giovedì 11 febbraio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 109. E cos'è tanto raro quanto un giorno di maggio?


Nel memorabile incipit del più famoso passo di "The Vision of Sir Launfal", il poeta romantico americano James Russell Lowell si pone, in maniera retorica e quasi paradossale, un  quesito sorprendente: "And what is so rare as a day in June?" .
L'interpretazione letterale ci rimanda ad un topos poetico. Il poeta si riferisce al fatto che in giugno si trovano le giornate più lunghe dell'anno (intese come ore solari) e la natura raggiunge il suo massimo rigoglio, così come per metafora durante la giovinezza la vita delle persone è al suo apice, e la felicità sembra essere a portata di mano. Questa la spiegazione, di per sé, è limitata, perché consiste in un luogo comune  a cui si ricorre fin troppo spesso in poesia. 
A nostro parere Lowell ci dice molto di più : nel senso che, se il poeta insiste tanto nell'associare la felicità a questa fase dell'anno e al momento culminante della giovinezza, allora la probabilità di essere felici viene circoscritta ad un periodo breve, e di conseguenza raro, e quindi  la domanda che Lowell si pone è molto più generale e inquietante, ossia: "Che cosa c'è di più raro della felicità?"
E' questo il senso : è la felicità ad essere rara, non i giorni di giugno.

In maggio, però, è tutto un altro discorso, almeno secondo Roberto Monterovere.
In quel famoso Anno della Falsa Primavera, la felicità lo raggiunse di sorpresa, in un sabato di maggio, e poi lo riempì e lo travolse a tal punto da fargli credere che fosse possibile riuscire a sapere e a capire davvero i sentimenti e i pensieri della persona amata. Ma non è così. Certe cose, anche importanti, non le sapremo mai e non le capiremo mai.
Noi non amiamo la persona, ma l'idea che ci siamo fatti di quella persona: solo se si è consapevoli di questo, si può dare solidità ad un rapporto, senza restare delusi quando l'idealizzazione viene meno e coloro che abbiamo messo su un piedistallo ci si mostrano in tutte le loro infinite sfaccettature.

"Era de maggio...", dunque, come recita una meravigliosa canzone napoletana che vorrei facesse da introduzione sonora a quanto stiamo per raccontare.
Quel giorno era destinato a rimanere impresso nella mente di Roberto, in ogni singolo dettaglio, per tutta una serie di circostanze che fece coincidere una fase felice della sua vita con un evento tragico della storia nazionale italiana, ossia la strage di Capaci, nella quale persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
Era, per la precisione, il 23 maggio 1992, e la vita politica italiana si trovava in una fase di sconvolgimento, per tutta una serie di eventi ben noti che provocarono la crisi dei partiti tradizionali e l'emergere di nuove forze politiche
Normalmente Roberto seguiva la politica, anche se non aveva in merito le idee molto chiare.
In quel periodo, il suo innamoramento per Aurora gli aveva fatto perdere di vista tutto il resto (tranne i suoi doveri di studente), e in quei giorni, in particolare, vedeva tutto con gli occhiali rosa dell'amore, 
Era un sabato, e approfittando del fatto che il resto della famiglia era nella villa di collina, Aurora aveva invitato Roberto a casa sua, per un pomeriggio rilassante di musica e di confidenze.
Certo era strano che i Visconti-Ordelaffi lasciassero la loro unica figlia da sola nel grande palazzo, ma in fondo era presente il personale domestico, per cui non erano davvero soli.
Quando Roberto arrivò, Aurora era ancor più bella del solito, e volle fargli vedere le varie stanze del piano nobile, per poi arrivare, inevitabilmente, alla sua camera.
Intendiamoci, nessuno dei due aveva in mente nulla di erotico: si trattava semplicemente di trascorrere il tempo ascoltando canzoni romantiche e condividendo le proprie emozioni.
La stanza di Aurora era molto ampia, ma diversa da come Roberto se l'era immaginata.


Era in stile contemporaneo, geometrico e minimalista. Le pareti erano rosa, mentre i mobili erano in parte color fucsia e in parte color lavanda.
Da un lato c'era un ampio guardaroba, in un armadio a muro che occupava quasi due pareti (angolo compreso). Dall'altro c'era una finestra, un mobile di frassino che poteva essere adibito sia a libreria che a vano portaoggetti. Poi, sempre di frassino, c'era una scrivania con computer, cancelleria e cassetti fucsia e lavanda con maniglie a forma di cuore.
Addossati alla parete di fondo c'erano un comodino, un comò a cassettoni (sempre fuscia e lavanda con maniglie a cuore) sopra il quale troneggiava una specchiera con vari oggetti di cosmetica.
In mezzo a tutto questo, si trovava un tappeto enorme, pulito, molto spesso e morbido, con alcuni peluches sparsi e poi, naturalmente, accostato al muro, un letto a una piazza e mezzo, con lenzuola floreali e vari cuscinetti colorati. Subito dietro c'era un rivestimento in pelle bianca, foderato e sormontato da un pannello rosa su cui erano inserite alcune cartoline, foto di famiglia e di amici, più gli idoli di Aurora, in particolare Claudio Baglioni (il suo preferito) e Lucio Battisti (il numero due).
Quelle immagini erano gli unici indizi che potevano far pensare che la camera fosse abitata da una diciassettenne.
Per il resto sembrava più la camera di una bambina di prima media molto diligente e rispettosa delle regole.
Roberto ebbe la vaga impressione che ci fosse qualcosa di strano.
E' davvero questa la stanza della Principessa dei miei sogni? O c'è anche un'altra stanza, segreta, dove lei nasconde le prove di una personalità diversa da quella che la famiglia ha tentato di plasmare?
Per il momento preferì non pensarci: in fondo quel giorno era il loro primo vero incontro in cui potessero parlare liberamente per molte ore.
Aurora esordì dicendo:
<<Ma ti ricordi che una volta mi chiamavi per cognome?>>
Lui non se lo ricordava, ma cercò di giustificarsi:
<<Era solo per scherzare>>
Lei non ci credette:
<<No, no, all'epoca proprio non ti interessavo per niente. Per punizione adesso, come avevamo già preventivato, ti farò ascoltare tutte le mie canzoni preferite, partendo ovviamente da quelle di Baglioni, che tra l'altro ti assomiglia un po'>>
Per lui non c'era alcuna somiglianza:
<<Abbiamo in comune solo il naso>>
Lei rise:
<<Che scemo! Io mi riferivo agli occhi, al sorriso, ai capelli lunghi, soprattutto nelle foto di lui da ragazzo, in cui aveva poco più della nostra età. E lo sguardo, vedi, ha l'aria di un sognatore con la testa tra le nuvole>>
Roberto osservò i poster, risalenti agli Anni '70 :
<<Sì, forse qualcosa... vagamente... ma solo se preso dal profilo giusto. Comunque mi sono fatto crescere i capelli solo perché me l'hai chiesto tu. I miei familiari disapprovano, tranne Diana, naturalmente>>




Aurora sorrise:
<<Spero che tu me la faccia conoscere. Mia madre mi ha parlato tanto di lei>>
Lui annuì:
<<D'accordo, organizzerò un incontro, anche se temo che tuo padre e la tua bisnonna non ne saranno felici, per non parlare della famiglia Porcu>>
Lei scrollò le spalle, come se si trattasse di una questione trascurabile:
<<E' mia madre che conta, e lei stravede per te>>
Poi tornò alla carica su Baglioni:
<<Era un figlio dei fiori, un hippy, ma non si è mai schierato politicamente con la sinistra>>
Roberto sorrise:
<<Le cose stanno cambiando. Dagli tempo. Prima o poi approderà anche lui al lido dei radical-chic. E tu, politicamente, a chi ti senti vicina?>>
La risposta fu più che eloquente:
<<Io e i miei genitori siamo liberali conservatori, i miei votano il PLI. I miei nonni e i miei zii sono di destra, votano il MSI. La bisnonna Clotilde è monarchica e ogni volta deve cercare di capire in che partito sono finiti i monarchici>> rise <<E tu?>>
Lui, come sempre, non aveva le idee chiare:
<<Io non ho certezze, forse perché i miei genitori hanno idee diverse tra loro, anche in ambito politico, così come le loro famiglie. I Monterovere sono progressisti e i Ricci-Orsini sono conservatori.
Io potrei definirmi come un laico di centro, a metà strada tra i liberaldemocratici e i socialdemocratici... qualcosa del genere>>
Lei annuì:
<<Può andar bene, sia a me che ai miei. E il resto della famiglia dovrà farsene una ragione.
Ma adesso passiamo alla musica. 
Ho qui una compilation del meglio di Baglioni. Prima però vorrei fare una premessa, contro quelli che dicono che fa venire il latte alle ginocchia. Lo dicono perché non lo conoscono bene: le sue canzoni, oltre che essere musicalmente molto valide e cantate con grande perizia, non sono affatto banali, nemmeno quelle che sembrano dei tormentoni dal titolo ammiccante. Questo piccolo grande amore, per fare l'esempio più noto, affronta un tema che secondo me è profondo: a volte noi non sappiamo riconoscere ciò che stiamo cercando, nemmeno quando ce l'abbiamo davanti, e quando alla fine ce ne rendiamo conto, ormai è troppo tardi: abbiamo allontanato la nostra fortuna, e abbiamo provocato solo dolore, prima agli altri, e poi a noi stessi.  
Lei lo ama sul serio, ma lui ha paura di mettersi in gioco, di prendere un impegno>>
E questo era proprio ciò che Roberto realmente pensava:
<<Forse credeva che lei meritasse di meglio>>
Aurora scosse il capo:
<<Ma lei lo amava davvero, e lui continuava a svicolare, a non capire che lei era la sua anima gemella. La canzone è molto chiara su questo punto: "Ed io, io non ho mai capito niente, visto che oramai non me lo levo dalla mente, che lei...". Perché voi uomini non riuscite a sintonizzarvi con i messaggi che le donne vi mandano? 
Non riuscite nemmeno ad accorgervi delle cause del vostro stesso dolore: il non aver capito in tempo, il non avere avuto il coraggio di essere chiari e sinceri, il non aver trovato mai le parole appropriate e i comportamenti coerenti.
Perché la presa di coscienza di tutto questo arriva sempre, inesorabilmente, in ritardo?
E qui si arriva al finale della canzone, al momento in cui lui si rende conto dell'errore e del dolore causato a lei e a se stesso, e del fatto che, per molto tempo, tutto questo è stato come rimosso dalla coscienza: "E io, io non lo so quant'è che ho pianto / Solamente adesso me ne sto rendendo conto"... e a quel punto mi commuovo sempre... forse perché ho paura che succeda anche a me, e ho bisogno di avere al mio fianco qualcuno che sia capace di rassicurarmi e di infondermi coraggio. 
Del resto, non è forse quello che desideriamo tutti?>>


