Secondo altre fonti i due personaggi ritratti sarebbero invece Giovanna di Castiglia, all'epoca Principessa delle Asturie e di Girona, ossia erede al trono di Spagna e Filippo il Bello, Duca di Borgogna e figlio di Massimiliano e Maria.
Per quanto entrambi i matrimoni fossero sorti da esigenze politiche e dinastiche, tanto da creare, in sole tre generazioni, uno degli imperi più grandi della storia. furono anche matrimoni d'amore e di passione, su cui le generazioni successive hanno favoleggiato per secoli.
Gli ingredienti, del resto, c'erano tutti:
Amore e gloria, nello stesso tempo, ma anche tragedia, come richiede la letteratura,
E' un concetto che merita attenzione: le storie d'amore felici non interessano a nessuno, i lettori vogliono che gli amanti soffrano, e paghino di persona la loro felicità.
La storia può finir bene o finir male: l'importante è che ci sia una buona dose di sofferenza, perché la felicità altrui, come del resto la fortuna altrui è noiosa e spesso suscita un sentimento di invidia che mette a disagio il lettore.
E allora eccogli servita l'azione complicante, o la tragedia finale, se proprio i personaggi hanno avuto in precedenza troppa fortuna.
Un perfetto esempio di tutto ciò è la tragedia con cui sia i primi che gli ultimi Asburgo scontarono l'amore e la gloria dei loro fortunati matrimoni.
Maria di Borgogna morì giovane per una caduta da cavallo, suo figlio Filippo morì altrettanto giovane in circostanze mai del tutto chiarite e Giovanna, per il resto della sua lunga esistenza, visse reclusa nella fortezza di Tordesillas, con la fama, mai dimostrata, di essere impazzita di dolore dopo la morte del bellissimo marito.
Questo incipit ci serve come introduzione di una delle tante stranezze partorite dalla mente disturbata di Roberto Monterovere.
Per quanto, nonostante la sua vanità e il suo desiderio d'amore e gloria, Roberto fosse ben consapevole del fatto che il clan Ricci-Orsini-Monterovere non era la Casa d'Austria e Borgogna, e il clan Visconti-Ordelaffi non era la Casa di Castiglia e Aragona, nella sua sfrenata immaginazione era sorto un ridicolo parallelismo tra la propria vicenda di amore e gloria e quella dei citati principi del Sangue Reale, con i loro matrimoni dinastici che furono anche matrimoni d'amore.
A queste riflessioni dedicheremo un certo spazio, prima di tornare, verso la fine del capitolo, alla narrazione vera e propria. Ma noi crediamo che questi pensieri servano per meglio capire il resto.
Qui sotto potete, intanto, ammirare lo stemma di Massimiliano I quando divenne Imperatore: l'aquila nera bicipite del Sacro Romano Impero e il blasone della Casa d'Austria e Borgogna.
Ora dovete sapere che il nostro Roberto Monterovere, nella sua follia d'amore e di ambizione, aveva incominciato a sentirsi come un epigono di Massimiliano o di Filippo, e tutta la sua cultura araldica e la sua ossessione per gli stemmi, gli alberi genealogici, e i ritratti dei principi e delle principesse delle case reali, lo avevano indotto, con un atto di hybris che oscillava tra la tracotanza e l'assurdità, a scegliere Filippo come modello di riferimento per tutto, tranne che per la morte precoce.
Può essere che, trent'anni fa, data l'età adolescente, avessero forse qualche tratto comune.
A diciassette anni, Roberto Monterovere, oltre alla folta e lunga capigliatura, (che avrebbe conservato nel tempo, salvo alcuni intervalli dovuti alle fidanzate di turno), aveva la pelle chiarissima e glabra, i connotati dolci ancora infantili, tra cui le labbra piene e le cartilagini del naso ancora non troppo pronunciate, e soprattutto una costante espressione un po' blasé, che con una certa generosità e una buona dosa di piaggeria, i sudditi di Filippo I giudicarono sufficienti per chiamarlo "il Bello", "le Beau" o "el Hermoso". Adesso diremmo "the Handsome".
