lunedì 11 ottobre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 163. Due anni dopo (Milano, ottobre 1994)




Nei due anni che seguirono, Roberto Monterovere riuscì a conseguire tutti gli obiettivi che si era prefissato, ma a caro prezzo. 
Apparentemente la sua situazione era invidiabile: aveva superato l'esame di Maturità col massimo dei voti e la sua relazione con Aurora era sempre più solida e felice, specie dopo che, effettuato l'intervento per eliminare il problema della fimosi, finalmente lui e la fidanzata avevano potuto fare l'amore in maniera completa, reciprocamente appagante ed estasiante.
La salute fisica di entrambi era ottima, così come l'avvenire radioso che ormai, per chi li osservasse dall'esterno, sembrava a portata di mano: l'università insieme, una laurea prestigiosa, un lavoro ancor più prestigioso, nozze spettacolari, un matrimonio felice, tanti figli ancor più felici e una famiglia armoniosa destinata diventare una vera e propria dinastia.
Erano sogni illusori, certo, ma come scriveva Foscolo: "Illusioni! Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore".

Ma dietro a quella idilliaca facciata, Roberto e Aurora erano ben consapevoli che il loro sogno poggiava su basi troppo fragili.
Due anni di guerra fredda con il prof. Sarpenti e con i suoi sgherri, Vittorio Braghiri e Felice Porcu, avevano logorato la mente del giovane Monterovere per lo stress continuo a cui era stato sottoposto, la rabbia repressa e lo studio eccessivo per non farsi mai trovare impreparato.
E non aveva avuto nemmeno il tempo di riposarsi, perché bisognava decidere in quale università iscriversi e in quale facoltà, e poi prepararsi per gli eventuali test di ammissione, e trovare un nuovo alloggio e incominciare una nuova vita.
I genitori di Roberto e molti parenti e conoscenti speravano che lui scegliesse Medicina: faceva sempre comodo avere un medico in famiglia.
Lui aveva preso in considerazione questa possibilità, ma c'erano alcuni "impedimenti dirimenti" che non erano superabili: Roberto era terrorizzato dall'idea di dover assistere a delle autopsie e poi era tremendamente ipocondriaco, come suo padre e suo nonno Romano.
Gli sarebbe piaciuto piuttosto studiare Chimica farmaceutica, perché già allora aveva un'ampia conoscenza dei farmaci, però non riusciva a vedersi in un laboratorio di precisione: era troppo sbadato, distratto e casinista.
Il nonno e il prozio Edoardo volevano che scegliesse Ingegneria Civile Idraulica, ma Roberto disse subito di no per un motivo ben preciso: 
<<Non voglio avere più a che fare con esami basati sulla matematica, la fisica e il disegno tecnico>>
Sarpenti era riuscito ad ottenere almeno quella vittoria.
A quel punto rimanevano in piedi soltanto due opzioni diversissime tra loro: una laurea in una disciplina umanistica (Lettere o Storia), cosa sostenuta sia da sua nonna Diana che dallo zio Lorenzo (e quella fu l'unica volta che la pensarono allo stesso modo) oppure Economia a Milano, come Roberto aveva promesso al suo nonno materno, il compianto Ettore Ricci, e anche al padre di Aurora, che sapeva che sua figlia avrebbe seguito il fidanzato anche se si fosse iscritto all'università di Kabul, e dunque era essenziale che la scelta ricadesse su una laurea in materie economiche e in una università prestigiosa.
Furono quelle due promesse a determinare la sua scelta, perché i Monterovere mantenevano sempre la parola data e non avevano pace fintanto che non avessero ripagato i propri debiti, nel bene e nel male.

Col senno di poi è fin troppo facile dire che si trattò della scelta più disastrosa di tutta la sua vita, ma all'epoca parve a molti una cosa sensata, dal momento che sia lui che Aurora erano eredi presuntivi di importanti attività economiche.
Conoscendo bene Roberto, possiamo aggiungere una terza motivazione, che forse lui non confessò nemmeno a se stesso, e cioè che c'era nella sua volontà una specie di spirito di rivalsa nei confronti di chi credeva che lui fosse un inetto nelle questioni pratiche e gestionali.
Tutti avevano dovuto ammettere che negli studi era imbattibile e che era una specie di macchina che preparava esami con grande efficienza, ma quasi tutti non lo ritenevano capace di amministrare alcunché. 
Purtroppo, a posteriori, possiamo dire che avevano ragione loro, perché alla fine gli risultò gravoso e stressante persino occuparsi della gestione del patrimonio dei suoi genitori, i quali gli delegarono l'amministrazione a partire dal 2011, essendo loro digiuni di ogni conoscenza economica, e ormai già anziani e malandati, quando ereditarono ciò che restava dell'impero dei rispettivi genitori, il nonno paterno Romano e la nonna materna Diana Orsini, che si spensero quasi centenari, essendo dotati di una longevità windsoriana.
Ma, a nostro parere, esiste un'ulteriore motivazione, che va ricercata nel momento storico che il mondo e l'Italia stavano vivendo nel 1994.
Il crollo dell'impero sovietico e il declino dell'ideologia marxista-leninista aveva colpito profondamente l'immaginario collettivo, che vedeva ormai nel neoliberismo l'unico modello vincente.
In Italia la situazione era, come sempre, un po' più complessa.
Era l'epoca del primo governo Berlusconi, che professava il laissez faire, l'esaltazione del Libero Mercato, la privatizzazione dei beni e servizi pubblici, i tagli delle tasse contestuali a quelli del welfare, a partire dal sistema pensionistico.
Per ironia della sorte queste riforme furono realizzate soprattutto dai governi di centro-sinistra, ma all'epoca la sinistra doveva ancora riprendersi del tutto dalla crisi del comunismo e del socialismo, e la DC si era disintegrata, per cui Silvio Berlusconi, con la sua immagine di imprenditore vincente, sedusse la maggioranza degli italiani moderati e fu l'incarnazione della vittoria del Mercato.
L'ubriacatura durò poco, salvo poi ricaderci altre due volte.
In un simile contesto, studiare Economia a Milano sembrava la scelta più in sintonia con lo Spirito del Tempo.
Quando Roberto comunicò la propria decisione, che era anche quella di Aurora, ci fu un po' di perplessità e il più contrario di tutti fu lo zio Lorenzo, che tentò un'ultima disperata requisitoria contro la scelta bocconiana.
Come sempre si incontrò con Roberto e Aurora, all'insaputa di Francesco e Silvia, che invece avevano concesso al figlio il sostegno morale e finanziario per i suoi progetti.

L'incontro tra i due fidanzati e lo zio Lorenzo avvenne a Bologna, dove Aurora e Roberto si recarono in macchina, quella di lei naturalmente, una Porsche Boxter pagata dai Visconti-Ordelaffi e guidata solo ed esclusivamente dalla loro incantevole figlia.




Lorenzo fece fare loro un piccolo tour di Bologna, che però apparve piuttosto degradata, specialmente ad Aurora, che incominciò una filippica contro questa "città di comunisti e sinistroidi".
Pranzarono in un buon ristorante, di cui però Roberto non ricorda nemmeno il nome e l'ubicazione, perché era concentrato soltanto su ciò che lo zio aveva da dirgli.
E Lorenzo attaccò subito:
<<Roberto, tu non puoi tradire te stesso scegliendo di entrare nel Tempio del dio Denaro.
A Milano la filosofia della tua generazione si sintetizza in tre parole: profitto, consumo e godimento. 
Tu non sei così, hai sempre condannato il narcisismo egocentrico ed edonistico, il carrierismo a tutti i costi, la vita frenetica, il fare lavori che non ci piacciono per comprare cose che non ci servono.
Il denaro è un mezzo, ed è utile, non lo nego, ma non devi farne il tuo Idolo d'oro.
Se hai bisogno di denaro per il Feudo Orsini, te lo farò avere io, tramite Albedo, ma tu, ora che hai superato brillantemente la Prova del Dolore, non puoi correre il rischio di sottoporti ad uno stress ancora più pesante. Corri un grande pericolo!
Soldi, carriera, successo, consumo e piacere: tutte queste cose sono le tentazioni di Satana!
Possibile che tu non le riconosca?
Ricorda la lettera agli Efesini in cui Paolo ci invita a "resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti"!>>
Roberto fu colpito da quelle parole, ma a rispondere non fu lui.
Aurora si era infuriata:
<<Ma chi credi di essere, il Papa? Hai abbandonato Roberto per due anni, lasciando che fossi io il suo sostegno, e poi adesso vieni qui a farci la predica, con argomentazioni che chiaramente sono contro di me. Tu vuoi dividerci! Vuoi allontanarmi da tuo nipote perché adesso non ti servo più!
Ma io sono determinata a rimanere a fianco di Roberto ovunque egli vada, mettitelo ben in testa.
E poi è ridicolo che proprio tu critichi: "i dominatori di questo mondo di tenebra", quando il tuo amico Albedo naviga nell'oro e controlla la finanza internazionale!
Non saremo mai gli schiavi tuoi e di Albedo!>>
Roberto aveva annuito:
<<La penso come Aurora. Negli ultimi due anni, quando io stavo male, lei si è presa cura di me, mi ha sollevato tutte le volte che sono caduto, e con il suo amore mi ha consentito di sopportare il dolore che tu hai permesso che mi venisse inflitto, senza muovere un dito.
No, zio: non sono il tuo burattino e se proprio devo sbagliare, preferisco almeno farlo con la mia testa, non con la tua o con quella del tuo padrone spagnolo!>>
Lorenzo lo guardò con commiserazione:
<<Sia come vuoi tu, ma sappi che se vai a vivere a Milano, andrai incontro a una Prova del Dolore così grande e terribile da far apparire gli ultimi due anni una passeggiata.
E se credi di sbagliare con la tua testa, ti stai ingannando: è Aurora che ti spinge verso quella città infernale e quella vita spregevole, e un giorno anche lei pagherà il prezzo della sua stupidità!>> e poi si rivolse verso la ragazza: <<Sì, Aurora, pagherai tutto, te lo posso garantire. Tu disprezzi Albedo, ma ti compri le macchine di lusso con i suoi soldi. Sei l'ultima persona ad aver diritto di fare la predica agli altri! >>
Detto questo se ne andò e per molto tempo non volle più avere a che fare con loro.