Roberto, che non era sicuro di nulla, neppure della propria esistenza, si sentì inadeguato nel ruolo di colui che rassicura e protegge. Lui era il filosofo eretico, destinato a problematizzare l'ovvio e ad abolire l'idolatria del fatto compiuto. Come poteva infondere sicurezza?
Se fosse stato veramente onesto, avrebbe dovuto dire tutto questo.
Ma l'amore ci fa credere di poter diventare ciò di cui la persona che amiamo ha bisogno.
Decise di nascondere la propria insicurezza e di manifestare i propri sentimenti.
Ma occorreva farlo con estrema delicatezza e tenerezza.
Erano seduti sul morbido tappeto. Prima le sfiorò dolcemente la mano, mentre con l'altra le accarezzò una ciocca di capelli, dorata e preziosa come seta.
Lei era bellissima. Era la persona più bella che avesse mai visto in vita sua, ed ora lui, che non si sentiva degno di lucidarle le scarpe, le si era proposto come compagno. 
Aspettò trepidante la reazione di lei.
Aurora gli strinse la mano e con l'altra gli spettinò i capelli, sorridendo, e poi entrambi si avvicinarono e si scambiarono un bacio molto casto, e rimasero abbracciati per un po'.
Lui era al settimo cielo, lei gli si stringeva forte al petto, proprio come nella canzone.
Roberto sentì il cuore di lei palpitare forte, all'unisono col suo.
Aurora gli sorrise e gli disse:
<<Ho bisogno di te, Roberto. Promettimi che starai al mio fianco, e che non mi abbandonerai>>
Lui, tornando a guardarla in viso e asciugandole le lacrime di commozione, rispose:
<<Aurora, io ti amo. Per quale motivo dovrei abbandonarti?>>
Lei gli sussurrò:
<<Ci sono cose che non sai, ma che presto io ti rivelerò. Non oggi... oggi è solo per noi>>
Lo abbracciò di nuovo, e poi si baciarono, e quella volta fu un vero bacio, appassionato.
Con una mano lei riaccese il mangianastri e rincominciò la musica.
Il tempo trascorreva senza che loro se ne rendessero conto. 
Rimasero abbracciati, a baciarsi e ad accarezzarsi con dolcezza e grande rispetto reciproco, senza permettere che gli istinti prevalessero sul loro bisogno di romanticismo e di affetto.
Per lui era vero amore, ma per lei? Forse neppure lei avrebbe saputo rispondere.
Nel frattempo le canzoni si susseguivano ("E tu..." "Strada facendo", "Tu come stai?", "Porta portese", "Viva l'Inghilterra", "Avrai", "Io me ne andrei"), ma una su tutte rimase impressa nella mente di Roberto, e cioè Mille giorni di te e di me. 
Non potevano immaginare che sarebbe stata quella la "loro canzone".
Era bellissima, certo, ma non era una canzone felice, anzi, era la rappresentazione della fine di un grande amore, terminato per una scelta ben precisa: lui lascia lei per evitare che un dolore più grande la colpisca.
"Ti ho fatto male per non farlo alla tua vita".
Quella frase straordinaria e terribile, in quel momento sembrava solo un modo per dire che a volte amare significa anche lasciar andare chi si ama.
Nessuno di loro due poteva immaginare che, dopo meno di mille giorni, quella frase sarebbe stata l'epitaffio della loro storia. 
Gli amori felici non sono letterariamente interessanti : la letteratura ha sempre privilegiato gli amori contrastati, se non addirittura impossibili. Non occorre citare gli esempi, li conosciamo tutti a memoria. 
A volte gli ostacoli sono di tipo familiare, sociale, ambientale, situazionale; altre volte sono di tipo psicologico, personale, individuale. 
A distanza di trent'anni dagli eventi narrati, risulta ancora difficile capire quali di quegli ostacoli furono più rilevanti nel rovinare il rapporto tra Aurora e Roberto, anche perché nessuno dei due, in tutto quel tempo, disse o fece mai nulla per chiarire la natura stessa di questo rapporto.
L'unica cosa che sappiamo è che, in quel sabato pomeriggio, sia lei che lui erano stati semplicemente due adolescenti sensibili, pieni di sogni e di paure, due anime che si erano confortate a vicenda, e avevano condiviso un sogno romantico e una innocente tenerezza.
Niente di più, quel giorno, ma anche niente di meno.



venerdì 5 febbraio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 108. Omni parte vitae detestabilis


Per descrivere Felice Porcu sarebbe sufficiente prendere come modello il personaggio di Ramsay Bolton in Game of Thrones e dire che Porcu era simile, ma molto più brutto e molto più cattivo.
Due righe. E la narrazione potrebbe andare oltre, un po' come fece, da par suo, l'effervescente ed esilarante Svetonio, che liquidò Gneo Domizio Enobarbo, (padre biologico di Nerone), con sole quattro parole: "Omni parte vitae detestabilis".
Saremmo tentati di imitare lo stile icastico e le descrizioni volutamente esagerate dell'autore del De vita Caesarum, ma non possiamo, perché il personaggio in questione ebbe un ruolo troppo devastante nelle vite dei nostri protagonisti per poter essere ridotto a una mera macchietta.
Felice Porcu nasce nel 1975 come figlio di Maria Carolina Tartaglia e di Taddeo Porcu, ragioniere di origine sarda e capo-contabile presso la Visconti & Tartaglia Idrocarburi.
Dalla madre ereditò una forte miopia, che lo costrinse a portare fin da piccolo le lenti a contatto, le quali tuttavia non riuscirono del tutto a cancellare una certa vacuità e fissità dello sguardo.
Questo particolare, unito al naso a becco di gufo, uguale a quello dalla madre e della nonna materna, gli conferivano un'espressione da barbagianni, o meglio ancora da allocco


Dal padre, invece, ereditò il fisico massiccio, tarchiato, tendente alla pinguedine e mostruosamente peloso a causa di un eccesso di testosterone che gli provocò una smodata e precoce libido sessuale.
Dal punto di vista delle capacità mentali, gli vanno riconosciute una predisposizione per le materie tecnico-scientifiche, una qualche praticità in campo sportivo e una una notevole astuzia che gli permise di schivare molti pericoli, derivanti dai guai in cui finiva a causa della sua indole sadica.
Al tutto si può aggiungere una grossolana comicità, a volte involontaria.

