giovedì 3 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 97. Apologia e apoplessia


La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana,  a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria popolare, non esperta di diritto penale o di medicina legale, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.

Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte degna di una nomination al Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:

<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco. 
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento. 
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati. Se poi qualcuno si è sentito in dovere di sdebitarsi in qualche modo, non è stato certo dietro nostra sollecitazione.
Riguardo alle questioni contabili l'unica colpa di mio marito è di essersi fidato di persone che in apparenza si comportavano da amici, mentre in realtà non lo erano affatto.
Non voglio spingermi oltre, nel parlare di queste persone, ma credo che avessero da tempo l'intenzione di nuocerci.
Noi, in questa situazione, siamo la parte lesa, non certo i mandanti.
In considerazione di tutto ciò che ho detto, mi permetto di invitare la Corte a tenere presente la nostra buona fede.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>

Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<So che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quantomeno lo stesso peso di chi, in maniera anonima, ha cercato di dimostrare il contrario>>
La risposta piacque all'uditorio, ma l'avvocato Vanesio  rischiò di rovinare tutto con un commento fuori luogo:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare. Si era creato un clima nuovo in aula.

Naturalmente, Ettore Ricci, da par suo, volle rilasciare una focosa deposizione spontanea, destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità, della mia ingenuità e della mia ignoranza a livello contabile.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore: io non sono un uomo istruito e come tale, se anche determinati documenti fossero passati per il mio ufficio, non ero in grado di capire le insidie che celavano,

Si è obiettato che l'ignoranza della legge non può essere addotta come scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge. 
Michele Braghiri era un ragioniere ben preparato, ed io credevo che fosse anche un amico.
Per questo, in buona fede, ho firmato documenti di cui non comprendevo il significato.
Se l'ignoranza è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Ma la mia ignoranza non deriva da una negligenza, o da una mancanza di volontà.
Il fatto è che io vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini. 
Quando ero bambino, mio padre non aveva ancora avviato le attività che in seguito portarono la famiglia Ricci alla prosperità, cosa che avvenne quando io avevo più di vent'anni, ed avevo lavorato nei campi per almeno due lustri.
Se la povertà che mi ha impedito di studiare è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Posso aver commesso delle leggerezze, per le quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità.
Ma chiedo umilmente questa Corte di riconoscere che il mio successo negli affari non è frutto di un crimine, ma solo ed esclusivamente del mio duro lavoro e delle fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte...>> e qui fu travolto dalla commozione e dallo sdegno, come Julien Sorel alla fine de Il Rosso e il Nero. <<... sì, questo è il punto. E cioè il fatto che coloro che mi accusano vogliono punire in me tutti coloro i quali, nati in una condizione sociale inferiore, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che l'orgoglio dei ricchi di antica data chiama altezzosamente "la Buona Società">>

Quelle parole colpirono nel segno la platea, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
A prescindere dalle decisioni del Tribunale, quell'applauso stava a significare che la famiglia Ricci-Orsini aveva ritrovato la simpatia e il rispetto dei concittadini.
Ma su Ettore pendeva comunque una maledizione potente, e Ida Braghiri in persona si era recata dalle sue sorelle streghe delle paludi, Iole, Irma ed Ermide, che le garantirono ciò che era stato pattuito: "Due sacrifici sono stati compiuti, e una vita è già stata spezzata. Ora tocca alla seconda. Non sarà una cosa breve, perché ci sono altre forze in gioco"
Ida Braghiri capì a chi alludevano le sue sorelle, quando parlarono dell'Iniziato, e si rese conto che la situazione era diventata assai più complessa.
Tutto era divenuto evidente quel giorno, al Tribunale.
Mentre la platea applaudiva, Ida notò con fastidio che l'Iniziato si stava recando al telefono più vicino, perché sapeva che ce ne sarebbe stato bisogno.
E infatti, proprio nel momento dell'apparente redenzione, un malore colpì Ettore Ricci non appena ebbe finito di parlare. 
Era ancora in piedi, al termine della propria apologia, con la faccia paonazza e il respiro affannato, quando si manifestarono i sintomi dell'ictus ischemico.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco degli imputati, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero". 








giovedì 26 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 96. Il mondo sa tutto di noi