I due fidanzati trascorsero il mese di agosto a preparare il test d'ammissione, che superarono con ottimi risultati a metà settembre.
A quel punto incominciarono i loro viaggi a Milano per le pratiche dell'iscrizione e per la ricerca di un alloggio.











Si iscrissero a Economia Aziendale, alla Bocconi, e trovarono, ad un prezzo proibitivo, un alloggio in un residence per studenti che si trovava tra Porta Romana e Porta Ticinese, all'interno del Centro Storico.
Erano rimasti solo due monolocali al quinto piano, ma erano in buone condizioni, l'ascensore funzionava benissimo e gli altri studenti erano tutti molto seri e gentili, specialmente con Aurora, per ovvi motivi.
Per tutti loro Milano era un mondo da scoprire e nell'immaginario di cui si erano nutriti era la città della Borsa e della Moda, dei manager e delle modelle, dei finanzieri e degli stilisti
Solo secondariamente era la città dei Visconti e degli Sforza, del Castello Sforzesco e dell'Accademia di Brera, della Scala e del Duomo, del Cenacolo di Leonardo e delle Chiese di Sant'Ambrogio, San Lorenzo e Sant'Eustorgio.


Solo in seguito si sarebbero accorti anche del degrado in cui si trovavano i quartieri periferici e della separazione dei quartieri per ceti sociali, professioni e gruppi etnici.





Ma per Roberto significò anche qualcos'altro, e cioè un appassionante oggetto di studio per quel che riguardava l'idrografia, perché Milano è anche un porto, con la Darsena e i Navigli e una complicata rete di canali che collegano tra loro i corsi d'acqua sotterranei che provengono dalle valli del nord.






Quando finalmente, ai primi d'ottobre, giunse il momento di trasferirsi a Milano in maniera definitiva, Roberto partì con grandi aspettative e senza troppa nostalgia di quel che si lasciava dietro.
In fondo Forlì che cosa gli aveva dato, nei due anni precedenti, se non sofferenze, fatiche e conflitti?
Le persone che partono per seguire un proprio desiderio o una propria esigenza è come se dichiarassero al mondo intero la propria insoddisfazione per ciò che si lasciano alle spalle. 
Chi parte per andare a vivere lontano è un insoddisfatto, che nutre avversione, per motivi più o meno validi, nei confronti del suo "natio borgo selvaggio", mentre chi resta è una persona felice, che ama la sua vita così com'è.
Chi rimane è un conservatore, chi se ne va cerca il progresso, che però potrebbe non arrivare mai, o peggiorare le cose. Leone XIII bollò i progressisti chiamandoli rerum novarum cupidi.
Ma torniamo ai nostri personaggi.
Aurora era felice perché la sua scelta rendeva felici i genitori, il fidanzato e il proprio desiderio di stare vicino a lui in un luogo dove le famiglie non li controllassero da vicino: era maggiorenni, in fin dei conti, e dunque era tempo che vivessero con più libertà la loro relazione.  
Roberto invece aveva un rimpianto, quello di allontanarsi dalla sua amata Contea di Casemurate, e oltre tutto per un motivo che sua nonna Diana non condivideva.
Certo, si sarebbero rivisti spesso, ma non era la stessa cosa, perché per la maggior parte del tempo ci sarebbero stati trecento chilometri a separarli, in un'epoca in cui il mondo delle comunicazioni era ancora molto diverso da quello attuale.
Quando infine Roberto partì con le ultime valige, non poteva immaginare che la sua lontananza dalla terra natia sarebbe stata lunga ventitré anni, fino al 2017.

E nella sua mente risuonava triste una canzone molto popolare negli anni della sua infanzia, cantata nel 1971, cinquant'anni fa, e ancora attuale, nella sua semplice, ma struggente sincerità, come sanno tutti coloro che, per un motivo o per l'altro, hanno dovuto dire addio al luogo dove sono nati e cresciuti, partendo per un esilio pieno di incognite:

Paese mio che stai sulla collina
Disteso come un vecchio addormentato
La noia, l'abbandono
Sono la tua malattia
Paese mio ti lascio, vado via

Che sarà, che sarà, che sarà
Che sarà della mia vita chi lo sa?
So far tutto o forse niente
Da domani si vedrà
E sarà, sarà quel che sarà!

Gli amici miei son quasi tutti via
E gli altri partiranno dopo me
Peccato, perché stavo bene
In loro compagnia
Ma tutto passa e tutto se ne va...



giovedì 7 ottobre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 162. Il Maestro dei Maestri

 

Al cinquantesimo piano della Canary Wharf Tower di Londra, detta anche One Canada Square, a 235 metri di altezza dal suolo, l'aria della City tornava ad essere chiara, quasi cristallina e la coltre di smog che ricopriva le strade della capitale britannica, rimaneva in basso, sotto la cima della torre, dando l'impressione che il grattacielo galleggiasse sopra una nuvola, torreggiando sul mondo intero.
Era una sensazione unica.
Questo era il pensiero di Fernando Maria Albedo y Velasco de Henares, Duca di Alcazar de las Altas Torres, Marchese di Jerez de la Frontera, Conte di Serenno y Salamanca, Visconte di Medina del Campo, Barone de la Cueva, Gran Maestro dei Maestri dell'Ordine degli Iniziati agli Arcani Supremi.
Dal suo privilegiato punto di vista, Albedo osservava con esaltazione il panorama e l'orizzonte, e quasi gli sembrava di volare come un'aquila, al di sopra di tutto.
Aveva da tempo scelto il proprio quartier generale al vertice di quel grattacielo, inaugurato l'anno precedente, e preparato giusto in tempo per accogliere lui,  il nuovo Gran Maestro Venerabile, successore del defunto Francis George Burke-Roche, in un avveniristico ufficio fatto di vetro infrangibile, acciaio e una sottile, ma solidissima architrave di cemento armato.
Tutti e tre gli ultimi piani, sotto la piramide che si trovava al vertice, avevano un vero a proprio appartamento di oltre 500 metri quadrati, con una sala per le riunioni del Consiglio Supremo dell'Ordine e con l'aria condizionata perennemente in funzione.
E poi c'era il suo ufficio personale, imponente, ma arredato secondo uno stile geometrico ed essenziale, proiettato in un futuro di cui il Venerabile già conosceva alcune tendenze.
Il mio "regno" incomincia da qui.





Il Gran Maestro sapeva che durante il suo "regno" sarebbe incominciata una nuova fase, nella storia dell'Ordine e in quella umana.
Ripensò al proprio discorso di insediamento come Gran Maestro dei Maestri nel Consiglio Supremo dell'Ordine.
"La Storia umana è una continua gara fra l'invenzione e la catastrofe, la creazione e la distruzione, il rinnovamento e la conservazione, il progresso e la decadenza, l'azione e la reazione : fino ad ora l'uomo è sempre stato in grado di mantenere un equilibrio tra i primi e le seconde, ma c'è sempre un prezzo da pagare, e qualcuno che è costretto a pagarlo.
Non crediate di essere immuni da questo rischio, nemmeno io lo sono: occorre avere nel contempo coraggio e prudenza.
Il nostro Ordine è la più antica associazione della storia umana proprio perché ha saputo coniugare sempre queste due virtù.
Abbiamo davanti a noi cambiamenti epocali di fronte a cui non possiamo rimanere inerti.
In momenti come questi non basta prevedere il futuro, bisogna crearlo!
Non lasciatevi fermare dallo scetticismo e dal moralismo di certuni, ricordatevi sempre che noi combattiamo "per" qualcosa, non "contro" qualcosa, altrimenti rischierete di fare del nemico la sola giustificazione della vostra esistenza.
Eppure, direte voi, di nemici ne abbiamo comunque, sia tra gli Iniziati che tra i Profani, e su questo ho molto riflettuto negli anni in cui ho preferito mantenere un basso profilo.
Nei momenti in cui le circostanze ci impediscono di agire in maniera diretta, è opportuno nel contempo riflettere e apprendere nuove conoscenze e nuove abilità, ed è ciò che ho fatto"