Questa era la base genetica, ma di per sé certi elementi disfunzionali sarebbero stati contenibili, se lui non fosse cresciuto in un ambiente che esercitò su di lui un imprinting molto negativo, dovuto in particolare dalla nefasta influenza che ebbe su di lui il nonno materno, Paride Tartaglia, un altro "omni parte vitae detestabilis".
Paride era sempre stato un uomo sadico e violento e aveva trovato la sua prima occupazione come capo-squadrista ai tempi in cui Mussolini reclutava giovani volenterosi per i nascenti Fasci di Combattimento.
Avrebbe potuto fare una buona carriera politica, ma non gli interessava: a lui piaceva solo prendere a manganellate chi non gli stava simpatico, poi legarlo, fargli bere litri di olio di ricino, e infine assistere alle disgustose conseguenze digestive che tutto ciò comportava sulle vittime.
Ed era talmente assiduo in questa attività che lui stesso, alla fine, per dirla tutta, puzzava di merda.
Divenne il capo della Milizia per le zone di Pievequinta e Casemurate ed ebbe sempre la copertura, ogni volta che si spingeva troppo in là con le sevizie, di suo fratello, l'ispettore Onofrio Tartaglia, una nostra vecchia conoscenza.
Gli agricoltori locali, in particolare le grandi proprietà, si rivolgevano a lui, qualora dovessero sorgere controversie di tipo sindacale con i braccianti o i mezzadri.
Ettore Ricci diceva di loro: <<Paride o Onofrio? Sono due figli di puttana, ma, attenzione, sono i nostri figli di puttana>>
Li disprezzava, ma allo stesso tempo aveva bisogno di loro e li ricompensava lautamente.
Dopo la guerra, tra il 1945 e il 1946, i due fratelli Tartaglia si diedero alla macchia, fino a quando non furono certi che ci sarebbe stata un'amnistia.
A quel punto Onofrio venne reintegrato nel suo incarico di ispettore.
Paride capì che era venuto il momento di mettere la testa a posto, ossia cercarsi una moglie con una buona dote che gli permettesse una rendita "decorosa".
A dispetto del nome, il nostro Paride non era bello come il principe troiano suo omonimo, ed era anche, naturalmente, molto più rozzo e volgare, per cui non fu gli fu facile trovare una moglie adatta.
Tra le vergini ricche, finite tutte le Ricci a disposizione (tranne Adriana, che però era troppo brutta persino per un Tartaglia), rimaneva soltanto una certa Paolina Vaccarelli, una biondina tisica e anemica, molto miope, leggermente strabica, con un naso a becco, un accenno di baffi dorati, un inizio di gobba e una gamba più corta dell'altra a causa di una poliomielite infantile.
Il padre di lei era il proprietario di un distributore di benzina, nei pressi di Pievequinta.
L'attività rendeva bene e c'erano già due dipendenti che facevano quasi tutto.
Paride sposò Paolina, e fece finta di lavorare al distributore, lasciando tutto il lavoro sporco ai dipendenti. Ma non era soddisfatto.
Si annoiava, gli mancavano i bei tempi in cui poteva randellare chi gli pareva senza alcuna conseguenza spiacevole, anzi, con il plauso e il contributo pecuniario dei pesci grossi.
Andò in giro a trovare i grandi proprietari, ma la maggior parte gli sbatté la porta in faccia.
Si rivolse allora a Michele Braghiri, amministratore del Feudo Orsini, che gli promise di mettere una buona parola per lui con Ettore Ricci.
In un primo momento Ettore reagì negativamente: <<Paride non è come suo fratello. Onofrio capisce quando è il punto di fermarsi, Paride no, anzi, è proprio in quel momento che inizia a divertirsi, e io non ho bisogno di ulteriori scandali>>
Michele Braghiri aveva annuito, ma aveva replicato:
<<Però noi abbiamo bisogno di Onofrio e non possiamo liquidare suo fratello senza offrirgli qualcosa, anche solo un prestito per ampliare il distributore...>>
Ettore si accigliò, valutando un progetto che aveva in mente da tempo, e poi disse:
<<Senti Michele... se, per ipotesi, avessimo a disposizione del denaro in contanti, messo da parte per le emergenze, non necessariamente dichiarato, ma io non so niente di queste cose, sei tu l'esperto. Comunque, se Paride volesse un prestito e fosse disposto a reinvestirli, un po' per volta, in qualcosa di redditizio, magari un altro distributore di benzina... Potrebbe rendere parecchio, sai. 
Io vorrei mettere uno zampino in quel settore, mantenendo però un profilo basso, perché se mi muovo apertamente, tutti i pezzi grossi si coalizzano per farmi fuori,  e questo è un rischio che non voglio correre.
Io ufficialmente non comparirei da nessuna parte, se non, al limite, come obbligazionista. 
A Paride non chiedo altro che farmi avere, a titolo di interessi, una piccola percentuale annua dei suoi guadagni.  Mi sembra un buon accomodamento.
E anche tu avrai la tua parte, naturalmente. Sai già quel che devi fare...>>
Michele annuì, col suo sguardo da faina, ed eseguì gli ordini.
Paride accettò con entusiasmo, perché ricevere soldi dal nulla era una cosa che lo esaltava decisamente, e chi potrebbe dargli torto?
Suo suocero gli diede validi consigli su come procedere nell'investire quei soldi e i risultati furono molto incoraggianti.
Nel giro di una decina d'anni la società Vaccarelli & Tartaglia divenne una delle principali fornitrici di idrocarburi della provincia e anche oltre.
Quando il vecchio Vaccarelli morì e Paride divenne l'unico padrone, si sentì sufficientemente forte da sfidare Ettore Ricci.
Gli restituì il prestito e si rifiutò di continuare a versargli la percentuale.
Formalmente la cosa era ineccepibile, ma come si può immaginare, Ettore fece il diavolo a quattro, lo chiamò "miserabile traditore", minacciò ritorsioni di ogni genere, disse che gli avrebbe mandato qualche suo amico pugile a insegnargli "come si sta al mondo", ma poi alla fine prevalse la prudenza, perché, come sempre, bisognava mantenere buoni rapporti con l'ispettore Onofrio e non sollevare altri polveroni.

E fu così che la società dei Tartaglia divenne una macchina da soldi molto più redditizia di tutte le aziende di Ettore Ricci messe insieme.
Ettore si mangiava le mani per la rabbia e sarebbe dato delle botte in testa per essersi fidato di Paride, ma ormai era troppo tardi. 
Tartaglia era diventato il più ricco di tutti, ma anche lui non era riuscito ad avere un figlio maschio e questo alleviava in parte le sofferenze di Ettore.

Le sue due figlie, Maria Antonietta e Maria Carolina, erano diversissime tra loro: la prima era bella e molto raffinata, la seconda era un mostro, sia nell'aspetto fisico che nel carattere.
Era come se i difetti di Paride e Paolina si fossero concentrati tutti sulla secondogenita, la quale, naturalmente, ne risentì moltissimo, alimentando quella componente sadica del suo carattere che era già presente nei geni paterni.
Il resto è storia nota: Maria Antonietta ricevette la proposta di matrimonio del visconte Bartolomeo II, il quale però richiese come dote il conferimento alla futura viscontessa della quota maggioranza dell'azienda di famiglia, mentre Maria Carolina avrebbe avuto, a suo tempo, tutto il resto: case, terre, depositi bancari e così via.
All'epoca parve una richiesta ragionevole e la famiglia Tartaglia acconsentì, con atti di donazione, testamento e rinunce, ma ben presto divenne chiaro che la famiglia Porcu era stata imbrogliata.
L'azienda era destinata a crescere di valore in maniera diecimila volte più grande dell'eredità che la secondogenita aveva accettato, rinunciando ad ogni pretesa riguardante la società di famiglia.
Questo acuì enormemente l'acredine di Maria Carolina contro il mondo intero, e alimentò anche il senso di frustrazione di Taddeo Porcu, che già nutriva un certo rancore nei confronti di tutti coloro che avevano avuto più fortuna di lui, in primis il cognato e datore di lavoro, il Visconte.
Evitarono però una causa legale e preferirono far parte della corte dei visconti di Bertinoro con ruoli di primo piano.
Anche questo però fu un errore e a pagarne le spese fu principalmente loro figlio, Felice Porcu.

Fin dalla più tenera età, il giovane Porcu divenne una specie di "guardia del corpo" della cugina Aurora Visconti. Ovunque lei andasse, c'era sempre anche lui: all'asilo, alle elementari, alle mede, alle superiori e naturalmente in tutti gli eventi sociali e mondani.
C'era qualcosa di malsano nell'atteggiamento iperprotettivo e possessivo che egli mostrava nei confronti della cugina.
Ma la cosa più strana di tutte era il fatto che Aurora tollerasse senza protestare l'ingombrante presenza di Porcu.
I Visconti permettevano tutto questo, perché in fondo Felice dissuadeva da ogni approccio tutti coloro che volevano avvicinarsi a sua cugina, preservandone così la virtù.
Questo suo ruolo favorì anche l'integrazione dei Porcu come parte integrante del clan Visconti-Ordelaffi.
Felice, però, a dispetto del suo nome, non era per nulla contento del fatto che i Porcu fossero subordinati ai Visconti: in fondo i soldi dei visconti di Bertinoro provenivano per lo più dalla Visconti & Tartaglia Idrocarburi, che era stata fondata da suo nonno Paride, a cui lui tanto assomigliava.
Paride, per placare l'invidia del nipote, gli promise che avrebbe fatto in modo di fargli avere una quota dell'azienda, in un modo o nell'altro: in cambio però Felice doveva trascorrere molto tempo con lui, apprendendo la "nobile" arte della tortura.
Non fu difficile: Porcu aveva già, dentro di sé, tutto il sadismo del nonno, con in più alcuni elementi che preferiva tenere nascosti e che sarebbero emersi solo in seguito.

In un primo momento, fino alla prima media, Felice sfogò la sua violenza innata su oggetti, piante e persino sugli animali, ma con gli esseri umani manteneva un atteggiamento neutrale.
 Avendo frequentato, con la cugina, scuole materne ed elementari private, aveva ricevuto un'educazione morale ispirata ai valori cristiani e questo lo aveva preservato, per qualche anno, da certi aspetti che, in un altro contesto, sarebbero emersi prima. Per esempio: fino agli 11 anni, non era volgare, limitava l'uso delle "parolacce", non aveva quasi alcuna cognizione riguardante la sessualità e non aveva ancora manifestato tendenze al bullismo.
La sua unica anomalia evidente era il rapporto strettissimo ed esclusivo con Aurora, con la quale, tutti ne erano convinti, condivideva alcune reazioni all'ambiente troppo rigido e severo nel quale entrambi erano cresciuti.

Alle medie, lui e Aurora entrarono in una scuola pubblica, per una decisione delle loro madri, che insegnavano entrambe in quella scuola, e tra i colleghi c'erano le loro cugine Maria Giovanna e Maria Amelia Tartaglia, figlie dell'ispettore Onofrio Tartaglia e di Maria Teresa Ricci, la Prozia.
Per non parlare poi di altre personalità notevoli: Anna De Gubernatis coniugata Trombatore (il Sommo Poeta) e sorella di Elisabetta Braghiri, e alcune frequentatrici del salotto Visconti, tra cui Alessandra Parronchi Troiani, moglie di un importante generale della Finanza Ursula Zebedei Gordini, consorte di un viceprefetto. In più c'erano le Grandi Zitelle e Vedove del Club del Pettegolezzo, ospiti fisse alle famose partite di canasta di Ginevra Orsini, detta "La Sorella".

Ma c'era anche un altro motivo, segreto e inconfessabile per la sua incomprensibilità, per il quale Maria Antonietta Tartaglia Visconti-Ordelaffi aveva iscritto la figlia in una scuola media pubblica, ed era il desiderio che conoscesse Roberto Monterovere, che infatti fu assegnato alla stessa classe di Aurora e quindi anche di Felice.
Si ricordava di quando, da ragazza, andava a lezione privata di latino dalla Signorina De Toschi, e vedeva le sorelle Ricci-Orsini trattate con tutti i riguardi, come se fossero tre principesse, mentre lei e sua sorella erano solo figlie di un benzinaio arricchito.
Maria Antonietta però non ce l'aveva con le tre sorelle, anzi, le ammirava, e voleva diventare loro amica e magari loro parente, mentre sua sorella Maria Carolina provava solo una rancorosa invidia.
Dopo il matrimonio di Antonietta col visconte Bartolomeo le cose cambiarono e i rapporti di forza si invertirono, ma ci fu un evento che risveglio nella viscontessa l'interesse per i Ricci-Orsini, e cioè la scoperta, nelle cantine, del ritratto di Emilia Paolucci de' Calboli, madre di Diana Orsini, nella stessa posa e con la stessa acconciatura che si può osservare nel ritratto di Giovanna Tornabuoni del Ghirlandaio.