Filippo, Duca di Borgogna, delle Fiandre, del Brabante e del Lussemburgo, fin dalla nascita, fu allevato dalla nonna Margherita di York, sorella di Edoardo IV e di Riccardo III, scampata alla disfatta yorkista nella Guerra delle Due Rose, sposando Carlo il Temerario.
Il bel Filippo era francofono, e pur essendo un Asburgo, e quindi appartenente anche alla Casa d'Austria, si sentiva più che altro erede della Casa di Borgogna, e non ricoprì mai, come erroneamente alcune fonti sostengono, il titolo di Arciduca d'Austria, che rimase a suo padre Massimiliano anche dopo la sua ascesa al trono imperiale e fu poi ereditato dal secondogenito di Filippo e Giovanna, ossia Ferdinando I, il capostipite del Ramo Austriaco della dinastia.
Ciononostante esistono ritratti di lui, bambino, circondato dagli stemmi delle varie regioni austriache.
Il suo stemma personale come Duca di Borgogna, però, poneva al centro il Leone Nero delle Fiandre, su campo dorato, perché era lì, nel ricco porto di Bruges, il baricentro dei suoi possedimenti, più prestigioso persino del Leone d'Oro su campo nero, stemma del Brabante.
Bruxelles era un vescovato autonomo, e il Vescovo, primo consigliere del Duca era de facto il governatore di tutto il Ducato.
Tornando al discorso di Roberto e ai suoi deliri di parallelismo, c'era anche il fatto che Filippo era nato negli Anni Settanta, sì, ma del Quattrocento!
Ma questo era un dettaglio trascurabile, di fronte alle altre "sconvolgenti" coincidenze.
La sua amata Giovanna era quasi sua coetanea (più giovane di un solo anno) e si sposarono giovanissimi, a diciott'anni, (che però era la norma, all'epoca).
Come è noto una serie di lutti, ultimo dei quali la precoce morte della regina Isabella, portò, nel giro di un tempo molto breve, Giovanna, sul trono di Castiglia come Regina regnante suo iure.
Qualcuno aveva messo in giro la voce che Filippo e Giovanna volessero depotenziare la Santa Inquisizione. Due anni dopo Giovanna elevò Filippo al rango di Re regnante.
Regnarono insieme solo due anni, dal 1504 al 1506, dopodiché la morte improvvisa di Filippo, a soli 28 anni, le causò una profondissima depressione, che all'epoca era considerata una forma di pazzia.
Le fazioni si divisero, i Castigliani volevano Giovanna, ma Cisneros e gli Aragonesi, citando il testamento di Isabella, richiedevano la reggenza del padre Ferdinando nel caso la Regina non godesse di buona salute. Furono messe in giro leggende nere e macabre, specie riguardo a certi dettagli del corteo funebre, che era diretto a Cordova, perché lì era stata sepolta anche la regina Isabella.
La differenza, però, fu che quando il feretro di Isabella fu trasportato da Medina del Campo a Cordova, nessuno aveva protestato per la lunghezza del tragitto, non c'era stato bisogno (essendo novembre) di camminare di notte per conservare l'integrità della salma, né che ad ogni tappa, la suddetta salma dovesse essere tenuta al fresco. Ma quando Giovanna fu costretta a viaggiare di notte, essendo solo settembre e ancora molto caldo, Cisneros e i suoi sostenitori, tra cui Germaine de Foix, seconda moglie di Ferdinando, ebbero buon gioco a dire che la Regina era impazzita.
Diana Orsini era ossessionata da questa storia e dal personaggio di "Giovanna la Pazza", Juana la Loca, forse perché, soffrendo di depressione, temeva di fare la sua stessa fine, ma grazie il Cielo i tempi erano cambiati.
Aveva raccontato mille volte quella storia a suo nipote Roberto, il quale ne conosceva infiniti dettagli e particolari e aveva cercato di separare le leggende nere dalla più verosimile ricostruzione storica moderna.