Era vero, anche se era soltanto una parte della verità, come sempre.
Si erano rese necessarie misure più drastiche, e ce ne sarebbe stato bisogno ancora in futuro.
Gli Iniziati erano a un passo dal realizzare un obiettivo di portata esistenziale, di cui i profani non avevano il minimo sospetto.
Ed era meglio così.
Il vero problema sono gli oppositori, sia interni che esterni all'Ordine.
C'erano due tipi di opposizione che Albedo doveva affrontare.
Da una parte ci sono gli "uomini di poca fede", che ritengono impossibile raggiungere l'obiettivo che mi sono prefissato, e dall'altra parte ci sono i "moralisti", che condannano l'obiettivo in sé.
Erano due categorie molto ostinate e tremendamente convinte di aver ragione.
Pensano che il Programma Genetico sia soltanto una questione di potere. 
Io sto offrendo loro l'eternità, e loro sono capaci soltanto di ridacchiare o farmi la predica.
Io indico la luna e loro guardano il dito.
E questo era peggio di un errore, era una stupidaggine.
I moralisti criticano l'eugenetica in astratto, pur sapendo che il mio obiettivo è migliorare le condizioni di vita dell'intero genere umano.
Omelie su omelie, sermoni su sermoni, divieti su divieti, all'infinito.
Moralisti, scettici e profani: tutti costoro "hanno già ricevuto la loro ricompensa"
Non ci sarà posto per loro nell'Impero Millenario.
Ormai da molto tempo la pensava così e forse la sua esasperazione dipendeva dal fatto che, nella prima parte della sua lunga vita, fosse stato obbligato a conformarsi, almeno in apparenza, ai precetti dei "benpensanti".
Fin da quando era piccolo, Fernando Albedo aveva dimostrato di possedere un notevole intuito, unito al buon senso di non farlo capire agli altri, non mettersi troppo in mostra, non farsi notare, almeno finché si era ancora troppo giovani e inesperti.
All'inizio occorre essere prudenti e nascondere le proprie doti, in modo che gli avversari ti sottovalutino e abbassino la guardia. E' in quel momento che bisogna colpire!
Per questo, per la prima parte della sua esistenza, aveva seguito una massima del tipo "vivi e lascia vivere".
Per quanto la stupidità o la banalità lo irritassero, non le condannava a priori.
Non è una colpa essere persone banali o stupide, anzi, spesso costoro stanno meglio di tutti gli altri. Certo, a volte sono costretto a sopportare la noia della loro compagnia e la nausea dei luoghi comuni che mi propinano, ma chi sono io per giudicare?
Nessun rimprovero, dunque, se non c'è colpa.
La colpa, però, sopravviene quando qualcuno di loro pretende di decidere su questioni che non lo riguardano.
Solo in questo caso scatta, da parte mia, la legittima difesa.
Una difesa non necessariamente violenta, a meno che proprio non gli pestassero continuamente i piedi.
Nonostante appartenesse all'alta aristocrazia, la "nobiltà di spada", Albedo non si era mai sentito un guerriero.
Anzi, se qualcuno credeva di lodare qualche suo antenato dicendo: "era un grande guerriero", Albedo replicava: "La guerra non rende grande nessuno, ai miei occhi".
Il futuro Maestro valutava la grandezza sulla base dell'intelligenza, dell'intuito, dell'esperienza maturata in attività costruttive, non distruttive.
E se lo attaccavano, preferiva usare l'astuzia, più che la forza.
Aveva imparato presto a farlo, perché da piccolo aveva dovuto arginare la personalità dominante e inflessibile di due genitori che sembravano la reincarnazione di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d'Aragona, los Reyes Catolicos.




Il Duca Padre era un fanatico della caccia: aveva passato la vita sterminando cervi, erano la sua preda preferita. Ma a volte si accontentava anche se erano cerve o cerbiatti, caprioli, daini.
Se proprio gli andava male toccava ai cinghiali e ai fagiani. Una volta uccise anche un'orsa con tanto di prole, e tutti finirono imbalsamati e messi in mostra nella sala dei trofei, o meglio, degli orrori.
Si mangiava sempre carne, dai Duchi di Alcazar de las Altas Torres, e le facce imbalsamate degli animali di cui si cibavano erano lì sul muro, insieme, chissà, ai loro spiriti assetati di giusta vendetta.
Un discorso a parte era la caccia alla volpe, altra attività prediletta dell'alta aristocrazia: che "grande" soddisfazione doveva dare l'uccidere una piccola creatura terrorizzata, dopo averla sfinita facendola braccare dai cani, resi feroci da un'aristocratica educazione canina e un immacolato pedigree. 
Ah, era proprio un eroe il precedente Duca. Peccato che, per una tragica ironia del destino, morì ucciso, per errore naturalmente, con un precisissimo colpo di fucile che gli disintegrò il cranio, dal suo stesso figlio, obbligato fin dalla più tenera età ad accompagnarlo sempre in quelle eroiche imprese.

Alla polizia che si occupò del caso, Fernando Albedo disse, affranto, che aveva scambiato il padre, appostato in un cespuglio, per un cinghiale, senza offesa nei confronti dei cinghiali, naturalmente.
Tutti gli avevano creduto, e non solo perché erano stati ricoperti di mazzette, ma anche perché il defunto Duca era un personaggio così spregevole che qualunque essere vivente avesse posto fine alla sua miserabile esistenza era, quello sì, un vero eroe.







La Duchessa Madre, donna Ines, così inflessibile da scacciare Joan Crawford, Elisabetta II e l'imperatrice Irene dal podio per il  premio "Mommy dearest" , era una di quelle persone fermissimamente convinte che la vita sia sempre e comunque degna di essere vissuta, e il fatto che lei fosse una donna sana come un toro, era, a sua detta, del tutto irrilevante nel suo giudizio.
Naturalmente rendeva grazie al Signore per la salute che aveva donato a lei e alla sua famiglia.
Per sdebitarsi, oltre a obbligare il figlio a vivere totalmente secondo i propri precetti, si impegnava in cause filantropiche come feste, cene e balli dedicati alla raccolta dei fondi per le persone meno fortunate, purché tali persone se ne stessero lontane dalla sua vista, dal suo udito, dal suo tatto, dal suo olfatto e soprattutto dai suoi pensieri.

Sì, perché lei amava così tanto la bellezza del mondo e della vita, e anche la propria bellezza, da ritenere che nessuno avesse il diritto di rovinarle la giornata mostrandole "l'altra faccia della medaglia", da cui lei distoglieva pervicacemente lo sguardo, perché la vita è meravigliosa e non la si può rovinare pensando a cose brutte, e men che meno vedendole con i propri occhi.
Era così entusiasta di tutto che avrebbe voluto vivere in eterno.
Il Signore la prese alla lettera, anche sul fatto della vita "sempre e comunque degna di essere vissuta", e la fece vivere molto a lungo, fino a 104 anni, di cui però, ad essere sinceri, gli ultimi 52 non furono proprio così belli come erano stati i primi.

Poco dopo la morte del marito, la Duchessa Madre, per riprendersi, praticava con grande impegno uno degli sport preferiti dell'alta aristocrazia, l'equitazione, nella quale eccelleva sin da bambina.
Un giorno, non si sa bene per quali ragioni, il suo cavallo s'imbizzarrì.
Donna Ines fu disarcionata e cadde, ma grazie a Dio non perse la vita.

Purtroppo però perse altre cose, tra cui la vista, l'uso delle gambe e anche l'uso delle braccia.
Chissà cosa ne pensano gli entusiasti della vita e gli integralisti religiosi di una condizione come quella? 
Ci pensano mai, quando impongono la propria morale agli altri? O quando li sottopongono alle loro continue prediche?
Donna Ines, per la prima volta nella sua meravigliosa vita, incominciò a domandarselo.
Ma il Signore non la abbandonò, e infatti la Duchessa Madre poté contare sull'amorevole dedizione di suo figlio, che le fece avere la migliore assistenza medica e infermieristica, scelta tra i più ferventi sostenitori del fatto che anche per un tetraplegico non vedente la vita fosse indiscutibilmente degna di essere vissuta, fino alla sua naturale conclusione, e che fosse un dovere, per lui, vivere in quelle condizioni.

A quel punto però donna Ines non era più così convinta della sua tesi , e a un certo punto, com'era accaduto a Giobbe, anche lei incominciò a dubitare e a maledire. 
Ma nell'ora della disperazione, quando, urlando, implorava che qualcuno la aiutasse porre fine a quell'incubo, e nessun prete o suora riuscisse più a ricordarle quanto fosse bella la vita, c'era sempre suo figlio ad incoraggiarla, dicendole che doveva essere forte e coerente con i propri ideali e con la propria fede.
Quando l'incoraggiamento dei religiosi e del figlio non le bastò più, e lei incominciò a smettere di bere e di mangiare pur di porre fine a quell'incubo, ecco che i medici obiettori di coscienza le fornirono anche la migliore assistenza psicologica e psichiatrica, sollecitati, come sempre, dalla dedizione di Fernando Albedo a quella madre che lo aveva così amorevolmente ossessionato con la sua devozione e le sue prediche su quanto la vita fosse bella e sacra.
E così adesso era suo dovere filiale ricambiare questo favore.

