Tutto era buio e silenzio nella campagna.
Si
erano lasciati alle spalle le luci delle ultime sparute casette di Fossalta e la strada
proseguiva sempre più diritta e cupa verso il nulla.
Un
senso di abbattimento, di tristezza, di noia, subentrò alla rabbia, nelle emozioni
del figlio.
E’
tutto così assurdo!
La
madre si era di nuovo persa nei suoi pensieri.
«Ormai
ci siamo… ricordo che c’era un grande recinto, in fondo alla strada, e un bosco
intorno alla Villa…»
Aveva
di nuovo quella voce flebile, assente, quasi stesse vaticinando un oracolo.
Lentamente,
di lontano, parve prendere forma un grumo nero.
Che
sia questo, il bosco?
Eppure
era strano che non ci fosse neppure un lampione a illuminare quelle zone.
Se
quello era il posto, c’era di sicuro qualcosa di morboso in chi vi abitava, un
inspiegabile gusto per l’isolamento e per le tenebre.
«Com’era
la Villa ? Me la
immagino molto tetra… tipo il castello di Gothian».
Amava molto i romanzi del ciclo di Gothian, specie la figura del Conte Fenrik.
Amava molto i romanzi del ciclo di Gothian, specie la figura del Conte Fenrik.
La
madre scosse il capo: «No, anzi, fu costruita in stile neoclassico coloniale… ricorda
più le residenze dei latifondisti del sud degli Stati Uniti»
Delusione.
Delusione.
«Tipo
“Via col vento”?» ironizzò lui.
Lei annuì.
Lei annuì.
«Beh,
il progetto iniziale era molto… come dire… luminoso… arioso…»
Arioso? In quella palude?
Arioso? In quella palude?
Il
grumo nero si avvicinava e cresceva di dimensioni.
Giulia ne parve atterrita: continuò il suo discorso, ma con una vena di
malinconia nella voce.
«La
decadenza è venuta dopo. La stirpe ormai consumata, il sangue anemico, gli
ultimi discendenti... lo sai come vanno queste cose, hai letto il Gattopardo, i Buddenbrook, o il crollo di casa Usher, o il castello di Lourps dei Des Esseintes...»
Al
figlio venne il dubbio che la madre stesse impazzendo nel suo delirio di citazioni letterarie da lettrice compulsiva, ma il nobile profilo di Giulia si stagliava singolarmente
diritto e composto, ed i suoi occhi fissavano con lucida determinazione la minacciosa oscurità del bosco: «Gli alberi
sono cresciuti», disse.
Roberto
capì che il luogo era quello. L’orologio al polso segnava le dieci di sera.
Non è un’ora buona per arrivare a casa della gente.
Non è un’ora buona per arrivare a casa della gente.
Percorsero
l’ultimo tratto in silenzio, fino al muro di cinta e al grande cancello in
bronzo.
Fortunatamente il cancello era aperto e il vialetto era illuminato da piccoli faretti al neon.
Si fermarono senza dire una parola.
Fortunatamente il cancello era aperto e il vialetto era illuminato da piccoli faretti al neon.
Si fermarono senza dire una parola.
Scesero.
Si
sgranchirono un po’ le gambe, nel buio.
Videro un campanello con tanto di citofono e parve loro che fosse fuori luogo, un anacronismo, in quella terra dimenticata da Dio.
Videro un campanello con tanto di citofono e parve loro che fosse fuori luogo, un anacronismo, in quella terra dimenticata da Dio.
«Suono
io» sussurrò la madre.
Mentre
si avvicinava al cancello arrugginito, vide che vi era appeso uno stemma in
bronzo raffigurante due orsi rampanti e un’armatura medievale. Sotto lo stemma,
un motto latino: “Dominus providebit”, che Roberto trovò stranamente ironico.
A lato era appesa una targa, di epoca successiva, in cui si leggevano le opache lettere Villa Ozzani di Fossalta, e sotto di essa il citofono, con vari pulsanti ognuno per piano. Al piano nobile, naturalmente, c’era scritto: “Dama Virginia Ozzani, Contessa di Fossalta”.
