Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
mercoledì 12 marzo 2014
La fiamma di Atar. Capitolo 10. Il fuoco segreto.
Luca Bosco si svegliò nel cuore della notte in un lago di sudore, dopo aver fatto sogni angosciosi, di cui però non aveva memoria, pur conservandone lo spaventoso turbamento.
A che punto è la notte?
La domanda shakespeariana trovò una risposta singolare: la sveglia segnava le 3.33.
L'ora del lupo.
Luca maledisse il giorno in cui aveva accettato l'incarico alla biblioteca del Dipartimento di Storia delle religioni.
Avrei dovuto capire che se nessuno accettava quel posto, di questi tempi, c'era una ragione più che valida.
Eppure, anche quando il direttore della biblioteca lo aveva avvertito che, qualora qualcuno cercasse un antico libro intitolato Flamma Ataris, di cui alcuni erroneamente ritenevano che una copia si trovasse nel thesaurus di quella collezione, avrebbe dovuto in tutti i modi troncare sul nascere qualunque tentativo di indagare sulla questione.
Le uniche due copie ufficialmente sopravvissute di quel testo si trovano rispettivamente nella Collezione Burke-Roche, ad Hollow Beach, e nella Collezione Fitzherbert, a Manhattan.
Poteva capire la collezione di Manhattan, ma l'idea che un libro così prezioso si trovasse in una località balneare come Hollow Beach, a Long Island, era un mistero.
Mistero ad Hollow Beach... sarebbe un bel titolo per un romanzo, specie se c'entrassero gli Arcani Supremi.
La necessità di un lavoro lo aveva portato ad accettare quell'incarico, insieme all'amore per i libri rari e ad una sua naturale predisposizione nei confronti delle cause perse, specialmente quando erano perse sul serio.
Parcere subiectis et debellare superbos...
Almeno nei libri quello era possibile, nei poemi, come l'Eneide di Virgilio, ma specialmente nei romanzi e ancor di più in quelli di carattere fantastico o di genere fantasy.
E proprio al centro di un romanzo Luca si sentiva in quel momento.
Un romanzo che porta il titolo di un trattato proibito: "La fiamma di Atar".
Era quello il nocciolo della questione.
Sono diventato, senza volerlo e senza rendermene conto, uno dei Custodi del Fuoco Segreto.
Il fumo danneggia anche la schiena
Uno studio di due ricercatori italiani dimostra che le sigarette danneggiano i dischi intervertebrali (da Panorama)
Il fumo può avere effetti molto dannosi anche sulla schiena, provocando danni gravi al Dna dei dischi intervertebrali. I danni alla colonna potrebbero essere ancora più gravi per chi inizia a fumare da adolescente. Sono i risultati di uno studio condotto da Enrico Pola e Luigi Nasto dell'Università Cattolica di Roma, con la University of Pittsburgh, e pubblicato su The Spine Journal.
Fattori di rischio
La degenerazione dei dischi è responsabile di molte patologie della colonna, come lombalgie e cervicalgie croniche. L'invecchiamento è la causa principale di degenerazione discale, però molteplici fattori di rischio collaborano all'accelerazione di questo processo degenerativo e adesso appare chiaro che il fumo è tra questi. Lo studio italiano ha evidenziato l'azione nociva dei composti del fumo sul Dna delle cellule dei dischi.
L'esperimento
I ricercatori hanno esposto a fumo cronico di sigaretta topolini di laboratorio sani e topolini con un deficit di funzionamento dei meccanismi di riparazione del Dna. Questo secondo gruppo di topini è molto più suscettibile al danno indotto da qualsiasi agente che attacchi il Dna, compreso il fumo. Tutti i topi esposti hanno sviluppato segni gravi di degenerazione discale con perdita in altezza dei dischi intertevertebrali. Le cellule discali hanno mostrato segni precoci di invecchiamento. I topi più suscettibili al danno al Dna presentavano danni vertebrali solo leggermente superiori rispetto ai topi sani di controllo. Questo dimostra che il fumo non agisce solo sul Dna. Altri meccanismi sono sicuramente in gioco nei soggetti fumatori. Lo studio suggerisce anche che il danno alla colonna potrebbe essere ancora più grave iniziando a fumare precocemente, in età adolescenziale, infatti, quando i topi esposti al fumo sono giovani la gravità della degenerazione discale è dieci volte maggiore rispetto ai topi adulti.
