domenica 1 maggio 2022

Vite quasi parallele. Capitolo 183. Improvvisamente l'estate prossima




















<<Aurora ti ha dato il permesso di tornare giù e degnarci finalmente di un tuo saluto di persona?Oppure ti tiene in ostaggio al "college" persino d'estate?>> chiese Silvia Monterovere al figlio Roberto, che da quasi un anno non era tornato a casa neanche una volta e non sembrava particolarmente entusiasta di farlo persino con l'avvicinarsi delle ferie estive.
Gli esami erano stati una buona scusa e ne aveva ancora da sostenere, prima della pausa estiva, ma c'era quasi un mese di tempo, prima degli altri appelli, e lui non aveva più le lezioni o altri impegni particolari.
La riluttanza a tornare era dovuta alla consapevolezza che i suoi familiari avrebbero notato alcuni cambiamenti che c'erano stati in lui e molto probabilmente non ne sarebbero stati felici.
Non era una questione di esami o di voti, anzi, la sessione estiva era iniziata bene, ma solo per merito del Deadyn, che gli impediva di addormentarsi sui libri,e anche del Rivotril, che lo rilassava e favoriva il sonno alle ore giuste, permettendogli di dormire bene persino le sere prima degli esami, (per non parlare poi della codeina che, a piccole dosi, oltre a fagli passare il mal di testa perenne, gli conferiva l'atarassia necessaria per rimanere sereno, concentrato e persino più lucido durante gli scritti e gli orali).
Dopo aver sostenuto, con un dignitoso 29, il noiosissimo esame di Contabilità e Bilancio e con un esaltante 30 quello di Diritto Pubblico, a Roberto rimanevano, per la sessione estiva, altri due esami, mentre i rimanenti erano stati posticipati a settembre/ottobre.

Era il 19 giugno: ormai l'estate era alle porte e bisognava risolvere due questioni.

La prima era, ovviamente, legata ad Aurora, perché sapeva che, non appena lui se ne fosse andato, lei si sarebbe messa a far baldoria nelle ville con piscina dei suoi infiniti corteggiatori.





















 Alla fine Roberto decise di affidare il compito di sorvegliarla, seppur con la massima discrezione, ai suoi due fedelissimi amici, ossia i fratelli Leonardo e Gabriele da Monza, che con tutta la loro rete di conoscenze erano in grado di sapere cosa Aurora avesse intenzione di fare ancor prima che lo sapesse lei stessa.

La seconda questione, invece, era molto più importante, nella scala di valori di Roberto: si avvicinava infatti la festa per l'82° compleanno della nonna Diana, il 30 giugno.
Mai e poi mai sarebbe mancato, e in quel momento lei gli mancava molto, anche se si sentivano spesso al telefono, soprattutto quando Aurora non era nei paraggi, e Roberto poteva essere libero di confidarsi almeno su alcune questioni che lo tormentavano.
E' a questo che servono i nonni e gli zii: a loro è concesso il diritto di non dire mai di no ai loro nipoti, cosa invece che spetta ai genitori.
Diana era stata l'unica, in famiglia, a difendere Roberto quando non era tornato nemmeno per le feste:
<<Ma lasciatelo respirare, questo ragazzo! Ha vent'anni e se non si gode la vita a vent'anni, quando mai se la dovrebbe godere? Voi avete viaggiato il mondo, e adesso vi meravigliate che lui desideri stare lontano da questo posto, questo buco infognato che è più noioso del Dakota del Sud? Avanti, lasciatelo vivere, lasciatelo divertire!>>
Certo, anche lei attendeva di poterlo riabbracciare, ma era felice che lui potesse fare quelle esperienze che a lei erano state precluse prima dal matrimonio e poi dall'età.