E qui veniva la fase in cui, secondo Roberto, i "parallelismi" tra lui e Filippo il Bello, dovevano assolutamente finire.
Per dirla con Virgilio, e con i versi che commossero Augusto, Ottavia e Giulia alla morte di Marcello, l'erede designato, heu miserande puer, si qua fata aspera rumpas, tu Marcellus eris (Aen. VI, 884).
Roberto, che come sappiamo amava l'araldica, era affascinato dagli stemmi reali di Filippo e Giovanna, il primo col Collare dell'Ordine del Toson d'Oro, massima onoreficenza della Casa d'Austria e Borgogna, il secondo molto simile a quello impostato dalla regina Isabella, ma riportante anche gli stemmi asburgici "inquartati" insieme a quelli spagnoli.
Se la morte precoce non avesse posto fine al regno di Filippo I, forse sarebbe diventato lui l'Imperatore sul cui regno non non tramontava il sole, al posto di suo figlio Carlo V, nel cui stemma, possiamo ammirare, oltre alla corona d'Austria e all'aquila imperiale bicipite, anche una metà della Croce di Borgogna, che unisce la corona e la stola alle teste dell'aquila, e le Colonne d'Ercole, che ormai non significavano più la fine del mondo, ma il suo contrario: Plus ultra.
Carlo V si illudeva che tutti si sarebbero dimenticati del "piccolo dettaglio" secondo cui sua madre, la legittima Regina Regnante suo iure, era viva e vegeta, e sempre meno persone credevano che il suo confino fosse volontario.
Crediamo che sia destino, specie per coloro che si chiamano Carlo, che l'ombra delle madri regine, nel bene e nel male, incomba sulla gloria dei loro figli, quasi per oscurarne il fulgore.
Tutti, in Castiglia, si chiedevano: <<Ma la regina Giovanna è davvero pazza, oppure vorrebbe semplicemente governare in maniera diversa da suo figlio?>>
Il povero Cisneros, dopo aver brigato per una vita intera a rafforzare la posizione di Carlo, morì misteriosamente e opportunamente, quando quest'ultimo, nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, lasciò le Fiandre per le Spagne, che ai suoi occhi servivano ad un solo scopo: procurarsi denaro per conquistare la Francia e l'Italia e restaurare l'Impero d'Occidente, più la Germania.
I Castigliani lo sapevano benissimo e incominciarono a chiedersi quali fossero le reali condizioni di salute della Regina.
Ci sono molte testimonianze di spicco, tra cui quella di San Francisco Borgia, illustre gesuita, e persino di papa Adriano VI, i quali scrissero ripetute missive a Carlo V, lamentando il fatto che non ci fosse motivo per confinare la Regina a Tordesillas, dove il corteo funebre era stato fermato dieci anni prima da Cisneros.
Gli ecclesiastici che regolarmente facevano visita alla Regina, riportavano ai superiori più o meno lo stesso resoconto, ossia che Sua Maestà appariva prostrata, di umore altalenante, ma, come diremmo oggi, pienamente in grado di intendere e di volere.
Ormai tutti avevano capito che il vero problema, tra madre e figlio, era la totale discordanza soprattutto su un punto: Giovanna, dimostrando con ciò di avere molto più senno di quanto le si attribuisse, voleva che l'argento delle Americhe rimanesse in Castiglia e non andasse a finanziare le guerre contro la Francia o in Italia.
Le rare volte in cui il figlio o il nipote, futuro Filippo II, le fecero visita, sostenne che il destino della Castiglia fosse quello di unificare la penisola iberica, compreso il Portogallo, ma tramite una pacifica politica matrimoniale, mentre non condivideva l'utopia di Carlo, e cioè il suo sogno di creare una sorta di Impero universale cristiano.
Anche su questo ebbe ragione lei e poté constatarlo molti anni dopo, quando lo stesso Carlo incominciò a dubitare del proprio sogno e a pensare che il suo impero andasse diviso tra suo figlio e suo fratello.