Il potente Duca appoggiò con il massimo impegno la decisione dei medici di aggiungere alla terapia anche i sedativi per renderla mansueta e permettere agli altri di ricordarle quanto la vita fosse meravigliosa.
Ci fu anche una terapia antidepressiva di tutto rispetto, sia a livello farmacologico che psicoterapeutico, ma chissà per quale ragione, donna Ines era sempre più depressa. Ma il figlio, i medici, i preti e le suore non si lasciarono certo sconfortare e continuarono nel loro accanimento terapeutico.
Albedo riuscì a battere persino Carlo V, che tenne segregata sua madre in una torre per 49 anni, pur di sollevarla dalle ansie che il suo ruolo di legittima regina di Castiglia le avrebbe procurato, specie dopo la morte dell'amato sposo.
Ecco, il record di donna Ines, la Duchessa Madre, fu superiore a quello di Giovanna di Castiglia: trascorse 52 anni cieca e immobile su un letto, ma mentalmente lucida, seppur costantemente sedata.
Era assistita, lavata, massaggiata e nutrita grazie all'aiuto caritatevole di suore dotate di indomita e devota perseveranza.
E quando la Duchessa, seppure sedata, riuscì a smettere di mangiare e di bere, pur di porre fine a quello strazio sempre più atroce, Albedo ottenne il ruolo di suo tutore legale e sollecitò il trattamento sanitario obbligatorio, che le fornì idratazione e nutrimento tramite flebo e sondini gastrici o enterici.
E così la situazione si stabilizzò.
Donna Ines si spense, per cause naturali, all'invidiabile età di 104 anni, dimostrando, seppur senza alcuna convinzione, che grazie al supporto e all'amore della famiglia e delle persone devote, la vita era sempre e comunque una cosa meravigliosa. 
Albedo si ripromise di raccontare sempre, a tutti gli entusiasti dell'accanimento terapeutico, la storia di sua madre.

Fernando Albedo aveva così pareggiato i conti con i genitori, e il modo in cui lo fece ci dà la misura non solo di che tipo di persona lui fosse, ma anche di quanto dovessero essere state belle la sua infanzia e adolescenza, con due genitori così altolocati e di così forte personalità.
Ma le menti creative riescono a sopravvivere anche ai peggiori sistemi educativi e pedagogici.
Unico sostegno, in quegli anni, era stato un suo prozio materno, il maestro Diego Velasco de Henares, ufficialmente incaricato di istruirlo sulle questioni dell'araldica e della genealogia.
In realtà, il prozio, dopo averlo incuriosito riguardo alla genetica, gli aveva fatto conoscere, molto gradualmente, il progetto degli Iniziati e gli aveva impartito l'insegnamento profondo, in qualità di Maestro Superiore.
Velasco era stato Presidente della Confraternita del Serpente Rosso per molti anni, e uno strenuo sostenitore del Programma Genetico.






Albedo ricordava perfettamente le parole del suo Maestro:
"Gli Iniziati accedono alle conoscenze esoteriche tramite l'Iniziazione. 
Avranno le prove, tramite una forma particolare di misticismo, di ciò che i loro maestri professano, per esempio del fatto che Paradiso e Inferno sono già qui, in questa vita, su questa Terra, mescolati insieme secondo i due principi fondamentali dell'universo, l'Energia e il Caso. 
Il nostro obiettivo primario è cercare di controllare la prima per difenderci dal secondo"
Un'altra frase del Maestro Velasco gli era rimasta impressa fin dall'inizio:
"E' difficile descrivere l'Iniziazione, e alcune cose fanno parte dei Misteri, ma ti posso anticipare qualche elemento essenziale.
L'Iniziazione non è una prova, ma la conseguenza interiore di una serie di rituali che ricostruiscono determinate situazioni, ma apportano ad esse alcuni cambiamenti personalizzati a seconda del novizio.
Io non amo i cambiamenti, ma devo ammettere che senza di essi una parte della nostra psiche si addormenta, si atrofizza e di rado si risveglia.
Per questo l'Iniziazione è necessaria: il Dormiente deve risvegliarsi"
Quella frase gli aveva aperto una finestra sul Mistero, prima che l'Iniziazione glielo svelasse.
Fin da bambino gli accadeva uno strano fenomeno: il déjà vu.







Non ne aveva mai parlato con nessuno, prima di conoscere il suo Maestro. A lui poteva confidare tutto. Gli aveva confessato che quel fenomeno  gli capitava spesso, troppo spesso  e lui aveva sorriso, tranquillizzandolo:
"Tu hai la Predisposizione a qualcosa che noi chiamiamo memorie ancestrali. I nostri cromosomi trasmettono, insieme al resto, anche tracce di memoria dei genitori naturali, e dei loro antenati.
L'Iniziazione avviene anche tramite un contesto che riproduce eventi che il novizio non potrebbe sapere o ricordare in nessun altro modo.
In quel momento, se il rituale è corretto fin nel minimo dettaglio, nei neuroni cerebrali del soggetto predisposto, un ricordo ancestrale si risveglia, ed è il primo passo, quello che apre la strada agli altri.
Noi Iniziati lo chiamiamo col nome che gli spetta: il Grande Risveglio.
Naturalmente ci sono altri punti di vista, legittimi, ma fuorvianti.
Gli psichiatri, attenendosi a criteri scientifici neopositivistici, parlano di de-personalizzazione e de-realizzazione, tutti sintomi di ciò che viene chiamato disturbo dissociativo.
Non nego l'esistenza di questo disturbo, ma in taluni casi si confondono questi sintomi con qualcosa di molto diverso. Per questo alcuni presunti pazzi sono in realtà dei profeti, a meno che non si voglia considerare l'idea materialistica secondo cui tutti i profeti sono pazzi.
Tu a cosa preferisci credere, Fernando?"
Albedo aveva risposto immediatamente, con tutto il cuore:
"Io crederò soltanto a ciò che potrà essermi dimostrato. Se l'Iniziazione potrà darmi una risposta certa, allora e soltanto allora io ci crederò".
Il Maestro Velasco aveva sorriso, e da quel giorno aveva incominciato ad impartire al pronipote l'insegnamento profondo.
“Avrai queste risposte e vedrai ciò che Kant chiamava "noumeno", la cosa in sé, das Ding an sich.
Il problema è che nulla è immune al nostro sguardo, nemmeno gli dei” 











Era stato l'inizio di una grande epopea.
Mi sono eroicamente offerto come cavia per gli esperimenti più importanti. 
Se John Ashpool avesse avuto il mio stesso coraggio, oggi sarebbe ancora vivo, anche se è meglio non averlo più fra i piedi.
Nessuno poteva eludere la morte, ma esisteva la possibilità di aggirare il problema.
Prima della sua elezione a Gran Maestro non aveva il permesso di divulgare certi discorsi, ma ora le cose erano cambiate, e tutto era pronto per saggiare i risultati ottenuti, senza più bisogno di nascondere tutto.
Il Gran Maestro aveva introdotto quei temi, sempre durante il suo discorso di insediamento.
<<Amici miei, è giunto per noi il tempo di "uscire dalle catacombe".
La nostra emersione dall'incognito sarà molto graduale e circostanziale, ma ci sarà, e sotto certi aspetti incomincia proprio oggi.
Per millenni abbiamo operato dietro le quinte, nell'ombra, fingendo di sottometterci a chi si credeva superiore a noi, poiché nella fase preparatoria di ogni grande disegno, vale un paradosso: "chi si sottomette, domina". E' l'equivalente della dialettica servo/padrone: alla fine il padrone non sa fare più niente senza i suoi servi, e questi ultimi ne prendono atto e diventano i nuovi padroni, e la storia ricomincia. 
Ma questa volta si tratta di una storia nuova, perché sta sorgendo una tecnologia che potrebbe sottomettere davvero l'intera umanità.
Un'invenzione che potrebbe trasformare la prossima generazione in una marea di narcisisti egocentrici ed esibizionisti, di follower inebetiti e di haters persecutori. Una generazione di idioti!




Io l'ho visto nei miei incubi: si chiamerà I-Phone e sarà prodotto dalla Apple.
Il danno che provocherà alle giovani generazioni sarà devastante e irreversibile.
Molti vedono in quest'oggetto la Bestia dell'Apocalisse, il 666, ed io credo che sia molto probabile.
Il suo regno incomincerà tra 15 anni esatti, nel 2007, e la sua capitale sarà San Francisco, e la sua roccaforte avrà come simbolo una mela: c'entrano sempre le mele, quando capita qualcosa di tragicamente epocale.
Le vostre premonizioni avranno colto i  numerosi Segni dei Tempi.
Non possiamo intervenire: peggioreremmo solo la situazione generale, che sfugge al nostro controllo, almeno per ora.
Il nuovo Millennio sarà battezzato col sangue: ho visto torri crollare, città bruciare, guerre, carestie, siccità, alluvioni, terremoti e pestilenze, sia prima che dopo.
Ma non disperate, amici miei! Il nostro Ordine rimarrà saldo e difenderà il genere umano nella sua ora più disperata.
E sappiate anche questo: noi non siamo contro la tecnologia, l'elettronica, l'informatica e le telecomunicazioni: tutto ciò ci serve e ci è utile, semplificando molte cose, per quanto altre purtroppo si complicheranno, come sempre accade nelle rivoluzioni scientifiche e industriali.
Noi siamo contro alcune aberrazioni e abominazioni prodotte dalla tecnologia.
Quando le macchine prenderanno il sopravvento, noi non ci faremo trovare impreparati.
Offriremo qualcosa che soltanto la genetica può offrire, e così l'umanità sarà salva.
Gli automi non preverranno!
La Bestia dalle Sette Teste verrà sconfitta dal nostro Angelo Sterminatore.




