domenica 12 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 25. Il dopoguerra dei Monterovere

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Nel 1946 l'Azienza Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere tornò in attività e si inserì in un gruppo di Cooperative Rosse, ottenendo subito vari appalti per opere di canalizzazione e scolo nelle campagne dei faentino.
La sede legale fu spostata a Faenza, dove Romano Monterovere, sua moglie Giulia Lanni, e i suoi tre figli Francesco, Enrichetta e Lorenzo, si erano trasferiti.
L'alloggio era in condizioni pessime, ma aveva un vantaggio, e cioè che si trovava in un condominio comunale per famiglie bisognose con figli, e gli inquilini ricevevano le visite delle Dame di San Vincenzo.
Una di queste Dame, la contessa Zucconi, prese in simpatia i tre figli di Romano e Giulia, ed espresse la volontà di accollarsi le spese per dare loro "un'educazione completa e cristiana".
La nobile e nubile Flora Zucconi viveva in una grande villa insieme alle sorelle, anch'esse nubili.
Le sorelle Zucconi avevano scelto, per dare un senso alla loro vita, la missione di "salvare i bambini dal comunismo".
La famiglia Monterovere era stata etichettata subito come "stalinista" e "filo-sovietica", anche se le posizioni politiche dei vari membri erano molto distanti tra loro.
Il vecchio Enrico Monterovere ripeteva a figli e nipoti che lui era "per un socialismo democratico" e prese le distanze da Stalin, anche se pochi anni dopo, in una maniera del tutto imprevista, Stalin in persona, o meglio in spirito, lo punì.
Romano Monterovere non parlava mai di politica, forse perché suo suocero, l'ingegnere Lanni, era di opinioni molto diverse e certamente non di sinistra.
Ferdinando, il capo dell'Azienda, aveva sposato una donna molto religiosa, per cui lui stesso mantenne un basso profilo, pur facendo intendere ai funzionari del Partito Comunista che stava, comunque, dalla loro parte.
Tommaso Monterovere tornò dalla Francia più povero di quando era partito, e siccome non aveva nessuna intenzione di tornare a lavorare nell'Azienda dei fratelli, da cui si sentiva sfruttato, fu l'unico della famiglia ad iscriversi al PCI e a fare carriera politica nel suo ambito.
Molto defilata era la posizione di Anita, da un lato per il fatto di aver avuto il suo assaggio di socialismo jugoslavo mentre fuggiva da Fiume, e dall'altro, come insegnante riteneva professionalmente più giusto mantenere un atteggiamento super partes.
Anita Monterovere sostenne i figli dei suoi fratelli, aiutandoli negli studi.
Il suo preferito era Francesco, che però era anche il preferito della contessa Zucconi.
Quando il bambino compì i 10 anni, nel 1948, sia Anita che la Zucconi concordarono sul fatto che dovesse proseguire gli studi.
La famiglia non si oppose, ma non poteva ancora permettersi di sostenere le spese per un'educazione superiore. La zia Anita già si occupava dei genitori anziani e del mutuo fatto per un appartamento a Faenza, Non c'erano dunque disponibilità economiche.
La contessa Zucchini manifestò allora l'ideea che le era venuta fin dall'inizio e cioè che Francesco si sarebbe dovuto iscrivere al Seminario presso i Salesiani.
Questa proposta fu all'origine del secondo grande trauma dell'infanzia di Francesco (dopo gli anni della guerra e i periodi trascorsi nella stia dei polli durante i bombardamenti).
Il bambino infatti non aveva la più pallida idea di cosa significasse entrare in Seminario (in particolare riguardo al fatto che l'obiettivo di un seminarista è quello di diventare prete): credeva si trattasse di un collegio come gli altri e per questo diede la sua approvazione.
In seguito non seppe mai dire se questo fu un bene o un male, alla luce degli sviluppi successivi della sua vita, ma una cosa era certa, e cioè che fin dal primo giorno in cui mise piede in Seminario, Francesco Monterovere si sentì come rinchiuso in una prigione e passò il resto del tempo ad escogitare un modo per evadere.



p.s. In copertina una foto giovanile di Elisabetta II con il principe Filippo e i figli Carlo ed Anna.

Vite quasi parallele. Capitolo 24. Guerra civile nella Contea.