Per tutta la sua vita, Carlo V condivise formalmente il potere con la Regina sua madre, la cui longevità fu quasi una punizione divina nei confronti del figlio "usurpatore", e la conclusione di questa vicenda familiare è degna di una tragedia greca o di un dramma shakespeariano.
Juana la Loca, dopo mezzo secolo di confinamento a Tordesillas, si spense, a 76 anni, nel 1555 e suo figlio l'Imperatore, dopo averle dedicato un requiem solenne e riesumato il corpo di Filippo ancora miracolosamente integro, percorse il corteo funebre con le stesse modalità che alla madre erano costate l'accusa di pazzia, e seppellì entrambi i genitori a Granada, nella stessa cripta dove riposavano i Re Cattolici. E poi, nello stupore generale, abdicò l'anno successivo, 1556. afflitto dagli insuccessi militari, dalla gotta e da un tumore alla prostata, per poi morire poco dopo, tra atroci sofferenze, presso il monastero di Yuste, nell'assolata e quasi desertica Estremadura.
Fu vera gloria? Ai lettori lasciamo manzonianamente l'ardua sentenza, pur riconoscendo a Carlo e a suo fratello Ferdinando, il merito indiscutibile di aver frenato il dilagare dei Turchi in Europa.
Roberto Monterovere, che amava gli aneddoti e le singolari coincidenze, in seguito avrebbe più volte pensato all'ironia della Storia. A una Regina rovinata dal figlio Carlo, era seguito, in tutt'altra terra e in tutt'altra epoca, un Carlo "rovinato" da una madre Regina, eterna e propensa a riversare il suo affetto su cani e cavalli piuttosto che sui propri discendenti.
Ma in fondo, nonostante tutta questa capillare conoscenza della Storia, materia in cui ottenne anche una laurea, Roberto non apprese mai, se non quando tutto era perduto, compreso l'onore, la lezione più importante, ossia che, per quanto gli uomini possano sforzarsi nel perseguire un obiettivo, alla fine l'esito degli eventi dipende da una combinazione imprevedibile di fattori che, a seconda della propria visione del mondo, possono essere attribuiti, al Caso, al Destino o alla Volontà divina.
A dire il vero, Roberto non aveva appreso a sufficienza neanche il fatto che, molto frequentemente, quando un personaggio o una famiglia, raggiungono le mete più ambite e il più grande successo, incomincino a rovinarsi con le proprie stesse mani.
"Quando gli dei vogliono punirci" scriveva Karen Blixen, ispirandosi a un aforisma di Oscar Wilde, "avverano i nostri desideri". La versione di Wilde era pressoché identica, ma paradossalmente più puritana: "esaudiscono le nostre preghiere".
Il concetto è lo stesso, per quanto la Blixen, appartenente a una generazione successiva e consapevole dell'aspetto inconscio del desiderio, sia più vicina alla teoria freudiana.
Perché questo paradosso risulta convincente?
Forse perché ci costringe a riflettere su cosa desideriamo davvero, quanto convintamente lo desideriamo e soprattutto se ciò che desideriamo è lecito e morale.
Ma l'elemento principale di questo paradosso riguarda le conseguenze: siamo sicuri che l'avverarsi di un certo desiderio sia automaticamente foriero di benessere?
La verità è che non lo sappiamo e non possiamo saperlo se non ex post.
Molto spesso si rimane delusi, ma è questo è il minore dei mali.
La cosa più pericolosa è che, a causa di fattori imprevedibili, il successo può portare a conseguenze che nemmeno i più saggi e lungimiranti possono mettere in conto.
Anche su questo argomento ci affidiamo alla saggezza del nostro Tolkien, che fa dire a Gandalf le seguenti, fondamentali, parole:
"Molti tra i vivi meritano la morte. E molti che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze".
Vorremmo concludere questo excursus con un esempio estremo, paradossale, al solo fine di rendere ancora più chiaro il concetto del ruolo del Caso, del Destino o della Volontà divina nella Storia.
Più di un secolo fa un bambino austriaco si ammalò gravemente di febbre e sua madre pregò Dio di farlo guarire.