Le centrali nucleari del mondo
Sono 436 le centrali nucleari esistenti al mondo. Altre 63 sono in fase di costruzione. Stati Uniti, Francia, Giappone e Russia sono i quattro paesi con il maggior numero di centrali.
Lo stato dell’arte per quanto riguarda il nucleare civile: la carta mostra dove sono state smantellate le centrali, dove si parla di un possibile smantellamento, quali paesi hanno in progetto di costruire nuove centrali e quali ne sono già dotati. Sono inoltre visibili le sagome delle placche terrestri.
l terremoto di magnitudo 8,9 che ha scosso il Giappone lo scorso 11 marzo 2011 ha avuto delle conseguenze devastanti. La carta mostra l’epicentro del sisma, poco lontano dalla costa nipponica nordorientale e l’impatto che questo ha avuto sul territorio. Le autorità locali hanno raccomandato di evacuare le zone limitrofe alla centrale nucleare di Fukushima.
Sono inoltre tracciate le varie “linee di confine” delle placche terrestri.
Carte di Laura Canali da "Limes"
Media dei sondaggi sulle intenzioni di voto all'11 marzo 2014
Va detto, però, che il mini partitino dell'orrido Monti, e cioè Scelta Civica, è ormai da considerarsi alleato della sinistra, di cui ha condiviso la passione per le tasse sulla casa.
Come i robot cambieranno la vita domestica
Dalla macchina per lavare i pavimenti alla badante tecnologica: gli automi entrano nella vita di tutti giorni. Ci spiega come e perché Colin Angle, amministratore delegato e co-fondatore di iRobot (di Federico Guerrini, su La Stampa)
iRobot, l’azienda statunitense celebre per essere l’artefice dell’aspirapolvere Roomba, un congegno dotato di un’intelligenza artificiale e in grado, una volta messo in moto, di pulire i pavimenti senza bisogno dell’intervento di alcun operatore umano, ha lanciato la settimana scorsa le ultime linee di prodotti per il mercato europeo: il Roomba 800, che alle normali setole sostituisce dei cilindri rotanti e degli “estrattori ad aria”, in gradi di risucchiare e sbriciolare la sporcizia raccolta e lo Scooba 450, un robottino per a pulitura con acqua dei pavimenti, presentato al Ces di Las Vegas lo scorso gennaio.
Nella conferenza stampa non si è parlato comunque solo di aspirapolveri. Quello di iRobot, con un’esperienza più che ventennale nel settore della robotica, 500 dipendenti e 484 milioni di dollari di fatturato nel 2013 e un patrimonio di brevetti che, secondo una classifica del Wall Street Journal la colloca quinta al mondo – davanti a Samsung – per valore della proprietà intellettuale, è un osservatorio privilegiato per capire come i robot stiano iniziando a fare il loro ingresso in massa nell’industria. Un ingresso profetizzato da tempo, ma finora in larga parte soltanto abbozzato. Abbiamo incontrato a Monaco l’amministratore delegato e co-fondatore dell’azienda, Colin Angle, per farci raccontare come stia cambiando il panorama dell’automazione e cosa dobbiamo aspettarci dall’entrata in massa dei robot nelle nostre vite.
A volte non è facile capire cosa si intenda esattamente per “robot”, quali caratteristiche debba avere una macchina per poterla considerare tale. Lei come lo definirebbe?
