domenica 29 aprile 2018

Vite quasi parallele.Capitolo 115. Regnare all'Inferno o servire in Paradiso

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Qualcuno ha detto che la vita è ciò che accade mentre noi pensiamo ad altro.
In un certo senso era stato così anche per Riccardo Monterovere, che aveva sempre avuto la testa da un'altra parte, come la maggior parte di coloro che conducevano una vita da intellettuale.
La vita autentica, per Heidegger.  La vita contemplativa, per il Vangelo di Luca.
Era lo splendido passo evangelico di Marta e Maria.
Marta, che rappresenta la vita attiva, rimprovera la sorella Maria perché, invece di darle una mano nei lavori domestici, è rimasta ad ascoltare Gesù, il quale alla fine commenta:
<<Marta, tu ti affanni e t'inquieti per mille cose, ma una sola cosa è necessaria: Maria ha scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta">>
Era una risposta illuminante nella sua perfezione, come gran parte delle massime evangeliche, per esempio quella secondo cui "il domani ha già le sue inquietudini: ad ogni giorno basta la sua pena".
A tutto questo pensava Riccardo mentre a tarda sera varcava il portone del Castello di Monterovere, dopo essere sceso dal taxi che, da Modena, passando per Pavullo e Querciagrossa, lo aveva condotto fin lì.
Qualcosa di molto importante lo attendeva nell'antico maniero che era stato dei suoi antenati, ma in cui mai prima di allora aveva messo piede.
Ho sempre avuto la tendenza a rifiutare gli inviti. 
Non era per snobismo: era una questione di autodifesa, a volte persino di sopravvivenza.
Ma era anche un modo per tutelare gli altri dalle asprezze del suo carattere, dalla sua necessità di dire o fare cose imperdonabili, per poter voltare pagina ed andare avanti.
La sua unica arma era la parola e con quell'arma aveva allontanato dalla sua vita tutti coloro che, in un modo o nell'altro, lo facevano soffrire, impedendogli di procedere verso la ricerca di un equilibrio interiore.
Un po' si sentiva in colpa per questa sua capacità di troncare le relazioni di punto in bianco, perché questo voleva dire che, in fondo, sapeva di poterne fare a meno.
E gli altri, giustamente, ci rimanevano male. Si sentivano umiliati.
Solo chi lo conosceva meglio era in grado di capire che queste chiusure drastiche erano la conseguenza di una serie di "danni ingiusti" subiti nel passato.
Riccardo, come quasi tutte le persone "danneggiate", aveva acquisito un'insospettabile resilienza: "la capacità di assorbire un urto senza spezzarsi" e dunque anche di superare un trauma ed andare avanti, rendendosi conto di possedere una forza e un'adattabilità di cui prima non sospettava l'esistenza.
Questo pensiero portava con sé però un inquietante corollario:
Chi ha subito un grave danno è pericoloso. Sa di poter sopravvivere. 
Per questo finisce per far soffrire le persone, nel momento in cui queste ultime capiscono che lui può fare a meno di loro.
 E sa anche di aver diritto ad un risarcimento.
E questo può rendere spietati nei confronti di chi, invece, non avendo mai subito un danno ingiusto, appariva incapace di empatia.
Una volta Ilaria, riflettendo su tutto questo, aveva espresso un'efficace previsione:
<<Non puoi continuare a respingere tutti. Prima o poi ci sarà qualcuno a cui non potrai dire di no>>
E lo zio Lorenzo, il potente castellano di Monterovere, era quel qualcuno.
Era arrivata la "chiamata dal Sinai", e bisognava scalare il monte.

