sabato 2 luglio 2016

Il Trono del Toro. Capitolo 1. Amasis e il principe Catreus




Amasis era sempre stato uno schiavo.
Non ricordava quasi nulla del suo paese natale, un villaggio di pescatori nel delta del Nilo, nel potente Egitto del Faraone Seti I.
Il villaggio era stato saccheggiato da mercanti di schiavi.
Il padre di Amasis era stato destinato alla dura sorte di rematore nelle navi, e di lui non si ebbe più notizia.  La madre era stata venduta a un bordello di Tiro, mentre lui, Amasis, era stato comprato per pochi soldi dal ricco mercante cretese Fàrgas, che lo aveva condotto nella sua immensa proprietà terriera, nelle campagne intorno a Cnosso, destinandolo ai lavori più umili, come pulire le stalle e i pollai, mungere le mucche, strigliare i cavalli, mandare al pascolo le capre. Da grande avrebbe poi dovuto incominciare il duro lavoro nei campi, nei frutteti e nelle vigne, ma questo solo dopo i quindici anni, quando fosse stato sufficientemente forte. Fino ad allora avrebbe servito come stalliere e pastore.

Per lui la vita non era altro, e non immaginava che le cose potessero andare diversamente. A dodici anni, non sapeva nulla del mondo: non sapeva né leggere, né scrivere, né contare; non conosceva nulla al di fuori di quello che vedeva e non era in grado di fare nulla tranne i suoi lavori.
 Essendo orfano e senza protezione, era sempre stato in balia delle prepotenze di chiunque fosse più forte di lui e aveva imparato la pazienza, l’umiltà, la prudenza, ma anche la capacità di difendersi, quando sapeva di averne le forze, specie se le angherie provenivano da qualche coetaneo nelle sue stesse condizioni.
Non aveva amici, persino gli schiavi lo evitavano, perché non era nato da quelle parti ed era senza famiglia, ma a lui non importava gran che: stava per lo più con gli animali. Adorava i cani, i gatti, ma anche gli asinelli, le pecore, le capre, i polli e i conigli, e tutti gli altri animali della fattoria.
Sapeva che quella vita bucolica sarebbe durata solo pochi anni ancora, e poi  avrebbe incominciato a lavorare duramente nei campi, se non fosse accaduto un evento eccezionale ed imprevisto.

 Il padrone Fargas era infatti rientrato da Cnosso in compagnia di un ospite di grandissima importanza, per il quale aveva ordinato si preparassero pasti sontuosi e si ripulisse tutta la villa e l’intera proprietà.



Amasis sentì alcuni schiavi parlare del “nobile Catréus”, l’ospite importante, con un timore reverenziale, quasi si fosse trattato di un eroe o di un dio delle leggende che si cantavano la sera intorno al fuoco. Presto venne a sapere che il nobile Catreus altri non era che il figlio secondogenito del re Minosse XIV, a cui un giorno, essendo prematuramente scomparso il primogenito Adregin,  sarebbe succeduto sul trono di Creta col nome di Minosse XV, come voleva la tradizione fin dai tempi della fondazione della dinastia.
Si era sparsa la voce che il nobile Catreus volesse passare in rassegna tutti gli schiavi di sesso maschile e di età compresa tra i dodici e i quattordici anni circa. Fu così che anche Amasis venne preparato per l’occasione: gli fecero fare un bagno, lo profumarono e lo vestirono con abiti nuovi.
Quando poi il nobile Catreus ebbe terminato la cena con il mercante Fargas, arrivò l’ordine agli schiavi adolescenti di mettersi in riga e di attendere in silenzio.
I due signori uscirono dal portico della villa e lentamente si diressero verso le residenze degli schiavi.
Il grassoccio Fargas appariva ridicolo in confronto al fisico atletico dell’altro uomo, un giovane di circa trent’anni, dai tratti regali e severi, bianco di pelle, ma scuro di occhi, di capelli e di barba, come tutti i Cretesi. I suoi capelli neri erano lunghi e intrecciati, secondo la tipica pettinatura minoica.
Fargas invece era calvo e portava una parrucca corvina con riflessi blu, che gli stava di sghimbescio. Entrambi erano truccati in viso, con la cipria per rendere ancor più bianco il volto, segno di distinzione aristocratica, e la porpora per dare risalto alle gote e alle labbra e persino l’ombretto nerazzurro sulle palpebre. Portavano collane e monili sfavillanti di pietre preziose, braccialetti e anelli. I loro mantelli e le tuniche cadevano lunghi e ricamati fino ai piedi.
Nel complesso Fargas faceva ridere, il nobile Catreus appariva simile a un dio.
I due passarono in rassegna la fila di schiavi, confabulando tra loro a bassa voce.
Quando furono davanti ad Amasis, il nobile Catreus si mostrò particolarmente interessato, lo fissò a lungo e fece alcune domande a Fargas, che incominciò a tessere le lodi del ragazzo come se si fosse trattato di un vitello da vendere al mercato. I due gli si avvicinarono e Fargas ordinò ad Amasis di mostrare i denti, che erano ancora sani. Catreus annuì.
Poco dopo i due chiamarono il fattore e gli dissero qualcosa. Quest’ultimo, non meno emozionato di Fargas, si diresse verso Amasis e con uno strano tono mellifluo lo invitò a seguirlo.
Il ragazzo era incuriosito e intimorito da quella situazione strana, di cui non capiva nulla. Venne condotto, con sua grande meraviglia, all’interno della villa di Fargas. Era la prima volta che vi metteva piede e rimase stupefatto dalla pulizia, dal profumo e dal lusso di quell’abitazione. Percorsi vari corridoi, arrivarono in uno stanzino, dove c’era un letto morbido e  pulito.

