Il governo Erdogan vacilla: il valore della moneta è crollato, metà dei ministri è inquisita per corruzione e la protesta popolare dei giovani, dei laici e delle minoranze etniche, in particolare quella curda. I rapporti con gli stati confinanti (Grecia, Siria, Armenia) sono pessimi. Una situazione esplosiva che ricorda quella che portò alla disintegrazione dell'Impero Ottomano esattamente un secolo fa.
Come inquadrare oggi la situazione della Turchia e del governo Erdogan?
Lo scandalo di corruzione che ha scosso la Turchia a partire dal 17 dicembre 2013 ha chiuso l’anno più tribolato dell’era-Akp, il partito Giustizia e Sviluppo di Recep Tayyip Erdoğan, al governo da un decennio.
Vista da una prospettiva storica, la turbolenza appartiene al dna politico di un paese che, alla solidità delle sue fondamenta ideologiche, contrappone formidabili linee di faglia sociali, culturali e politiche. Ma se inserita nella cornice temporale dell'esperienza governativa del partito di Erdoğan, tale turbolenza assume una valenza assai diversa.
Le proteste di Gezi Park avevano già fatto luce su una serie di contraddizioni che covavano da tempo sotto la superficie della politica turca. Non tanto l'emergere di una forza di sinistra (comunque minoritaria) pronta ad assumere un ruolo politico trainante; né l’avvio di un'ondata di contestazioni sistemiche che pure rappresentano una sfida per il premier. Piuttosto, il riferimento è alla frattura, di portata e intensità crescenti, tra lo stesso Erdoğan e Hizmet, il movimento di Fetullah Gülen.