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Era tempo di riacquistare una coscienza del presente, dell' hic et nunc: concentrarsi sull'attimo, come un felino predatore.
E in effetti la sua indole era sempre stata simile a quella di un gatto.
Era capace di empatia e simpatia,  e conosceva bene le regole del gioco, ma non era mai stato "addomesticabile".
Non era né leader, né gregario, né ribelle, né emarginato: era libero, e nessuno mai era riuscito a possedere interamente le chiavi del suo cuore.
Aveva imparato a camminare sul crinale sottile tra la contemplazione e il desiderio, apprezzando i doni della quiete, senza disdegnare quelli della passione, una fiamma che era sempre rimasta accesa in lui, anche nei momenti più oscuri.
Non era un uomo di mondo, ma nemmeno un puro asceta.
Sapeva che c'è un tempo per tutte le cose, come dice la saggezza dell'Ecclesiaste, e questa era stata sempre la sua salvezza.
C'era il tempo per la serietà e quello per l'allegria, il tempo per la profondità e quello per la leggerezza, il tempo per il silenzio e quello per la parola.
Gli piaceva fin troppo parlare, raccontare (Goethe avrebbe parlato di Lust zu fabulieren) ma ancor di più gli piaceva scrivere, e narrare per iscritto, e naturalmente anche leggere, sia saggi che romanzi, preferendo questi ultimi, per quanto potessero sconvolgere le sue fragili certezze e mettere tutto in discussione. Sapeva infatti che, mentre il lettore giudica il libro che sta leggendo, anche il libro sta giudicando lui.
Dire che Riccardo fosse un cinico sarebbe stata un'esagerazione.
Non era una persona cattiva, tutt'altro: era una persona buona a cui erano capitate cose molto cattive e questo lo faceva stare sempre sulla difensiva.
Il suo era più che altro un giustificato disincanto, che non aveva nulla a che vedere con i piagnistei degli apocalittici o l'acidità dei frustrati: si trattava più che altro di uno scetticismo nei confronti della velleitaria ingenuità degli utopisti o dell'intransigenza ottusa dei fanatici.
A chi gli chiedeva come si sentisse, rispondeva con una celebre battuta di Ennio Flaiano quando, interrogato sull'eterna crisi italiana, commentava:
"La situazione è grave, ma non è seria".
E a chi gli chiedeva il significato della frase, rispondeva con una domanda retorica:
"Vi sembra forse di vedere serietà, in giro?"
Oppure, ad ogni compleanno di un amico, scriveva, con ghigno sornione:
"Coraggio, il meglio è passato".
Evitava però di andarci giù troppo pesante, ricordando l'ammonimento di Arturo Graf: "Badate, volendo estirpare un'illusione, di non uccidere un'anima".
Ogni tanto si chiedeva se esistevano veramente persone soddisfatte.
Una volta Ilaria gli aveva detto:
<<Tu sei spesso molto allegro, ma non mi sembri mai felice>>
Riccardo aveva risposto in maniera piuttosto brutale:
<<Felice? E cos'è la felicità? Le anatre del laghetto sono felici, forse, se riescono a evitare i cacciatori e a non finire arrosto... 
Solo pochissimi fortunati possono illudersi di essere felici, e tra questi fortunati ci metto anche chi, nella sua incoscienza o dimenticanza, non si rende conto del dolore che lo circonda. 
In conclusione: la felicità è il premio di consolazione degli idioti>>
Molti si offendevano quando lui faceva questa osservazione.
Eppure bastava riflettere su un fatto: una persona felice, guardandosi in un ipotetico specchio delle brame, avrebbe visto solo se stessa.
Ma chi non desidererebbe cambiare qualcosa si sé, se ne avesse il potere?
Sulla base di questa considerazione, forse nessuno era felice, nemmeno chi credeva di esserlo.
Forse ognuno, persino il più sicuro di sé, doveva tenere a bada frustrazioni inconfessabili.
Ed io? Cosa devo tenere a bada?
Molti "Monteroveriani" della Confranternita professavano idee buoniste, ma nascondevano nel loro intimo una competitività estremamente aggressiva, perfettamente in sintonia con il mondo turboliberista globalizzato in cui non esistevano bene e male, ma soltanto denaro e potere.
In ogni caso, distinguere il bene dal male non era facile e a volte era del tutto impossibile, tanto i due principi si compenetravano, come lo yin e lo yang nel simbolo del Tao.
Come aveva scritto Ursula Le Guin: la Luce è la Mano Sinistra delle Tenebre.