Questo ritrovamento era stato considerato dalla giovane viscontessa come un segno del destino, un invito a proseguire nella direzione di avvicinamento al clan Ricci-Orsini, anche nel momento in cui quest'ultimo veniva travolto dagli scandali.
<<In fondo>> diceva Maria Antonietta alla sorella << gli scandali non sono necessariamente un male. Guarda la famiglia reale inglese: cosa sarebbero senza gli scandali? Mummie noiosissime. 
E invece sono diventati delle star in grado di oscurare i divi di Hollywood. Al giorno d'oggi solo uno scandalo ti rende una very important person>>
Maria Carolina scuoteva la testa:
<<Tu vorresti essere la Diana Spencer della situazione, ma i Ricci-Orsini-Monterovere non sono certo i Windsor>>

Felice Porcu ascoltava queste conversazioni fingendo di non capire.  In realtà aveva ben chiara la predilezione di sua zia nei confronti del figlio di Silvia Ricci-Orsini, quell'odioso secchione, ma non aveva dato troppa importanza alla cosa, in fondo era certo che sua cugina non avrebbe mai mostrato il minimo interesse nei confronti di quel rammollito di Monterovere.
E invece, all'inizio, si era verificato l'esatto contrario: Aurora teneva d'occhio ogni movimento di Roberto, arrivando persino a pedinarlo durante la ricreazione, ma lui non se ne accorgeva nemmeno.
E lei ne soffriva.
Un giorno Felice decise di affrontare l'argomento:
<<Ma insomma, si può sapere perché ti interessa tanto quel topo di fogna? Io dico che è frocio, sicuro come la merda, te lo dico io>>
Aveva fatto presto, Porcu, a imparare le parolacce e a comportarsi da bullo.
I neofiti sono spesso i più fanatici.
Aurora sembrava distante, assente, ma poi aveva risposto in maniera molto lucida:
<<Io dico di no. Forse è solo timido, inesperto e troppo concentrato nello studio. Non dovresti offenderlo, anche perché credo che abbia qualcosa in comune con noi, anche se forse non lo sa ancora. Dovremmo cooptarlo... se capisci cosa intendo dire>>
Porcu divenne paonazzo per la gelosia:
<<Capisco benissimo, e te lo dico adesso : non te lo permetterò mai. Ricordatelo bene: mai e poi mai>>
Aurora sapeva che il cugino non stava bluffando, ma cercò comunque di blandirlo:
<<Non hai nulla da temere, Felix, tu sei insostituibile. Io dico solo che sbagli a disprezzare Roberto. Se tu lo trattassi un po' meglio, lui potrebbe diventare per noi un amico leale, e magari disponibile... capisci?>>
Porcu capiva fin troppo bene, ma non avrebbe mai potuto accettare un compromesso su quell'argomento.
<<E' un cacciatore di dote, come suo padre e suo nonno>>
Omise di aggiungere alla schiera anche il proprio padre e il proprio nonno.
<<Se lo fosse mi sbaverebbe dietro come tutti gli altri, e invece no. Per lui è come se fossi trasparente>>
Porcu ne aveva abbastanza:
<< Lui fa finta di non vederti perché sa di non avere speranze con te! E' un perdente, e lo sa benissimo, per cui ha imparato a stare al suo posto. Questo è l'unico motivo per cui fino ad ora non l'ho riempito di botte. Non c'è gusto, con uno così. Ma se dovesse alzare la cresta, allora sarebbe tutto un altro discorso>>

Il tempo passava e l'aggressività di Felice Porcu cresceva. Con grande imparzialità picchiava un po' tutti, perché sapeva che nessuno avrebbe avuto il coraggio di fare la spia.
Il "non fare la spia" è la regola numero uno a scuola, nei collegi, nelle carceri e in altre situazioni dove chi avrebbe dovuto far rispettare le regole faceva finta di non vedere, di non sentire...
Porcu sapeva bene che Monterovere non era il tipo da fare la spia, ma sapeva anche che era meglio evitare un conflitto aperto con il suo clan, che aveva anche un qualche legame di parentela con il proprio.
Suo nonno Paride era stato chiaro:
<<Felix, tu puoi picchiare chi ti pare, tranne Monterovere. Con lui bisogna usare altri metodi, ma fintanto che non ronza attorno ad Aurora, è meglio lasciarlo perdere>>
Porcu eseguiva senza discutere gli ordini del nonno, ma voleva spiegazioni:
<<Ma si può sapere perché avete tutti tanta paura della sua famiglia? Cosa sono, dei boss della mafia?>>
Paride Tartaglia fece una smorfia:
<<Magari. Sarebbe tutto più facile se fosse così. No, adesso che Ettore è morto, loro sono puliti. Integerrimi, e non c'è nulla di più spaventoso, a questo mondo, di un uomo integerrimo>>
Felix non capiva:
<<Ma allora da dove viene la loro forza?>>
Il vecchio sospirò:
<<Ci sono molti motivi. Il primo è evidente: sono nelle grazie di tua zia Maria Antonietta, ed è lei che tiene i cordoni della borsa. E' stato un mio errore cederle il controllo, ma all'epoca eravamo solo dei benzinai arricchiti. Non immaginavo che l'azienda potesse crescere così tanto.
Ma il secondo motivo è quello più importante.
 Edoardo Monterovere, il prozio di Roberto, è un politico che conta molto in Emilia-Romagna, e potrebbe crearci molti problemi, se volesse. Potrebbe persino farci revocare la concessione. 
I suoi fratelli poi hanno un'azienda che è tra i nostri clienti più importanti.
E infine c'è Lorenzo... >>
Porcu non conosceva nessuno con quel nome:
<<E chi sarebbe?>>
Paride fissò il nipote con uno sguardo che non ammetteva repliche:
<<E' lo zio di Roberto. Il fratello minore di suo padre. Persino Ida Braghiri ha paura di Lorenzo. Lei e le sue sorelle lo chiamano "l'Iniziato". Fa parte di una confraternita di cui si sa ben poco, ma una cosa è certa: chi si li sfida apertamente fa una brutta fine. E non chiedermi altro: ci sono cose, a questo mondo, che è meglio non sapere>>
E così, per alcuni anni, Porcu lasciò stare Monterovere.
Ma quando venne a sapere che Roberto aveva pranzato con Aurora a Palazzo Visconti-Ordelaffi, la sua rabbia divenne incontenibile.
Tutto ciò che in tanti anni aveva represso, riemerse sotto forma di odio allo stato puro e di sadismo oltre ogni immaginazione.
Tornò da suo nonno e gli spiego la situazione, concludendo:
<<Questa volta Monterovere ha fatto il passo più lungo della gamba. Non può passarla liscia>>
Paride Tartaglia valutò la situazione e infine disse:
<<Il clan Braghiri-De Gubernatis ha un piano. Il problema è che vogliono usare noi come strumento, e questo non mi piace. Dovremo mostrare di essere astuti anche noi: l'unica strada è fare il doppio gioco, magari anche il triplo. 
Mostrati neutrale, in apparenza, in modo da far abbassare la guardia a Monterovere. 
Dobbiamo incastrarlo in modo che la colpa ricada tutta su di lui e che risulti indifendibile persino dai suoi parenti. E ho una mezza idea su come riuscirci...>>
Porcu sorrise, e fu qualcosa di terribile a vedersi:
<<Dimmi che cos'hai in mente e io farò la mia parte>>


mercoledì 27 gennaio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 106. La Congiura


Vittorio Braghiri sapeva già tutto. Per quanto Roberto e Aurora fossero stati estremamente discreti nel nascondere la loro frequentazione, nulla poteva sfuggire al radar della famiglia Braghiri. 
Ognuno dei familiari agiva come un agente segreto in missione, a partire dalla matriarca signora Ida, che in quanto a segreti ne sapeva più della CIA e dalla madre di Vittorio, la pettegola Elisabetta De Gubernatis, fino ad arrivare alla madre di quest'ultima, Ginevra Orsini, la quale, durante le sue leggendarie partite di canasta e scala quaranta, sottoponeva gli ospiti ad un accuratissimo interrogatorio di terzo grado.
La notizia che il suo ex amico, divenuto acerrimo rivale, stesse "facendo il filo" all'inarrivabile Aurora Visconti, non lo meravigliò: ricordava ancora una scena di molti anni prima che tutti tranne lui avevano dimenticato. La famiglia Visconti aveva partecipato, nel 1988, ai funerali di Emilia Paolucci de' Calboli vedova Orsini, bisnonna sia di Roberto che di Vittorio, ma in tale circostanza la signora Maria Antonietta Visconti, col marito e la figlia Aurora, allora tredicenne, avevano espresso le loro condoglianze ai Monterovere, mentre i Braghiri erano stati totalmente e platealmente ignorati.
I rancori tra famiglie possono nascere anche per molto meno e senz'altro quel giorno fu piantato il Seme del Male.
Da allora questo seme era diventato un albero: a Vittorio piaceva pensare che fosse come il frassino sacro di Uppsala, a cui si appendevano i corpi dei sacrificati, che in casi estremi potevano essere anche umani.
Vittorio Braghiri era disposto a tutto pur di essere il primo in tutto.
Riusciva a malapena ad accettare che Roberto Monterovere avesse una media di voti superiore alla sua (in fondo i cosiddetti secchioni non sono quasi mai popolari, anzi spesso diventano un bersaglio delle frustrazioni altrui), ma non poteva in alcun modo tollerare che la ragazza più bella della scuola accettasse il corteggiamento da parte dei suddetto secchione.
Ma Vittorio sapeva essere obiettivo (specie quando si trattava di valutare i punti di forza del nemico) ed era dunque consapevole che Roberto non era un "secchione" standard: la sua goffaggine nelle cose pratiche e sportive, era compensata da altri aspetti, che lo rendevano più simile alla categoria del "bravo ragazzo" che tutte le mamme vorrebbero avere come figlio (o genero) e tutte le nonne come nipote e così via procedendo all'indietro lungo l'albero genealogico.
Doveva agire, e in fretta, per demolire fin dall'inizio l'immagine del giovane Monterovere.
E' ovvio che la giovane Visconti  ha un debole per i "bravi ragazzi" ligi al dovere, con "la faccia pulita" e glabra, i lineamenti del viso ancora fanciulleschi e poco pronunciati, ma sempre vagamente sarcastici, con quella vaga supponenza tipica di chi si ritiene intellettualmente e culturalmente superiore, per non parlare del vestiario da "piccolo lord", che compensa l'esilità fisica con un abbigliamento da studente fighetto di una scuola privata inglese esclusiva e "all'antica", e che si fa perdonare tutto ciò grazie a un impeccabile rispetto (almeno in apparenza) delle "buone maniere".


