Conclusa la guerra d'Abissinia, il milite Romano Monterovere si imbarcò per far ritorno in Italia, ma una parte del suo cuore rimase là, nel Corno d'Africa.
Già nel viaggio di ritorno, incominciò in lui quel processo, lento ma inesorabile, di incupimento e distacco dalle contingenze che lo circondavano.
Paradossalmente, in guerra, la paura di morire, lo aveva fatto sentire vivo.
Quando questa paura era venuta meno, allo stesso modo la sua vitalità aveva perso slancio-
Il ritorno alla normalità, all'opaca trafila delle cose, lo faceva sentire più morto dei suoi commilitoni caduti.
Si era portato dietro alcuni souvenir: elefanti d'ebano con zanne in avorio, da donare a sua madre e a sua sorella, statuette che i critici d'arte avrebbero definito "primitiviste", un piccolo sacchetto con la sabbia del deserto, che molto tempo dopo sarebbe arrivato nelle mani di un suo discendente, l'unico tra i suoi nipoti in grado di attribuire valore a un simile oggetto. E infine la fotografia della ragazza somala di Alula con cui aveva avuto una storia.
Fino all'ultimo aveva coltivato l'idea di ritornare da lei in quel villaggio sull'Oceano, in quell'oasi paradisiaca, lasciandosi tutto il resto alle spalle.
Bisognava avere coraggio per fare quella scelta, ma il coraggio era una dote che Romano Monterovere non aveva mai posseduto.
La sua avversione al rischio divenne proverbiale e la trasmise allo stesso nipote a cui aveva lasciato la sabbia del deserto.
Seppellì dunque parte del suo cuore nell'arida terra africana e tornò nell'umida, nebbiosa e afosa Bassa Padana, dalla sua famiglia.
Arrivò a casa dei suoi, in quel luogo dal nome ridicolo che era ed è Bagnacavallo, in divisa militare da caporal maggiore, ma con lo sguardo di chi aveva visto troppe cose.
Nelle sue iridi azzurre c'erano ancora i riflessi dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Sarebbero rimasti lì per sempre, conferendogli quell'espressione distante, remota, indifferente, che molti scambiarono poi per freddezza.
Nella Bassa ravennate ritrovò soltanto le torbiere e i canali dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Nel 1937 l'Azienda dei suoi fratelli era in pieno sviluppo, anche grazie all'entusiasmo suscitato dalla bonifica delle Paludi Pontine, che aveva favorito gli investitori a convogliare risorse nel settore e a potenziare i consorzi provinciali secondo le nuove norme approvate nel '33.
Non appena i fratelli Monterovere avevano incominciato a percepire anche solo lontanamente l'odore dei soldi, le cose erano cambiate.
Il reduce Romano si sentì quasi uno straniero in patria, nel vedere come si era trasformata la sua famiglia.
Il patriarca Enrico aveva lasciato il lavoro alle Ferrovie e, con la sua quota di ricavi aveva finalmente iniziato a condurre la sua vita ideale: colazione alla Caffetteria locale, con tanto di lettura dei giornali, e di segnali in codice con i suoi amici antifascisti da bar; passeggiata lungo il viale del centro, pranzo in trattoria ampiamente innaffiato da vini novelli la cui scarsa qualità suscitava sempre la sua aperta disapprovazione; un altro caffè, seguito dall'ammazzacaffè, provocante una botta di sonno che costringeva i camerieri a gettarlo fuori a viva forza, non senza le sue indignate proteste; una siesta nelle panchine del parchetto della bocciofila, dove poi trascorreva gran parte del pomeriggio con i suoi compagni di merende. Verso sera, anticipando di quasi un secolo le mode, si concedeva vari aperitivi, passando da una bettola all'altra, fino ad arrivare, col naso rosso e gli occhi spiritati, al focolare domestico, dove lo attendeva una lauta cena preparata dalla devota consorte Eleonora. Si sedeva a capotavola e, tra un boccone l'altro, rimbeccava i figli, ricordando loro ignoti sacrifici fatti per "tirarli su", e spronandoli a lavorare più duramente, concludendo il discorso con la frase di rito: "Ah, se non ci fossi io a mandare avanti la baracca, non so mica come andrebbe a finire".