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E a metà strada c'era l'Ombra.
I veri potenti sono quelli che agiscono nell'ombra..
Ma c'era uno stratagemma che a volte poteva risultare utile.
Per capire dove sta il potere basta sapere di chi non puoi parlare male senza subire pesanti conseguenze
Suo zio Lorenzo sembrava uno di loro, tanto che una volta gli aveva detto che ammirava i grandi uomini, anche i "grandi nel male", perché:
<<Hanno comunque fatto grandi cose. Terribili, certo, ma grandi!>>
E la grandezza meritava comunque l'attenzione del Professor Monterovere.
Mi sta offrendo il potere, ma io rifiuterò, perché nonostante le mie buone intenzioni, finirei per farne un cattivo uso.
Ma se avesse rifiutato ciò che lo zio gli offriva, avrebbe perduto l'appoggio dell'ultimo parente in grado di evitare la catastrofe di ciò che rimaneva della sua famiglia.
Ho veramente fallito?
Giunto ormai "nel mezzo del cammin di nostra vita", aveva siglato col mondo, (e con la propria coscienza) una specie di tregua,
Non era stato facile. Ogni rinuncia aveva i suoi costi.
La libertà, per esempio, ha come prezzo la solitudine. Alcuni non sono disposti a pagare questo prezzo, ma se si è tristi quando si è soli, vuol dire che si è in cattiva compagnia.
Sartre aveva ragione, sia su questo punto, sia riguardo alla natura dell'Inferno.
L'Inferno "sono" gli altri.
Riccardo aveva fatto propria questa frase ancor prima di sapere che l'aveva già scritta il filosofo esistenzialista francese, persona molto diversa da lui, peraltro.
Ma l'Inferno, ah, questo sì che ho avuto tempo per conoscerlo... 
E non erano stati solo gli eventi in sé, a provocarlo.
Ciò che ci fa soffrire di più è l'incomprensione da parte degli altri, persino di quelli che ci vogliono sinceramente aiutare. Pensano che basti una passeggiata o un giro in bicicletta per cambiare le cose. Questi pensieri sono "inferno" allo stato puro somministrato a chi soffre sempre, perché il dolore ce lo portiamo dietro. 
Tenetela per voi la vostra maledetta passeggiata!
Certo, avevano buone intenzioni, come quelli che credono che vivere sia preferibile, a prescindere, dal non vivere, e non sanno quanto stia soffrendo la persona che loro costringono a vivere.
Questo è il vero inferno, non quello che c'è dopo la morte, qualunque cosa ci sia, non può essere peggio di questo incubo. Quando tocchi il fondo, l'idea che la fine sia prossima è un sollievo, ma il pensiero di dover andare avanti in quelle condizioni... gli altri non capiscono, perché non sono nei tuoi panni. Per questo dovrebbero farci più paura quelli che ci costringono a vivere, pur sapendo che siamo condannati alla sofferenza, rispetto a quelli che, proprio per aver capito la nostra condizione, accettano l'idea di lasciarci andare.
A differenza di suo zio, Riccardo aveva sempre preferito la solitudine, ragione per cui il mondo intero lo aveva spesso frainteso e rimproverato.
Bollato come "individuo asociale e misantropo".
A un colloquio di lavoro gli avevano chiesto se venivano prima i bisogni dell'individuo o quelli della società. Era un modo per capire fino a che punto era disposto a sacrificare se stesso per il bene dell'azienda. Incurante delle conseguenze, aveva risposto:
<<Su questo punto cambio idea almeno due volte al giorno. Ad essere sinceri, mi capita spesso di avere idee che non condivido>>
Era una vecchia battuta di Woody Allen, ma nessuno pareva essersene accorto: la faccia degli intervistatori sarebbe stata da fotografare e incorniciare.
Un'altra volta, sempre a quegli odiosi test psico-attitudinali, gli avevano domandato:
<<Meglio regnare all’Inferno o servire in Paradiso?>>
Al che Riccardo aveva risposto:
<<Regnare all'Inferno, perché almeno so che esiste, anche se noi preferiamo chiamarlo pianeta Terra>>
L'espressione di lesa maestà che si era dipinta nei loro volti non aveva prezzo.
Ovviamente nessuna di quelle aziende l'aveva assunto.
Avere sempre la battuta pronta può rivelarsi pericoloso, come dimostra la fine di Oscar Wilde, che subì il carcere non tanto per i suoi costumi sessuali, quanto piuttosto per aver ridicolizzato la tarda società vittoriana, su cui ancora incombeva il busto di marmo della buonanima di Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, che aveva portato con sé, dalla fitta selva di Turingia, l'ascetico spiritualismo dei Rosacroce e le cupe atmosfere neogotiche degne dei capolavori di C.D. Friedrich.
Per ossequiare l'adorato e austero consorte, la regina Vittoria, ultima della godereccia casata degli Hannover, aveva abbandonato con un certo rimpianto le frivolezze neoclassiche della sua adolescenza e imposto al paese un puritanesimo di facciata, vagamente sado-maso, basato sul principio: "vizi privati e pubbliche virtù".
Wilde aveva messo in discussione quel principio: per questo la real vedova, che pure a Balmoral se l'era spassata prima con il rude Mr.Brown e poi persino col valletto indiano, gliel'aveva fatta pagare.
E allora bisogna cercare di essere prudenti, stabilire un livello sotto il quale non si vuole scendere... sotto il quale c'è solo da ripetere a se stessi che bisogna volersi un po' più di bene.
Quel tipo di saggezza non è una conquista facile, né mai del tutto definitiva, ma rappresenta di sicuro una forma mentis che aiuta a vedere le cose in una prospettiva meno angosciosa.
E questa, secondo Riccardo, era un'attitudine di non poco conto per un uomo costretto a vivere in un contesto dove le sue doti non erano considerate particolarmente utili.
Queste doti erano considerate da molti come dei vezzi, delle fragilità, perché ai più mancava una visione d'insieme.
Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo. 
Il problema era selezionare la sabbia giusta, le percezioni più favorevoli.
E se non c'era niente di favorevole?
Una ragione di vita rimaneva comunque: Riccardo, per esempio, voleva sopravvivere almeno a un certo numero di persone a lui sgradite o semplicemente troppo longeve, e questo, in assenza di dolori atroci, poteva essere sufficiente.
Una ragione per rimanere saldo e fermo.
Aver coraggio è anche riuscire a star fermi dinanzi al pericolo.
E lui amava stare fermo.
"Chi si muove cammina; ma chi è prode il campo tien!"
Nel frattempo si teneva però aggiornato su tutto. Osservava con la massima attenzione. Ponderava ogni notizia. Raccoglieva dati, pareri, riflessioni, analisi.
E serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
Certo non era una vita facile.
Le persone a cui voleva sopravvivere sembravano eterne.
Ecco, Riccardo aveva, nella sua lista in stile Arya Stark, un certo numero di persone, ai cui funerali avrebbe partecipato con la stessa aria trionfante sfoggiata dalla Regina Madre inglese, Elizabeth Bowes-Lyon, ai funerali di Wallis Simpson.

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Solo a lista esaurita Riccardo avrebbe considerato compiuta la sua missione terrena e si sarebbe potuto congedare dalla vita da pari a pari.
Ma fino ad allora, più che vita, la sua sarebbe stata una sopravvivenza, un tirare a campare.
Ma almeno lui poteva leggere, guardare dei film, meditare, e i giorni passavano veloci.
Anche queste sue scelte erano state interpretate, da alcuni membri della confraternita dei Monteroveriani, come un atteggiamento calcolato, una strategia di marketing, perché il vivere appartati, il negarsi agli altri, alimenta il mistero e quindi anche il carisma.
E ormai il suo appartamento era off limitsne aveva fatto la sua tana, come se fosse una specie di caverna hobbit, cosa di cui era perfettamente consapevole.
A soli dieci anni aveva già letto tutti i romanzi di Tolkien, e senza dubbio al professore di Oxford andava il merito, e forse anche la colpa, di avergli fatto amare la lettura più della vita stessa.
In particolare la lettura di romanzi fantasy oppure di genere fantastico, che contenessero cioè almeno un piccolo elemento di sovrannaturale, o per lo meno di mistero.
La letteratura, in fondo, è l'ammissione che la vita, da sola, non basta.

