Il quarto socio dello studio legale Calderisi, Orbace, Rodagni e Vanesio era, per l'appunto
l'illustre penalista Marco Tullio Vanesio, specialista in cause perse, relitti umani e casi disperati.Non era sempre stato così.
I più anziani ricordavano i tempi in cui lo Studio Vanesio era ancora dotato di un certo prestigio, quando ancora era vivo il precedente titolare, ossia l'omonimo nonno Marco Tullio Vanesio Senior, un legale austero, insignito del rango di Cavaliere di Gran Croce.
La tragedia si era abbattuta sulla famiglia Vanesio per la prima volta quando il figlio del vecchio titolare, il tenente Cesare Giulio Vanesio, era caduto sul fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale.
Come lo stesso Avvocato Vanesio amava ricordare:
<<Il mio caro padre, poco prima di procombere eroicamente in partibus infidelium et ab hoste adversa, conobbe, quale suo giovine commilitone e attendente, l'avvocato Gianni Agnelli, di cui ci scrisse in una delle sue ultime missive. Ci raccontava che il collega Agnelli, chiamato alle armi, accettò un 18 nell'esame di Scienza delle Finanze, la cui cattedra, a Torino, era tenuta nientemeno che da Luigi Einaudi. Ebbene, in cotale incombenza, il cattedratico Einaudi strigliò il giovane Agnelli dicendo: "Col cognome che porta, lei dovrebbe vergognarsi di accettare un 18 proprio in Scienza delle Finanze", e allora il caro Gianni rispose: "E lei, illustre Professor Einaudi, col cognome che porta, dovrebbe vergognarsi di insegnare in un'università che richiede l'iscrizione al Partito Fascista".
Eh, quelli sì che erano tempi! Pensate... mio padre e il collega Agnelli, tra le nevi della taiga, si confidavano i segreti delle loro vite. E poiché dulce et decorus est pro Patria mori, è opportuno e decente affermare che il mio caro padre ebbe la sorte migliore, lasciando in Russia "la vesta ch'al gran dì sarà sì clara". Il collega Agnelli invece, si dovette accontentare di tornarsene a Villar Perosa, a fare macchine di terza categoria, serbando, come unico ricordo della sua esperienza di milite, una gamba tinca, che lo costrinse, come voi m'insegnate, a servirsi di un bastone di malacca per il resto dei suoi giorni>>
Già da questo primo aneddoto, possiamo dedurre che l'eloquio di Marco Tullio Vanesio non godesse del dono della sintesi e men che meno di quello della modestia.
Fisicamente aveva l'aria di chi, in un lontanissimo giorno di gioventù, dovesse aver goduto di una qualche forma di prestanza, ben presto trasformatasi, tuttavia, in qualcosa di ambiguo, nel contempo ampolloso e stucchevole.
I capelli biondo platino, untuosi, le sopracciglia depilate, la pelle cadente carica di fondotinta, le labbra carnose e turgide, gli occhi chiari acquosi, la dentiera dondolante, la pappagorgia... tutto insomma contribuiva a comunicare l'immagine di un vecchio gagà diventato la caricatura di se stesso.
Nonostante volesse dare l'idea di essere un uomo estremamente ricco, l'avvocato Vanesio navigava da molto tempo in pessime acque.
L'inflazione aveva divorato i risparmi degli avi, così come un contenzioso legale con un parente aveva privato Vanesio di gran parte dei beni immobili che erano stati di proprietà di Marco Tullio Senior. E questo a riprova del fatto che Vanesio perdeva non solo le cause dei suoi clienti, ma anche quelle che lo riguardavano in prima persona.
Sua madre, che apparteneva alla facoltosa famiglia dei Marangoni, gli aveva lasciato in eredità un'intera vallata, nell'Appennino, con una villa, che sfortunatamente era andata distrutta durante un terremoto.
Gli rimaneva una vecchia e cadente dimora di campagna nei dintorni di Pievequinta, dove risiedeva insieme a una dozzina di cani.
Questa debacle finanziaria traspariva dalle condizioni stesse dei locali in cui era domiciliato il suo studio legale.
I più istruiti avrebbero potuto dire che ricordava lo studio del dottor Azzeccagarbugli di manzoniana memoria.
Gli altri si limitavano a notare le macchie e gli strappi nella carta da parati e nella fodera delle poltrone, le ragnatele negli angoli del soffitto, i pavimenti sbeccati, i tappeti lisi, i legni tarlati, i tomi di diritto romano sfasciati e scomposti, le bottiglie di liquori inaciditi e i bicchierini sparsi in giro, con file di formiche ubriache intorno.
Tutto questo però sembrava al di fuori della consapevolezza dell'illustre Principe del Foro, che si comportava come se quelle "superbe ruine", per usare un termine a lui caro, fossero motivo di vanto e di giustificato orgoglio.
Era sempre stato molto pomposo.
Si faceva dare del Lei da tutti, anche dagli amici più intimi, che erano tenuti a chiamarlo Avvocato in ogni circostanza.
Parlava di se stesso usando spesso il pluralis maiestatis, a cui ormai non ricorreva più nemmeno la regina Elisabetta.
Una delle sue caratteristiche più ridicole era il fatto che millantasse con la massima convinzione amicizie altolocate inesistenti, specie quelle rare volte in cui si recava a Roma, alla Corte di Cassazione (almeno così diceva lui).
<<L'altro giorno in Cassazione ho incontrato il Ministro Martelli, che ha studiato su uno dei miei libri di diritto romano, ed ha voluto una dedica personale pro bono publico>>
E qui merita di essere aperta una parentesi sul suo eloquio classicheggiante.
Le sue citazioni latine, a dire il vero, non erano sempre del tutto appropriate. Anzi, a volte sembravano messe lì più che altro per gettare fumo negli occhi a quei "bravi villici" che si rivolgevano alle sue illustri consulenze.
In effetti la sua clientela era composta più che altro da sprovveduti totali conosciuti in piazza o in treno e attirati nella trappola della sua ragnatela dalle citazioni latine e dai continui riferimenti alle conoscenze in alto loco.
Fortuna volle, però, che un giorno bussasse alla sua porta nientemeno che (parole sue) "quella vecchia canaglia di Ettore Ricci".
E poiché, quanto ad essere una vecchia canaglia, l'avvocato Vanesio non era secondo a nessuno, si rese conto che se fosse riuscito, per una incredibile concomitanza di casi, a far assolvere Ettore Ricci, il suo studio legale sarebbe tornato ai fasti dei tempi di suo nonno, e lui avrebbe potuto aspirare a quello che riteneva "il minimo" che gli fosse dovuto, ossia un seggio in Senato.
Questo sogno ad occhi aperti di Vanesio era giunto alle orecchie dello stesso Ettore Ricci, il quale dichiarò:
<<Se mi fa vincere la causa, di seggi in Senato gliene faccio avere anche due, uno per ogni chiappa!>>