Vittorio non riusciva a capire come ciò fosse possibile, ma era il momento di smascherare Roberto, ossia di mostrare al mondo intero che il giovane Monterovere nascondeva, dietro a quell'aria da bravo ragazzo galante, sensibile e premuroso, un lato oscuro, geneticamente trasmessogli da Ettore Ricci, nonno materno, e Romano Monterovere, nonno paterno, ossia da infinite generazioni di avidi contadini irascibili, e di rozzi montanari testardi come muli.
Bastava solo provocarlo, ma non direttamente.
Era necessario che questa volta la famiglia Braghiri agisse nell'ombra, mandando avanti altre persone che potessero avercela con i Monterovere, e non erano poche.
In primis, naturalmente, c'era "Sua Signoria" Bartolomeo Visconti di Berlinoro, il quale a sua volta utilizzava come longa manus la famiglia Porcu, i cognati poveri, sempre pronti all'obbedienza.
Vittorio si consultò col padre Massimo, il quale brillava di gioia nel vedere che il suo rampollo univa l'odio vendicativo dei Braghiri con la velenosità fredda e razionale di Elisabetta De Gubernatis, detta "la Vipera", e della madre di lei, Ginevra Orsini, detta la "Sorella Minore", quella che per tutta la vita era dovuta rimanere sempre "un passo indietro" rispetto alla ben più nota sorella maggiore, la Contessa di Casemurate.
Il piano di Vittorio era un buon punto di partenza, e Massimo disse subito che era fattibile, ma bisognava curare tutto nei minimi dettagli e soprattutto fare in modo che i Monterovere si sentissero accerchiati e costretti a disperdere le forze, per respingere attacchi da tutti i fronti, , su ogni aspetto della loro vita attuale, del loro nebuloso passato e delle loro ambizioni per il futuro.
Ma per fare questo era necessario suddividere bene i compiti tra i vari membri della propria famiglia:
Vittorio doveva allearsi con Felice Porcu, detto "il Cugino" per antonomasia, stabilendo con lui un rapporto in cui il giovane Braghiri era la mente e il giovane Porcu era il braccio.
I due erano già in buoni rapporti, avendo molte passioni comuni: la palestra, il basket, il rock duro. i Guns N' Roses, la spiaggia, la figa, il sadismo e la vendetta (non necessariamente in questo ordine).
<<Io e Porcu arruoleremo tutti quelli a cui Roberto sta sul c...>> dichiarò <<e faranno la fila per iscriversi>>
Massimo annuì ed espose ciò che aveva in mente riguardo ai congiurati adulti e anziani:
<<Io e tua madre conosciamo bene la famiglia Tartaglia, quella della madre di Aurora, la viscontessa Maria Antonietta. Suo zio Onofrio era uno dei nostri, ai tempi in cui mio padre amministrava il Feudo Orsini, e guarda caso mia madre Ida ha tenuto da parte, nel suo archivio, le prove secondo cui i fondi per l'azienda di carburanti di suo fratello Paride, defunto nonno materno di Aurora, provenivano dai fondi neri riconducibili al clan Ricci-Orsini. 
A mio parere basterà ricordare tutto questo alla signora Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, per annullare la sua predilezione verso l'erede che Ettore Ricci aveva scelto in punto di morte>>
Vittorio annuì, ma volle comunque esprimere una sua osservazione, piuttosto sottile, ma concretamente rilevane: 
<<Onofrio Tartaglia è morto e così anche Paride, e dunque la minaccia di un processo penale svanisce, soprattutto perché non potremmo mai provare che i Visconti fossero a conoscenza del "peccato originale" dei fondatori dell'azienda.
Per quanto riguarda il procedimento civile per il risarcimento dei danni all'erario, la ditta Visconti & Tartaglia Idrocarburi potrebbe patteggiare una somma minore rispetto a ciò che Roberto Monterovere porterebbe in dote in futuro, e cioè la quota di suo padre nell'azienda Fratelli Monterovere, molto redditizia, e la quota di sua madre del Feudo Orsini, tenendo conto, inoltre, che Silvia Ricci-Orsini potrebbe essere la prossima Contessa di Casemurate, dal momento che sua sorella maggiore Margherita è già Marchesa di Serachieda. 
Nella mente di Maria Antonietta Visconti, c'è tutto questo e la speranza che Roberto diventi un grande dirigente e crei una specie di holding che controlla tutte le aziende di cui sopra, ed erediti in futuro anche il titolo di Conte. 
In questo modo il ramo dei bertinorese dei Visconti, aggiungendosi a quello comitale degli Orsini, salirebbe di grado e Aurora potrebbe ottenere tutto quello per cui è stata educata e preparata: Prestigio, Potere e Ricchezza>>
Massimo rimase sbalordito, ma anche compiaciuto, dalla finezza delle osservazioni di suo figlio, ma aveva già preparato in anticipo la risposta:
<<Forse la viscontessa Maria Antonietta potrà anche far pendere il piatto della bilancia dalla parte di Roberto, ma il visconte Bartolomeo preferirebbe evirarsi, piuttosto che permettere l'unione della sua unica, meravigliosa e perfetta figlia con un "pidocchio rifatto" cresciuto come semplice figlio di insegnati a loro volta figli di montanari e contadini, e dunque capace soltanto di fare il topo di biblioteca, ma che non saprebbe dirigere nemmeno un negozio di libri usati. 
E noi sappiamo che tutto questo è vero, o meglio, è una mezza verità che si può far passare come verità completa, assoluta e indiscutibile.
Infine, figlio mio, tua madre troverà il modo di coinvolgere anche quell'insegnante di matematica paranoico, il professor Sarpenti, e mia madre farà passare dalla nostra parte la prozia di Aurora, e cioè Maria Teresa Ricci, vedova Tartaglia, che ha uno zampino dappertutto nel clan Ricci-Orsini>>
Vittorio sorrise velenosamente e annuì:
<<Molto bene. Mettiamoci all'opera. Quando avremo finito, i Monterovere dovranno imparare a rovistare i cassonetti della spazzatura e a dormire sotto un ponte>>

mercoledì 13 gennaio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 104. Tutte le lettere d'amore

 

Aurora Visconti si stava annoiando : solita festa, soliti amici, soliti corteggiatori, solite scemenze.
Si sentiva intrappolata dentro la gabbia d'oro in cui la sua famiglia la teneva protetta.
Per quanto si sforzasse di trovare qualcosa di interessante nei pochi coetanei che erano ammessi a Villa Visconti, non ci riusciva proprio. Per quanto fossero tutti liceali, erano comunque ignoranti, rozzi, volgari, ma la ricchezza delle loro famiglie aveva rimediato a tutto, proprio come era accaduto a suo cugino e, ad essere onesti, anche a suo padre.
Questi pensieri, uniti alla noia, le stavano deprimendo l'umore, ma poi, all'improvviso, con grande sorpresa e totale incredulità, vide entrare Roberto Monterovere, molto elegante, con un'espressione gentile e modi raffinati, per quanto la novità della situazione lo disorientasse e irrigidisse il suo portamento.
Lei scattò in piedi all'improvviso, quasi per istinto, camminando verso di lui con una certa emozione.
<<Non ci posso credere! Il grande studioso che si degna di presenziare in questo luogo di perdizione... >>
Roberto sorrise con una timida dolcezza e un po' di imbarazzo, e le porse il regalo di compleanno, che lei appoggiò distrattamente insieme agli altri, perché il suo interesse era concentrato su di lui in quanto persona:
<<Il regalo più interessante è la tua presenza. A cosa devo l'onore?>>
Lui arrossì : non era certo quello né il momento, né il luogo per fare dichiarazioni impegnative:
<<Io ero molto curioso di vedere la tua casa, conoscere la tua famiglia e soprattutto... be', ecco, voglio dire... conoscerti meglio>>
Lei capì subito cosa c'era sotto e cercò di chiarire il suo punto di vista:
<<Avremo occasione di conoscerci meglio. Vedi, io ti ho sempre stimato fin falle medie, e non ho mai smesso di aspettare che tu venissi a trovarmi>>
Roberto era incredulo:
<<Davvero? Per tutto questo tempo?>>
Lei annuì:
<<Sempre>>
Non era una frase di circostanza: lui la incuriosiva, era un enigma avvolto nel mistero, e lei, a differenza delle coetanee senza cultura, intelligenza, educazione e raffinatezza, apprezzava in lui quegli aspetti di cui le altre diffidavano: il successo negli studi, la sensibilità, l'eleganza e anche l'aspetto serio e all'antica e vagamente romantico nella sua timidezza, nella costituzione esile e nel colorito pallido.