venerdì 27 aprile 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 114. Per le antiche scale

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Luca Bosco conosceva bene la strada che dal borgo di Querciagrossa portava al Castello di Monterovere, così come le antiche scalinate che si dovevano percorrere prima di arrivare alle mura esterne, al portone, al Primo Edificio di guardia, al Parco Interno e poi, tramite un vialetto in salita, al Secondo Edificio, fino al Salone d'ingresso, quello dove in genere gli ospiti attendevano, in presenza di un buffet e di qualche aperitivo servito da compunti camerieri in livrea, l'arrivo del "grand'uomo", il cui appartamento privato si trovava, naturalmente, nel Terzo Edificio, ossia nella Torre Alta, detta Turris Eburnea dalla "Confraternita dei Monteroveriani".
Quel percorso rappresentava, nel contempo, se ci è concesso il gioco di parole, un'ascesa e un'ascesi.
Il bosco di roveri e querce, le abitazioni medievali del borgo, l'altezza della collina, l'aria sempre più pura, e il panorama via via più esteso, trasmettevano un'emozione "romantica" nel senso filosofico e letterario del termine, come se si entrasse nel mondo neogotico dei quadri di Friedrich o dei Preraffaelliti. Tutto questo era, naturalmente, intenzionale, nel senso che il Professor Monterovere, durante il restauro, si era ispirato al modello della fortezza di Coburgo, da cui aveva avuto origine la potentissima stirpe dei Sassonia-Coburgo-Gotha, ai vertici dell'Aristocrazia Nera.
Mentre saliva le scale, a Luca erano tornati in mente molti momenti felici trascorsi in quel luogo, in compagnia di amici ormai persi di vista, sopratutto dell'inglese Waldemar Richmond, che era stato suo compagno di studi durante il Dottorato, e di Jenna Burke-Roche de Fenroy, la misteriosa fanciulla statunitense di origini anglo-francesi e aristocratiche, di cui entrambi erano stati innamorati.

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Per anni lui e Waldemar si erano contesi le attenzioni di Jenna, la quale aveva esitato a lungo prima di compiere una scelta.
Ci chiamavano "il Triangolo delle Bermuda": eravamo folli, ma ci siamo divertiti molto...
Una felicità perduta, quando lei aveva scelto Waldemar, il che rendeva insopportabili quei ricordi.
Era stato difficile fare un passo indietro e permettere che il "triangolo" lasciasse il posto ad una coppia di fidanzati di pari origini e ceto sociale.
Se almeno la mia rinuncia e il mio sacrificio fossero serviti a qualcosa!
E invece era andato tutto nel peggiore dei modi.
Waldemar e Jenna si erano lasciati prima delle nozze e poi si erano resi irreperibili.
E dire che sembravano così felici, così perfetti...
Forse troppo.
Lei sicuramente è perfetta. E' una che non fa sciocchezze. Per questo non si è messa con me.
Sorrise al pensiero.
Eppure anche con Waldemar non aveva funzionato. Perché? Cosa c'era sotto?
Stando alle poche informazioni che il prof. Monterovere aveva fatto trapelare, con aria di mistero,
lui si trovava in Ucraina, in una provincia abbarbicata ai Carpazi, presso la roccaforte visigota di Estgoth, in missione segreta per conto dell'Ordine.
Ancora meno erano state le informazioni riguardanti Jenna, la quale, secondo alcuni, ufficialmente risultava domiciliata nella villa che i Burke-Roche possedevano negli Hamptons di Long Island, New York, presso la località marittima di Hollow Beach, un "paradiso di tranquillità e noia", apparentemente, ma pieno di misteri, almeno stando a quel poco che lei aveva raccontato.

