Quando Enrico Monterovere e sua moglie Eleonora Bonaccorsi decisero di lasciare ciò che restava delle loro terre nell'avita Contea di Querciagrossa, alle pendici dell'Appennino modenese, per trasferirsi da qualche parte nella Bassa pianura padana, il primo dei loro nove figli aveva già trent'anni e l'ultimo ne aveva solo due.
Ci soffermeremo più avanti sui singoli componenti di quella numerosa prole, dal momento che ciascuno di tali rampolli avrà un suo ruolo, nel bene e nel male, in questo nostro racconto.
In un primo momento decisero tutti di seguire il padre, cambiando residenza più volte, passando da un affitto all'altro, a seconda del lavoro, sempre saltuario, svolto da Enrico e da qualcuno dei figli più grandi.
Ad essere sinceri, Enrico Monterovere non era quel che si direbbe un infaticabile lavoratore e nessuno, nemmeno sua moglie, era in grado di dire con esattezza di cosa si occupasse, almeno fino al 1935, quando arrivò la grande svolta nella sua vita, la Chiamata dal Sinai, ossia l'assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, presso la ridente stazione di Bagnavallo, in provincia di Ravenna.
Certo, per gente nata negli Appennini, trasferirsi nella Bassa ravennate era un po' come sprofondare nelle sabbie mobili, ma un posto nelle Ferrovie valeva questo ed altro.
Restava comunque piuttosto nebulosa la natura dell'incarico di Enrico Monterovere presso la Stazione dei treni.
Nessuno lo aveva mai visto con una divisa o una paletta rossa e verde in mano.
Qualche malalingua, però, insinuava di averlo scorto con secchi d'acqua, stracci e scopone.
Ma si trattava di malelingue, certamente ostili al fatto che un montanaro venuto da chissà dove fosse stato assunto, chissà per quale ragione, presso un'istituzione riverita e forte quale le Ferrovie dello Stato.
In ogni caso, né la moglie, né i figli decisero di indagare ulteriormente sulle mansioni del capofamiglia. In fondo un salario alla fine del mese arrivava, e per quanto non fosse gran che, valeva pur sempre il detto: pecunia non olet.
Quando finalmente ebbero raggiunto la cifra sufficiente per acquistare una nuova residenza, seguirono il consiglio del primogenito Ferdinando, che a differenza del padre, aveva ereditato il carattere intraprendente e coraggioso dell'omonimo nonno, disarcionato all'Orma del Diavolo.
Ferdinando, che da ragazzo aveva lavorato nelle numerose cave di ghiaia intorno a Pavullo del Frignano, sulle rive del Panaro, convinse il resto della famiglia ad acquistare un podere adiacente ad una vecchia cava tra Bagnacavallo e il vicino borgo di Lugo, sulla cui etimologia celtica o romana esiste una diatriba alla quale dedicheremo in seguito qualche riflessione.
Il prezzo risultò conveniente, ma le condizioni della proprietà non erano particolarmente incoraggianti.
La casa a due piani sembrava stare in piedi per miracolo.
Il piano terra era alquanto umido, e la muffa un po' troppo resistente, il seminterrato tendeva ad allagarsi ad ogni temporale, mentre nelle stanze da letto al secondo piano avevano fatto il nido i piccioni.
Rendere abitabile quel tugurio non fu un'impresa da poco, ma in fondo i Monterovere non erano forse stati temprati dai rigori degli inverni appenninici?
Questo era quanto Enrico ripeteva le rare volte in cui rincasava sobrio.
Le altre volte era meglio non rivolgergli parola.
In particolar modo era meglio non ipotizzare in sua presenza un qualche collegamento tra l'umidità della residenza e la tubercolosi di cui avevano incominciato a soffrire alcuni dei suoi figli.
Come si è detto, Enrico ed Eleonora ne avevano avuti nove, di cui sei maschi e tre femmine.
Ferdinando si era già messo al lavoro per rendere operativa la cava di ghiaia.
Era un uomo alto, massiccio e robusto, con un paio di baffi alla Gino Cervi che imponevano un certo rispetto.
Di tutt'altra pasta era il secondogenito Alfredo, il quale, non avendo alcuna voglia di aiutare il fratello, né di dedicarsi a qualche forma di apprendistato o di studio, decise di emigrare in America, facendosi vivo, di quando in quando, per lettera, al fine di richiedere ai genitori e ai fratelli un sostegno economico.
In seguito i suoi nipoti italiano avrebbero ironizzato sul fatto di essere gli unici che, invece di ricevere soldi dallo "zio d'America", erano costretti a spedirglieli.
Va detto comunque a sua difesa che egli ebbe modo di rendersi utile quando fece avere, a metà degli anni '40, i primi campioni di penicillina, che salvarono la vita ad alcuni dei suoi fratelli.
Troppo tardi tuttavia per salvare Renata, Maria e Giovanni, dal momento che l'aria di Bagnacavallo non era esattamente quella del sanatorio di Davos.
L'unica sorella che si salvò fu la la terzogenita Anita, donna volitiva e caparbia, d'aspetto vagamente simile a Marlene Dietrich, era riuscita ad ottenere il diploma per l'insegnamento magistrale e poi, giovanissima, una cattedra a Fiume, quando era ancora una città italiana.
Presteremo tuttavia una particolare attenzione al fratello quartogenito, Romano, i cui discendenti, come vedremo, avranno a che fare molto intimamente con le altre famiglie seguite in questo nostro racconto.
Le mansioni di Romano, nella cava di ghiaia, variavano in continuazione, forse perché non ce n'era nessuna che lo appassionasse o nella quale riuscisse a distinguersi. Era una sorta di factotum, ma non nell'accezione letterale del termine. Una delle sue battute preferite era: "il lavoro nobilita l'uomo e lo rende simile alle bestie". In ogni caso, come era già accaduto a suo padre, nessuno riuscì mai a stabilire con certezza di cosa si occupasse concretamente.
Era un uomo taciturno, abitudinario, con certi tratti ossessivo-compulsivi che emersero soltanto in seguito.
Una prima, ma significativa svolta nella sua vita avvenne nel 1935 quando colse l'occasione per distinguersi arruolandosi come volontario nella Guerra d'Abissinia, anche se il metodo di arruolamento risultò più che altro simile ad una retata di polizia con successiva deportazione al porto eritreo di Asmara.
Rimanevano ancora sul groppone dei Enrico ed Eleonora altri due figli, che all'epoca erano ancora adolescenti.
Il primo, che si chiamava Umberto, era destinato a continuare gli studi fino al conseguimento della laurea in Legge.
Sarebbe divenuto il responsabile dei contratti e dei contenziosi dell'azienda di famiglia.
L'ultimo figlio, Edoardo, che non sapeva fare assolutamente niente, fu destinato, come era ovvio, alla carriera politica e dopo la guerra divenne un militante del Partito Comunista Italiano e fece carriera nel partito e nelle istituzioni.
La signora Eleonora aveva inoltre una sua sorella, di nome Valentina, che sposò il facoltoso commerciante Gualtiero Bassi-Pallai.
Costui fu convinto da Ferdinando ad investire una cospicua quantità di denaro nell'attività di famiglia, che aveva preso il nome di Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Tutto sommato, dopo tanti anni di tribolazioni, il peggio sembrava essere passato, o almeno questa era l'impressione della famiglia Monterovere poco prima che, nel 1940, la radio annunciasse che "un'ora fatale, segnata dal destino, batte nei cieli della nostra Patria.
L'ora delle decisioni irrevocabili."
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