Il Conte Achille Orsini di Casemurate votò naturalmente per la Monarchia, nel referendum del 1946 e visse la sconfitta del giovane re Umberto e della bella "regina di maggio", Maria José, come un lutto personale.
Come se non bastasse, l'Assemblea Costituente votò il "non riconoscimento dei titoli nobiliari" come primo comma della XIV disposizione transitoria della Costituzione Italiana, entrata poi in vigore il 1° gennaio 1948.
Certo, il "disconoscimento" non implicava l'abolizione dei titoli, come chiarì una sentenza della Cassazione nel '51, ma semplicemente il fatto che, a livello di cittadinanza anagrafica non erano più registrati come elemento distintivo, a differenza del nome e del cognome.
Quasi tutti i nobili comunque, avevano molto piacere ad essere chiamati col loro titolo, oltre che col cognome che indicava il feudo di origine.
I Conti Orsini di Casemurate tenevano moltissimo sia al titolo comitale che al feudo casemuratense, e confidavano nell'unico loro figlio maschio, Arturo, per risollevare le sorti della dinastia e sbarazzarsi della sudditanza nei confronti della ricca famiglia Ricci.
Dei sei figli avuti da Achille ed Emilia Orsini, tre erano morti prematuramente (Eugenio, Giovanna e Isabella) e dunque restavano due figlie, Diana coniugata Ricci e Ginevra coniugata De Gubernatis, e naturalmente Arturo, che era ancora celibe, ma aveva mostrato di essere un dongiovanni.
I mariti di Diana e Ginevra Orsini, e cioè l'imprenditore agricolo Ettore Ricci e il giudice istruttore Guglielmo De Gubernatis, erano perfettamente consapevoli del fatto che l'unica loro possibilità di rimanere a capo del Feudo Orsini era che il giovane Arturo Orsini non riuscisse a mettere insieme abbastanza soldi per pagare i debiti della famiglia.
L'educazione di Arturo era avvenuta secondo gli schemi della tradizione aristocratica, dando molta importanza alla cultura classica, agli sport e alle pubbliche relazioni, a cui si aggiunse, con l'andare del tempo, la passione del ragazzo per i motori e la tecnologia.
Arturo guidava sia la motocicletta che l'automobile, con le quali si faceva vedere in giro dappertutto, aggiungendo ulteriore fascino alla sua persona.
Era infatti molto bello, pieno di fascino, perfettamente coordinato nei movimenti e nei gesti, elegante in maniera classica, con grande stile, e infine anche molto gentile nei modi e simpatico nelle interazioni con gli altri.
Tutte le ragazze si innamoravano di lui.
C'erano molte fanciulle di ottima famiglia che avevano mostrato la loro disponibilità a sposarlo, portandogli in dote una quantità di denaro che sarebbe stata utilissima ai Conti Orsini per incominciare a riprendere il controllo del Feudo.
Augusto era molto galante con tutte e aveva incominciato a valutare quale scegliere, anche se sua sorella Diana gli aveva detto "sposati solo se sei innamorato, altrimenti rischierai di soffrire come me. E non fidarti mai di Ettore e dei suoi amici: tu sei l'ultimo ostacolo che si frappone tra loro e il controllo esclusivo del Feudo".
La famiglia Ricci aveva ancora in mano numerose ipoteche sui campi, sulle case coloniche e sui capannoni del Feudo Orsini, e soltanto in minima parte aveva accettato di ritirarle.
Ci sarebbero voluti molti anni e moltissimi soldi per pagare quelle ipoteche, ma esisteva il rischio che Arturo Orsini, ora che aveva incominciato a lavorare come dirigente nell'azienda meccanica di Oreste Ricci (il quale era ancora all'estero in attesa della grazia ai gerarchi fascisti) potesse rivelarsi un abile uomo d'affari.
Tutto questo era ben evidente alla famiglia Ricci.
Ma c'era di più.
Ettore Ricci provava, nei confronti del cognato Arturo, un'invidia destinata a crescere nel tempo.
Ci sono due tipi di invidie: quella positiva, che si trasforma in ammirazione ed emulazione, e quella negativa, che si traduce in rancore e ostilità.
Purtroppo Ettore, che prima di allora non aveva mai invidiato nessuno, ora che si trovava di fronte all'astro nascente del rampollo Orsini era animato dal secondo tipo di invidia.
Una volta un contadino che lavorava nel Feudo era venuto alla Villa per "parlare col padrone".
Ettore aveva risposto: <<Ditemi pure, buon uomo>>
E lui: <<No, io cercavo il figlio del Conte: è così gentile con noi>>
Ettore aveva voglia di prendere a calci quel "maledetto villano", ma si trattenne, perché sapeva che la sua autorità ne sarebbe stata sminuita ulteriormente:
<<Sono io il padrone qui! E lo sarò sempre! Mettetevelo bene in testa!>>
Il contadino allora se ne andò senza dire nulla.
A Ettore tornò in mente tutta la serie di figuracce che aveva fatto da ragazzo nel Salotto Liberty, e ripensò a tutta la gente che aveva riso di lui, dei suoi modi grezzi, del suo eloquio volgare, della sua mancanza di stile e di bellezza.
Per la prima volta in vita sua si sentì respinto dalla Fortuna e defraudato dei suoi diritti.
Perché Arturo Orsini aveva avuto in sorte tante doti che lo rendevano vincente in tutto e amato da tutti, mentre lui, Ettore Ricci, consapevole della propria goffaggine, doveva stare sempre in guardia e combattere continuamente, anche con mezzi sleali, per mantenere il controllo di ciò che aveva conquistato (e non era poco) in anni di sforzi e di combattimenti?
L'unica risposta che riusciva a darsi era che si trattava di un'ingiustizia e bisognava fare in modo di contrastare, anche barando, l'ascesa sociale del giovane rampollo.
Ma fino a che punto Ettore sarebbe arrivato pur di ottenere il suo obiettivo?
Questo era un interrogativo a cui lo stesso Ettore non era ancora in grado di rispondere, ma c'era da scommettere che, dal momento che la posta in gioco era molto alta, la famiglia Ricci avrebbe fatto di tutto pur di evitare ogni rischio che la famiglia Orsini rialzasse la testa.
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