Nei racconti a sfondo epico che Romano Monterovere, nei rari momenti in cui era in vena di confidenze, elargiva ad amici e parenti riguardo alla sua gloriosa partecipazione alla Guerra d'Abissinia, destinata ad estendere l'Impero d'Italia "dalle Alpi all'Oceano Indiano", c'erano, ad essere sinceri, molte lacune e ancor più contraddizioni, tanto che non risultò affatto facile cercare di farsi anche solo una vaga idea di quel che fosse realmente accaduto.
Secondo la maggior parte delle versioni, Romano Monterovere giunse al porto di Asmara, in Eritrea, nel novembre del 1935, dopo un lungo viaggio per mare su una nave del Regio Esercito di cui non è dato sapere il nome.
Tra il mal di mare e la calura equatoriale opprimente, l'approdo sul suolo eritreo non fu dei più esaltanti.
Faceva talmente caldo che, la sera stessa dello sbarco, decise di farsi un bel bagno nelle acque del Mar Rosso, dove rischiò di essere divorato dagli squali, o, come diceva lui, dai "pescecani".
Evitò per un pelo tale sorte grazie agli avvertimenti di un gruppo di eritrei che si erano messi ad urlare e ad indicare una direzione dove in primo momento Romano non vide nulla, ma ad un secondo sguardo distinse alcune pericolose e inconfondibili pinne verticali.
Fattosi in questo modo la nomea di "sprovveduto", fu assegnato alle retrovie con funzione di guidatore di camion per vettovaglie e viveri.
La collocazione era quasi esente da rischi, ma c'era un piccolo dettaglio che poteva renderla pericolosa, soprattutto per gli altri: il guidatore non aveva la patente.
Cercò di farlo presente ai superiori, ma nessuno sembrava avere tempo per "simili inezie".
Al terzo etiope investito, l'ufficiale di riferimento, nel tentativo di insabbiare nel deserto dell'Abissinia, insieme ai cadaveri, anche lo scandalo, lo spedì in "licenza premio" ad Alula, nella punta estrema della Somalia, dove il Golfo di Aden confondeva le sue acque nell'Oceano Indiano.
Lì avrebbe dovuto, in segreto, imparato a guidare i camion, se ne avesse trovato qualcuno.
L'impatto iniziale fu traumatico: Alula era un piccolo villaggio di casupole tra il deserto e il mare, con un porticciolo naturale mezzo insabbiato, una piccola comunità di pescatori, una moschea, e una minuscola base italiana con altri reietti spediti lì a riflettere sui loro errori.
Eppure, sorprendentemente, quelli furono i giorni più belli della sua vita, e ne avrebbe portato con sé il ricordo come di una sorta di esperienza mistica e nello stesso tempo voluttuosa.
<<Non avete idea della meraviglia del colore dell'Oceano nei pressi del Golfo di Aden>> raccontava con aria rapita, e i suoi occhi azzurri sembravano riempirsi del colore stesso dell'Oceanp, e le loro iridi pulsavano di una vitalità da lungo tempo perduta, che emergeva soltanto nella rimembranza di quel remoto passato.
<<C'era anche un'oasi, dietro al villaggio. Era un piccolo paradiso, lontano dai mali del mondo e della guerra>>
Probabilmente i suoi occhi ricordavano anche il viso di una fanciulla con cui doveva aver avuto un'avventura. Non ne parlava mai, ma c'erano alcune fotografie, da lui nascoste in un bauletto insieme ad altri souvenir, e ritrovate soltanto dopo la sua morte, quando non poteva più rispondere a domande che, per un uomo riservato come lui, sarebbero state insopportabilmente imbarazzanti.
Quando infine riuscì a ottenere la patente di guida, mezza Etiopia era già stata conquistata.
Ma le imprese del milite Monterovere erano appena iniziate.
Abbandonata la calura delle zone costiere, fu mandato negli altipiani delle aree interne.
La sua prima prodezza fu quella di portare vettovaglie e munizioni alla 24esima divisione fanteria "Gran Sasso", di stanza ad Adua sotto il comando del generale Adalberto di Savoia-Genova, unanimemente considerato da tutti, a partire dai soldati semplici per arrivare al Re in persona, un "emerito idiota".
A questo punto della narrazione, con un sorriso complice agli ascoltatori, Romano Monterovere si toccava il lobo dell'orecchio destro, per indicare che il generale Savoia-Genova aveva anche fama di essere omosessuale. Seguivano alcune storielle piccanti sull'argomento.
All'epoca il linguaggio politicamente corretto era non solo molto distante nel tempo a venire, ma addirittura inimmaginabile, specie in chi era vissuto, anche in maniera critica, nell'Italia fascista.