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Hollow Beach.
Ricordare quel nome era doloroso, perché ai tempi della loro amicizia, Jenna gli aveva promesso che avrebbero trascorso un'estate insieme, da soli, in quel luogo.
Poi però era arrivato Waldemar e aveva rovinato tutto...
Inutile fare l'inventario delle cose perdute, mentre tutto frana intorno... 
Inutile e dannoso, ma quasi inevitabile, nel castello di Monterovere Boica.
Quando finalmente arrivò al grande Salone, fu colto da una serie di destabilizzanti déjà-vu.
 Aveva riconosciuto i membri più giovani della "Confraternita dei Monteroveriani", che erano stati suoi studenti, in alcuni seminari e laboratori collegati ai corsi del Professore, mentre tra quelli di età superiore erano più le assenze a farsi notare.
Probabilmente i miei coetanei della Confraternita hanno già superato l'Iniziazione all'Ordine Supremo.
Improvvisamente si sentì osservato e si voltò, vedendo in cima alle scale l'inconfondibile sagoma
del Professor Monterovere, che sfoggiava il suo tipico abito color prugna, che lo faceva sembrare un vescovo.
Il suo volto abbronzato e liscio appariva quasi ringiovanito. I capelli argentei e gli occhi celesti risplendevano a tal punto da dare l'illusione che emanassero una luce propria.
Tutti invecchiano, tranne lui. Quale sarà il suo segreto? Sicuramente ha a che fare con gli Iniziati.
Quando gli occhi di Luca Bosco incontrarono quelli del Professore, lo sguardo di quest'ultimo parve illuminarsi ancor di più e subito scese la scalinata, con una certa affettazione teatrale che, unita al vestiario violaceo e alla voce querula, attribuivano al suo aspetto qualcosa di buffo, che spingeva la gente a commettere, a proprie spese, il grave errore di sottovalutarlo.
Luca gli andò incontro, senza incontrare ostacoli, in quanto i giovincelli e le matricole sapevano bene che bisognava cedere il passo ai "prefetti", e gli tese la mano.
La stretta di Lorenzo Monterovere fu floscia e debole, ma la sua voce era quantomai allegra:
<<Luca Bosco, sono davvero lieto di rivederti!>>
La cosa non era reciproca, ma Luca cercò di essere educato:
<<Anch'io! Come stai?>>
<<Molto bene, grazie, e tu? Cos'hai fatto in questi mesi di vacanza?>>
Luca preferì rimanere sul vago:
<<Sono fuggito>>
<<Da cosa?>>
<<Da tutto quanto>>
<<Sì, ma dove?>>
<<Lontano>>
<<Ma lontano da dove?>>
<<Da tutto quanto>>
<<D'accordo, ma dove, di preciso?>>
<<In posti tranquilli, quieti, in cui fosse possibile riflettere>>
<<Riflettere su cosa?>>
<<Su tutto quanto>>
Non si aspettava che l'altro capisse.
La comprensione richiedeva tempo. 
Dopo un grave danno, per rimediare, è necessario lasciar passare del tempo.
Dovevo attendere. Ho atteso. Bisogna saper attendere.
In fondo era stata come una sorta di veglia d'armi.
Lorenzo riprese la parola:
<<Nel mio invito c'era una promessa a cui intendo mantenere fede>>
Luca ricordò:
<<Verrà anche tuo nipote?>>
<<Sì, gli ho mandato un taxi apposta a Modena. Dovrebbe essere qui a momenti. 
Ma ho riservato per te e per lui anche altre sorprese>>
<<Che vuoi dire?>>
<<Nella Torre sono già alloggiati alcuni ospiti di rilievo, tra cui persino qualche membro del Consiglio Superiore dell'Ordine>>
I Consiglieri si muovevano dalle loro sedi abituali soltanto per motivi di eccezionale rilevanza. 
Questo rendeva il tutto molto inquietante:
<<E dovrei considerarla una buona notizia?>>
<<Questo è ancora da vedere. Ma uno dei Consiglieri ha portato con sé una persona che desidera incontrarti. Una giovane donna che tu conosci e che ha vissuto qui molti momenti felici e spera di vederli rinnovati>>
Luca inarcò le sopracciglia:
<<Intendi dire che Jenna è qui?>>
Monterovere sorrise compiaciuto:
<<E' arrivata proprio ieri. Tra poco avrai modo d'incontrarla>>
Il cuore di Luca incominciò a battere all'impazzata:
<<Non posso crederci! Dov'è stata in tutto questo tempo?>>
Il Professore gli fece cenno di abbassare la voce e di avvicinarsi:
<<Si tratta di una questione molto delicata. La situazione è più complessa di quel che potevamo immaginare. Ci sono elementi che io stesso fatico a comprendere. Vedi, fintanto che si parla di certe cose in termini di letteratura o di fantasia, allora può essere persino divertente, ma quando questo "qualcosa" mette piede nella nostra realtà, allora non sembra più così piacevole>>
Luca sospirò:
<<Sempre meglio dell'insignificanza di una vita trascorsa nell'attesa di qualcosa che non arriva mai>>
Gli occhi del Professore si illuminarono:
<<Mi è mancato molto il tuo pessimismo integrale. C'è troppa gente soddisfatta nella Confraternita, e questo è pericoloso>>
Luca inarcò le sopracciglia:
<<Ma sono realmente soddisfatti? Oppure è il solito orgoglio che rende tanta gente così intenta a fingere di sembrare felice?>>
<<Vedo che hai conservato intatta anche la vis polemica>>
<<Sì, ma spero che questi ultimi mesi di meditazione abbiano migliorato il mio autocontrollo>>
Nel dire questo, un pensiero, che era a metà strada tra il ricordo e il sogno, si insinuò nella sua mente.
 Gli Iniziati mi chiederanno qual è il Sentiero Dorato. Ora io conosco la risposta: non è una strada ben precisa, ma uno stato d'animo. 
<<Se c'è l'equilibrio interiore, ogni sentiero è il Sentiero Dorato>>
<<Molto giusto, mio giovane apprendista. Ma qualcosa mi dice che tu, questo equilibrio, non sei ancora riuscito a trovarlo>>
<<Ho riflettuto anche su questo>>
Monterovere si rese conto che non sarebbe stato facile riconquistare la fiducia del suo ex pupillo:
<<Be', spero che le tue riflessioni non siano state eccessivamente profonde. Chi va troppo in profondità rischia di annegare>>
Luca, che conosceva bene quel rischio, così come si rendeva conto del rischio di essere lì, quella sera, in quel luogo dal passato oscuro e dal presente ambiguo.
Davvero Jenna era lì? Dov'era stata per tutti quegli anni? Perché non gli aveva fatto sapere più nulla?
Provò un senso di vertigine.
E sento ch'è reale solo la tua assenza, e come queste scale tutto scende, precipita, si schianta...