Mentre lui tentava invano di scusarsi per aver tardato così tanto a partecipare alle sue feste, lei tagliò corto e riprese l'iniziativa.
Con voce rassicurante gli disse:
<<Ora ti presenterò gli ospiti che non conosci, con una raccomandazione: non fidarti mai di nessuno di loro>>
Roberto non sapeva se ridere o fuggire a gambe levate:
<<Ma perché dovrebbero avercela con me?>>
Lei sospirò, di fronte alla palese ingenuità del suo nuovo ammiratore:
<<Ce l'hanno con chiunque mostri anche il minimo segno di attenzione nei miei confronti. Sono pericolosi: tieni a mente i loro nomi e le loro facce, e parla il meno possibile.>>
Aurora sapeva che quel consiglio era valido, ma che non sarebbe bastato a garantire un comportamento anche minimamente civile da quella schiera di bestioni che aspiravano alla sua mano, e a qualche altra ben precisa parte del suo corpo.
Seguirono le presentazioni: si trattava dei figli dei valvassori del visconte Bartolomeo. 
Roberto capì immediatamente che Aurora aveva ragione.
Ognuno di loro aveva un atteggiamento apertamente ostile.
Alcuni mostravano derisione, altri disprezzo, altri disgusto, altri ancora rabbia malcelata.
Grazie al Cielo, Aurora lo condusse nel gruppo dei compagni di classe, ma prima di "consegnarlo" temporaneamente a loro, onde poter elaborare un piano per evitare che i pretoriani lo facessero a pezzi, ella gli sorrise con sincera cordialità:
<<Oggi sei ancora più elegante del solito, ed è una cosa che apprezzo molto>>
In effetti, per l'occasione, si era vestito in giacca e cravatta (era anche un'astuta mossa per essere esentato da eventuali attività sportive o cose simili) Lui arrossì fino alla punta delle orecchie:
<<Anche tu sei... voglio dire... davvero, davvero... elegante>>
In realtà, qualunque cosa indossasse, le stava sempre bene.
Il suo look era quello "acqua e sapone" di colei che vuole sottolineare la sua giovinezza e purezza.
Una "virgo intacta".



Indossava una camicetta bianca con tanto di fiocco da collegiale e una gonna plissettata fino al ginocchio.
A dire il vero, questo look da scolaretta evocava, agli occhi di Roberto, immagini ben diverse dalla castità, dalla Lolita di Nabokov alla liceale in stile Gloria Guida.
Questo non poteva essere detto, ma Aurora se ne accorse comunque:
<<Ho notato che quando mi vesto così, a scuola, tu sembri l'unico ad apprezzare>>
Roberto annuì con decisione e fu preso dall'entusiasmo:
<<In effetti, io ho una certa nostalgia dei tempi in cui c'erano le divise scolastiche, o comunque un dress code molto vicino a ciò che indossiamo io e te oggi>>
Aurora lo immaginava.
Ci sono importanti affinità tra me e lui. Ma questo basterà a vincere le sue inibizioni e la sua insicurezza? 
Per non parlare poi di tutto il resto...
<<Sono d'accordo con te>> rispose e come a rimarcare i loro comuni gusti estetici, compì un atto di cui non c'era alcun bisogno, ma che entrambi giudicarono molto intimo, ossia gli sistemò il nodo della sua cravatta. Gliel'aveva visto in altre occasioni formali, ed sempre stata curiosa di sapere come si facesse: <<La tua cravatta è molto bella e il nodo è perfetto, l'hai inventato tu?>>
Questa volta Roberto riguadagnò fiducia in se stesso:
<<E' il nodo "Double Windsor" e pare che sia stato inventato dal re Edoardo VIII, successivamente noto come Duca di Windsor>>
Aurora conosceva la storia e la trovava molto interessante:
<<Rinunciò al trono per amore di una donna. Non riesco ad immaginare un gesto più romantico>>
O più stupido, pensò Roberto dentro di sé, ma soltanto perché, a suo parere, innamoramento e stupidità spesso viaggiavano di pari passo. Un concetto simile a quello espresso da Fernando Pessoa, il grande poeta portogherese, secondo cui "tutte le lettere d'amore sono / ridicole / non sarebbero lettere d'amore se non fossero / ridicole // Anch'io ho scritto ai miei tempi lettere d'amore / come le altre / ridicole // Le lettere d'amore, se c'è l'amore / devono essere / ridicole // Ma dopotutto / solo coloro che non hanno mai scritto / lettere d'amore / sono / ridicoli // Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo / senza accorgermene / lettere d'amore / ridicole // La verità è che oggi / sono i miei ricordi / di quelle lettere / ad essere ridicoli "


Quando arrivarono al gruppo dei compagni di classe, trovarono gli altri due componenti del Triangolo delle Bermuda, Ludovico Corzani e Daniele Destri a cui si era aggiunto Carlo Boboli, il nuovo favorito di Roberto. I tre ascoltavano il figlio minore dell'immobiliarista Colli, Marco, che si lamentava del fatto che i fenicotteri rosa che sua madre aveva comprato per metterli nel laghetto del loro parco erano morti tutti in breve tempo.
Improvvisamente gli sembrò che i suoi amici fossero rimasti fermi ai tempi delle medie, mentre in quel momento incominciava, se ci si perdona il gioco di parole, "il tempo delle mele".






giovedì 7 gennaio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 102. L'anno della Falsa Primavera


"Se non avessi mai amato, oggi sarei imperatore della galassia" scrisse Maurizio Maggiani, e certamente Roberto Monterovere, nella sua mezza età, ripensando agli anni della tarda adolescenza e della giovinezza, sarebbe giunto alla stessa conclusione, senza nemmeno la chiusura consolatoria del Maggiani, secondo cui "ne valeva la pena".
No, nel caso di Roberto non ne valeva affatto la pena, dal momento che i benefici che trasse dalle sue storie d'amore furono sempre molto minori rispetto alle devastazioni che quegli amori lasciarono dietro di sé.
Ed ora ci accingiamo a raccontare il primo di questi amori, e forse il più disastroso di tutti, perché le sue conseguenze erano destinate deviare irrimediabilmente verso il peggio la vita di coloro che ne furono coinvolti.
Invochiamo pertanto il sostegno delle Muse, affinché ci renda testimoni trasparenti e cronisti fedeli degli eventi mirabili e terribili che avvennero nell'anno Domini 1992, nella città di Forlì e in altri luoghi di cui è cosa saggia e misericordiosa tacere persino il nome.
Roberto aveva diciassette anni, un'età in cui i mutamenti sono visti come speranze, e il pensiero del futuro è fonte di gioia e non di paura o preoccupazione.
A quell'età, in genere, la salute e la bellezza raggiungono il loro culmine, e vengono ingenuamente considerate come attributi eterni e inalienabili.
Roberto aveva persino incominciato a fare sport (tennis, nuoto e palestra) e a curare meglio il proprio aspetto fisico. Il suo rendimento scolastico, nel terzo anno del Liceo Scientifico, era stato al di sopra di ogni aspettativa, in ogni materia, e questo sembrava aprirgli la strada verso chissà quali luminosi orizzonti.
Ma la vera grande novità consisteva nel fatto che si era innamorato sul serio e la fanciulla che gli aveva rubato il cuore sembrava ricambiare questo sentimento (anche se al riguardo le versioni sono discordanti e non esistono prove certe).
Naturalmente Roberto si era innamorato già altre volte, ma erano solo infatuazioni adolescenziali, che, in assenza dei social network di cui gli adolescenti attuali si avvalgono per il rituale del corteggiamento, non erano andati oltre a qualche bacio.
Ciò che invece accadde nel 1992 era molto diverso, perché il sentimento che nacque era molto più profondo e basato su una reale conoscenza e stima della persona amata, una ragazza era stata sua compagna di classe sia alle medie che alle superiori: si trattava di Aurora Visconti.
Avevamo già in precedenza accennato al fatto che sua madre Maria Antonietta era una lontana cugina di Silvia Ricci-Orsini e dunque vedeva di buon occhio l'amicizia tra Aurora e Roberto, sperando che si tramutasse in qualcosa di più.
Purtroppo, nella famiglia di Aurora Visconti, soltanto sua madre era ben disposta nei confronti di Roberto, mentre il padre, un ricco imprenditore di nobili origini, non era affatto entusiasta alla sola idea che sua figlia frequentasse il nipote di quell'Ettore Ricci che era morto in disgrazia.
Ma la perplessità di Bartolomeo Visconti non sarebbero state un ostacolo insuperabile, se non si fossero messi nel mezzo il cugino di lei, Felice Porcu, un zotico violento e malvagio, e naturalmente il solito Vittorio Braghiri, ex migliore amico di Roberto ed ora suo massimo rivale.
Ma prima di entrare nel merito di queste dinamiche, è necessario raccontare quali furono le circostanze che portarono Roberto Monterovere ad innamorarsi di Aurora Visconti.