Noi opporremo la Genetica contro gli eccessi della Tecnica, la biologia organica del Carbonio, contro l'elettronica inanimata del Silicio.
E così facendo non solo ci salveremo, ma daremo inizio a  una nuova fase dell'evoluzione umana, quella dell'Homo Sapiens Sapiens Sapiens, l'HS3.
Il nostro Programma Eugenetico ha già ottenuto risultati straordinari: ognuno di noi ne è il frutto: a livello fisico abbiamo puntato soprattutto sulla salute e solo in seconda istanza sull'aspetto. Chi è predisposto alla salute, sia fisica che mentale, dà meno importanza ad elementi superficiali come l'aspetto, ma siccome l'occhio vuole la sua parte, abbiamo tenuto conto anche di quel tipo di richieste.
Ma ciò che ci permette di parlare di nuova fase evolutiva umana è il potenziamento delle capacità cognitive, in particolare quelle legate ai quattro talenti che la scienza ufficiale non ritiene possibili e che invece noi abbiamo ottenuto: premonizione, memoria ancestrale, intuizione telepatica ed evocazione.
Tutto questo dovrà essere compatibile con la salute mentale, e su questo stiamo già monitorando alcuni soggetti per capire se il loro equilibrio reggerà, perché in una condizione di scissione tra il dionisiaco, intuitivo principio del piacere e l'apollineo, analitico principio di realtà, la bilancia non deve mai pendere di più da una sola parte.
Guai se uno dei due princìpi prevalesse! L'equilibrio mentale e materiale ne sarebbe completamente distrutto, a volte in maniera irreversibile.





Ma vi è un elemento ancora più ambizioso, di cui oggi mi limiterò a fornire un unico suggerimento, invitandovi a rifletterci sopra e a non divulgare nulla a coloro che non siedono in questo Consiglio o che non hanno raggiunto il grado di Maestro Superiore.
Vi esprimo questo suggerimento in forma di domanda.
Accostando la clonazione umana al risveglio delle memorie ancestrali, che cosa potremmo ottenere?
Ragionateci sopra>>
La risposta poteva anche sembrare ovvia, ma c'erano delle premesse da verificare e con cui fare i conti.
Di tali premesse il Maestro Velasco aveva parlato anni prima ad Albedo, durante l'Insegnamento Profondo.
"L'anima è un Punto di Vista. Quando il corpo muore, il Punto di Vista cambia, passando, senza alcuna memoria, e senza limiti di spazio, alla prima forma di vita animale concepita in quel preciso istante, esatto al nanosecondo e oltre, nelle infinitesimali frazioni del tempo.
Non c'è nessuna giustizia, nessuna ricompensa, nessun riposo: soltanto casualità.
Ma gli Iniziati hanno i mezzi per eludere questo meccanismo insensato, e siamo vicini al raggiungimento dell'obiettivo"
All'epoca si trattava ancora di un progetto utopistico, ma Albedo aveva usato ogni mezzo a sua disposizione affinché tutto fosse pronto, prima che il suo corpo cedesse al decadimento.
Alla base di tutto c'erano quattro elementi: clonazione, sincronizzazione, predisposizione e risveglio delle memorie ancestrali.
Una follia, certo, ma c'è del metodo in questa follia. Un metodo non cruento.
Almeno questo valeva per chi si dimostrava leale.
Tutto dipendeva dall'esito degli esperimenti in corso nella Tessier-Ashpool Corporation, nel laboratorio di genetica, dove Jessica Burke-Roche e le sue sorelle erano contemporaneamente direttrici e cavie.




Gli Eterni, che facevano capo alla Famiglia Reale Britannica e alle varie ramificazioni della dinastia Mountatten-Windsor, usavano un altro metodo, che Albedo giudicava abietto e abominevole, ma il loro voto nel Consiglio era necessario per blindare la maggioranza che lo sosteneva.




E' venuto il momento di chiarire se si è con me o contro di me.
Nelle questioni che riguardano la leadership, viene il momento in cui tutti devono decidere da che parte stare: o si vince o si muore, non esistono vie di mezzo, non quando la posta in palio è così alta.
Dovrò tenere d'occhio i dissidenti, e anche quelli che sembrano d'accordo ma interiormente nutrono dei dubbi. Devo farli sorvegliare tutti, persino i più fidati.
Non sarebbe stato un problema: il suo potere si basava sull'infiltrazione di suoi fedelissimi ovunque.
Mi è costata molto denaro, la creazione di una rete di controllo capillare, ma in fondo, la mia holding finanziaria, la Red Dragon, utilizza i fondi della Confraternita del Serpente Rosso, raccolti nell'arco di secoli, anzi, di millenni.
Per migliaia di anni gli Iniziati avevano custodito in segreto i loro obiettivi di potenziamento ed evoluzione del genere umano.
Un giorno l'umanità ci sarà grata per tutto ciò che abbiamo fatto, e che faremo.









martedì 28 settembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 161.Tutto l'oro del mondo





L'anziano "patriarca" Romano Monterovere (1907-2003) non rideva mai, ma ogni tanto, pur rimanendo serissimo, se ne usciva con battute ironiche paradossali, a volte sottili, a volte no, che coglievano comunque di sorpresa l'interlocutore, per il fatto di essere pronunciate con la massima solennità, dall'alto del suo metro e novanta.
Non si sapeva mai quale reazione il vecchio preferisse o cercasse di ottenere, perché rimaneva sempre torvo e minaccioso, a prescindere dal tipo di comportamento di colui che cercava, invano, di ottenere la sua benevolenza.
Nel 1992, a 85 anni suonati, era ancora un uomo in grado di incutere timore.
Gli occhi azzurri erano gelidi, il naso era arcigno e bitorzoluto, la testa quasi calva, con intorno una corona di capelli giallastri e la bocca era ridotta a una fessura che aveva conosciuto ben pochi sorrisi.

Eppure l'ironia non gli mancava, quasi sempre unita al sarcasmo, a volte anche pesante: sapeva che una battuta efficace poteva chiarire un concetto meglio di un lungo sermone.
Una volta, al termine di una filippica sull'importanza del risparmio e su come attuarlo, dichiarò a bruciapelo:
<<C'era un libro intitolato: "Come vivere con 15.000 lire al giorno". Costava 30.000 lire>>




Se qualche avventato osava chiedergli a quanto ammontasse il suo patrimonio, Romano si accigliava e rispondeva, sdegnato:
<<Un uomo che è in grado di quantificare il valore del suo patrimonio non può essere considerato un uomo ricco>> e non aggiungeva alcun dettaglio.
Tutti sapevano che lui era molto ricco, ma rimanevano stupefatti dalla sobrietà del suo stile di vita, che pareva quella di un pensionato con la minima.
A chi gli faceva notare che un risparmio così esagerato non era necessario lui replicava, serio:
<<Risparmiare è necessario, vivere no>>
Era una "sententia" derivata dall'adattamento di una famosa frase di Pompeo Magno, riportata da Plutarco, che sua sorella Anita, diplomata al Liceo classico, gli aveva citato per confortarlo in un momento difficile:
"Navigare necesse est, vivere non est necesse", esortazione al coraggio che, sempre secondo Plutarco, Gneo Pompeo, richiamato nella capitale per gravi e improrogabili necessità della Patria, disse ai suoi marinai, i quali, a causa del cattivo tempo, opponevano resistenza a imbarcarsi alla volta di Roma.

In generale, riguardo alla vita, esprimeva un giudizio sotto forma di bilancio:
<<Cos'è la vita? Qualche momento di gioia in qua e in là, e tutto il resto è noia, fatica, sacrificio e dolore. Non ne vale proprio la pena. Il prezzo è troppo alto. L'unico motivo per cui la si sopporta è quello di non dare ai propri nemici la soddisfazione di vederci morire in disgrazia  e la possibilità di sputare sulla nostra tomba>>
In questo, ma soltanto in questo, condivideva il parere della sua illustre consuocera Diana Orsini, e del loro comune nipote.
In seguito cambiò opinione quando si riavvicinò al Cattolicesimo, dopo la morte dell'amatissima moglie.

Romano era stato militare, caporal maggiore nella Guerra d'Abissinia, come ricordammo in un remoto capitolo di questo romanzo, ma aveva operato quasi sempre nelle retrovie e dunque tale esperienza aveva inciso solo nel favorire la sua abitudinarietà e il suo rigore spartano.

Ma lo spirito battagliero, ormai, veniva fuori solo se la contesa riguardava i suoi soldi: in quel caso diventava più furente di Attila.
Allo stesso modo la pensava riguardo alla politica: gli interessava solo se poteva favorire i suoi affari.
Era sempre stato suo fratello Edoardo il politico di famiglia e si era rivelato utilissimo per quel che riguardava gli appalti, i rapporti privilegiati con gli enti pubblici, la concessione di autorizzazioni e la soluzione di eventuali problemi giudiziari. Edoardo era il segretario regionale del partito che all'epoca si chiamava ancora PDS (adesso la S non c'è più e il segretario è un ex-democristiano che si è radicalizzato insegnando non si sa cosa a Parigi).
Quando però non c'era suo fratello in circolazione, Romano condannava tutti i partiti senza distinzione e amava citare una massima universale che, come al solito, gli era stata detta da sua sorella Anita, la quale la attribuiva a Kafka:
"Un cretino è un cretino, due cretini sono due cretini, diecimila cretini sono un partito politico"

Viveva ancora a Faenza, in una casa che si trovava vicino al fiume Lamone e davanti a una piazzetta rotonda, privata, con al centro una fontana e un piccolo canale circolare, unica concessione alle glorie dell'azienda Fratelli Monterovere.
La casa aveva un pianoterra, un primo piano ed un sottotetto con alcuni abbaini. 
Le pareti esterne erano quasi tutte ricoperte dall'edera.