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 Poi sollevò le spalle, fingendo indifferenza, con gesto di leggerezza fin troppo disinvolta:
<<Io so quando fermarmi. Forse è l'unica cosa che so
Vedi, ci sono momenti di estremo pericolo in cui è necessario che ognuno rinunci a qualcosa, per il benessere generale. Ognuno di noi si ritiene un irriducibile seguace di qualche verità o quantomeno di una cosa giusta, ma ci sono certe verità, certe cose giuste che potrebbero provocare la "fine del mondo" e noi non abbiamo il diritto di provocare "la fine del mondo" in nome di una cosa che riteniamo giusta. Ecco: quello è il momento di fermarsi, il momento di rinunciare.
Io sentivo il dovere di farmi da parte, di lasciare la Confraternita e rinunciare all'Iniziazione>>
Monterovere capì cosa significavano realmente quelle parole:
<<E adesso hai cambiato idea?>>
Luca lo fissò:
<<Non del tutto. Molto dipende da chi e cosa vedrò e sentirò stasera>>
Il Professore non si diede per vinto:
<<Naturalmente, ma ti avverto subito: le circostanze sono cambiate. Non stiamo facendo più dell'accademia. Ci siamo resi conto anche noi di cosa sta succedendo laggiù, fuori dalla Torre eburnea>>
Luca sospirò:
<<Quando ero a io dirlo, però, non ci credevi, non mi credeva nemmeno Jenna>>
Monterovere sorrise:
<<Ti sbagli. Jenna non ha dubitato di te neanche per un secondo>>
Allora era vero... 
<<Com'è possibile? Perché per tutti questi anni mi ha fatto credere di non...>>
Il Professore gli fece nuovamente cenno di abbassare la voce e di avvicinarsi:
<<La notte è giovane. Avremo modo di chiarire più tardi>> disse, poi annuì tra sé, compiaciuto, come per una tardiva comprensione <<Ci sono molte novità. Conoscerai molte persone importanti. Prima però vorrei attendere l'arrivo di Riccardo. Voglio essere presente al vostro incontro. Poi, mentre io lo istruirò su alcune questioni essenziali, tu avrai modo di rivedere Jenna Burke-Roche. So che questa è la vera ragione per cui sei qui: non avresti potuto resistere al richiamo di un antico amore>>
Luca scosse il capo:
<<Un amore a senso unico. Non c'è niente di più triste! Non è questo tipo di amore a salvarci. E chi non ci ricambia non merita la nostra attenzione. La migliore risposta sarebbe l'indifferenza, e il totale oblio. Ma questo è un dono degli Dei, non dei comuni mortali.
Tu sai che io soffro di profonde emicranie. Jenna è come una seconda emicrania, ancora più lancinante, che non mi dà tregua. 
Non riesco a togliermela dalla testa.
E non riesco a perdonarle di avermi sottratto la libertà di non amare>>
Il vecchio professore probabilmente si aspettava un'altra disposizione d'animo:
<<Dopo tutto questo tempo?>>
La domanda gli riecheggiò nella mente, rievocando una risposta tanto lacerante quanto vera:
<<Sempre>>
Il suo sguardo cercò una finestra che dava sulla collina, verso la selva di Querciagrossa.
Lì si erano detti addio vicino al luogo chiamato l'Orma del Diavolo. 
C'era un torrentello, che proveniva dal bosco di querce.
Quello era stato il confine che li aveva divisi. 
Ora anche quel piccolo corso d'acqua pareva essersi prosciugato.
Jenna era andata avanti. Una distanza li aveva separati, un confine mai varcato.
Al ricordo si aggiunse una riflessione triste e dolce nel contempo, su quel poco che c'era stato tra loro (e avrebbe potuto non esserci) e su tutto quello avrebbe potuto esserci, e non c'era stato.
Il ricordo di tutto questo lo costrinse a soffocare dentro di sé un'esplosione di tristezza e un senso di vuoto mai colmato. 
Doveva trovare il modo dirlo a Jenna.
Questo è l'amore che non abbiamo mai avuto. 
E questo è il mio ultimo ricordo di te... un ricordo che nasce da un confine, e non lo supera.

martedì 24 aprile 2018

L'Albero della Conoscenza del Bene e del Male

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Nelle tradizioni di discendenza biblica, l'albero della conoscenza del bene e del male (in ebraicoעץ הדעת טוב ורע?etz ha-daʿat tov va-raʿ), o semplicemente l'albero della conoscenza, è l'albero dell'Eden, menzionato nella Genesi insieme all'albero della vita, da cui scaturì il peccato originale a seguito dell'infrazione del divieto, posto da Dio, ad Adamo ed Eva di mangiarne i frutti.

Alcune correnti religiose vedono in questo albero una vera e propria pianta legnosa; altri invece vedono in questo stesso albero un simbolo la cui interpretazione dipende dal significato che viene attribuito al concetto di peccato originale.