“La mia risposta è una tecnica, direi una macchina che usa dei sensori per percepire l’ambiente circostante e un’intelligenza artificiale per pensare a quello che vede e dei motori per spostarsi dove necessario. È una buona definizione, ma tutto sommato forse è una definizione troppo ampia; penso che si potrebbe dire che è qualcosa che comunica un senso di “vita”, una macchina che risponde all’ambiente in maniera simile a un organismo vivente. Penso però che questo stia cambiando; moltissime macchine stanno incorporando una qualche forma di intelligenza per cui diventerà sempre più difficile distinguere ciò che è un robot da ciò che non lo è”.
Conta anche l’aspetto antropomorfo? Un tempo si pensava che rendere i robot più somiglianti agli umani, potesse servire a renderli più accetti.
“Penso che quella dell’antropomorfismo sia una limitazione non necessaria. Non c’è un motivo particolare perché non possa essere utilizzato, ma penso che spesso il modo con cui ci avviciniamo a un problema sia “cosa farei io?” e quindi si progetta un sistema che si comporti allo stesso modo. Ma questa non è quasi mai la soluzione giusta. Oltre a ciò che il rischio che se li si rende troppo simili a un umano, da interessanti diventino grotteschi. Se stessi seduto qui e la mia faccia fosse rigida, di plastica, non le sembrerebbe bello, ma fastidioso, l’obiettivo è quello di avere un robot che abbia degli elementi che tu possano renderlo riconoscibile, per esempio qualcosa che assomigli a una testa, a cui parlare. O qualcosa che assomigli a un corpo. Ma non dovrebbe essere troppo simile a una persona. Abbiamo fatto degli esperimenti molto interessanti con il robot Ava (un robot adoperato per effettuare diagnosi mediche a distanza n.d.r.). La prima volta che l’abbiamo portato negli ospedali non aveva la “pelle”, solo metallo e cavi, e la gente era molto scettica. Ci dicevano “si muove troppo velocemente” oppure “mi sta troppo vicino”. Abbiamo messo una copertura e l’abbiamo riportato lì, e questi difetti sono scomparsi. Il look del robot perciò ha un effetto su come viene percepito, ma basta avere una rappresentazione stilizzata di un essere umano, non serve che sia troppo simile”.
Cosa ne pensa di Ray Kurzweil e delle sue teorie sulla singularity, il punto in cui le macchine svilupperanno una loro forma di auto-coscienza?
“Penso che il futuro sarà molto più strano. Molto prima di raggiungere una qualche singularity dovremo abituarci al fatto che la tecnologia possa essere impiantata nel nostro corpo. Oggi ci sono molte ricerche sul fatto di poter rimpiazzare la perdita dell’udito con un orecchio robotico, o quella della vista, con un occhio robotico. O un braccio robotico controllato con la mente, e così via. Ma questo darà origine a una serie di questioni. Cosa succederà quando tuo figlio verrà da te e ti dirà: papà voglio sostituire il mio braccio con uno robotico perché ha un aspetto migliore ed è dieci volte più potente? L’idea che la tecnologia possa arrivare a un punto in cui sia migliore dell’originale è qualcosa a cui ci dovremo rapportare e chiederci: è quello che vogliamo? A me piace essere umano e penso che i robot debbano servire soprattutto per agevolare la vita delle persone. In un’epoca di aumento della vita media, dobbiamo trovare ad esempio un modo di permettere a persone anziane di andare al bagno o spostarsi senza dover ricorrere a personale umano, che magari non si potrebbero permettere”.
E per quanto riguarda la cosiddetta disoccupazione tecnologica? I robot da voi creati non eliminano posti di lavoro? Per esempio, un robot come lo Scooba, che pulisce i pavimenti, non sostituisce almeno in parte la donna delle pulizie?