 Non c'era l'ascensore, e Romano ne spiegava il motivo con il consueto sarcasmo:
<<Gente che va su e giù per le scale mobili, negli ascensori, che guida automobili, che ha le porte dei garage che si aprono schiacciando un pulsante. E poi vanno in palestra per smaltire il grasso!>>
A chi osava obiettare che: "Per chi è malato o anziano l'ascensore non è un lusso, ma una necessità", lui replicava: <<E' vero, in questo caso starò nell'appartamento al piano terra. E grazie tante per l'interessamento!>>.
E lo fece sul serio, alcuni anni dopo.
Questo eccesso di understatement non era solo tirchieria, era anche una strategia fiscale:
<<Dal momento che mia sorella Anita mi fa da prestanome, le sanguisughe della Finanza non devono trovare alcun motivo per credere che io abbia più soldi di quelli che dichiaro>>

Il problema, però, era che Anita, una bionda platinata in età da botulino, stava acquisendo troppo potere e troppa indipendenza, come dimostrava il fatto che ricevesse spesso le visite di Lorenzo, con la ridicola scusa della presunta parentela dei Monterovere coi Montecuccoli, argomento di cui Romano non voleva nemmeno sentir parlare: 
"Non c'è alcuna eredità in ballo, e allora perché perdere tanto tempo e risorse in una simile scempiaggine?".
La verità era che Romano non si fidava più di nessuno, a parte sua figlia Enrichetta, la mastodontica Amministratrice Delegata della Fratelli Monterovere Srl.

Da quando Giulia Lanni, la figlia del cofondatore dell'azienda, l'ingegner Francesco Lanni, detto "Il Profeta delle Acque", era morta prematuramente per aneurisma all'aorta insorto in un quadro di insufficienza cardiaca ereditaria, suo marito Romano era caduto in una spirale depressiva che col tempo si era trasformata in ipocondria e paranoia.
Giulia era stata l'unica donna che lui avesse amato veramente.
Da quando lei non c'era più, Romano non sopportava più le donne, tranne sua madre Eleonora, sua sorella Anita e sua figlia Enrichetta: tutte le altre, ai suoi occhi, erano donnacce.
Era diventato ferocemente maschilista:
<<Perché il cervello delle donne è piccolo? Perché l'hanno gonfiato!>>
Era diventato intollerante e per questo perché, oltre alla motivata paura per i ladri, i rapitori e i terroristi, erano insorte altre fobie che all'epoca erano molto più di diffuse di adesso: xenofobia e omofobia in primis.
Faceva vigilare la casa da una scorta che il Comune, dietro insistenza di Edoardo, gli aveva fornito a spese dei contribuenti.
Nonostante questo, le sue paure e le sue ire non si erano placate, specie per chi osava rimanere sveglio o addirittura uscire dopo le 9 di sera, quando Romano andava a dormire.
<<Chi è che va in giro di notte?>> e si dava la risposta in dialetto <<gl'imbarieg, i leidar, i zengan, i nigar, al puteni e i fnoc>>
Crediamo che non ci sia bisogno di traduzione.
Oppure se ne usciva con quesiti in apparenza generali, ma poi mirati ad personam:
<<Come mai la maggioranza delle donne crede nell'oroscopo, mentre i maschi ci ridono sopra? Perché i maschi hanno più cervello, tranne mio figlio Lorenzo, ammesso che sia un maschio>>
Nutriva dubbi sulle preferenze sessuali di Lorenzo, (e certo il fatto che quest'ultimo si vestisse di viola non era d'aiuto) e sentiva quindi, come padre, di avere il diritto, anzi, il dovere, di manifestare il suo dissenso chiamandolo con epiteti non certo edificanti, tipo: "Il cavaliere del Santo Deretano".

La sua spietatezza verso il terzogenito era ricambiata da un disprezzo assoluto da parte di quest'ultimo.
L'ultima volta che Romano aveva parlato con Lorenzo era stato dopo il funerale di Giulia Lanni, il 28 agosto 1976.
Era stata una scenata sconvolgente, sul sagrato della chiesa.
Romano, ancora sconvolto per la morte della moglie, aveva incolpato Lorenzo:
"E' morta di crepacuore per causa tua! Aveva capito che frequentavi gente losca come quel Fernando Albedo!"
E Lorenzo aveva replicato:
"Albedo è un grand'uomo, un filantropo, ma per te la generosità è un concetto incomprensibile. 
E comunque, sappi che la mamma soffriva per il modo in cui mi trattavi, la colpa è tua se il suo cuore si è spezzato!"
Romano, infuriato, aveva urlato il suo anatema più temibile:
<<Come osi dare la colpa a me! Io amavo tua madre più di me stesso! Ma tu che ne sai di queste cose? Sei solo un viscido eunuco, un ragno tessitore che vive di complotti! Io ti rinnego e ti diseredo! Non avrai neanche un centesimo da me!"
E Lorenzo gli aveva risposto con una frase che sarebbe rimasta incisa a lettere di fuoco negli annali della famiglia Monterovere:
<<Tanto meglio! Rifiuterei di essere il tuo erede anche se tu mi lasciassi tutto l'oro del mondo!"

E passò molto tempo.
Durante quel periodo tra il '76 e il '92, Romano aveva attraversato una profonda crisi depressiva che lo aveva portato di fronte al famoso dilemma di Huysmans (che il vecchio non aveva mai sentito nominare, sia ben chiaro) e cioè, secondo la formulazione del critico Barbey D’Aurévilly nella recensione di "À Rebours", scegliere tra spararsi un colpo di pistola o buttarsi ai piedi della Croce.

Romano scelse la Croce, ma per il parroco non fu affatto facile tentare di riportare l'anima del vecchio Monterovere sulla retta via.
L'umore di questo ingombrante parrocchiano era talmente ondivago che passava da momenti di crisi mistica, in cui sembrava pentirsi di tutti i suoi errori, a momenti di immotivata euforia nei quali tornava ad essere quello di un tempo, cinico e sferzante.
Il vero motivo che lo spingeva ad andare sempre a Messa e a confessarsi era la speranza di poter rivedere Giulia in Paradiso, ma Romano era sufficientemente sveglio per capire che, per uno come lui, non sarebbe stato facile e consono al carattere irrequieto nonostante l'età, scampare alle fiamme dell'Inferno.
Ancora non era arrivato alla fase della redenzione: diciamo che si trovava più o meno nelle condizioni di Ebenezer Scrooge subito dopo la morte del socio Jacob Marley, prima di essere visitato dai tre Spiriti del Natale.

Era venuto a sapere che c'era stato un dissapore tra Francesco, il suo primogenito, e Lorenzo.
Glielo aveva riferito la figlia di mezzo, la sua preferita, Enrichetta, che a sua volta l'aveva saputo da Luisa, la moglie di Edoardo, che era ancora in buoni rapporti con Silvia (funziona sempre così, nelle famiglie ramificate dove ci sono, quasi sempre, dissidi e faide interne).
Secondo queste voci, Lorenzo si stava intromettendo nella vita del figlio di Francesco, Roberto, che Romano chiamava, con disprezzo: "Il Principino".







E qui, dopo tanto tempo, Romano si trovava a condividere qualcosa con Francesco, quel figlio primogenito che gli era costato "un occhio della testa" (secondo lui) in rette universitarie.

I rapporti tra i due erano stati altalenanti: dopo il matrimonio di Francesco con Silvia Ricci-Orsini, Romano aveva ripreso una parvenza di rapporti formali col primogenito, a condizione che rispettasse alcune regole.
Gli aveva inviato una lettera con le sue richieste, senza rivolgersi a lui in maniera diretta:
<<Sono disposto a mantenere un atteggiamento benevolo verso mio figlio Francesco, fino a quando si comporterà bene (quamdiu se bene gesserit)>> 
La locuzione latina era chiaramente opera di sua sorella Anita o della zia Valentina Bassi-Pallai, sorella di Eleonora Bonaccorsi Monterovere, la madre di Romano, nonché, pure lei, azionista prestanome dell'azienda e moglie di un nobiluomo scapestrato che a cent'anni faceva ancora il donnaiolo.
<<Le condizioni sono: 
1) che Francesco, sua moglie e suo figlio, per almeno due domeniche al mese, partecipino a una messa in suffragio dell'anima della mia defunta moglie. Naturalmente sarà Francesco a pagare il parroco e ad offrire una cospicua donazione alla parrocchia;
2) che al termine di tale messa accompagnino me e mia sorella Anita alla residenza di quest'ultima, per un frugale pasto offerto dalla mia cara sorella;
3) che al termine di tale pasto ci si rechi tutti, sempre con l'automobile di Francesco, al cimitero, per rendere omaggio alla tomba della mia defunta moglie.
4) che al termine della visita mio figlio riaccompagni me a casa e poi mia sorella a casa, dove si tratterrà per una partita a carte a cui parteciperà anche mio fratello Edoardo con sua moglie;
5) che io sia ospite per un periodo di un mese all'anno (a mia scelta) nella residenza cervese di mia nuora per poter fare "la cura del mare e del sole" nonché le terme>>
Per alcuni anni quel rituale era stato rispettato, poi col tempo la disponibilità di Silvia a seguire il marito e il figlio in quella via crucis imposta dal vecchio, era venuta meno.
Francesco e Roberto, senza Silvia, erano andati da Romano e Anita per dire che ormai quel tour de force li aveva stancati.