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Riferimenti biblici e coranici

    « Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male. »   (Genesi 2,9)
      « E Dio impose all'uomo anche questo comando: «Di ogni albero del giardino puoi mangiare a sazietà. Ma in quanto all'albero della conoscenza del bene e del male non ne devi mangiare, poiché nel giorno in cui ne mangerai certamente dovrai morire». »   (Genesi 2,16)
      Secondo il libro della Genesi, l'albero della conoscenza del bene e del male era posto nel centro del giardino di Eden. Il divieto di consumo riguardava solo l'albero della conoscenza del bene e del male. Probabilmente, prima del peccato (consumatosi col mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male) Adamo mangiava di tutti i frutti compreso quello dell'albero della vita, come se fosse un antidoto o semplicemente per celebrare la vita o il diritto di vivere. La disubbidienza avvenne così:
      « Disse il serpente alla donna: «È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male». Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture. »   (Genesi 3,1-7)
      Adamo ed Eva mangiarono del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male e andarono incontro alla punizione: la morte. Per riacquistare il diritto di vivere potevano mangiare del frutto dell'albero della vita;
      « ma Dio disse: «Guardiamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell'albero della vita, ne mangi e viva per sempre». »   (Genesi 3,22)
      Dio fece l'uomo a sua immagine e somiglianza. E avendo colto del frutto dell'albero proibito l'uomo avrebbe potuto contendere con Dio stesso (secondo l'interpretazione del Serpente), ma viene prontamente cacciato, affinché non sia esonerato dalla punizione della morte: mangiare dell'albero della vita.
      È certo che la storia dell'albero della conoscenza del bene e del male si trovi descritta anche nel Corano, libro sacro dell'Islam, in cui compaiono Adamo ed Eva, in una sura in cui Maometto dice chiaramente di stare lontani da quell'albero:
      «E dicemmo: «O Adamo, abita il Paradiso, tu e la tua sposa. Saziatevene ovunque a vostro piacere, ma non avvicinatevi a quest'albero ché in tal caso sareste tra gli empi».»[2:35 (Hamza Roberto Piccardo)]

      Esegesi ebraica

      « Per quale ragione la Scrittura non indica chiaramente il nome dell'albero? Perché Qadosh BarukhHu non desidera umiliare nessuna delle Sue creature; altrimenti gli uomini coprirebbero di vergogna quest'albero, dicendo: "Questo è l'albero a causa del quale il mondo è stato colpito!" Ciò è affermato nel Midrash Tanhuma »
      (Genesi Rabbah XIX 7)
      Ricorda Rashi: secondo l'esegesi ebraica del Talmud e dei Midrashim vi sono differenti opinioni: secondo rabbi Meir è l'uva, secondo rabbi Nechemia è il fico, secondo rabbi Yehudah è il grano mentre altri commentatori affermano sia il cedro[1].

      Entità e particolarità del peccato

      maestri della tradizione ebraica insegnano come la trasgressione di Adamo ed Eva consiste nel tentativo e nella volontà di trarre la conoscenza, elemento spirituale, dal frutto, elemento materiale. Inoltre il primo peccato commesso da Adamo ed Eva fu l'origine e la radice di tutti i peccati esistenti.
      Un midrash insegna che originariamente l'albero della conoscenza del bene e del male era legato a quello della vita, posti entrambi nel Giardino dell'Eden: con il peccato Adamo ne ruppe il legame. Un altro insegnamento afferma che Adamo, fino a quel momento sapiente di una saggezza celeste, volle vedere cosa si trovava nell'altro lato intendendo con ciò il mondo dell'impurità: la conoscenza carpita così da Adamo ed Eva non era infatti la conoscenza della Torah ma una conoscenza connaturata al peccato.
      Eva diede da bere il succo del succitato frutto anche agli animali infatti da quel momento in poi valse la morte anche per loro.
      L'ebraismo, in considerazione dell'origine divina della sapienza, della conoscenza e dell'intelligenza, non manca nel valutare Giobbe esempio di rettitudine ed integrità: egli rivolge al Signore la domanda Dove si trova la sapienza? (28,12)

      «Un frutto bello a vedersi...»

      Nachmanide spiega che, mangiando del frutto proibito, Adamo e la donna «avrebbe voluto e desiderato una cosa o il suo contrario»[2].
      "Delizia" riguarda gli "occhi", il "desiderio" invece l'intelligenza.
      I testi ebraici della Torah spiegano che l'albero della conoscenza del bene e del male possedeva anche il tronco saporito e dello stesso gusto del frutto; anche il rabbino Arizal ricorda infatti che in principio Dio avrebbe concesso all'umanità che ogni albero possedesse questa qualità fino al rifiuto della Terra che ciò non volle per i malvagi che poi sarebbero esistiti in seguito. Così l'unico albero a mantenere questa peculiarità particolare fu quello dal frutto negato da Dio ad Adamo ed Eva.
      Dio proibì al padre ed alla madre dell'umanità di mangiare il frutto, ma Adamo aggiunse una proibizione dicendo ad Eva di non toccarlo; il serpente approfittò dell'indecisione di Eva spingendola contro l'albero che quindi toccò cosicché, quando lei non ne vide le conseguenze prospettate, decise di mangiarne il frutto. I commenti esegetici ebraici insegnano che il serpente credette che, una volta che anche Adamo avesse trasgredito l'ordine divino mangiando il frutto e poi fosse morto, avrebbe potuto sposare Eva.
      La Torah insegna che il serpente venne punito anche con la lebbra per aver commesso maldicenza verso Dio: in questo animale ne è segno il cambio della pelle.