«Dormirai qui stanotte» gli disse il fattore, con un misto di rispetto e di invidia «e domattina seguirai il nobile Catreus a Cnosso». Amasis aggrottò le sopracciglia con aria dubbiosa.
«Il principe ti ha comprato come schiavo, ma non andrai certo a zappare la terra, ragazzo mio… la fortuna ha bussato alla tua porta. Gli schiavi del nobile Catreus vanno a vivere al Palazzo e se sono furbi fanno anche carriera» e ridacchiò.
Poi lo fissò con aria seria: «Capisci quello che ti sto dicendo?».
Amasis annuì, incerto. Il fattore scosse la testa, sbuffando: «Cnosso è la capitale dell’Impero, il suo Palazzo è il luogo più potente e lussuoso del mondo!»

Amasis aveva sentito parlare solo vagamente del Sovrano Minosse e delle meraviglie del palazzo di Cnosso, come di una realtà lontanissima e inaccessibile. Quando realizzò che il giorno dopo si sarebbe recato proprio in quel luogo, ebbe un sussulto di gioia. Nello stesso tempo però gli dispiaceva lasciare i luoghi dove era cresciuto e che gli erano familiari. E poi si chiedeva cosa volesse da lui il nobile Catreus. Perché l’aveva scelto? Non poteva saperlo, ma a dodici anni, il piccolo Amasis aveva già imparato che ogni cosa ha un prezzo, e nessuno fa niente per niente.

Il Trono del Toro. Prologo



Dal papiro di Amasis (databile circa 1250 a.C.)

« Gli Antichi Dei hanno voluto che io, Amasis, terminassi la mia esistenza là dov’era iniziata, in un misero villaggio di pescatori nel delta del Nilo, e i guadagnassi da vivere come istitutore e scriba, nella vecchiaia, dopo aver conosciuto, da giovane e nella maturità, la massima potenza e la massima gloria, lontano da qui, a Creta, negli anni ormai lontani in cui quell’isola dominava i mari e le coste.

Molti favoleggiano di quel tempo, ma con poco discernimento: non dicono il vero, perché non possono conoscerlo, come tutti coloro che hanno la pretesa di scrivere la storia.
Ma io, io ero là, nel Palazzo di Cnosso, negli anni gloriosi del potente Impero marittimo di Creta, e assistetti di persona a quegli eventi che ora sono già divenuti leggenda e conobbi i personaggi che adesso sono entrati nel mito.

E nessun altro oramai, tra coloro che erano con me a quei tempi, è ancora in vita, perché tante sono state le disgrazie che hanno funestato quel luogo, quasi che dovesse pagare agli Dei il prezzo della propria stessa grandezza.

Mai avrei immaginato che sarei stato proprio io l’unico a sopravvivere e a poter  testimoniare correttamente come l’Impero di Creta cadde, all’apice della sua potenza, io, che giunsi in quell’isola come schiavo, ed ebbi poi la buona sorte di essere istruito, e di salire ai supremi ranghi del potere e alle più intime vicende della dinastia reale, e alle lotte che si scatenarono dopo la morte di Minosse XIV il Grande, per il possesso del Trono del Toro.

Ma fu veramente fortuna la mia? Salire in alto per poi rovinare insieme a loro, rimanendo solo, privato dei miei affetti. Gli Antichi Dei sanno quanto ho amato quella terra e quella gente, e che sacrifici ho compiuto per loro. Ho avuto i miei momenti felici, ma come dice il proverbio, la felicità passata non è più felicità, ma il dolore passato è ancora dolore.

Mi chiedo se c'è fortuna nella sopravvivenza.
A volte vorrei  la Grande Madre  mi avesse sollevato dal peso dei ricordi e dal dolore di una vecchiaia miserevole e inutile.
La morte non è niente: è la vita che fa paura.
Eppure mai ho ritenuto onorevole sollevare me stesso dal peso di questa vita, uccidendomi, ora mi ritrovo qui, solo, davanti a un papiro ancora non scritto, con i fantasmi di un passato che chiede di essere raccontato, io mi impegno ora a narrare il più fedelmente possibile la storia del Trono del Toro, dall’apogeo alla caduta.

Questo sarà l’estremo sacrificio che io renderò a chi mi fece grande, ossia la testimonianza verace di quegli eventi enormi e terribili che condussero un così florido regno alla rovina.
Lascerò a queste carte le mie memorie, affinché un giorno qualcuno, trovandole e leggendole, possa di nuovo far rivivere questa storia che gli aedi hanno così stravolto, allontanandosi dal vero.

Ma nessuno mai dica che fu per Amasis un privilegio poter essere l’estremo sopravvissuto di questa vicenda. No: la vera fortuna sta nell’essere richiamati dagli Dei prima del tracollo. La morte in quel caso è leggera come una piuma, mentre non c’è destino più terribile della sopravvivenza a tutto ciò che si ha avuto di più caro.
Ed io ho avuto e perduto tutto ciò che si poteva avere e perdere, nella vita>>