Roberto le aveva confidato alcune cose riguardo momento problematico che stava vivendo con la fidanzata, ma Diana non ne era parsa preoccupata.
<<Mio caro ragazzo, raramente il primo amore è anche l'ultimo. Concedi ad Aurora un'ultima possibilità per farsi perdonare, e poi... poi si vedrà...>>

La giovane Visconti, dal canto suo, aveva già una mezza idea riguardo alle ferie di agosto e l'aveva anticipata al fidanzato.
Si trattava di un programma molto ambizioso, considerando che avrebbero dovuto viaggiare in macchina da Santa Margherita Ligure a Marsiglia, per un tour della Liguria e della Provenza, in stile "sette giorni a Portofino, più di un mese a Saint Tropez"
Ma loro, tutto quel tempo, non ce l'avevano.






Aurora, che dal punto di vista pratico era imbattibile, aveva sfoderato subito i suoi assi nella manica: le spese erano tutte a carico dei suoi e per il trasporto dei bagagli (visto che loro avrebbero viaggiato nella Porsche Boxter di lei) che era affidato al fedelissimo Battista, chauffeur dei Visconti.
Certo se avessero saputo che loro figlia sniffava cocaina, non sarebbero stati tanto prodighi con lei, ma dopo lo "scandalo del Balenciaga", Aurora era stata molto prudente e di conseguenza Serena, nel rispetto dei patti, aveva mantenuto il silenzio e la parola data, come tutti i Monterovere.

Quindi, poiché il Solstizio di giugno era ormai alle porte, Roberto doveva una volta per tutte vincere la sua repulsione nei confronti della città natale e del dolore che gli aveva inflitto nei tre grami anni sotto la dittatura di Sarpenti e dei suoi sgherri, Panza, Porcu e Braghiri.
Ma ormai il ricordo di quei personaggi incominciava a sbiadire e a retrocedere negli angoli più remoti della memoria, sepolti sotto uno strato di polvere, anche se non si sarebbero mai dissolti del tutto, sopravvivendo in veste di spettri vaganti negli incubi notturni.

Nonostante tutte queste riflessioni e questi programmi, l'estate giunse comunque all'improvviso, cogliendolo alla sprovvista.
Le temperature salirono vertiginosamente, Milano era diventata un inferno di cemento bollente, alternato al gelo dei condizionatori.
Chiunque parli del perenne edonismo milanese non ha mai passato un Ferragosto all'Idroscalo, e i meneghini doc lo sapevano bene: ai primi caldi, i più ricchi si dileguavano. 
Alcuni tradizionalisti della vecchia guardia tornavano nelle ville in Brianza o in quelle di Milano Marittima, ma la maggioranza diceva "andiamo a Santa", espressione comprensibile soltanto da coloro che sono vissuti almeno due o tre anni nella città meneghina. 
Si riferivano, naturalmente, a Santa Margherita Ligure, e i più si fermavano lì.
Però, anche da quelle parti, c'era una ben precisa, anche se tacita e implicita, distinzione sociale: i medio borghesi potevano permettersi la più esclusiva e adiacente spiaggia di Rapallo.
Ma i veri ricchi, la classe dirigente, quelli che potevano permettersi le ville, gli yacht e gli alberghi migliori, be', loro andavano a Portofino e da lì, con le loro barche, arrivavano a Porto Cervo in Sardegna.
Prima si dileguavano i vip dello spettacolo e dello sport, poi quelli della moda, poi quella politica e della finanza. Poi seguivano le famiglie della grande o media borghesia.
Nel giro di tre settimane Milano diventava una città impiegatizia, proletaria e universitaria.
Ma nei fine settimana, chiunque poteva, fuggiva in qualsiasi luogo, pur di evitare l'afa opprimente e la solitudine deprimente delle domeniche di luglio in salsa meneghina.
In città rimanevano gli anziani con la pensione minima, i malati, i sottoproletari, qualche custode, gli studenti, gli immigrati e i turisti giapponesi.
L'afa e lo smog si fondevano in una miscela letale: a Roberto mancava il respiro, persino con il condizionatore sparato a temperature artiche, per compensare quell'inferno di cemento bollente e di fetidi miasmi.
Ogni tanto, se si avvicinava alla finestra, era colto da vertigine, cosa che mai prima gli era accaduta, e nella sua mente, veloce come un brivido e terrorizzante come un incubo ad occhi aperti, una strano e immotivato pensiero, su cosa si poteva provare gettandosi dal quinto piano.
Quella vertigine non l'avrebbe mai più abbandonato, rendendogli proibite le vette, le ringhiere e gli abissi.
Alla fine, in fretta e furia, fece le valigie e comunicò alla fidanzata:
<<Senti, Auri, io torno a Forlì col primo treno. Qui non rimango un giorno di più, sto andando fuori di testa...>>
Lei pareva quasi sollevata, e liquidò la faccenda in poche parole:
<<Ok, vai tranquillo, io intanto finisco le ultime cose e poi ti raggiungo con calma>>
Roberto non aveva idea di cosa fossero quelle "ultime cose" e, sinceramente, preferiva non saperlo.
Nel lasciare la città, il venerdì pomeriggio, si sentì quasi una persona normale, un onesto lavoratore che, timbrato il cartellino alle 17.00, già vestito in stile "casual friday", fuggiva verso la libertà.