Pur conoscendola da anni, si "accorse di lei" soltanto nel terzo anno delle superiori, il che era francamente incomprensibile, dal momento che la ragazza era molto bella e anche molto intelligente.
Il fatto era che Roberto, negli anni dello sviluppo, si era sentito attratto da ragazze più grandi, più mature, mentre la bellezza di Aurora era ancora un bocciolo di rosa in attesa di fiorire.
Ma la scusa ufficiale che il giovane Monterovere addusse all'epoca si limitava alla considerazione che lo studio assorbiva tutte le sue attenzioni ed energie.
La stessa Aurora, in seguito, gli disse: <<Mi hai snobbata per cinque anni, prima alle medie e poi al liceo. Io stavo nel banco dietro al tuo, e tu non ti sei voltato neanche una volta, neanche per chiedere in prestito una penna, perché tanto tu non avevi bisogno di niente e di nessuno. La scuola era solo un luogo di studio, dove prendere appunti in religioso silenzio. E adesso, improvvisamente, ti accorgi che esisto. Non so cosa pensare>>
Il fatto era che nemmeno Roberto sapeva cosa pensare riguardo a ciò che gli stava accadendo.
Non si trattava solo di una questione di attrazione fisica, era quel tipo di innamoramento stilnovistico che proprio quell'anno stava studiando in storia della letteratura italiana.
Guinizelli, Cavalcanti, Dante fino ad arrivare a Petrarca.
Ma prima di loro c'erano stati i latini, in particolare Catullo e i greci, in particolare Saffo, a descrivere i "sintomi" di tale innamoramento: tachicardia, acufeni, sbalzi di umore e di temperatura, insonnia, anoressia, ansia, pensieri ossessivi, sensazione di non poter vivere senza poter almeno vedere la persona che si ama.
Le neuroscienze hanno confermato ciò che i poeti avevano intuito più di duemila anni fa, e cioè che l'innamoramento è uno stato alterato della coscienza, per molti aspetti simile a certe forme psicopatologiche, quali il disturbo ossessivo-compulsivo o persino quello bipolare (in precedenza conosciuto come psicosi maniaco-depressiva).
Le innovative tecniche di brain-imaging ci mostrano come il sistema nervoso centrale di un innamorato presenti un'anomalia a livello di corteccia cerebrale, causata da uno squilibrio dei neurotrasmettitori, in primo luogo la serotonina, che presiede al sonno, all'appetito e soprattutto all'umore.
Ma Roberto, all'epoca, non sapeva assolutamente nulla di tutto questo e non c'era Wikipedia a fornire spiegazioni che, per quanto non del tutto esaurienti ed attendibili, gli avrebbero comunque fornito qualche utile indicazione.
E così accadde che, in un mattino di primavera del 1992, durante l'ora di italiano, mentre si svolgeva la lezione sull'immortale sonetto dantesco "Tanto gentile e tanto onesta pare", un raggio di sole inondò la classe, ed Aurora, che ne era circonfusa come un angelo del Paradiso, chiese a Roberto, che era più vicino alla finestra, di regolare le veneziane.
Il giovane Monterovere si accinse alla complessa operazione, riguardo alla quale, come in tutte le cose pratiche, era completamente negato.
Mentre armeggiava inutilmente tra fili e pendagli, la luce del sole, invece che diminuire, aumentò di potenza, finché Roberto, esasperato, si voltò verso i compagni in cerca di aiuto e in quel momento la vide.



Aurora pareva risplendere di luce propria, dai capelli dorati, dagli occhi di zaffiro, dal sorriso dolce e fresco come un frutto appena colto. 
In quel momento ella gli parve davvero come la più celestiale delle creature dell'universo.
Per tutto il resto della sua vita, Roberto cercò di ricostruire mentalmente quella scena: il sonetto della Vita Nova, il sole che accarezzava il volto e la linea snella della silhouette di Aurora e di come quella sublime combinazione di elementi e di emozioni, suscitò in lui un sommovimento interiore che rasentava l'estasi mistica.
E mentre lui se ne stava lì, immobile come se un incantesimo lo avesse pietrificato, la voce della docente gli giunse come di lontano: <<Monterovere, è meglio che lasci stare quelle veneziane. Se per favore qualcuno può... ecco, Visconti, grazie e mentre passi risveglia Monterovere dal torpore, perché non mi sembra che stamattina sia del tutto presente a se stesso>>
La classe rise, ma Roberto non sentiva altro che un coro d'angeli che in excelsis cantava la bellezza di quella "cosa venuta di cielo in terra a miracol mostrare".
Aurora gli si accostò, e per la prima volta lui si accorse anche del delicato e raffinato profumo di cui lei, ogni mattina, si passava due gocce sul collo e sui polsi.
Poi lei gli passò una mano davanti agli occhi, come per svegliarlo dall'incantesimo e gli chiese: <<Sei sicuro di star bene?>>
Lui notò, sempre per la prima volta, il fatto che anche la voce di lei era di una dolcezza infinita, come un flauto o un oboe, accompagnati, in sottofondo, da un'arpa.
Annuì e pensò che non era mai stato meglio in vita sua.
Lo pensò, certo, ma non lo disse, perché quel giorno le emozioni erano già state fin troppe.
In quel momento, egli sentì che la sua vita era così vicina a quello che sarebbe dovuta essere, eppure così lontana...
Lontana perché fin dall'inizio Roberto si rese conto che Aurora era, per lui, un sogno irraggiungibile, un frutto proibito
Ma in fin dei conti, non è forse vero che ciò che non possiamo avere finisce per diventare proprio quello che desideriamo di più?
Se avesse dato ascolto alla sua ragione, Roberto avrebbe lasciato perdere fin dall'inizio e avrebbe scacciato anche il solo pensiero di potersi in qualche modo avvicinare a lei.
Avrebbe evitato tantissimi guai e dolori e tormenti e tradimenti e tutto ciò che ne seguì e che rappresentò un ulteriore passo nella sua descensio ad inferos.
In fondo i segnali di pericolo c'erano tutti.
Aurora, per qualche ignota ragione, teneva in gran conto il parere di quella bestia feroce che era suo cugino, Felice Porcu, che già abbiamo descritto come "omni parte vitae detestabilis".
Porcu detestava a sua volta il giovane Monterovere, e sarebbe stato disposto a tutto pur di tenerlo lontano da sua cugina. 
L'altro elemento era, ovviamente, l'interesse di Vittorio Braghiri nei confronti di Aurora Visconti.
Fino a quel momento il suddetto interesse era rimasto inespresso, sospeso nell'Iperuranio plantonico, come del resto tutte le emozioni e tutti i sentimenti dell'enigmatico figlio di Massimo Braghiri.
C'era però l'assoluta certezza che, nel momento stesso in cui Roberto Monterovere avesse manifestato il proprio interesse per Aurora, allora Vittorio sarebbe sceso in campo per sbarrare la strada al rivale.
Più difficile da prevedere era l'alleanza, in chiave anti-monteroveriana, di Vittorio Braghiri con Felice Porcu, dal momento che i due non avevano quasi nulla in comune, se non l'odio verso Roberto Monterovere.
Vittorio era perfido, sì, ma aveva stile. 
Porcu invece era un violento allo stato puro, un teppista che si vantava di essere tale, confidando nella protezione della famiglia Visconti, che lo usava come "cane da guardia" e "buttafuori".
Ma c'era un terzo aspetto, del tutto imprevedibile, che era destinato a rivelarsi come uno degli eventi più catastrofici nella vita di Roberto, e cioè il coinvolgimento, nell'alleanza anti-monteroveriana, del docente di matematica, il viscido Malvolio Sarpenti, che da anni nutriva, in segreto, la paranoica convinzione che il collega Francesco Monterovere stesse complottando contro di lui.
Il vero complotto, invece, lo ordì proprio Sarpenti, offrendo a Vittorio Braghiri e a Felice Porcu la protezione e la forza dell'autorità costituita.
Avremo modo di narrare dettagliatamente gli eventi terribili che innescarono una crisi destinata a lasciare, nella vita di Roberto Monterovere, ferite mai del tutto cicatrizzate.
E così quella che per un po' di tempo sembrò essere la "primavera" della sua adolescenza, era destinata a diventare e ad essere ricordata come il suo contrario, ossia la "Falsa Primavera".

venerdì 1 gennaio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 101. La sopravvissuta e l'erede


Diana vagava sola nella casa dei suoi antenati.
I loro ritratti la fissavano dalle pareti con sguardo corrucciato. L'unica Orsini che aveva osato accennare un sorriso, nel "ritratto ufficiale", era stata lei stessa, ed ora le due Diane, quella del passato e quella del presente, si osservavano a vicenda. La prima, dal ritratto, osservava la "se stessa" reale con aria indulgente, e gli occhi scuri e profondi come abissi sembravano intravvedere, con malinconia dignitosa e maestoso coraggio, tutte le avversità che l'attendevano in agguato nella seconda parte della sua vita.
E adesso cosa mi resta?
"Che ne fu del re don Juan? E degli Infanti di Aragona, che ne è stato? Cosa resta di tanta nobiltà? Le giostre ed i tornei, i cimieri e le armature... Nient'altro fu che vento? Che cosa sono stati se non erbe di campo"
Della sua grande famiglia, era rimasta soltanto lei a presidiare Villa Orsini.
Per tre rami fiorì la mia stirpe, per sette manieri silvani, ma presto fu stanca del fiero blasone, piegò sotto il peso degli anni, l'antico retaggio degli avi è tutto ciò che io conquisto ed apporto: sono ormai senza patria nel mondo...
Villa Orsini non era mai stata così silenziosa.
Se n'erano andati via tutti.
Il valzer degli addii si era concluso e ognuno era partito per la sua strada.
I più si trovavano sotto la volta nera della cappella di famiglia, riuniti nel sonno eterno.
Suo padre, sua madre, i suoi fratelli Eugenio e Arturo, (il primo morto di meningite quando era solo un bambino), le sue sorelle Giovanna (morta per l'influenza spagnola) e Isabella.
E infine suo marito.
Tutti continuavano a vivere in lei, come se nel momento della dipartita le loro anime fossero confluite nella sua, per darle forza, per dirle: siamo con te, non siamo mai andati via.
Le conferivano una sorta di "mandato celeste" per guidare con saggezza e benevolenza il resto della famiglia, i vivi, anche se non abitavano più con lei : l'ultima sorella che le restava, Ginevra; la cognata nubile, Adriana, che dopo la morte di Ettore si era trasferita in città per stare più vicina al resto della famiglia Ricci; e poi le figlie e i nipoti, che ormai erano cresciuti e avevano la loro vita.
Persino il personale di servizio era ridotto al minimo: la nuova governante, Monica, (molto più discreta di colei che l'aveva preceduta, la terribile Ida Braghiri), non aveva bisogno di collaboratori, perché ormai in casa non c'era molto da fare, e alcune stanze erano state persino chiuse, con i mobili ricoperti da tele contro la polvere.
Pareva di essere in un mausoleo o in una cripta.
Inoltre, a rendere Villa Orsini ancora più tetra e più simile a un maniero inglese era stato il tipo di restauro che il conte Luigi Carlo, trisavolo di Diana, aveva portato a termine a metà Ottocento, in un eccentrico stile neogotico vittoriano già allora piuttosto cupo e minaccioso. A a distanza di un secolo e mezzo pareva un castello abbandonato in preda agli spettri.