Tornando serio, Romano descriveva poi la totale disorganizzazione dell'esercito, aggiungendo con il suo consueto e caustico pessimismo, che ogni tentativo di rendere efficiente qualunque elemento dell'apparato statale italiano era non solo impossibile, ma totalmente inutile, come ben presto lo stesso Duce avrebbe avuto modo di sperimentare a spese sue e di tutto il popolo italiano.
Già in Abissinia le cose si stavano mettendo male e il Comandante Superiore De Bono fu sostituito dal Maresciallo Badoglio, l'uomo dei momenti disperati, grande amico del Re, il quale non voleva farsi sfuggire a nessun costo la corona imperiale del Negus.
Quando la divisione "Gran Sasso" prese parte, insieme a tutto il II corpo d'armata, alla Battaglia dello Sciré, Romano Monterovere venne nuovamente destinato alla retroguardia, questa volta con risultati più apprezzabili.
<<Non dimentichiamo>> era solito far notare Romano nelle sue memorie di guerra <<che la retroguardia è costituita da truppe esperte, in grado di mantenere una forte coesione e un ottimo morale, per evitare una rotta drammatica>>
Fortunatamente per lui, quello fu uno dei rari casi in cui non si presentò tale evenienza.
Il 29 febbraio 1936 l'intero II Corpo d'Armata marciava su Axum, il IV Corpo si muoveva come programmato per attaccare il fianco sinistro dello schieramento etiope.
Il 2 marzo, l'avanzata del II Corpo riprese ma venne bloccata dalla retroguardia del ras Immirù: fu un attacco inaspettato, ma breve in quanto la mattina dopo, quando l'artiglieria e l'aeronautica italiane erano pronte per agire, gli Etiopi avevano già abbandonato il campo di battaglia, coprendo la ritirata strategica delle truppe del Negus.
Di tutto questo Romano Monterovere non vide praticamente nulla.
Ma il suo "onore" di guerriero trovò un riscatto poco dopo, quando il suo camion fu incaricato di portare munizioni presso "i guadi del fiume Telcazzè" (e guai se qualcuno osava ridacchiare per quel nome singolarmente esotico).
Il 3 e 4 marzo 1936, mentre la II Armata si stava faticosamente aprendo la strada per Selaclacà, seguita dalla retroguardia e dal milite Monterovere, le truppe di Ras Immirù giunsero improvvisamente sulle rive del fiume, dove però questa volta gli Italiani, stranamente, non si fecero prendere alla sprovvista.
Le truppe dei guerrieri etiopi trovarono ad attenderle 126 cacciabombardieri che in due giorni sganciano senza sosta e senza pietà 636 quintali di esplosivo, bombe incendiarie ed iprite, oltre a 25.000 proiettili di mitragliatrice.
Questa fu la vendetta di Badoglio, ma un giorno l'Italia avrebbe pagato caro il prezzo del sangue di un paese che difendeva la propria indipendenza.
La distruzione dell'armata del Ras Immirù, seguita da quella delle armate dei Ras Mulughietà e Cassa, permise a Badoglio di concentrare la propria attenzione sull'avanzata verso la capitale. Con l'eccezione delle poche guardie al diretto comando del negus Hailé Selassié, imperatore d'Etiopia, non vi erano altre forze etiopi che si opponessero agli italiani nell'area.
Romano Monterovere, per quanto fosse decisamente, seppur segretamente, antifascista, provò comunque un senso di ebbrezza nel momento in cui, il 5 maggio 1936, il suo camion entrò ad Addis Abeba, mentre dagli altoparlanti le radio proclamavano la nascita dell'Impero.
Era il secondo impero romano, ma come succede a molti "sequel" non fu all'altezza delle aspettative.
Certo, i piani di Mussolini e di Vittorio Emanuele III, il re Imperatore, erano ambiziosi, mirando all'egemonia del Mediterraneo centro-orientale e al collegamento via terra della colonia libica con quella etiopica. Un sogno destinato a diventare un incubo.
Ma in quei giorni di maggio del 1936 si respirava un'aria di potenza che contagiava anche i più mansueti, e questa ebbrezza. nel caso di Romano Monterovere, era probabilmente corroborata dalla presa d'atto che, a guerra finita, lui era ancora vivo, senza un graffio e pieno di ricordi che gli sarebbero bastati per sentirsi, durante tutto il resto della sua lunga vita, un uomo di mondo, come avrebbe detto Totò facendo valere i suoi anni di servizio militare a Cuneo.
Quando Romano fece ritorno a casa, i suoi familiari si accorsero che era cambiato: c'era qualcosa di diverso in lui, ma come sempre non riuscivano a scoprire esattamente cosa.
Lui conservò il segreto per tutta la vita, ed ogni volta che la sua mente tornava all'oasi di Alula, nei suoi occhi brillava il colore dell'Oceano e la mancanza, struggente, di un paradiso perduto per sempre.