Dopo quattro ore di viaggio disumano nella seconda classe di un lercio interregionale, finalmente arrivò alla meta e mentre il taxi lo conduceva verso casa, Forlì gli parve piccolissima, una cittadina in miniatura, e si chiese come aveva potuto darle così tanta importanza, per tutti i primi diciannove anni della sua vita.
Arrivato a casa, varcando le porte dell'appartamento dei genitori, percepì l'aroma di legno antico, di cera per pavimenti, di libri e biblioteche, e più che una casa gli sembrò un museo, e nei volti dei genitori cinquantasettenni, una prima, lievissima, indefinita ombra di declino.
Anche loro sembravano più piccoli, e lo guardavano con occhi sorpresi e increduli, come se quella strana creatura che era tornata dalla metropoli non fosse davvero il loro amato figlio, ma un impostore, come la finta Anastasia, che si faceva passare come l'unica sopravvissuta alla strage dei Romanov.
Dopo qualche timido abbraccio, incominciarono le domande (per lo più retoriche) della madre: 
<<Ma da quant'è che non ti tagli i capelli? Non ti fa caldo tutta quella zazzera? Ma cosa diranno i professori?>>
E questo fu solo l'antipasto.




<<Ma tutti quei vestiti nuovi da dove vengono? Sembrano cose di marca. Non dirmi che è stata lei a pagarti un nuovo guardaroba! Persino i suoi sono scandalizzati da quanto spende!>>
Roberto si sentì già collocato sul banco degli imputati, pur avendo risollevato, almeno in parte, la media degli esami. 
Certo non era tornato da vincitore, e quello lo leggeva chiaramente negli occhi dei suoi, che non esprimevano severità, ma un misto di preoccupazione e delusione.
Il figliol prodigo era tornato, ma nessun vitello grasso corse il rischio di finire arrosto, perché si sapeva bene che la sua permanenza nel natio borgo selvaggio sarebbe stata breve e transitoria.
Non che lo criticassero apertamente, ma c'era un'ombra di muta disapprovazione nel loro modo di guardarlo e di interagire con lui, come se captassero tutto ciò che lui non aveva detto.
Sapevano che quel figlio mezzo-milanese sarebbe corso, il prima possibile, a confidarsi con la nonna Diana, che aveva sempre saputo mantenere i segreti, e non avrebbe riferito nulla alla figlia e al genero, a meno che non si trattasse di questioni gravissime.
Era sempre stato così, ma adesso la cosa si faceva più problematica: la persona tornata da Milano non era la stessa persona che aveva lasciato Forlì un anno prima: c'erano stati cambiamenti, e non in meglio.
Il raffreddamento del rapporto con i genitori lo faceva star male, in particolare sentiva la forte disapprovazione di sua madre e non riusciva come fare a trovare un modo per avviare un dialogo, che infatti, alla fine, non ci fu.