Il parco si stava trasformando in un bosco pieno di sterpaglie, che Diana percorreva assorta nei suoi pensieri, riflettendo sulle origini del declino degli Orsini di Casemurate.
Il conte Luigi Carlo conosceva i nomi dei suoi antenati meglio di quelli dei suoi figli e nipoti.
Se ne stava in vecchi saloni con teste di cervo alle pareti, meditando sulle sottigliezze dell'araldica, e saliva nelle sue torri neogotiche per immergersi nel passato e dimenticare il presente.
E fu così che la nostra stirpe andò in rovina e il comando passò, per dirla con Dante, alla "gente nova e' subiti guadagni".
Certo, era tutto molto romantico, e la tentazione di rifugiarsi nel passato era molto forte, e in alcuni casi poteva persino essere giusta, ma a pagare il prezzo di tutto questo erano stati i suoi discendenti.
Le finanze di famiglia non si erano più risollevate, e soltanto il matrimonio di Diana con Ettore Ricci aveva permesso al Feudo Orsini di sopravvivere e persino di prosperare, anche se solo per un breve periodo.
A tal proposito,  Diana ripensava a un colloquio che aveva avuto col nipote Roberto, poco dopo la morte di Ettore.
Mentre passeggiavano sulle rive del Bevano, la Contessa aveva detto al figlio di sua figlia Silvia:
<< Io sono l'ultima degli Orsini di Casemurate. Con me si estinguerà il vincolo che lega il mio cognome a questa terra.  
Dopo di me, il titolo comitale passerà, pro-forma, a tua zia Margherita e quindi alla famiglia Spreti da Serachieda, che era già detentrice della Marca casemuratense ravennate.
Tu avrai in eredità un fondo fiduciario che sono riuscita a mettere al sicuro dalle grinfie dei creditori: ti permetterà di dedicarti a ciò per cui sei portato, e cioè allo studio della storia e della letteratura, e alla tua passione per la scrittura.
Tutto questo per dire che non hai obblighi verso questo luogo .
La manutenzione di questa casa ha costi insostenibili e la gestione del Feudo richiederà l'ingresso di nuovi soci, che prima o poi ci metteranno in minoranza: sic transit gloria mundi.
Ma non importa! Ciò che conta è che non devi sentirti vincolato a una promessa fatta in un momento di debolezza... io so che Ettore ha fatto leva sul tuo profondo senso della famiglia, me l'ha confessato, alla fine, ma non aveva il diritto di far ricadere su di te un simile peso.
Una promessa estorta in quel modo non vale. 
In troppi hanno già pagato per difendere l'onore e il patrimonio dei Ricci-Orsini!
Questo è un mio fardello, a cui dedicherò tutte le mie forze, per tutti i giorni che mi rimangono. 
E i tuoi zii faranno il resto, quando non ci sarò più. 
Voi nipoti potrete vendere tutte le quote e rifarvi una vita>>
Roberto sentiva che nelle parole di sua nonna c'era grande generosità e molto buon senso, ma lui non voleva venir meno alla promessa fatta al nonno morente:
<<"Le radici profonde non gelano". Lo diceva Tolkien e lo diceva anche il nonno, a modo suo, naturalmente. Non puoi chiedermi di agire in maniera non coerente ai miei ideali>>


Diana sospirò:
<<I tuoi ideali sono cavallereschi e cortesi, e dunque appartengono a un mondo che non esiste più e che forse non è mai esistito, se non nei poemi e nei romanzi.
Tu citi Tolkien e allora pensa alla sua scelta di vita: studiava e insegnava all'università, scriveva e inventava lingue immaginarie parlate da personaggi immaginari in mondi immaginari. E tutto questo è confluito nelle storie che raccontava ai suoi figli e infine nei suoi romanzi.
Se avesse fatto l'amministratore di un'azienda agricola, non avrebbe avuto il tempo e gli strumenti culturali per creare la sua grande opera letteraria.
Ha valorizzato le sue qualità ed è la stessa cosa che io vorrei per te: preferirei un milione di volte vederti impegnato in un'attività intellettuale, piuttosto che a controllare gli spaventosi bilanci del Feudo Orsini.
Ettore è morto. Tu sei vivo, e hai tutta la vita davanti. Non buttare via la tua giovinezza in queste meschinità. 
E poi sei un Monterovere! Segui l'esempio di tuo padre, che è un grande insegnante, o di tuo zio, che è un docente universitario!
Lascia perdere questa terra amara... troppe lacrime l'hanno irrigata, e troppo sangue... e ormai "altra messe non dà">>
Roberto prese la mano di sua nonna:
<<Io sono cresciuto qui.  Questa casa, questo giardino... sono parte di me. Qui ho trascorso i miei anni più belli. Solo qui mi sento veramente a casa...>>
Diana scosse il capo:
<<Gli anni più belli? Ma tu non hai neanche diciassette anni! Vorresti forse seppellirti vivo in questo "morto viluppo di memorie"? Già ai tempi del mio trisavolo questa casa stava andando a pezzi, ma lui era convinto di poterla trasformare in un castello medievale e si concentrò solo sugli archi a sesto acuto, le bifore, le torrette col tetto a punta, i camini in stile Tudor, le guglie, i gargoyle... e lasciò che tutto il resto continuasse a cadere a pezzi, perché in fondo questo aggiungeva un'aura davvero medievale al tutto, tralasciando però di aggiungere il trascurabile dettaglio che non gli era rimasto un centesimo. 
Ma tanto bastava costringere i figli e le figlie a sposare gente ricca e tutto si risolveva... ebbene sappi che in tutto questo non c'è stato proprio nulla di romantico. Questo non è un castello con una principessa da salvare. Questa è una tomba, un cimitero! 
L'ultima principessa ha ottant'anni, ormai, e per lei è troppo tardi, perché è questo che sono: prigioniera da una vita... prigioniera del sogno dei miei padri e di quello di mio marito.
Una volta che sarò morta anch'io, cosa resterà qui, se non un cumulo di macerie?
Vuoi forse sprecare la tua vita diventando un adoratore di ceneri?>>


Roberto la fissò, ed era come fissare se stesso, perché lei aveva gli stessi occhi che lui aveva ereditato:
<<Il mio compito è mantenere viva la fiamma>>
Lei ricambiò lo sguardo:
<<E lo farai, ma in un altro modo!>>
Lui non capiva:
<<E quale sarebbe?>>
Diana sorrise:
<<Racconta la nostra storia. Tutta la verità, fino in fondo. Ti autorizzo a farlo. Scrivila, se vuoi.
 Fa' in modo che ne resti traccia. In fondo la mia vita è stata come un romanzo. Ti autorizzo a scrivere di me e di queste terre, che verranno ricordate perché tu avrai scritto un romanzo su di loro. Questo è il modo migliore per rendere omaggio al luogo della tua infanzia. E' l'unica immortalità consentita. Certe cose non tornano più, ma possono essere raccontate...
Pensa a Camelot, il centro dell'universo cavalleresco e cortese: tutti sanno la storia di Camelot, è una storia eterna, eppure Camelot non esiste e non è mai esistita, perché se fosse esistita, la sua realtà sarebbe stata molto più deludente rispetto all'immagine che ne abbiamo tratto dai poemi e dai romanzi
Ciò che onorerà al meglio la nostra storia non sarà un cantiere o un bilancio: sarà la magia della parola e il potere creativo dell'immaginazione.
Solo così la tua nonna Diana, anziana principessa di questo castello potrà essere liberata >>



Non era la risposta che Roberto si aspettava:
<<La storia della nostra famiglia attirerebbe molti più lettori se io riportassi il Feudo Orsini e la Villa Orsini agli splendori un tempo. Ma tu non credi che io ne sia capace.
Dimmi la verità: tu pensi che io sia troppo debole per il mondo degli affari. Alla fine è quello che pensano tutti...>>
Diana si accigliò:
<<Non è una questione di forza o di debolezza, è una questione che riguarda i tuoi talenti, che sono di tipo umanistico, e se tu li tradirai, allora sì che sarai un debole! La vera forza sta nel valorizzare ciò che siamo!>>
Roberto sapeva che sua nonna aveva ragione, ma si trovava in quella turbolenta fase dell'adolescenza in cui ancora l'identità delle persone non è del tutto definita, e dunque è arduo conoscere se stessi, se ancora questo Sé non si è definito.
<<Vorresti fare di me un letterato e quindi un insegnante, uno dei tanti. Ma io vedo che i miei insegnanti sono logorati da un lavoro che la società non valorizza. I miei genitori non vedono l'ora di andare in pensione. Gli studenti di oggi, i miei coetanei, sono per lo più persone squallide, a cui non interessa nulla di storia o di letteratura. E per quel che riguarda l'università, si sa come funzionano le cose... dottorati, borse di studio, precariato e poi alla fine vengono assunti solo i raccomandati>>
Lei inarcò le sopracciglia:
<<Ma tuo zio Lorenzo ti aiuterebbe, ne sono certa>>
Il nipote scosse il capo:
<<Io non voglio questo tipo di favori. Non mi piace dover dire troppe volte grazie alla stessa persona. E comunque, che ti piaccia o no, nelle mie vene scorre anche il sangue di Ettore Ricci, e quello delle infinite generazioni di agricoltori che hanno coltivato questa terra fin dalla notte dei tempi.
Lui aveva con la terra un rapporto quasi simbiotico
Io gli assomiglio più di quanto possa sembrare, e questo lui l'aveva capito. Perciò ha scelto me. Non tanto come erede degli Orsini, quanto come successore di Ettore Ricci>>
Diana ponderò a lungo quelle parole, soppesandole nel suo cuore, ma non se ne rallegrò, perché erano presagio di sofferenza e di sventura:
<<Certo Ettore era l'animatore di questa terra, di questa casa e di questa famiglia. E se mai la Contea di Casemurate ha avuto un'anima, quell'anima era lui.
Ettore non era malvagio, aveva soltanto troppa energia dentro di sé e questo fuoco lo ha consumato. Si è lasciato possedere dai suoi istinti predatori, gli stessi che portano alcune persone a sacrificare tutto in nome del profitto e del successo.
Non dare ascolto a questi istinti : non sanno niente e, cosa ancora peggiore, non imparano mai>>