Quel bambino si chiamava Adolf Hitler. La preghiera della madre fu esaudita, il bambino sopravvisse e le conseguenze furono 25 milioni di morti, nella seconda guerra mondiale, di cui 6 in campi di sterminio, per non parlare delle persecuzioni e di tutto il dolore non solo delle vittime, ma anche dei loro parenti e amici sopravvissuti.
Non occorre aggiungere altro, per capire che mai e poi mai potremmo essere in grado di conoscere le conseguenze persino del più innocente, puro e naturale dei desideri.
Tutta questa lunghissima premessa, di cui ci scusiamo con i lettori, lodandoli per la loro pazienza e tolleranza nei nostri riguardi, se sono arrivati a leggere fin qui, per dire che la rovina del clan Ricci-Orsini-Monterovere, così come del clan Visconti-Ordelaffi, ebbe come causa originaria proprio il fatto che i desideri più ambiziosi dei suoi membri di spicco e dei suoi promettenti rampolli furono esauditi, portando il loro benessere, la loro ricchezza, il loro potere al massimo livello di onore e gloria.
Fu proprio nello stesso momento in cui questo vertice venne raggiunto, che incominciò quella concatenazione di eventi che finì per travolgere tutto e tutti in tempi relativamente brevi.
Ma come sempre, procederemo per gradi, nella narrazione, soffermandoci in particolare su aspetti apparentemente secondari, destinati invece a provocare serie e sproporzionate conseguenze.
Per prime si fecero avanti le madri, con grandi salamelecchi e roboanti dichiarazioni di reciproco affetto e meraviglia per "quanto sei bella questa sera".
Poi fu il turno dei figli: Roberto si fece avanti verso Aurora, abbagliato più che mai dalla sua bellezza e dalla sua eleganza. Quella sera aveva scelto un look degno delle grandi occasioni: indossava un rutilante abito di paillettes dorate, corto e aderente, ma a maniche lunghe e senza scollatura, e una sottogonna in tulle che accentuava la sensualità delle gambe slanciate e sinuose come quelle di una fata o di una silfide. I capelli erano pettinati con piega ondulata da una parte, che ricadeva come seta sul viso, sul collo, sulle spalle e sull'abito. Dall'altra parte invece erano tenuti dietro l'orecchio.
Le sopracciglia erano completamente ossigenate, ma l'ombretto scuro conferiva carattere al volto, che pur mantenendo i suoi tratti angelici, appariva lievemente più aggressivo, come quello di una "divinità offesa".
Ma era chiaro che ormai ogni sua scelta estetica era come un gioco di ruolo: quella sera voleva essere ancor più possessiva del solito, e infatti appena lui le si avvicinò, lei lo abbracciò con decisione e lo strinse a sé con vigore e poi, dopo un bacio altrettanto deciso, gli disse all'orecchio: <<Sono affamata. Che ne dici se ti mangio un orecchio?>> e poi gli mordicchiò il lobo, per fortuna con moderazione.
Infine lo squadrò ben bene e dichiarò:
<<Ma fatti guardare! Hai seguito le mie istruzioni alla lettera! Look Anni Settanta, estivo da mare, e quindi necessariamente un po' tamarro, ma l'abbinamento giacca bianca, camicia blu e pantaloni gialli wide-leg è quello che va di più, quest'anno, a Milano Marittima. E ti fa sembrare ancora di più un Rampollo Viziato, che è poi la verità ed uno degli elementi di te che mi fanno impazzire.
Ma il capolavoro sono i capelli! La tinta e la permanente sono venute perfette.
I riccioli dolci da Arcangelo e i colpi di sole su base biondo scuro ti stanno da Dio.
Sembri Dorian Gray in vacanza al mare!.
Chissà tua madre cos'avrà pensato! Per non parlare dei vicini e di tutta la "corte".
Ma adesso sei perfetto per quando andremo a Londra.
Oddio, non vedo l'ora di essere là e di averti tutto per me, perché tu sei mio. Tutto mio. Soltanto mio>>.