E così, come da copione, i suoi partirono per Cervia e lui si trasferì a Villa Orsini. Il giorno in cui arrivò, c'era anche la sorella maggiore di sua madre, la zia Margherita, con la sua aria da donna fatale in stile Liz Taylor, non provò nemmeno a tenere per sé la propria disapprovazione:
<<Roberto, santo cielo, con quei capelli così lunghi sembri una ragazza>>
Lui però la disarmava sempre con l'ironia:
<<Forse, ma una bella ragazza, questo devi concedermelo! E comunque vesto sempre da uomo adulto e rispettabile!>>
La zia scuoteva la testa:
<<Sei senza speranza, proprio come tuo padre. Anche lui era un capellone da giovane, almeno stando a sentire quel che diceva Silvia, quando l'ha visto la prima volta, e lo considerava un mezzo matto. Non che adesso la situazione sia migliorata di molto: voi Monterovere siete tutti senza speranza!>>
E Roberto:
<<Certo, zia, perché invece i Ricci-Orsini sono campioni di salute mentale!>>
A quel punto zia Margerita si limitava a fissarlo, con espressione allibita, ripetendo mentalmente a se stessa ciò che già sapeva, ossia che quel nipote era una causa persa in partenza,





Del tutto diversa fu la reazione della nonna Diana:
<<Come ti dona questo stile bohemien! Mi ricordi così tanto quella fotografia giovanile di mio padre, il conte Achille, quand'era uno scapigliato artista maledetto. Credo che tu sia la sua reincarnazione!>>
Si abbracciarono a lungo e si sedettero nel Salotto Liberty, davanti a un tè con i biscotti e qualche pasticcino.
<<Non credere che i tuoi genitori non ti capiscano, anzi, il motivo per cui si preoccupano è proprio il fatto che tu assomigli a com'erano loro alla tua età. In ogni caso arriva sempre il momento in cui il cordone ombelicale va tagliato, anche quello che non si vede, soprattutto quello! 
Ma ricordati una cosa: tua madre e tuo padre sono le persone che ti amano di più al mondo, persino più di me. E tutta la famiglia ti vuole bene e ti sosterrà. 
Un giorno te lo dimostreranno, ma adesso è un momento di passaggio, devono tutti metabolizzare i cambiamenti. Io posso permettermi di non essere severa, è un privilegio dei nonni e degli zii, tranne Margherita Spreti, ovviamente, ma lei è un caso disperato.>>
Era bello che Diana fosse così anticonvenzionale.
Roberto cercò di esprimere le proprie paure, perché solo lei riusciva a placarle:
<<E' tutto così difficile, così tremendamente difficile. E non parlo solo di Aurora o dell'università: parlo di me, della mia inadeguatezza, della mia inettitudine, della mia fragilità.
Mi sarò anche divertito, non lo nego, ma si può essere allegri e tristi nello stesso momento, ed è una cosa sconvolgente, perché gli altri non capiscono. 
Mi vedono allegro e scherzoso e pensano: ma allora non è in crisi! Ci sta ingannando tutti! E non sanno che quella è l'ultima spiaggia prima dell'abisso.>>
Diana lo osservò con un vago sorriso:
<<Ti ci abituerai. La vita è fatta così, e io non te l'ho mai nascosto. Non ti ho mai promesso un giardino di rose.
So che ti senti vulnerabile: abbiamo avuto tutti queste paure, è normale.
Ma io ti ho mostrato che si può sopravvivere alla sofferenza, e a volte persino trarne un qualche insegnamento.
Non certo la "verità", perché la verità si trova in fondo a un pozzo senza fondo, come scriveva Tennessee Williams.
E nemmeno la vittoria, perché questi sono tempi "stupidi" e quando trionfa la stupidità, essere sconfitti è un onore.
Forse qualcuno vuole che tu sia diverso da ciò che sei, ma io ti dico: sii te stesso, trasforma chi sei nella tua forza. Fanne un'armatura, e non potrà mai essere usata contro di te.
Credo che ormai tu abbia accettato l'idea di aver ricevuto in sorte un dono, anche se ora lo vedi come una maledizione: un sesto senso che ti permette di percepire la realtà in maniera più dettagliata, con una prospettiva che può arrivare persino alla premonizione.
Ormai dovresti aver compreso meglio la situazione e i suoi eventuali sviluppi, dico bene?>>
Roberto annuì, ormai negare non aveva più senso:
<<Credo di sì. A volte guardo il presente come se fosse un'epoca già conclusa, una Belle Epoque che presto finirà, e forse manca poco. Il nuovo millennio non porterà con sé ciò che speravamo.
Guardo tutta questa gente entusiasta e mi sembra che, nonostante il loro instancabile brulichio, stiano lucidando le maniglie delle porte sul Titanic.
Non ne parlo con nessuno, perché non voglio sembrare un disfattista o una Cassandra, eppure sento che ci attendono decenni terribili. Ma forse riguarderà solo me. Forse gli altri non se ne accorgeranno nemmeno. Forse gli automi hanno ragione...
Ma è difficile negare alcuni dati di fatto, e cioè che "la schiavitù comincia sempre col sonno, e la libertà muore tra scroscianti applausi".
Cammino per strada e mi sembra che tutto sia come nei primi poemi di Eliot.
Ricordi cosa scriveva: "Questo è il modo in cui finisce il mondo, non con un botto, ma con gemito"
Era una frase del 1925 e profetizzava la grande tragedia che sarebbe accaduta qualche decennio dopo. A volte, anche quando sono in mezzo agli altri, mi sembra di essere solo, in mezzo a gente ostile, in una terra senza speranza.
Ma chi sono io per fare la predica agli altri? Forse tutte queste cose sono solo le farneticazioni di un pazzo, o di un cane che abbaia alla luna>>






