di un continente inesplorato, dove c'era posto per la canzone di Marinella di De Andrè, idolo di Francesco per quanto riguardava la musica leggera, e la Quinta di Beethoven o le sonate di Chopin, che lo stesso Francesco eseguiva al pianoforte con la maestria imparata ai tempi del collegio.
Non poteva nemmeno lontanamente immaginare, la nostra Silvia, che soltanto tre anni dopo, mentre era incinta del suo primo e unico figlio, avrebbe imparato ad odiare la musica classica che piaceva tanto al novello marito, il quale teneva a tutto volume lo stereo con disco di vinile dell'Aida di Verdi, specie per l'immortale scena del trionfo di Radames, che invece nel '72, all'Arena di Verona, le era parsa così esaltante da farle venire i brividi.
Tutto ciò per ribadire che le stesse atmosfere che li avevano uniti in un romantico abbraccio ai tempi in cui la loro storia era un atto di insurrezione contro il mos maiorum paterno, divennero poi, nel giro di non troppo tempo, quelle crepe su cui i padri o altri parenti contrariati dalla loro unione, avrebbero fatto leva per far sì che la Guerra delle Due Rose riprendesse più forte di prima, avendo come campo di battaglia lo stesso focolare domestico, e come trofeo la conquista della fiducia dell'erede, blandito da entrambe le stirpi, per quanto capacissimo, fin da bambino, di distinguere il grano dal loglio.