Giusto per essere chiari!
Lui (che non era affatto entusiasta del proprio abbigliamento, ma era compiaciuto dal colore della capigliatura, che ci dicono abbia anche adesso, ma chi può confermalo, dal momento che lui non riceve quasi nessuno nel Sancta Sanctorum di Palazzo Monterovere) la condusse all'interno delle "seconda mura", lungo il vialetto che percorreva l'intera proprietà.
Lei osservava, affascinata, le varie tappe del giardino inglese e poi, quando giunsero in cima alla scaletta, si fermarono sotto il padiglione in pietra, che finalmente assunse una sua utilità.
Si poteva quasi dire che Ettore l'avesse edificato in previsione di quel giorno, quando il suo erede e la fidanzata si sarebbero seduti sulla panca circolare, all'ombra, mentre il sole tramontava, per scambiarsi parole d'amore.
<<E tu? Sei soltanto mia?>> le chiese Roberto, e in quella domanda c'erano tutti i dubbi e le preoccupazioni e l'insicurezza che si portava dietro da una vita.
Aurora gli mise una mano tra i capelli alla Dorian Gray e li scompigliò, come si farebbe con un bambino piccolo.
<<Ma allora non mi stai a sentire? Io ho pensato solo a te per sei anni, e tu non mi degnavi di uno sguardo! Sei anni della mia vita! E per te ero come trasparente! Ma ti rendi conto che sofferenza? Sarei io a dovermi sentire insicura, non credi?>>
No, in effetti lui non ci credeva, ma era meglio non dirlo, almeno per il momento.
<<Aurora mi dispiace di averti fatto attendere tanto. Io avevo la testa di un bambino, fino a pochi mesi fa. Poi tu mi hai "risvegliato" e sono diventato un adolescente.
Ma adesso che mi hai conquistato, i rapporti di forza sono cambiati.
Tu hai ottenuto il tuo trofeo!
Il mio scalpo con boccoli tinti o la mia testa da appendere al muro...>>
Lei, indignata, stava per protestare, ma lui glielo impedì:
<<No, Aurora, lasciami finire... il fatto è che a volte chi seduce perde interesse per l'oggetto del desiderio, una volta che tale desiderio è stato soddisfatto.
Ora, io so con assoluta certezza che non potrei mai perdere nemmeno un briciolo dell'amore che ho per te. Ma temo che non valga il viceversa, temo che tu possa stancarti di me, o rimanere delusa, e finire per cercare altrove...>>
Lei gli appoggiò una mano sulla bocca e poi gli disse, sottovoce, ma in maniera chiara:
<<Mai! Non succederà mai! Dove lo trovo un altro come te? Ci sei solo tu, e basta!
Io amo di te anche quelli che tu consideri difetti. Amo la tua stessa insicurezza, perché io voglio un compagno di vita che sia tenero e dolce, e più sensibile di me, affinché io possa rassicurarlo e vezzeggiarlo, come una madre col suo bambino. Tu hai bisogno di una madre più indulgente, non negarlo! E amo la tua fragilità.
Le cose più preziose sono anche le più fragili e questo vale anche per le persone: io conosco nel contempo il tuo valore e la tua vulnerabilità, e amo entrambe le cose.
E non ho bisogno di altro, non cerco nessun altro e non c'è nulla che possa farmi cambiare idea.
Insomma, tu non ti libererai mai di me!>>
Roberto aveva gli occhi lucidi e si sentiva uno sciocco, ma c'era un'ultima cosa che doveva essere chiarita e lui, con ancora la mano di lei sulla bocca, farfugliò un'unica parola, un nome:
<<Felix...>>.
Il viso di lei si rabbuiò:
<<Lui è un parente, non conta. Comunque l'ho avvertito. O smetterà di metterci i bastoni tra le ruote, o lo escluderò totalmente dalla mia vita. E siccome temo che lui non smetterà, io e i miei genitori prenderemo misure molto serie nei confronti suoi e della sua famiglia.
