martedì 24 gennaio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 8. Memorie di una ragazza perbene.

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<<Il benessere che deriva dalla fortuna>> era solita ripetere, in tarda età, ai nipoti, la contessa Diana Orsini <<è incerto e mutevole, come la fortuna stessa>>
E lei ne sapeva qualcosa.
Fino ai diciotto anni, circa, Diana Orsini Balducci dei conti di Casemurate si riteneva una ragazza molto fortunata.
Aveva ricevuto in dono dalla sorte molto più di quello che è concesso ai comuni mortali.
Bellezza, intelligenza, classe, un cognome nobile e riverito da tutti, un patrimonio in apparenza immenso e solido.
Era cresciuta nell'illusione di essere una principessa destinata, un giorno, a innamorarsi del migliore principe azzurro sulla piazza, per poi sposarlo e vivere con lui felice e contenta.
Tuttavia, come avrebbe scritto Virgilio, dis aliter visum: agli dei parve giusto altrimenti.
Pochi giorni prima del suo diciottesimo compleanno, i genitori la convocarono nel famoso Salotto Liberty, con la faccia delle grandi occasioni.
Il Conte Achille iniziò il suo discorso con una lunga rievocazione degli investimenti azzardati di suo padre e concluse che, purtroppo, " i nostri villici non hanno capito".
Ma Diana aveva capito benissimo dove suo padre voleva andare a parare.
Il Conte le spiegò che il mancato ritorno economico degli investimenti paterni aveva causato non solo il sequestro degli immobili che erano stati costruiti, ma anche una difficoltà nel restituire i prestiti che erano stati concessi, seppur con tasso di favore, dalla famiglia Ricci.
<<Sono degli usurai>> commentò Diana.
La Contessa Emilia, scandalizzata, intervenne:
<<Non intendo tollerare che tu ti esprima con questo linguaggio plebeo. Ricordati sempre chi sei e che cosa rappresenti!>>
Diana però, a cui il ruolo di "ragazza per bene" di buona famiglia incominciava a stare stretto, non si fece intimidire:
<<Sono la figlia di persone indebitate fino al collo e rappresento la loro ultima speranza per evitare la bancarotta>>
La Contessa Emilia sbottò:
<<Che insolenza!>>  e si scolò un intero calice di Cabernet-Sauvignon d'annata per sciogliere la tensione. Sarebbe stato solo l'inizio di una formidabile carriera da alcolista impenitente.
Il Conte, che era un appassionato di retorica, si gettò a capofitto sulla carta più disperata di ogni oratore, e cioè la peroratio, ossia la mozione degli affetti:
<<Un Orsini paga sempre i suoi debiti. E finché io avrò vita non permetterò a nessun membro di questa famiglia di fare alcunché possa gettare un'ombra sul buon nome degli Orsini Balducci di Casemurate>>
Diana però non era tipo da farsi abbindolare dalle chiacchiere e tantomeno dalle perorazioni:
<<Il buon nome degli Orsini? Credi che non abbia sentito le ironie di tutti quanti riguardo agli investimenti assurdi del nonno? Il buon nome degli Orsini è andato perduto insieme a quei ridicoli campi da golf e bacini di canottaggio, costruiti in un luogo dove la gente fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena>>
Alla Contessa Emilia quasi andò di traverso il Cabernet-Sauvignon:
<<E' un'indecenza!>> tuonò e aggiunse << Vorrei proprio sapere chi ti ha insegnato questo linguaggio da taverna!>>
Glielo aveva insegnato l'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, in qualità di governante, e cioè la signora Ida Braghiri, moglie del fattore Michele Braghiri, amministratore del Feudo Orsini, nonché informatore a libro paga di Giorgio Ricci.
Il Conte riprese il filo del discorso:
<<Tu sei la maggiore delle mie figlie e l'unica in età da marito. Tuo fratello è troppo giovane per prender moglie. Di conseguenza è ovvio che io concederò la tua mano soltanto a qualcuno disposto ad aiutarmi a restituire i prestiti ricevuti, prima che i creditori facciano valere le ipoteche che sono state poste sul Feudo Orsini come garanzia. 
Ti informo che queste ipoteche gravano anche sulla nostra residenza, per cui potrebbe non essere lontano il giorno in cui questa antica e gloriosa magione si trasformi da Villa Orsini in Villa Ricci>>
Diana mise le mani avanti:
<<Potrò almeno scegliere, tra coloro che avanzeranno offerte di matrimonio unite ad un generoso emolumento, la persona che più si avvicina all'idea di marito che io mi sono fatta quando ancora credevo nelle favole?>>
Il Conte inarcò le sopracciglia:
<<L'età delle favole è finita da un pezzo, figlia mia. Per cui sarò sincero: tra le numerose richieste di matrimonio che ci sono pervenute nei tuoi confronti,  al momento soltanto quella di Ettore Ricci, figlio di Giorgio, risulta interessante dal punto di vista finanziario>>
Diana sospirò:
<<Se permetterai a Ettore Ricci di sposarmi e di riscattare le ipoteche, allora questa casa diventerà veramente Villa Ricci>>
Il Conte si sentì ferito nell'orgoglio:
<<Che destino! Dover vivere per sentirmi dire certe cose da mia figlia!>> e si alzò teatralmente, lasciando il Salotto Liberty.
La Contessa Emilia, che era al terzo calice di Cabernet-Sauvignon, scosse il capo, facendo tremare la complessa capigliatura, già fuori moda in età edoardiana.
<<Sei contenta adesso? Hai spezzato il cuore a tuo padre! E per cosa poi? Per una fantasia da ragazzina ingenua! Il Principe Azzurro non esiste! Le storie d'amore in cui credi tu sono solo nei tuoi libri e nella tua fantasia!
 Non esiste un amore così nella realtà... non esiste...>>
L'ultima frase era stata pronunciata con voce roca e tono diverso, impostato su una nota di tristezza e di rimpianto.
Il vino stava cominciando a fare i suoi effetti.
La severità polemica della Contessa Emilia, che forse era nata dalla lunga repressione dei propri istinti, si stemperò gradualmente, assumendo i contorni della nostalgia di cose passate, di cose perdute.
Era forse possibile che avesse ragione?
Diana si alzò senza dire una  parola e uscì dal Salotto Liberty, lasciando sua madre in compagnia della bottiglia di Cabernet-Sauvignon e dei fantasmi di un tempo concluso, nascosto ormai negli interstizi e sotto i tappeti.