Diana si accigliò:
<<Capisco bene cosa intendi dire. Nessuno ama le voci fuori dal coro e preferisce non sentirle o liquidarle con qualche battuta o, se proprio danno veramente fastidio, con un certificato medico.
Porti un grave fardello che non può essere condiviso, e le ferite del passato continuano a far male.
Le ferite più profonde si cauterizzano soltanto col fuoco, e ciò che stai attraversando è una specie di battesimo del fuoco.
E' stato così anche per me, tu lo sai bene. Quando ero solo una ragazza e ancora riuscivo ad andare in città, provavo le stesse sensazioni.
Persino il marciapiede sembrava sgretolarsi sotto di me.
Poi è venuta la guerra, e ho capito che ciò che vedevo da ragazza aveva un suo fondamento che andava oltre le mie vicende personali.
Certo, le nostre vicissitudini sono state particolari, ma, come diceva Agatha Christie: "La vita ha spesso una trama pessima. Preferisco di gran lunga i romanzi".
Poi però ci ripenso e mi sembra che la mia stessa vita sia un romanzo, molto intricato e improbabile e proprio per questo è vero. E' l'eterno discorso del credo quia absurdum.
Del resto i ricordi non sono né veri, né falsi: la memoria è selettiva, e alla fine ciò che ricordiamo è solo una vaga ricostruzione di quanto abbiamo percepito, il che era già una visione parziale della realtà. 
Ma forse la tua visione diventerà più completa col passare del tempo. 
Mi dispiace che questo peso sia toccato proprio a te. Non potevo immaginare che...>>
Si interruppe. Non c'era bisogno di dire altro, almeno per il momento. 
Roberto sapeva benissimo l'implicazione di quel discorso:
<<Ho imparato a non accettare sogni dagli sconosciuti. E persino da quelli che conosco... specialmente i Monterovere.
Lorenzo mi tiene d'occhio, tramite Serena, naturalmente. Non mollano la presa, come fa Anita con te ed Enrichetta con mia madre. 
E io mi trovo nel mezzo, nella terra di nessuno, tra il fuoco incrociato delle due famiglie.
Ma in fondo chi sono io? 
Un "ramingo del nord", uno sradicato, uno che è qui soltanto di passaggio.
Chi sono io?
La risposta mi viene da una poesia di Rilke intitolata "L'ultimo":
Non ho casa paterna; /né mi sembra d'averla smarrita. /Nell'aperto tumulto del mondo, /mi diede mia madre la vita. / Nel mondo ora sorgo; e m'inoltro / sempre più, nel più folto: /trascino il mio bene e il mio maleda solo - nel mondo.
Ma pure, l’erede io mi sento\ di qualcosa che l’oggi trascende; \ Con tre rami fiorì la mia gente\ per sette manieri silvani. / E fu stanca, assai presto, del vecchio blasone\ Piegò sotto il peso degli anni\ L’antico retaggio degli avi,\ tutto ciò ch’io conquisto e gli apporto,\ sono ormai senza patria, nel mondo. \Tutto ciò ch’io proseguo nel mondo,\sempre più, nel più folto,\sprofonda\sovra il labile effimero gioco\di un’onda">>
 Mormorò l'ultima parte in tedesco, la lingua che aveva perfezionato nella Selva Nera, due estati prima e che poi aveva rinfrescato per l'esame che doveva sostenere come seconda lingua:
<<Und bin doch manch eines Erbe. / Mit drei Zweigen hat mein Geschlecht gebluht / auf sieben Schlossern in Wald, / und wurde seines Wappens mud /und war schon viel zu alt; /und was sie mir liessen und was ich erwerbe /zum alten Besitze, / ist heimatlos / Denn was ich fortstelle, /hinein in die Welt, / fallt, / ist wie auf eine Welle / gestellt...>>






