“È una domanda difficile. La lavastoviglie ha creato problemi di disoccupazione? Di solito si pensa che abbia dato al contrario nuove opportunità alle donne di cercare un lavoro fuori da casa. Man mano che sviluppiamo strumenti per eliminare la fatica, si creano nuove possibilità di impiegare quel tempo. Oltre a ciò, in molti paesi sviluppati, è difficile trovare personale che sbrighi le faccende più umili. Non si tratta quindi di rimpiazzare i lavoratori, ma di dare la possibilità a più persone di accedere a servizi che non si potrebbero permettere per via del loro budget o del loro stile di vita. Una volta stavo facendo un’intervista radiofonica e un ascoltatore è intervenuto dicendo: “ho perso il mio lavoro, a causa di un robot. Oggi lavoro a costruire robot, e mi pagano molto di più!”. Stiamo creando una nuova industria che creerà migliaia, milioni di posti di lavoro e sono molto fiero di far parte di questa rivoluzione”.
Dieci consigli per la scrittura creativa
1. Il lettore non è un avversario o uno spettatore, ma un amico.
2. Se un romanzo non racconta l'avventura personale dell'autore in una dimensione spaventosa o sconosciuta, allora non vale la pena di scriverlo – se non per soldi.
3. Cedete la parola ai vostri personaggi, lasciateli parlare.
4. Scrivi in terza persona, a meno che una voce in prima persona non ti si imponga con forza irresistibile.
5. Quando l’informazione diventa libera e universalmente accessibile, una ricerca ampia per scrivere un romanzo viene svalutata, e così anche il romanzo stesso. Scrivete dunque su cose meno note.
6. Il rischio dell'autobiografismo non esiste, in quanto la vita a cui noi ci ispiriamo non è quella che abbiamo vissuto, ma quella che ricordiamo e come la ricordiamo per raccontarla. La narrativa autobiografica più pura richiede invenzione pura. Nessuno ha mai scritto una storia più autobiografica di Cent'anni di solitudine.
7. Puoi osservare più cose stando seduto immobile che rincorrendole.
8. Evitare le distrazioni. È improbabile che chiunque abbia il cellulare acceso quando lavora stia scrivendo delle buone storie.
9. Di rado i verbi interessanti sono davvero interessanti.
10. Devi amare i personaggi prima di essere implacabile con loro.
(Jonathan Franzen, intervista su Panorama)
Uomini o rabbini? No, hipster. Purtroppo.
Donne, lo so che in questa foto la vostra attenzione è attratta immediatamente dal look di Sienna Miller, ma vi chiedo lo sforzo (e non è cosa da poco) di osservare attentamente il suo accompagnatore.
Ebbene, di primo acchito si potrebbe pensare che sia un rabbino ultraortodosso di Gerusalemme. E invece, purtroppo, non è così. Quello strano e orripilante personaggio di fianco a Sienna Miller è un hipster che si crede molto alla moda: cappello buffo, barba immancabile, camicia bianca abbottonata senza cravatta (tipo mafioso siciliano) e giacca minimal chic. Ecco, a questo ci siamo ridotti.
Il problema di avere troppe informazioni
O my morning bus into town, every teenager and every grown-up sits there staring into their little infinity machine: a pocket-sized window onto more words than any of us could ever read, more music than we could ever listen to, more pictures of people getting naked than we could ever get off to. Until a few years ago, it was unthinkable, this cornucopia of information. Those of us who were already more or less adults when it arrived wonder at how different it must be to be young now. ‘How can any kid be bored when they have Google?’ I remember hearing someone ask.
The question came back to me recently when I read about a 23-year-old British woman sent to prison for sending rape threats to a feminist campaigner over Twitter. Her explanation for her actions was that she was ‘off her face’ and ‘bored’. It was an ugly case, but not an isolated one. Internet trolling has started to receive scholarly attention – in such places as the Journal of Politeness Research and its counterpart, the Journal of Language Aggression and Conflict – and ‘boredom’ is a frequently cited motive for such behaviour.
It is not only among the antisocial creatures who lurk under the bridges of the internet that boredom persists. We might no longer have the excuse of a lack of stimulation, but the vocabulary of tedium is not passing into history: the experience remains familiar to most of us. This leads to a question that goes deep into internet culture and the assumptions with which our infinity machines are packaged: exactly what is it that we are looking for?
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