Il vecchio e sua sorella non aspettavano altro che quello per poter sparlare di Silvia e di sua madre.
Anita in particolare nutriva per Silvia un astio feroce, memore del fatto che Silvia era stata preferita alla propria "candidata", una certa Ivana, ex allieva e poi collega della terribile signorina maestra Monterovere.
<<Se lei ti dice: Il problema sono io e non tu, ricorda che ti sta implicitamente dicendo che tu non sei neanche la soluzione>>

Francesco ne aveva avuto abbastanza:
<<Sentite, io non amo le persone mattiniere. E nemmeno le mattine. E soprattutto le mattine in cui devo svegliarmi presto per venire qui a Faenza per farvi da autista e raccogliere solo insulti!>>.

La zia non lo perdonò mai, ma fece finta di non aver sentito, per poter ancora esercitare un ascendente sul nipote anche dopo averlo (in segreto) diseredato.
Romano invece la prese malissimo:
<<Se sei venuto qui solo per mortificarmi, puoi anche tornare a lucidare gli stivali di Ettore Ricci.
Che ingrato! Dopo tutto quello che ho fatto per te!>>
E qui partiva una requisitoria che incominciava "ab ovo":
Francesco era nato nel 1941, in piena Seconda Guerra Mondiale, in un momento in cui, in effetti, la famiglia Monterovere aveva conosciuto la miseria più nera, e mangiato cibi andati a male o pieni di vermi e questo era stato un trauma per tutti loro, che su una cosa almeno concordarono sempre, ossia: se vengono a mancare alcune condizioni essenziali per la propria dignità, la vita stessa vale poco.
Ma le reazioni personali erano poi state diverse.
Francesco, cresciuto nella miseria, da adulto non si era mai fatto mancare niente.

Per Anita e Romano, invece, ciò che contava era ammassare denaro in maniera ossessiva per non doversi mai trovare di nuovo in quelle condizioni. Ma di quel denaro non spendevano quasi nulla.
Romano in particolare, la cui mente era turbata dalle paure, accentuò la sua condotta di vita improntata alla prudenza, all'abitudinarietà e all'estrema parsimonia.
Pur diventando sempre più ricco, diventava anche più taccagno e divorato da fobie di ogni genere, fino alla paranoia.
Sospettava di tutti, persino di Roberto.

Aveva sempre trattato in maniera gelida e distaccata il nipote, cosa inspiegabile, apparentemente, perché Roberto, come sappiamo, era l'ultimo erede maschio dei Monterovere, e questo avrebbe dovuto significare qualcosa per suo nonno, ma Romano gli aveva fatto capire, (con il suo comportamento, prima ancora che con le sue parole), che l'unico Monterovere che gli stava a cuore era se stesso.

Roberto aveva cercato per anni, invano, di conquistarsi se non l'affetto, quantomeno il rispetto del nonno paterno.
Tentava persino di giustificarlo, di convincersi che i vizi di Romano fossero virtù, che la sua tirchieria fosse una giusta e sobria frugalità, che la sua totale indifferenza fosse una forma di dignitas e di gravitas, come nel mos maiorum romano e che dunque suo nonno paterno fosse un integer vitae scelerisque purus.




Ma Romano aveva interpretato le virtù del popolo suo omonimo nella maniera in cui le avrebbe potute interpretare un Longobardo o un Ostrogoto, come del resto anche la sua fisionomia era decisamente più germanica e "ariana" che latina.
E alla fine Roberto dovette ammettere a se stesso che Romano era quello era.
La frattura nei loro già esilissimi rapporti avvenne nello stesso giorno in cui Romano aveva rampognato Francesco e sparlato di Silvia.
Il vecchio era così infuriato che non resistette alla tentazione di sfogare la sua ira anche sul nipote.
Roberto aveva solo quattordici anni quando, quella domenica, il nonno paterno gli disse:
<<Tua nonna Giulia morì di aneurisma poche ore dopo averti tenuto in braccio 
Non te l'hanno mai detto, vero? Be', è ora che tu lo sappia, caro il mio Principino! Avevi un anno, ma per lei anche un neonato sarebbe stato un peso enorme. Non avrei dovuto permettere che ti toccasse.
Sei stato l'Angelo della Morte per lei e la maledizione della mia vita: è per questo che non sono mai riuscito a volerti bene!>>
Francesco stava per intervenire, ma Roberto disse:
<<Continua, nonno, è da tempo che aspettavo una spiegazione che mi facesse capire da dove nasceva il tuo evidente rancore nei miei confronti>>
E Romano non si lasciò pregare:
<<Sei solo un Principino viziato. I tuoi genitori sono stati troppo teneri con te.
Non parliamo poi della Nobildonna! La Contessa di Casemurate! Sua Signoria! 
Lei ti ha viziato più di tutti gli altri! 
Persino Ettore Ricci, che io ritenevo un duro come me, è stato troppo tenero nei tuoi confronti.
E adesso sei diventato un lacchè della nobile stirpe degli Orsini, tutta gente con la puzza sotto al naso, incapace di fare qualsiasi lavoro o di conoscere il senso del risparmio>>
Roberto aveva protestato:
<<Io non sono né un lacchè, né un incapace! Ho sempre fatto il mio dovere!>>
Romano aveva scosso il capo:
<<Non basta! Se vuoi il mio rispetto e il mio affetto, caro altezzoso Principino, te li dovrai guadagnare! 
Non è sufficiente amare i fiumi e i canali per essere un vero discendente dell'ingegner Lanni.
Lui sì che era un grand'uomo, e questo nessuno può negarlo!
Prendi esempio da lui! 
Dici di essere bravo a scuola, ma voglio vedere cosa farai all'università.
Ecco la mia proposta: laureati in Ingegneria civile con specializzazione in idraulica e allora forse, e ripeto forse, potrai avere una piccola quota dell'azienda Monterovere>>





Roberto allora, fissandolo con uno sguardo severo ed inquietante, e gli rispose con la compostezza e la pacatezza di chi, da lungo tempo, si era preparato un discorso importante:
<<Ammiro l'ingegner Lanni, era davvero un grand'uomo. E' un esempio che terrò presente.
La scelta universitaria non sarà facile, ma ingegneria civile è una delle opzioni.
Però ti devo dire una cosa. Se è vero quello che dici, riguardo alla morte di nonna Giulia, tu non hai compreso che lei, prendendomi in braccio quando avevo solo un anno, mi dimostrò il suo amore, consapevole che la malattia le lasciava pochissimo tempo. 
Lei ha voluto che il suo ultimo gesto, nella vita, fosse un gesto d'amore.
Era una scelta che spettava a lei, era un suo diritto, di fronte ad una malattia che non le lasciava scampo. Conosceva le conseguenze di ogni singolo atto, ed ha preso una decisione.
La sua morte non è colpa di nessuno, ma è un dolore immenso per tutti, non è soltanto il tuo dolore. Se l'avessi condiviso con i tuoi figli e con me, saresti stato un uomo migliore e forse avresti trovato la serenità che non hai mai avuto.
Il tuo rancore ti confonde e ti impedisce di vedere le cose in maniera obiettiva.
Io ho atteso per quattordici anni, invano, un sorriso, una carezza, una buona parola: mi sarebbero bastate per provare affetto per te, ma non sono arrivate mai.
L'affetto non si compra e non si vende, e tutto l'oro del mondo non servirà a renderti sereno, se non imparerai a rispettare gli altri e a provare affetto per un nipote verso cui hai mostrato solo indifferenza e disprezzo, senza averne alcun motivo.
Ma io non ti serbo rancore e ti chiedo solo due cose: rispetto e affetto, nient'altro>>
Roberto era sincero.
In quel momento stava pensando ad una frase che aveva letto da qualche parte, ma non ricordava più dove:
"Sarai sicuro di aver vinto solo quando avrai guardato nel profondo della mente del nemico, e avrai provato pietà"

Romano era rimasto senza parole, aveva fissato a lungo il nipote, come se avesse davanti un alieno che parlava un linguaggio incomprensibile. 
Poi, senza dire un nulla, senza muovere nemmeno un muscolo della faccia, si era ritirato in camera sua.
E soltanto quando fu certo che nessuno potesse vederlo o sentirlo, pianse, perché in fondo aveva capito che il nipote aveva ragione.
Eppure temeva che fosse ormai troppo tardi per cambiare, anche se qualcosa nella sua mente si era ridestato ed aveva avviato un processo di redenzione che avrebbe però avuto bisogno di tempo per potersi fare strada nei suoi pensieri e nelle sue decisioni.
Da quel giorno, per tre anni, non ci furono più contatti tra loro.
Romano delegò sempre più incarichi ad Enrichetta, a suo marito e ai suoi figli.
Ma quando, in quel fatidico 1992, Lorenzo mostrò interesse verso "il Principino", Romano incominciò a provare uno strano senso di gelosia.
Ma com'era possibile saldare una frattura senza averla curata per così tanti anni?
Romano si ritrovò a domandarsi da dove avesse avuto inizio tutto quel rancore tra lui e i figli, e poi il nipote? Perché li aveva trattati così male? Da dove era nato tutto quel male?
E arrivò a ciò che nei "prequel" cinematografici degli horror di successo, viene intitolato "L'origine del male", risalendo sempre più a ritroso.

I lodevoli lettori che ci seguono fin dal primo capitolo, (a cui va tutta la nostra riconoscenza), forse ricorderanno che questa narrazione si apriva con la morte dell'antenato Ferdinando Monterovere, disarcionato da cavallo presso l'Orma del Diavolo, nella selva di Querciagrossa.