A lato era appesa una targa, di epoca successiva, in cui si leggevano le opache lettere Villa Ozzani di Fossalta, e sotto di essa il citofono, con vari pulsanti ognuno per piano. Al piano nobile, naturalmente, c’era scritto: “Dama Virginia Ozzani, Contessa di Fossalta”.
La madre suonò.
Una voce cupa, sicuramente la governante, chiese «Chi è?»
«Giulia
Federici»
«La stavamo aspettando» (glaciale).
Percorsero il lungo viale alberato in salita fino
allo spiazzo davanti alla Villa, tra un abbaiare di cani e un fuggire di gatti.
Roberto incominciò a distinguere i contorni della costruzione, illuminati dai
fari dell’auto.
Villa Ozzani incombeva nell’imponenza neoclassica,
con tanto di scalinata centrale e colonnato, su un terreno sopraelevato.
Gli parve che la facciata fosse di colore chiaro, ma
ormai l’edera la ricopriva per buona parte. Si intravedevano ancora mezze
colonne ad angolo retto ai lati delle grandi finestre, con sopra un piccolo
timpano a capanna e fregi interni.
Sopra al colonnato centrale, in stile dorico, c’era
un enorme fregio con incise in enormi caratteri dorati delle lettere illuminate
dagli unici fari posti ai lati della scalinata e rivolti verso l’alto.
Roberto, ancora seduto in macchina, lesse ad alta
voce:
«IOSEPHUS OZZANI COMES AEDIFICAVIT ANNO DOMINI…e
poi…»
Lesse a stento MDCCCXVII
«1817» completò Giulia.
Lo ricordava a memoria.
Roberto si sentì a disagio e il silenzio calò tra
loro.
A riportarli alla realtà fu un deciso miagolio del
gatto.
Parcheggiarono l’auto nello spiazzo ricoperto di
ghiaia e scesero di nuovo con aria stravolta e stordita e un senso crescente di
inquietudine e di oppressione.
«I bagagli li portiamo dopo» ordinò Giulia.
Lui non ebbe da ridire, anche se sentiva crescere
dentro di sé un brutto presentimento.
Salirono i
gradoni scheggiati della scalinata, varcarono il colonnato e trovarono il
portone enorme, nero come ebano, e chiuso.
Le maniglie erano arrugginite.
C’era un campanello all’antica senza nome e
suonarono di nuovo.
La porta si aprì cigolando.
L’enorme figura obesa della governante si disegnò di
fronte a loro con un cipiglio austero che imponeva soggezione.
Imbarazzo…attimi di silenzio…interminabili…
«Ehm… salve… » azzardò Giulia e tese la mano «Sono
Giulia Federici»
Accennò un sorriso.
Accennò un sorriso.
L’altra apparve esitante.
Poi, di malavoglia si presentò: «Concetta Ajello, la governante».
Poi, di malavoglia si presentò: «Concetta Ajello, la governante».
L’accento napoletano era molto spiccato.
Si strinsero la mano freddamente.
Per un attimo la governante parve colta da un
dubbio:
«Ma lei è proprio lei?»
«Ma lei è proprio lei?»
«Prego?»
«No, dico, è proprio quella Giulia… »
«In che senso? Comunque sì, il mio nome…»
«No, non per il nome, è che nella fotografia mi pareva un'altra»
<<Sono passati più di quarant'anni>>
<<Sono passati più di quarant'anni>>
In effetti Giulia era invecchiata.
I lunghi capelli fulvi, vanto della sua età giovane, erano ridotti a un biondo grigiastro, sbiadito. Gli occhi verdi, che un tempo avevano fatto strage di cuori, si erano infossati e spenti in un grigio acquoso. La pelle già candida come porcellana ora evocava solo il pallore di un cadavere. E le rughe, poi…
<<E' proprio cambiata>>
I lunghi capelli fulvi, vanto della sua età giovane, erano ridotti a un biondo grigiastro, sbiadito. Gli occhi verdi, che un tempo avevano fatto strage di cuori, si erano infossati e spenti in un grigio acquoso. La pelle già candida come porcellana ora evocava solo il pallore di un cadavere. E le rughe, poi…
<<E' proprio cambiata>>
«Sa, signora Concetta, non tutti abbiamo i mezzi per tenerci giovani» fu
la risposta seccata di Giulia.