Mio padre è d'accordo, e devo dire che adesso, non so bene per quali motivi, mi sembra quasi sinceramente contento che io stia con te... forse è perché finalmente mi vede felice, ma sospetto che ci sia qualcos'altro...>>
Roberto sapeva che in effetti c'erano ben altri motivi, ma anche quello era un discorso che per il momento era meglio non affrontare.
Le sorrise e si abbracciarono di nuovo, Finalmente lui sentì sciogliersi tutta la tensione che aveva accumulato quel giorno e in maniera del tutto inaspettata, la sua virilità, che normalmente dormiva sonni profondi, si risvegliò dal torpore in maniera decisa e fin troppo evidente, anche a causa della tessitura sottile dei suoi assurdi pantaloni gialli, tanto che lei, nonostante quella corazza di paillettes, dovette rendersene conto e con una certa sorpresa commentò: <<Oh oh... Qualcuno dà la sua ferrea approvazione, nelle parti basse>>.
Roberto, che non aveva mai attribuito importanza a certe cose, e anzi le considerava volgari e ne era sempre stato imbarazzato e persino impaurito, fece subito un passo indietro, temendo di perdere il controllo della situazione.
In ogni caso, per darsi un contegno, mise il colletto della camicia sotto la giacca e abbottonò la camicia in maniera quasi decente.
Mai avrebbe immaginato che trent'anni dopo, l'idolo di almeno due terzi delle ragazze del mondo, Harry Styles, ex voce degli One Direction, avrebbe indossato lo stesso outfit risultando quasi elegante, ma questo accadeva prima che incominciasse a vestirsi da donna, rimanendo comunque invariabilmente adorato dalle stesse fan di cui sopra.
Nel frattempo , il Visconte osservata pacifico e tranquillo il Ricci Compoud.
Sembrava un'altra persona, rispetto a quando lo aveva incontrato le volte precedenti.
Il volto mostrava un sorriso gentile, pacato, accomodante, quasi benedicente, come se fosse davvero molto contento di trovarsi in quel luogo e con quelle persone, e approvasse senza riserve tutto ciò che vedeva e sentiva.
Mosse il primo passo verso l'altro pater familias, e a quel punto, Francesco Monterovere, abbandonando la sua diffidenza iniziale, tese la mano al Visconte, in "segno di pace".
Bartolomeo Visconti tese la mano a sua volta, con decisione, come faceva dopo aver stipulato un contratto molto vantaggioso, e la stretta di mano che ne seguì fu calorosa e solida, come se lui e Francesco fossero amici da vent'anni.
Difficile ipotizzare quello che passasse realmente nella testa di entrambi, perché erano uomini maturi e sapevano che la diplomazia era una cosa e la realtà un'altra, però si rendevano conto che, sic stantibus rebus, quella era la linea da seguire, almeno finché non fossero emersi nuovi elementi.
Si sedettero, insieme alle rispettive mogli, sotto la pergola, in attesa che la cena fosse pronta.
A rompere il ghiaccio, ancora una volta, fu Bartolomeo Visconti:
<<Professore, le sono grato per averci invitato qui stasera. In questi mesi ho imparato a conoscere la sua famiglia e suo figlio, ed è stato per me un grande piacere. Roberto è un bravo ragazzo, ed è riuscito a rendere felice mia figlia, cosa che nessuno aveva fatto prima di lui. E allora io dico che se i nostri ragazzi sono felici, allora lo siamo anche noi, perché un genitore che altro può desiderare se non la felicità del proprio figlio?>>
Messa così, la "prolusione" del Visconte risultava innegabile, e oltre tutto solleticava lo sviscerato amore paterno di Francesco, che nutriva per il figlio una grandissima stima e riponeva in lui speranze ancora più grandi:
<<E' proprio vero, signor Visconte. E sono lietissimo di averLa come mio ospite>>
Il Visconte si schermì e con aria ancora più affabile disse:
<<Mi piacerebbe che ci dessimo del tu e ci chiamassimo per nome di battesimo>>
Era un onore che il Visconte concedeva soltanto ai parenti carnali o ai rarissimi amici di lunghissima data.
