Nei suoi ultimi giorni di vita, il vecchio conte Achille Orsini di Casemurate, da tempo ricoverato in una clinica, ebbe la consolazione di essere vegliato dalle sue nipoti preferite, le tre considerevoli sorelle Ricci-Orsini, figlie della primogenita Diana e di Ettore Ricci.
Era il giugno del 1952, il clima era mite e l'aria profumata dall'aroma dei fiori di tiglio.
Si ricordò i versi di un poeta americano, che Diana gli aveva letto in un giorno simile a quello, tantissimi anni prima, quando ancora tra loro c'era una reciproca adorazione:
"Cosa c'è di più raro di una giornata di giugno?"
What is so rare as a day in June? Il nome del poeta era Lowell... James Russell Lowell di Boston.
La Visione di Sir Launfall, o qualcosa del genere...
Il solo ricordo di quel giorno lontano gli confermava la verità di quel verso: allora e solo allora lui e sua figlia erano stati pienamente felici. Lui si era illuso che quello fosse solo l'inizio, solo il preludio di una vita felice, e non si era accorto che era quella la felicità, in quella lontana, rara giornata di giugno. Era quella, e non era più tornata.
Lui aveva rovinato la vita a Diana e gli altri suoi figli, per non parlare di sua moglie.
Ma grazie al cielo c'era il sollievo di quelle tre nipoti, che arrivavano sempre insieme, accompagnate dal severo autista dei Ricci-Orsini, e portavano le scuse da parte degli altri parenti.
Erano diverse e complementari tra loro, tanto da costituire una sorta di piccola trinità.
Margherita, la più grande e la più bella, che a tredici anni era come un fiore appena sbocciato, cercava di recitare con compostezza la parte che aveva imparato a memoria: "La nonna è andata a pregare alla tomba di Arturo e Isabella, la mamma ha l'emicrania e il babbo ha avuto un contrattempo sul lavoro".
Il Conte, naturalmente, non credeva a una mezza parola e puntava lo sguardo verso la nipote di mezzo, Silvia, che aveva dodici anni, e pur essendo la più intelligente delle tre e la più portata per gli studi, era del tutto incapace di mantenere un segreto:
<<Be', a dire il vero la nonna è ubriaca fradicia, la mamma sta dormendo e non vuole essere svegliata prima di mezzogiorno, e il babbo ha detto che sarebbe stato meglio se anche noi fossimo rimaste a casa>>
Il Conte non poté fare a meno di ridacchiare.
Adorava Silvia, era la sua preferita. Le aveva anche lasciato in eredità, come legato personale, gli oggetti che aveva amato di più, e che avevano nel contempo un valore affettivo e sostanziale.
<<Ma voi siete delle brave nipoti e siete venute lo stesso a trovare il vostro vecchio nonno>>
Parlare gli costava fatica, ma era ben spesa, perché quelle tre nipoti avevano il potere di rasserenarlo.
Isabella, la più piccola delle tre, che aveva solo otto anni, era la più sveglia, e con il maggior senso pratico.
E infatti annunciò subito:
<<La signora Ida ci ha detto che magari ci facevi un regalino>>
Il nonno sorrise: Isabella, delle tre, era quella che assomigliava di più ad Ettore, era una vera Ricci, era badava al sodo.
<<Ho preparato molti regalini per voi, ma li potrete avere solo quando sarò morto e il notaio leggerà il mio testamento. State tranquille, ormai manca poco.
Dovete però promettermi alcune cose.
Primo: dovrete aiutare la nonna e la mamma a riprendersi dal loro dolore. La morte dei vostri zii è stata un durissimo colpo per tutti noi, e a questo dolore si aggiungerà anche quello per la mia fine. Non fate quelle facce tristi, questo è l'andare delle cose, e a volte la morte giunge come una liberazione, per chi, come me, è vissuto fin troppo tempo.
Siete tre ragazze forti, avete visto la guerra e il dopoguerra, non vi è stato risparmiato niente, eppure eccovi qui, forti e sane, e soprattutto unite!
Ecco, questa è la seconda promessa che vi chiedo.
Qualunque cosa succeda, dovrete sempre essere unite.
Se rimarrete fedeli l'una all'altra, nessuno potrà sconfiggervi. Quando vi vedo insieme, sento che c'è una coesione profonda, nata dall'aver condiviso momenti terribili in comune, perché è nei momenti di crisi che si allacciano i legami più saldi.
Per voi tre sarà così per sempre. Chiamatelo come volete... il potere della Triade, o magari "il potere del Trio".
Vi servirà, in ogni momento della vostra vita, anche se doveste allontanarvi dalla Contea>>
Quelle parole furono il "testamento morale" del nonno Achille, e quando egli alla fine cedette alla malattia e al dolore, il suo discorso sul "potere del Trio" rimase sempre valido, per tutto il resto della loro vita.