Roberto annuì in difesa della madre.
«Vabbe'… ma vi avverto… la Signora sta male, e sta de cattivo umore»
Come al solito pensò Giulia.
«E’ stata nervosa tutto il giorno… poi ha preso un
calmante…» c’era un tono di rimprovero nella sua voce «… adesso riposa».
Li fissò come per dire: “Avreste fatto meglio a non
venire”.
«Beh, allora, intanto che dorme, noi ci
sistemeremmo…» disse Giulia, notando che erano comparsi due giovani robusti dietro
la governante.
«Mia figlia e mio genero» li presentò (entrambi
erano corpulenti e cupi) e con un cenno del capo accompagnò l’ordine:
«Aiutate i signori a portare i bagagli»
Roberto si stupì.
Insolita cortesia: vuole forse controllare cosa ci
siamo portati dietro?
Dopo aver caricato tutti i bagagli, compresa la
gabbietta del gatto sempre più miagolante, entrarono.
Che buio!
Lentamente la vista si adattò all’ombra
dell’interno.
C’era fresco, ma non era l’aria condizionata a
crearlo, quanto piuttosto la robustezza delle pareti antiche.
Rimase
stupefatto dall’ampiezza del grande atrio.
O antro? O porta degli Inferi?
Vide al centro uno scalone in marmo rosa, a gradini bassi e levigati, che saliva costeggiando le pareti. Anche i pavimenti erano in marmo, ma più chiaro, quasi latteo, e tirato a lucido.
I busti e i ritratti degli antenati incombevano
arcigni alle pareti e ai lati dello scalone.
Vide soffitti alti, lampadari decorati:
l’arredamento era tutto “stile Impero”.
Qui il tempo si è fermato al 1817!
Sulla destra una porta dava su un enorme salotto,
sulla sinistra un’altra porta introduceva a un salone da ballo. L’atrio si
prolungava oltre, con porte che si affacciavano su scalette che scendevano nel
seminterrato.
In dimidio dierum mearum vadam ad portas Inferni!
In fondo, nel buio, si intravedeva una porta che
mostrava forse un cortile interno.
Unico tocco di modernità, un ascensore “stile
liberty” al centro della tromba del grande scalone.
«Al primo piano ci stanno gli appartamenti della
Signora, al secondo quelli degli ospiti e al terzo quelli del personale» (la
governante faceva da Cicerone con una certa aria di importanza).
Qui di ospiti non devono averne avuti molti, almeno negli ultimi anni.
Salirono al secondo piano.
L’imponente Donna Concetta li guidava in silenzio
verso i loro alloggi.
Corridoi, meandri…cunicoli…
Corridoi, meandri…cunicoli…
Le stanze degli ospiti erano meno ampie, con
soffitti più bassi e normali finestre. L’arredamento era spartano e all’antica,
un po’ usurato. C’era odore di chiuso e di vecchio. Odore di morte.
Mah… sarà vero che è ricca questa donna?
Mah… sarà vero che è ricca questa donna?
Però il bagno era enorme: Giulia disse di ricordare
che era stato ricavato da una camera da letto.
L’appartamento comprendeva poi un salottino con un vecchio televisore, una
sala da pranzo e una cucina.
Si accomodarono nelle loro stanze. La governante se
ne andò senza una parola.
Finalmente!
Accatastarono i bagagli, liberarono il micio, gli
prepararono una cassettina per i bisogni e si rilassarono un po’ in salotto.
Giulia però mostrava in viso una tensione che a
stento riusciva a dominare.
Il gatto si aggirava
sospettoso nella sala, annusandone accuratamente ogni angolo.
<<Non mi
meraviglierei se trovasse un topo>> fu il commento di Roberto.
Ma Giulia aveva la mente
altrove, lontano nel tempo, nei decenni e i suoi occhi parevano vedere oltre un
velo di nebbia e scrutare invisibili porte al di là delle tenebre.