<<Per me va benissimo! Bartolomeo... vero?>>
Il Visconte annuì, sorridendo e assomigliando sempre più a Berlusconi:
<<Vero! E tu sei Francesco, come il tuo nonno materno, l'Ingegnere, se non sbaglio>>
Il ricordo del venerato Francesco Lanni, il Profeta delle Acque, commosse il professor Monterovere:
<<Verissimo! E direi che qui ci vuole un brindisi, se tu e la tua signora gradite uno dei nostri aperitivi>> e fece un cenno studiato in precedenza per dare il via ai bagordi.
In quell'istante comparve il giovanissimo Samuele Napoletano, nipote della Rita, il quale quella sera, molto generosamente retribuito, svolgeva il ruolo di aiuto cameriere.
Era il classico ragazzo mediterraneo: con capelli corvini, naturalmente ricciuti, occhi nerissimi, pelle olivastra abbronzata e un sorriso solare che metteva di buon umore anche il più triste.
Lui e Roberto, coetanei, erano diventati amici, e c'era una grande ammirazione reciproca, in particolare Roberto ammirava molto il fatto che Samuele avesse un grandissimo senso pratico e lo aiutasse molte volte a insegnargli cose che adesso impareremmo in qualche tutorial su Youtube, o affideremmo direttamente a un tecnico informatico.
Con grande maestria, derivatagli non solo dalla frequenza dell'Istituto alberghiero, ma anche dal lavoro part-time in un bar, Samuele preparò gli aperitivi, servendo al Visconte il classico Martini Dry con oliva, al Professore l'ancor più classico Negroni, obbligatorio per tutti gli intellettuali radical-chic, alla Viscontessa un Campari Soda e alla Signora Silvia un Prosecco di Conegliano, proveniente dalle cantine di Villa Orsini.
Poco dopo tornarono anche i due piccioncini, e la Signora scosse la testa per l'ennesima volta di fronte al look assurdo del figlio, che del resto aveva ricevuto anche il biasimo paterno.
<<Ah, Roberto!>> disse la viscontessa Maria Antonietta alzandosi per abbracciarlo come se fosse un figlio <<oggi hai un look davvero irresistibile! Stai benissimo! Vero, Silvia, che tuo figlio oggi sembra il Principe Azzurro?>>
La Signora, con un sorriso simile a quello della regina Elisabetta II quando è costretta a fare buon viso a cattivo gioco, annuì vagamente e deviò subito il discorso:
<<E' Aurora ad essere bella come il sole! Non so se la mia sala da pranzo sarà sufficientemente elegante per ospitare una giovane nobildonna di così gran classe!>>
Roberto, che conosceva sua madre meglio di se stesso, capì il messaggio in codice, che suonava più o meno così: si è vestita tutta d'oro e paillettes come una escort che accompagna un ricco vecchio porco in un party un po' equivoco, tipo quelli dove si potrebbe incontrare Elton John.
Silvia era fatta così: qualunque sua frase aveva sempre significati molto diversi e quasi opposti da quello letterale. Era stato il suo modo di sopravvivere crescendo con una nonna costantemente ubriaca, una madre costantemente depressa, un padre costantemente arrabbiato col mondo intero, una governante dispotica e due sorelle che non avevano mai letto un libro in vita loro.
Aurora, senza degnare Samuele nemmeno di uno sguardo, si versò da sola, con l'aria di chi la sa lunga, una Vodka alla Pesca con Oransoda, il cocktail più di moda nella Folle Estate del 1992.
Il sorriso forzato di Silvia si piegò all'ingiù e con un cenno indicò a Samuele di portar via il cabaret e di chiedere se la cena era pronta.
Poco dopo, la signora Rita in persona invitò i Signori ad accomodarsi nella sala da pranzo del piano terra, dove era stata imbandita una tavola rotonda con ogni ben di Dio.
E così incominciò una cena sontuosa, e memorabile, ma molto impegnativa per tutti, di cui parleremo nel prossimo capitolo.