Come Diana aveva previsto, i buoni propositi di suo marito erano svaniti nel giro di quindici giorni.
Ettore aveva proprio perso la testa.
La sua infatuazione per Anastasia Traversari era ormai sulla bocca di tutti, anche perché, oltre tutto, la bella e nobile fanciulla gli preferiva il suo giovane cognato, Arturo Orsini, l'astro nascente, molto più bello e affascinante, oltre che aristocratico ed erede del titolo comitale di Casemurate.
Ma il padrone del Feudo Orsini restava comunque Ettore Ricci, il quale aveva incominciato a esprimere la propria delusione per come Arturo si comportava al lavoro, in qualità di dirigente della fabbrica di macchinari agricoli di proprietà della famiglia Ricci.
Se ne lamentava con i suoceri, i Conti Orsini, e con sua moglie:
<<Tuo fratello arriva tardi al lavoro, passa la mattina a leggere i giornali, poi prende la sua moto, che romba come un aereo, e corre a in città a pranzare con gli amici, poi torna dopo tre ore, e quando finalmente si decide a incominciare qualcosa è ormai sera.
Insomma è uno scansafatiche, oltre che un incapace!>>
Diana non ci credeva:
<<Ti stai inventando tutto per denigrarlo! E lo fai perché sei invidioso di lui!>>
Ettore sbottava:
<<Invidioso? E di cosa? E' un rammollito, proprio come suo padre! Siete tutti dei rammolliti, voi Orsini! E comunque ho una ventina di testimoni pronti a confermare le mie accuse>>
Diana rise:
<<Sì, certo, una ventina di ruffiani tutti a libro paga di tuo fratello Oreste: quello sì che è un buono a nulla>>
Su questo Ettore poteva anche essere d'accordo, ma non l'avrebbe mai ammesso:
<<Noi Ricci siamo forti, voi Orsini siete deboli, questa è la verità e tu lo sai bene, Diana. Non puoi negarlo!>>
Diana lo fissò con un misto di rabbia e di minaccia:
<<E' vero, noi Orsini siamo fragili come cristalli di Boemia, ma stai attento, Ettore: i frammenti di un cristallo sono taglienti. Non ti conviene spezzarci, perché è proprio quando andiamo in frantumi che diventiamo realmente pericolosi.
E questo vale particolarmente per me, ti avverto: io sono un cristallo tagliente e se farai del male a me o a mio fratello, potrai anche spezzarci, ma ti farai male anche tu>>
Ettore assunse un'espressione innocente:
<<Ma di cosa stai parlando? Io non spezzerò proprio nessuno. Tuo fratello si rovinerà con le sue stesse mani, se continua così. Non è certo colpa mia!>>
Diana non sapeva cosa pensare:
<<Lui nega tutte le tue accuse. Dice che lo hai assunto solo per poterlo poi denigrare. Una strategia davvero furba. Ma cercherò testimoni imparziali per capire cosa sta realmente succedendo>>
Lui ne fu indignato:
<<Una brava moglie crederebbe a suo marito e starebbe dalla sua parte. Guarda Ida Braghiri, lei vive in adorazione di suo marito>>
Diana sorrise:
<<Per forza. Chi altri avrebbe avuto lo stomaco di sposare una donna così brutta e antipatica? E se posso darti un consiglio, ti prego di non fidarti di Michele Braghiri. Lui invidia te mille volte più di quanto tu invidi mio fratello. E quando sente che vi sparlate dietro a vicenda, gli brillano gli occhi>>
Ettore dovette ammettere che sua moglie non aveva tutti i torti:
<<Lo so, ma non gli conviene rovinarmi. Se cado io, cade anche lui. Cadiamo tutti. Ho passato vent'anni a creare una rete di relazioni con persone che contano. Conosco i loro segreti, i loro punti deboli. Io sono il capo e loro lo sanno. La mia unica debolezza è che non ho un erede maschio: volevo creare una dinastia, e invece alla fine tutto morirà con me.