      Conoscenza del bene e del male e gli angeli corrispondenti

      A proposito dell'albero della conoscenza del bene e del male il libro cabalistico dello Zohar afferma che l'angelo Metatron rappresenta il bene mentre l'angelo Samael il male, quest'ultimo angelo spesso associato al significato del serpente.

      Interpretazioni tradizionali ebraiche circa la natura del frutto

      Secondo un Midrash, riguardo al libro del Pentateuco Genesi, non venne rivelato il luogo da cui sorse il frutto da Dio proibito, per non dolersene.

      Fico

      La velocità della scena in Genesi 3,6-7 fa supporre che la coppia, sorpresa dall'immediato senso di vergogna per le proprie nudità, prese la prima cosa a portata di mano per coprirsi, le foglie - in realtà delle cinture (Midrash Bereshit Rabbah) - dell'albero della conoscenza del bene e del male. Il libro della Genesi 3,7 dice che le foglie utilizzate erano foglie di fico, in ebraico תאנה (təe'na).

      Uva

      A proposito del Tiqqun, la tradizione mistica ebraica insegna che, se Adamo ed Eva avessero atteso tre ore ed avessero utilizzato il frutto suddetto per compiere la santificazione del giorno santo dello Shabbat con la cerimonia del Kiddush, non vi sarebbe stata alcuna punizione perché in questo caso inseriti nell'ambito del divino e della santità non sottoposti al male del peccato: secondo un'opinione il frutto è infatti l'uva da cui si ricava il vino con cui gli Ebrei celebrano appunto il Kiddush nel venerdì sera, sera con cui inizia il giorno dello Shabbat, e durante il primo pranzo del giorno del sabato.
      L'imposizione di tale divieto valeva infatti solo fino ad un certo momento con la concessione che poi l'uva venisse appunto utilizzata per il Kiddush.
      Anche l'Arizal afferma che, quando Eva offrì il succo d'uva dell'albero della conoscenza del bene e del male ad Adamo ed egli ne ingerì la parte con la feccia, attraverso quest'atto nel peccato i due compromisero maggiormente la propria integrità nella disobbedienza a Dio. La tradizione ebraica spiega che Adamo ed Eva non avrebbero ricevuto alcuna punizione se avessero atteso tre ore ed avessero utilizzato il frutto per santificare il giorno, primo Sabato della Creazione.
      Secondo il Talmud Noè avrebbe dovuto rettificare il succo d'uva bevuto anche da Adamo: egli però, anziché renderlo santo, commise lo stesso errore ubriacandosi; secondo alcuni la vite venne sradicata dal Gan Eden come Adamo ed Eva, secondo un'altra opinione essa si trovava in Terra di Israele ma Noè la portò fuori da essa piantandola e godendone il succo del frutto nato il giorno stesso.

      Grano

      Il Sefer haZohar esprime anche l'opinione di Shemaya il santo secondo il quale il grano - anche ...lechem min haAretz...לחם, in ebraico: "...frutto dalla T/terra"[3] - fu la pianta perfetta per la quale Adamo cadde in peccato.

      Cedro

      Come sopra citato, nel Talmud di Babilonia è presente un'opinione secondo cui fu proprio il cedro.
      Vi è anche una storia che racconta come, per la festa di Sukkot, un discepolo espresse dubbi sulla conformità di un Etrog, il frutto del cedro necessario alla preparazione con il Lulav; con clemenza il Maestro lo confortò dicendo paradossalmente: "vedi come sono belli i segni dei denti di Eva?".

      Un'opinione ulteriore: la mela

      Nella cultura dell'Europa occidentale, soprattutto a partire dal Medioevo, l'albero della conoscenza del bene e del male viene considerato un melo. Tuttavia questa identificazione nasce probabilmente da una lettura allegorica del testo biblico: in latino la stessa parola, malum, può riferirsi sia al frutto del melo, sia al "male", e per questo motivo i commentatori avrebbero favorito l'identificazione, passata poi anche nelle arti figurative, tra il simbolico frutto dell'albero e la mela.[4]
      In realtà la mela, in alcune culture anteriori al cristianesimo, era l'attributo di Venere, la dea dell'amore (nella sua accezione erotica). È possibile che l'iconografia di due giovani che si scambiano una mela (in cui, inizialmente, era abbastanza indifferente chi si pensava stesse dando e chi ricevendo il frutto) sia poi passata in ambito cristiano, dando origine alla identificazione tra il frutto proibito e la mela stessa.[5]
      Nella tradizione ebraica, invece, non si riscontra l'identificazione del frutto dell'albero con la mela. A proposito del valore simbolico dei colori rosso, bianco e verde (collegati alle sefirot di GhevurahChessed e Tiferet), si discute di un "campo delle mele sante", appunto con riferimento ai tre colori citati ed alla benedizione per la rugiada, presente anche nella preghiera ebraica dell'Amidah.

      Note

      1. ^ Talmùd. Il Trattato delle Benedizioni, Torino, Utet, 2013 ISBN 978-88-02-08122-9 (pag. 293-294 40a)
      2. ^ Naḥmanide esegeta e cabbalista. Studi e testi (a cura di Idel e Perani), La Giuntina, Firenze, 1998
      3. ^ Berakhot
      4. ^ Cecilia Gatto TrocchiEnciclopedia illustrata dei simboli, Roma, Gremese, 2004, p. 235, ISBN 88-8440-325-1.
      5. ^ Robert Graves. La Dea bianca. Milano, Adelphi.

      Bibliografia

      Voci correlate