Poi la parafrasò, a beneficio di Diana, a cui quei versi piacevano molto, perché li aveva già letti:
<<Sì, Rilke scrisse questa poesia dopo la caduta dell'Impero Austro-Ungarico. Studiare il tedesco come seconda lingua è una scelta valida dal punto di vista filosofico e letterario. Del resto lo studiavi già prima della Bocconi, dalla tua vicina Gertrud Weber, che fu istitutrice dei Borghese di Roma>>
Roberto sorrise pensando alla bonaria signora svizzera che aveva sposato il giardiniere dei Borghese e poi era finita a Forlì perché il marito, di origini ravennati, era diventato un dirigente dell'Anic.
Tutti i suoi vicini avevano una storia simile: venivano da lontano ed erano finiti a Forlì, divenuta ormai un centro di raccolta, una discarica, una fossa comune...
Meglio Casemurate, in fin dei conti: almeno lì i contadini erano fieri di essere tali e si tenevano strette le loro radici, persino quelle più segrete, quella Romagna Arcana di cui, negli ultimi anni, ci ha edotto Eraldo Baldini.
Secoli di dominio romano, bizantino e pontificio non erano riusciti ad "estirpare" le radici celtiche e pagane dei contadini romagnoli.
Quella era la Romagna che Roberto amava di più, quella di cui nessuno, fuori, sospettava l'esistenza.
Pascoli lo sapeva, ma vi alludeva soltanto, nei suoi versi da simbolista veggente, mascherato dietro l'innocenza del fanciullino che era vivo in lui, che nella terra natale non era tornato più, perché il dolore era troppo grande. 
"Sempre un villaggio, sempre una campagna, mi ride al cuore, o piange..."
E quello era un giorno fatto per le lacrime, nonostante il sole di giugno fosse allo zenit.
<<Non credo che andrò a Cervia con i miei. Io sono ancora il bambino della campagna, e non sono mai stato il bambino del mare. Una popolazione del deserto diceva che "il mare è la madre del caos". Forse adesso inizio a capire il perché.
"Ne vedo i crudeli assalti al molo: non s'infiocca più di vele, non è più il simbolo di nulla, nemmeno di se stesso">>
Questa volta Diana finse di non riconoscere la citazione, non voleva andare fuori tema:
<<Parli solo dell'Adriatico, però. Forse il mar Ligure ti dirà qualcosa che ancora non sai, e anche la Costa Azzurra. Sì, ho ricevuto la telefonata di donna Lucrezia Visconti-Ordelaffi di Bertinoro, che col suo solito tono scandalizzato mi ha comunicato la meta del viaggio che la sua pronipote sta organizzando. Andrete lì, vero?
Beati voi! Se solo fossi un po' più giovane... ma ormai il mio tempo è passato>>
Roberto non si faceva troppe illusioni:
<<Le nostre acque sono più "sapide di sale greco" rispetto a quelle di Montale o degli impressionisti. 
Ma il mare non bagna Antibes più di quanto bagni Cervia. E se proprio si cerca il blu, basta andare a Sirolo.