Del resto erano abituate a condividere tutto.
Dormivano insieme in un grande stanzone, con i loro tre lettini disposti l'uno a fianco all'altro.
Erano molto protettive l'una con l'altra, e mostravano persino un senso di iperprotettività nei confronti della madre, e questo pur cercando nel contempo l'approvazione paterna.
Si rendevano conto dei problemi di salute della madre e trascorrevano con lei molto tempo, ma non davano al padre la colpa dell'infelicità di Diana. Il fatto che il matrimonio dei genitori fosse disastroso, non le aveva spinte a schierarsi, ma a trovare il meglio in ciò che la madre e il padre potevano dare loro.
C'erano però alcune differenze, nel rapporto che ognuna delle sorelle aveva con i genitori.
L'ultimogenita, Isabella, aveva sofferto fin dall'inizio di due sensi di colpa: uno era legato al fatto che suo padre aveva sperato e desiderato ardentemente che nascesse un maschio; l'altro era il fatto di essere nata il giorno stesso della tragica morte della zia omonima, che era ella stessa la sorella più giovane. Questa circostanza, così come il nome infausto, erano un motivo di disagio quasi scaramantico.
Delle tre sorelle, dunque, Isabella si sentì spronata fin dall'inizio verso due direzioni: dimostrare a suo padre che poteva occuparsi delle questioni pratiche meglio di un maschio, e dimostrare a sua madre che avrebbe avuto un destino molto migliore di quello della giovane zia.
La primogenita Margherita, invece, aveva avuto il dono divino della bellezza, unendo il profilo alto e aristocratico degli Orsini, con gli occhi verdi e la pelle chiara tipica della famiglia Ricci.
I genitori ne erano orgogliosi e in generale tutta la famiglia persino gli abitanti della Contea, che passavano avanti e indietro, davanti a Villa Orsini, per poter ammirare i boccoli di Margherita, che assomigliava ad Elizabeth Taylor.
La sorella di mezzo, Silvia, era un personaggio del tutto singolare.
In lei il corredo genetico del padre e della madre si erano mescolati in maniera strana, sia nell'aspetto fisico che nel carattere.
Era bassa come il padre e aveva la magrezza e il naso pronunciato come la madre, e queste due imperfezioni la tormentarono per tutta la vita, per quanto, in un certo qual modo, la rendessero adatta al nuovo canone di bellezza femminile che di lì a poco si sarebbe affermato con Audrey Hepburn.
Ma la vera contraddizione di Silvia era quella interiore: il conflitto a cui assisteva da sempre tra i suoi genitori si replicava dentro di lei, nella sua mente.
Era cresciuta osservando con stupore le liti furibonde tra Ettore Ricci e Diana Orsini, e non era mai riuscita a prendere le parti di nessuno dei due, perché nella sua psiche Ettore e Diana continuavano a litigare anche quando nel mondo esterno avevano finito, sbattendosi le porte in faccia e rintanandosi nelle loro reciproche stanze.
E fu così per sempre: ogni volta che c'era una decisione da prendere, un discorso da pronunciare, una qualsiasi reazione, anche minima, ecco che subito, nella mente di Silvia, i geni della madre tendevano verso una direzione e i geni del padre verso la direzione opposta, creando una specie di tiro alla fune, che rendeva piuttosto incerto e irrazionale l'esito della scelta.
Sapeva che questa maledizione era parte del suo destino, come il fatto di essere nata nel dolore, durante la Guerra, e aver assistito a tutte le atrocità che erano state compiute negli anni della Linea Gotica.
Le sorelle la aiutavano molto, e il padre le voleva bene, ma nei momenti di crisi si sentiva, alla fine, più vicina alla fragilità materna, ed entrava di soppiatto nella "Stanza delle Vecchie Pietre", dove la contessa Diana Orsini di Casemurate trascorreva la maggior parte del suo tempo, in una sorta di letargo indotto dagli antidolorifici. A volte trovava a fianco a lei anche la nonna, la contessa madre Emilia, che cercava di smaltire la sbornia e di non pensare ai figli perduti, ordinando alla nebbia di nascondere le cose lontane, perché quelle cose erano "ebbre di pianto".
Silvia si metteva nel mezzo, a formare una nuova triade, con un suo singolare effetto di deprivazione sensoriale, di atarassia, forse persino di indifferenza.
E così distesa tra la madre e la nonna, Silvia Ricci-Orsini osservava nella penombra quella stanza magica come una baita sperduta in mezzo a un bosco: il soffitto aveva travature antiche e pietre di montagna alle pareti, che venivano da una valle d'elfi e funghi, e dalle persiane socchiuse filtrava un sentore di resina, e una brezza da fuori sconvolgeva le pagine di vecchi romanzi, letti e riletti da sua madre, lontani ricordi d'ore perdute nei solai...
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