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Pur non trovandosi nel Triangolo Rosso, detto anche Triangolo della Morte, con vertici Bologna, Reggio Emilia e Ferrara, anche la Contea di Casemurate dovette fare i conti con le vendette dei partigiani.
Una mattina, Ettore Ricci, insieme alle figlie maggiori, stava compiendo la sua quotidiana ispezione dei terreni centrali del Feudo Orsini, quando si trovò di fronte a una scena orribile, che rimase impressa nella memoria delle bambine e nei loro incubi.
Il maresciallo dei carabinieri era stato ucciso, quasi sicuramente dai partigiani, e il suo corpo giaceva a terra, con il teschio sfracellato.
Poco distante, altri corpi dilaniati e ammucchiati formavano una specie di avvertimento contro coloro che avevano collaborato con i tedeschi e con la RSI.
Ettore Ricci capì subito che aria tirava e, insieme ai suoi fratelli e ad altri parenti, fuggì in Svizzera, per rimanerci fintanto che le acque non si fossero calmate.
La sua assenza offrì un'occasione alla famiglia Braghiri per aumentare il proprio potere.
Michele Braghiri, che durante il periodo della RSI era rimasto defilato in secondo piano, nei giorni immediatamente precedenti la Liberazione aveva preso contato con i partigiani e aveva offerto il proprio sostegno.
Da quel momento, seppur segretamente, Braghiri divenne il punto di riferimento del Partito Comunista nella Contea di Casemurate.
Il Partito, che intendeva creare in Emilia-Romagna un modello di socialismo compatibile con la proprietà privata, consigliò a Michele Braghiri di far entrare il Feudo in una Cooperativa, una mossa che avrebbe permesso un notevole risparmio fiscale.
Nel frattempo, mentre le vendette continuavano e i cadaveri di ex simpatizzanti fascisti spuntavano da ogni dove, quel che restava della dinastia Orsini Balducci di Casemurate e delle famiglie ad essa legate da vincolo di parentela, ci furono molte "grandi manovre" per cercare coperture politiche.
Per prima, naturalmente, si mosse la Signorina De Toschi, che si iscrisse alla Democrazia Cristiana e divenne il principale referente democristiano forlivese di quegli anni.
La De Toschi, essendo cugina del Conte Orsini, gli fornì una prima protezione.
Poi fu il turno del magistrato Papisco, che si iscrisse al Partito Repubblicano, e incominciò a raccontare alcune sue del tutto improbabili imprese durante la Resistenza.
Poiché Papisco era sposato con Ginevra Orsini, una delle due figlie sopravvissute del Conte, la dinastia poté considerarsi coperta anche sul fianco sinistro.
A quel punto il Conte Achille fece la sua mossa: si iscrisse al Partito Liberale, imparò a memoria i discorsi di Benedetto Croce, e incantò le platee citando l'eterno incipit "Heri dicebamus", con gli occhi gonfi di lacrime, specie quando accennava a sua figlia Isabella, presentata come martire e vittima dell'occupazione nazista.
E così gli Orsini riuscirono a salvare, nell'ordine, la vita, la famiglia, la Villa, il Feudo e la Contea.
Ma non tutti accettarono la situazione.
Un contadino con cui Ettore Ricci aveva litigato, e che era soprannominato "Baracca" per il luogo dove viveva, passava da un'osteria all'altra, ubriaco fradicio, a denunciare come "gli Orsini e la loro cricca si sono parati il culo".
Ma se questo era vero per gli Orsini, non era ancora vero per i Ricci, tanto che Adriana Ricci, sorella di Ettore, era stata fermata dai partigiani e rapata a zero. E così fece ritorno alla Villa, giurando vendetta.
Il vecchio Giorgio Ricci era riuscito a cavarsela versando un'enorme quantità di denaro nelle casse dei partiti che avevano fatto la Resistenza e aveva scritto ai figli che presto l'ordine sarebbe tornato a Casemurate.
E infatti l'ordine tornò nel 1946, permettendo il rimpatrio di Ettore Ricci e dei suoi fratelli.
A Villa Orsini ricevette un'accoglienza gelida.
Diana continuò a negargli l'accesso al talamo nuziale, e lui per il momento decise di soprassedere, in attesa di riprendere in mano il potere di un tempo.