Ti prego Diana, proviamoci un'ultima volta... >>
Lei inorridì:
<<Ma non hai sentito quello che ha detto il medico? Un'altra gravidanza, a quest'età, nelle mie condizioni, potrebbe uccidermi>>
Lui le rivolse un'occhiataccia:
<<Magari! Così mi prenderei una moglie più giovane, più sana, più fertile, più rispettosa e anche più bella, perché ormai tu sei appassita, cara mia, sei sfiorita. Ah, sei stata la mia rovina...
E dire che io sono stato davvero innamorato di te, ma anche le emozioni più sincere si stancano di rincorrere chi non le apprezza.
E veneravo il cognome degli Orsini, che per me era il simbolo di tutto ciò che io non sarei mai riuscito a diventare: un uomo raffinato, elegante, affascinante. In una sola parola: un aristocratico.
Sapevo che per me non c'era speranza, ma se avessi avuto un figlio maschio, lui avrebbe fondato la dinastia dei Ricci-Orsini, e magari avrebbe ricevuto un titolo nobiliare, da tramandare ai suoi eredi.
Ora mi rendo conto che tutto questo era solo vanità.
Voi Orsini non siete il simbolo di nulla, nemmeno di voi stessi, ed io ho perso i miei anni migliori inseguendo dei fantasmi>>
Aveva gli occhi lucidi, la voce incrinata.
<<Abbiamo tre figlie, Ettore. Se solo tu le amassi un po' di più...>>
Lui rispose con voce assente, come se già la sua anima fosse lontano:
<<Vale anche per te. Che esempio dai alle nostre figlie? Te ne stai sempre chiusa in questa stanza, con le tende tirate, a leggere romanzi senza senso, a vivere le vite degli altri, e non ti accorgi di diventare sempre più assente, più distante. Ti atteggi a vittima, e nel contempo ferisci chi ti è intorno. Ti atteggi a grande signora, ma sei meno nobile adesso di quanto tu lo sia mai stata>>
Lei avrebbe potuto replicare che era stato lui a farla diventare così, è che "noi siamo quello che ci è successo", ma era solo una mezza verità.
L'altra parte di verità, quella più scomoda, era che origini del male venivano da dentro.
La melanconia, quella goccia di sangue nero che rendeva più scuro il sangue blu degli Orsini.
Forse Ettore aveva ragione.
Non ricevendo risposta, lui uscì dalla camera da letto come un vecchio leone ferito.
Diana rimase sola nella stanza, quella stanza da cui non voleva più uscire.
Anche lei danzava con i suoi fantasmi, quelli che aveva perduto e quelli che aveva trovato, e quelli che l'avevano amata di più.
La guerra aveva lasciato una devastazione nella sua mente.
Per questo non voleva più andare via da quelle vecchie pietre che la circondavano.
Ed era come se la guerra non fosse mai finita.
Dall'inverno all'estate e di nuovo all'inverno, la sua mente aveva continuato a danzare con i fantasmi.
E non voleva mai andarsene da quella stanza.
E non sarebbe voluta uscire mai più.
Un attacco di emicrania la riportò alla realtà.
Era ormai notte. L'antidolorifico l'avrebbe aiutata a dormire, ma da tanto tempo ormai sapeva che il sonno avrebbe portato solo incubi.
Spense la luce.
Avrebbe desiderato un sonno senza sogni. Lungo. Eterno.
Ecco, era quella la sua unica speranza: smarrire la coscienza di esistere.
Non aveva letto Heidegger, ma aveva letto Pascal e il suo concetto di "divertissement":
«Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci».
Ma mentre Pascal invitava a pensare e a farsi carico dei misteri del cosmo, Diana voleva al contrario dimenticarsene. E quindi era più vicina a Carducci, quando scriveva: <<Meglio a chi 'l senso smarrì de l'essere, meglio quest'ombra, questa caligine>>
Ma qui subentrava per Diana Orsini una situazione amletica.
"Io non so vivere e non so morire. Ho paura di vivere e ho paura di morire".
Perché morire non è affatto facile, come credono quelli che amano la vita alla follia.
Diana sapeva di dover vivere per le proprie figlie, ma sapeva anche che, in ogni caso, il suicidio non faceva per lei: aveva paura del dolore e di quello che eventualmente potesse esserci dopo la morte.
Morire, ma senza dolore.
Morire, sì, ma con la certezza che sia per sempre.
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