I figli lo lasciavano dire, perché in fondo lo vedevano solo a cena e per il resto era come se non esistesse, per quanto il suo ritratto fotografico, cupo e minaccioso, li fissasse con sdegno e muto rimprovero dai muri del salotto.
In realtà i giovani Monterovere se la cavavano benissimo da soli.
Ferdinando, uomo massiccio e gioviale, era il direttore e il principale investitore.
Era sempre in prima fila nei cantieri e il suo entusiasmo per la creazione di cave, canali di scolo o di irrigazione era pari soltanto al vorace appetito con cui divorava i pasti a velocità impressionante.
Umberto, magro, timido e tisico, teneva la contabilità e si occupava delle questioni legali.
Edoardo, il più giovane, faceva da commesso, ma aveva la brutta abitudine di prendersi delle pause che duravano ore intere, lasciando un cartello con scritto: "Torno subito".
Alla fine, intravedendo per lui un futuro politico, i fratelli lo destinarono alle pubbliche relazioni: in pratica chiacchierava tutto il giorno.
Mancava qualcuno che facesse il commesso stabile nella sede dell'Azienda.
Manco a dirlo quel ruolo noioso e monotono toccò al reduce Romano, il quale lo accettò con noncuranza, limitandosi a commentare che, dopo aver combattuto in Africa, e aver visto quello che aveva visto, un posto di lavoro valeva l'altro.
Quando arrivarono le prime commissioni importanti, non era più possibile limitarsi a chiamare il geometra, che peraltro sembrava saperne meno di loro.
Fu deciso di accogliere come socio e direttore progettuale, un ingegnere di Faenza, Francesco Lanni, un dotto visionario che sognava di rendere navigabili i torrentelli perennemente in secca,della Bassa Romagnola.
Tra lui e Ferdinando Monterovere ci fu un'intesa immediata.
Entrambi entusiasti, presentarono i loro progetti al resto della famiglia dopo un pranzo luculliano.
Sfidando lo scetticismo aprioristico del vecchio Enrico e la prudenza ostinata di Umberto e Romano, Francesco Lanni, alto e signorile, espose i suoi ambiziosi propositi, mostrando progetti di idrovore, ampi canali che passavano sotto o sopra i fiumi a seconda delle esigenze di navigabilità, collegamenti tra tale rete idrica e un insieme di laghi artificiali e porti sontuosi nel basso ravennate.
E se qualcuno osava chiedere se tali tecnologie fossero concretamente realizzabili, l'ingegner Lanni lanciava un'occhiataccia e con severo cipiglio rispondeva con assoluta sicurezza:
<<Lo saranno presto>>
Questa risposta ricorrente gli valse il soprannome di Profeta delle Acque.
Alla fine del discorso, l'ingegnere si trovò di fronte al silenzio sbigottito e scettico della maggior parte dei Monterovere.
A rompere il ghiaccio fu la matriarca Eleonora, che si premurò di chiedere come stava la signora Lanni.
La moglie dell'ingegnere era afflitta da terribili emicranie, oltre ad una serie di problemi cardiovascolari che la costringevano a stare quasi sempre in casa, a letto e al buio.
In mancanza della signora Elisa, l'ingegnere era sempre accompagnato dalla figlia Giulia, una ragazza molto timida, riservata, dai capelli neri raccolti a chignon, occhi scuri sognanti, un sorriso gentile, vagamente malinconico.
Si diceva che amasse la lettura, specie di romanzi d'amore.
Aveva una reputazione irreprensibile. Il suo unico vizio era il fumo.
Mentre i Monterovere e l'ingegner Lanni discutevano di progetti e affari, i suoi grandi occhi neri incontrarono gli occhi azzurri del reduce della guerra d'Africa e scorsero, in quegli occhi, l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden, e una nostalgia divorante di qualcosa che forse non era mai esistito.
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