Questa vacanza è l'ennesima fuga e stavolta non sono preparato a fare da guida. Sono cambiate troppe cose dai tempi del viaggio a Londra>>
Diana sorrise:
<<Ah, sì, ricordo l'anno della falsa primavera. E come dimenticare l' "affaire du Savoy"? Fu il tuo primo, grande contributo alla tradizione scandalosa della nostra famiglia!>>
Roberto ripensò a quei giorni, alla falsa primavera, alla folle estate e a tutto quello che ne era seguito.
<<Il primo, ma non l'ultimo, e di certo non il più grande. A Milano ne abbiamo combinate di peggio, io ed Aurora. Un giorno si saprà tutto e sarà la fine di ciò che resta dell'onore della nostra stirpe>>
Ma la nonna continuò a sorridere, con quel suo sguardo luminoso che scaldava il cuore:
<<L'onore dei Ricci-Orsini andò perduto il giorno stesso in cui io, Diana Orsini, sposai Ettore Ricci per salvare la mia famiglia dalla bancarotta. In pratica l'onore dei Ricci-Orsini non è mai nato, non è mai esistito. Non abbiamo niente da perdere, da quel punto di vista.
E poi quand'è che la parola onore si può usare senza essere sprecata?
Sì, sempre Montale, sempre dal "Quaderno dei quattro anni". Credi di potermi prendere in castagna? Te le ho insegnate tutte io, le citazioni dotte, non dimenticarlo quando scriverai un romanzo su di me!>>
Roberto sorrise suo malgrado.
Un romanzo! Che idea assurda... non so proprio come le vengano in mente certe cose!
Forse era tempo di essere più pragmatici:
<<Come potrei dimenticarmene? Ma prima bisogna vivere e soltanto dopo si può raccontare e anche filosofeggiare. Sento che questa vacanza sarà un punto di svolta. Potrebbe essere anche l'ultima, con Aurora, intendo, se le cose non dovessero andare bene>>
La cosa non parve turbare Diana più di tanto:
<<Il potere non tollera vuoti, e nemmeno l'amore. Se non ci sarà lei, ce ne sarà un'altra, e poi un'altra ancora, fino a che non avrai capito che è meglio non legarsi con nessuno.
Ma forse stai già incominciando a capirlo.
Lascia che sia qualcun altro a portare avanti la dinastia: tu sei uno spirito libero, come me e come mio padre prima di me>>
Roberto l'aveva capito da un pezzo, ma aveva anche capito le implicazioni di quel discorso:
<<La libertà costa cara, e tuo padre lo sapeva, e tu ne hai pagato il prezzo, così come un giorno lo dovrò pagare anch'io>>
Diana annuì:
<<Je ne regrette rien...>> 
Le sue parole si dispersero nell'aria, tra il canto delle cicale e delle rondini che proveniva dalla finestra aperta sul parco e sui campi sconfinati della terra dei suoi padri.
Roberto avrebbe voluto dire la stessa cosa, ma già sentiva la mancanza di Aurora e si chiedeva se sarebbe stato mai capace di vivere senza di lei o se ci fosse un'altra "lei", là fuori, da qualche parte, più meritevole di essere amata...
Forse, ed era un "grande forse".








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