Vite quasi parallele. Capitolo 7. Il Reduce e il Profeta delle Acque

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Romano Monterovere lasciò parte del suo cuore ad Asmara.
La paura di morire in guerra lo aveva fatto sentire vivo. Finita la Guerra d'Africa, il ritorno alla normalità, all'opaca trafila delle cose, lo faceva sentire più morto dei suoi commilitoni caduti.
Si era portato dietro dei souvenir: elefanti d'ebano con zanne in avorio, statuette primitiviste, un sacchetto di seta con la sabbia del deserto, la fotografia di una ragazza etiope con cui aveva avuto una relazione.
Fino all'ultimo aveva coltivato l'idea di restare con lei ad Asmara.
Bisognava avere coraggio per fare quella scelta, ma Romano Monterovere era un uomo avverso al rischio.
Seppellì dunque parte del suo cuore in Eritrea e tornò nel pantano della Bassa Padana, dalla sua famiglia.
Arrivò a casa dei suoi, in quel posto dimenticato da Dio che era ed è Bagnacavallo, in divisa militare, con lo sguardo di chi aveva visto troppe cose.
Nei suoi occhi azzurri c'erano ancora l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden.
Sarebbero rimasti lì per sempre, conferendogli quell'espressione distante, lontana, distaccata, che molti scambiarono poi per freddezza o indifferenza.
Nella Bassa ravennate ritrovò soltanto le torbiere e i canali dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Nel 1937 l'Azienda stava avendo un successo superiore ad ogni aspettativa.
I capitali forniti dallo zio Bassi-Pallai e il clima generale favorevole alle opere di bonifica dopo il prosciugamento delle Paludi Pontine, avevano contribuito a tale successo.
Non appena la famiglia Monterovere aveva incominciato a percepire l'odore dei soldi, le cose erano cambiate radicalmente.
Il vecchio patriarca Enrico aveva lasciato il lavoro alle Ferrovie e si era dedicato ai suoi principali interessi: mangiare, bere e andare a spasso.
I figli lavoravano tutti nell'Azienda, ma con diverse mansioni.
Ferdinando era il direttore. Il suo entusiasmo per la creazione di canali di scolo o di irrigazione era pari soltanto al suo vorace appetito a tavola.
Edoardo teneva la contabilità e si occupava delle questioni pratiche.
Lo zio Bassi-Pallai si occupava delle pubbliche relazioni: in pratica chiacchierava tutto il giorno.
Mancava qualcuno che facesse il commesso stabile nella sede dell'Azienda.
Inizialmente quel compito lo avevano dato a Tommaso, il fratello più giovane, ma lui aveva la brutta abitudine di prendersi delle pause che duravano ore intere, lasciando un cartello con scritto: "Torno subito". Per punizione finì a fare lavori di fatica nelle cave.
A Romano, che aveva una bella presenza e ispirava un senso di fiducia e serietà, il posto di commesso calzava a pennello.
Lui lo accettò con noncuranza. Dopo aver combattuto la Guerra d'Africa e aver visto quello che aveva visto, un posto valeva l'altro.
Tra Romano e Ferdinando c'era un abisso.
Romano era alto, longilineo, serio, severo, distante, perso in un mondo tutto suo, un mondo diverso, lontano.
Ferdinando era un entusiasta, un compagnone che amava la buona tavola, come dimostrava il corpo massiccio, simile a un armadio, e nel contempo era un visionario, che sognava di rendere navigabili i torrentelli da quattro soldi, sempre in secca, della Bassa Romagnola.
Aveva assunto periti tecnici e si avvaleva della consulenza di un ingegnere altrettanto visionario, che poi divenne socio dell'azienda.
Questo ingegnere, di nome Francesco Lanni, aveva progetti così ambiziosi, per quel che riguardava la creazione di canali navigabili, idrovore, condotti di irrigazione, collegamenti tra fiumi e mari, porti, laghi artificiali e altre amenità, che i suoi colleghi lo avevano soprannominato il Profeta delle Acque.
Sua moglie Giulia soffriva di una particolare forma di cardiopatia, per cui era sempre a letto.
Sua figlia Elisa era una ragazza molto timida, riservata, abile nei lavori di sartoria e amante della lettura, specie di romanzi d'amore. Il suo unico vizio era il fumo.
Un giorno accompagnò il padre all'Azienda dei Fratelli Monterovere e fu lì che i suoi grandi occhi neri incontrarono gli occhi azzurri del reduce della guerra d'Africa e scorsero, in quegli occhi, l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden, e una nostalgia divorante di qualcosa che forse non era mai esistito.