Tutte le storie di spiritelli e folletti, di riti pagani e querce abbattute, di maledizioni e di scongiuri, e chi più ne ha, più ne metta, furono talmente sconvolgenti da convincere il figlio di Ferdinando, Enrico Monterovere, e sua moglie Eleonora Bonaccorsi, a vendere tutte le proprietà di famiglia e a trasferirsi nella bassa romagnola.
Per i nove figli di Enrico ed Eleonora quella serie di eventi fu ancora più traumatica, specie per i maggiori, e cioè Anita e Romano.
Molti mali della mente nascono a causa dello sradicamento e molti altri quando qualcuno, o qualcosa, convince il soggetto a non essere degno di essere amato.
Nel caso di Anita e Romano si trattò di entrambi i genitori.
Dopo il trasferimento nella bassa romagnola, erano piombati in una crisi depressiva involutiva senza vie d'uscita. 
E qui i lettori ci consentano di far notare come il gene della depressione (più correttamente si dovrebbe dire della predisposizione alla depressione) era presente sia nei Monterovere che nei Bonaccorsi, la famiglia della madre di Romano.
Se poi si considera che tale gene era presente anche negli Orsini in maniera massiccia, e nei Lanni, in maniera più lieve, ma più insidiosa, perché agiva "sotto traccia", si potrà capire perché l'incrocio di tutte queste linee di sangue doveva essere evitato.
("Perisca il giorno in cui nacqui, e la notte in cui si disse: è stato concepito un uomo")

Enrico Monterovere si era dato all'alcolismo, Eleonora Bonaccorsi aveva rimosso il passato, rifiutando i figli maggiori e concentrando le sue attenzioni sui figli più piccoli, specie quelli che, a causa del clima malsano di quelle zone paludose, si erano ammalati di tubercolosi.

Anita, Romano e i due fratelli  si erano trovati senza punti di riferimento, con un padre che sapeva solo ubriacarsi, sbraitare, infuriarsi e distribuire pugni e calci alla prole e una madre che passava il tempo a lamentarsi, brontolare, pregare per la salvezza dei piccoli malati di tisi, che poi regolarmente passavano a miglior vita, tranne Tommaso ed Edoardo, che infine ebbero tutte le attenzioni di Eleonora.

Alla fine Anita aveva scelto di proseguire gli studi e diventare insegnante elementare, mentre Romano, Umberto, Ferdinando, Tommaso ed Edoardo avevano fondato l'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, con l'apporto dei capitali degli zii Bassi-Pallai (Valentina Bonaccorsi aveva sposato il ricco Carlo Bassi-Pallai) e dell'ingegner Francesco Lanni, il suocero di Romano.
Poi Umberto era morto pure lui di tisi, Tommaso era morto in guerra, Edoardo si era dato alla politica e il resto è storia nota.
La penicillina guarì Romano dalla tubercolosi, la guerra lo risparmiò, e l'azienda lo fece diventare ricco e influente, ma tutto questo non bastò a ridargli la serenità perduta della sua infanzia.
Era passati molti decenni da quegli eventi, ma "ci sono cose che il tempo non può accomodare, ferite talmente profonde che lasciano un segno", una cicatrice indelebile, profonda, nell'anima.
Come si fa a raccogliere le fila di una vita spezzata? Come si fa ad andare avanti quando nel tuo cuore cominci a capire che non si torna indietro?
C'è una cosa che col tempo le persone che hanno sofferto iniziano a capire, e cioè che il passato diventa passato solo quando non può più ferirti e questo non accade quasi mai, persino quando le cose tornano ad andare bene. 
Per Anita e Romano quel passato, ormai ridotto a un cumulo di rovine, faceva ancora male.






Forse nemmeno Freud sarebbe riuscito a cavare fuori qualcosa di buono da quelle anime perse e da quei cervelli danneggiati e segnati dal dolore e dalle nevrosi.
"Non possiamo cambiarli, ma possiamo aiutarli ad accettare se stessi. Non possiamo guarirli, ma possiamo aiutarli a vivere meglio", questa è la sintesi del discorso psicoanalitico, ma a volte non si riesce ad arrivare nemmeno a questi obiettivi minimali.
E poi c'erano le tare ereditarie: tutti i Monterovere erano uomini iracondi, oltre che depressi.
Quando i predatori diventano troppi e troppo aggressivi, e le prede troppo poche e troppo deboli, allora il sistema va in crisi strutturale. In tale crisi, entrambe le razze rischiano l'estinzione.
Ed era proprio quello che stava capitando ai Monterovere, che erano sia predatori che prede e si distruggevano lottando tra di loro.
Erano però uomini di parola, persone ritenute almeno coerenti con il proprio pensiero.
Ma la coerenza non deve degenerare nella prevedibilità: se sei prevedibile, il nemico sa bene come, dove e quando colpirti. 
Romano rifletteva su tutto questo e si chiedeva cosa fare.
Dialogava con se stesso, formulando pensieri e meditando.
C'è una purezza negli oggetti che non sono mai riuscito a trovare in un essere vivente: gli oggetti non cambiano, non ti deludono mai.
Quando si trovava in quello stato d'animo, non gli restava altro che telefonare a sua sorella Anita.
Conversarono, in quel giorno di fine settembre, mentre il sole d'autunno tramontava e l'aria si faceva più fredda.
Non a lungo brillerà qualche luce sull'Acropoli in questa estate già finita.
Era un pensiero di Anita, che lo comunicò al fratello e poi gli disse:
<<Anche noi discendiamo da grandi uomini, e neppure a noi mancano volontà e coraggio. E dunque non piegarti, Romano. Una volta che ti sei piegato anche di poco, loro ti piegheranno ancora, fino a schiacciarti del tutto. Sprofonda le tue radici nella roccia e resisti al vento, anche se fa volar via tutte le tue foglie>>
Romano sentiva già il freddo dell'autunno incipiente nelle ossa, ed i suoi pensieri erano simili a quelli espressi mirabilmente da Montale in una delle sue ultime poesie.

Proteggetemi
custodi  miei silenziosi
perché il sole si raffredda
e l'ultima foglia dell'alloro
era polverosa
e non servì nemmeno per la casseruola
dell'arrosto -
proteggetemi da questa pellicola
da quattro soldi
che continua a svolgersi
davanti a me
e pretende di coinvolgermi
come attore o comparsa
non prevista dal copione -
proteggetemi persino dalla vostra presenza
quasi sempre inutile
e intempestiva
proteggetemi
dalle vostre spaventose assenze -
dal vuoto che create
attorno a me
proteggetemi dalle Muse
che vidi appollaiate
o anche dimezzate a mezzo busto
per nascondersi meglio
dal mio passo di fantasma -
proteggetemi o meglio ancora
ignoratemi
quando entrerò nel loculo che ho già pagato da anni -
proteggetemi dalla fama/farsa
che mi ha introdotto nel Larousse illustrato
per scancellarmi poi
dalla nuova edizione -
proteggetemi
da chi impetra la vostra permanenza
attorno al mio catafalco -
proteggetemi con la vostra dimenticanza
se questo può servire a tenermi in piedi
poveri lari sempre chiusi nella vostra 
dubbiosa identità -
proteggetemi senza che alcuno
ne sia informato
perché il sole si raffredda e chi lo sa
malvagiamente se ne rallegra
o miei piccoli numi
divinità di terz'ordine scacciate
dall'etere.

[Quaderno di quattro anni, Montale tutte le poesie, I Meridiani Mondadori, 1984 (pag 628-629)]

Romano non riusciva più a fidarsi nemmeno di sua sorella:
«Ci attendono giorni difficili: temo il tradimento più di ogni altra cosa e non mi piace il fatto che frequenti Lorenzo»
Anita fu colta impreparata:
«Ma…»
«Ma cosa?» chiese suo fratello «Ti concedo un solo “ma” questa sera.»
Anita soppesò le parole:
«E' solo un modo per tenerlo d'occhio»
Romano non ne era affatto convinto:
<<Spero per il tuo bene che non ci siano altre ragioni. 
Ricordati che un traditore può causare paradossalmente l'esatto opposto delle sue intenzioni, portando soltanto se stesso alla rovina e compiendo, nei confronti del nemico, del bene che non intendeva fare. A volte può accadere, Anita.
Buona notte!>>
Le sue telefonate non duravano mai troppo.
Il suo pensiero andò inevitabilmente a Giulia, l'unica di cui si sarebbe potuto fidare ciecamente.
Poiché era un devoto cattolico, sapeva che lei era in Paradiso, mentre lui rischiava seriamente di finire all'Inferno, perché il parroco lo aveva ammonito più volte: 
"Ricadi troppo spesso negli stessi peccati. Il che mi porta a sospettare che il tuo pentimento non sia sincero. Se fosse così, non potrei darti l'Assoluzione. Quindi io ti dico: pentiti finché sei in tempo, perché soltanto così potrai salvare la tua anima e rivedere Giulia"
Forse era venuto il momento di pentirsi sul serio.
Si ricordò di una frase che de La cavalleria rusticana, l'ultima volta che era andato con sua moglie a teatro, all'opera, perché lei era colta e riusciva a fargli conoscere le cose belle.
"E s'iddu muoru e vaju mparadisu | si nun ce truovu a ttia, mancu ce trasu" 
“E se muoio e vado in paradiso, se non ci trovo te non ci entro nemmeno”.
Era una delle piú belle frasi d'amore dell'opera lirica italiana. L'ultima frase dei versi che Turiddu dedica a Lola.
Rivolse allora la sua preghiera all'anima della cara moglie:
"Aiutami, Giulia, aiutami a diventare una persona migliore, aiutami a cambiare, aiutami a  ricominciare..."