Nemmeno la famiglia reale inglese dovette subire da parte della stampa una curiosità così morbosa come quella che fu riservata alla famiglia Ricci-Orsini quando alle redazioni dei giornali locali arrivarono buste piene di documenti potenzialmente scottanti contro Ettore Ricci.
La maggior parte concerneva questioni analoghe a quelle di cui Ettore era già stato accusato, ma ce n'erano altri che si riferivano al presunto insabbiamento, da parte dell'ispettore Onofrio Tartaglia e del giudice Guglielmo De Gubernatis, riguardante le morti sospette di Isabella Orsini, Arturo Orsini e Federico Traversari. 
Era la vendetta di Ida Braghiri nei confronti dei suoi ex datori di lavoro, sui quali faceva ricadere l'ombra del sospetto riguardo a eventi che, in realtà, erano stati provocati dallo stesso marito dell'accusatrice, il defunto Michele Braghiri.
Tutti gli scandali che per oltre mezzo secolo erano stati scrupolosamente, faticosamente e dolorosamente evitati, esplosero come bombe a orologeria, uno dietro l'altro e coinvolsero tutte le famiglie di rilievo della Contea di Casemurate.
Doppiamente colpita da questo scandalo fu Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, in quanto era nel contempo sorella delle vittime, moglie del giudice che aveva insabbiato le indagini, cognata del principale accusato e consuocera della "anonima" accusatrice (e del suo famigerato marito).
Non sapendo bene da che parte le conveniva stare, in questa faida tra parenti e affini, Ginevra si limitò a manifestare, alle sue amiche della canasta (tutte appartenenti all'alta società) <<incredulità e sdegno per il modo in cui la stampa lucra sul dolore e sull'onore dei miei familiari>>.
Quella frase riuscì ad accontentare tutte le parti in causa, senza accusare specificamente nessuno.
Ben diversa era la situazione di sua sorella maggiore, Diana, Contessa di Casemurate, riguardo alla quale i documenti anonimi dicevano: "Non poteva non sapere, o quantomeno non avere dei sospetti che le indagini fossero state insabbiate".
Nel leggere quelle frasi, Diana pensò subito che a scriverle doveva essere stato Massimo Braghiri, il figlio della signora Ida, che con una sola mossa era riuscito a stornare le colpe lontano da suo padre Michele, facendole ricadere su Ettore Ricci.
Quest'ultimo cercò di mantenere i nervi saldi, osservando che <<A parte i documenti sulle questioni finanziare, che comunque erano gestite da Michele, non esiste alcuna prova a sostegno delle illazioni sull'insabbiamento. E' tutta spazzatura>>
Tecnicamente Ettore aveva ragione, ma non teneva conto di una finezza che solo la mente astuta di Massimo Braghiri poteva partorire, e fu Diana ad accorgersene:
<<Il problema è che la veridicità delle prove sulle questioni finanziarie fornisce credibilità all'anonimo mittente. E' per questo che i giornali hanno dato credito anche alle accuse più gravi>>
Ettore ne convenne, ma fece comunque notare che: <<Non hanno niente in mano e nessuno che possa inventarsi testimonianze credibili. L'unico sopravvissuto è Onofrio Tartaglia, che preferirebbe auto-evirarsi piuttosto che ammettere di avere delle colpe>>
Anche questo era vero, ma non bastava a rincuorare Diana Orsini:
<<Nella testa di chi legge i giornali noi siamo già colpevoli. La gente è colpevolista per natura, vuole il capro espiatorio e soprattutto gode nel vedere infangato il nome di coloro che invidia>>
Ettore annuì, ma formulò un'obiezione significativa:
<<Abbiamo dato troppo peso all'opinione della gente, ed è proprio per questo che Michele è riuscito a farla franca. Avrei dovuto accusarlo subito. Alla fine l'insabbiamento è servito solo a lui>>
Diana annuì a sua volta:
<<Volevamo proteggere la memoria dei  miei fratelli e il cognome delle nostre figlie, ma alla fine, come hai detto tu, abbiamo solo aiutato il vero assassino>>
Ettore cercò di sdrammatizzare:
<<Be', esiste anche un lato positivo, e cioè che, almeno dalle nostre parti, Diana Orsini fa più notizia di Diana Spencer>>
La Contessa sorrise:
<<Oh, non è affatto una consolazione! Mio padre diceva che il nome di una nobildonna onesta deve comparire sui giornali soltanto tre volte: quando nasce, quando si sposa e quando muore.
Mi era stato insegnato che, come contrappeso ai privilegi di nascita, il nobile doveva mantenere un certo contegno, una riservatezza mista a sobrietà e cortesia.
Credevo che fosse questo che ci si aspettava da me.
E invece mi ritrovo al centro dei riflettori, e senza averlo voluto, con la stampa che passa al vaglio la mia vita, la nostra vita, e la gente che si diverte a inventare versioni sempre più fantasiose riguardo alla storia della nostra famiglia.
E adesso il mondo sa tutto di noi. 
O meglio, crede si sapere tutto.
Tutto, tranne la verità>>

Ettore fu colpito da questa frase e formulò una propria ipotesi al riguardo:
<<A nessuno interessa la verità: vogliono qualcosa di più romanzesco, vogliono gli incesti, le gelosie, i tradimenti. Vogliono che i membri della "famiglia reale" si sbranino tra di loro, perché se i delitti li commette qualcun altro, meno illustre, allora tutto diventa più banale e quindi meno interessante>>
Diana si trovò molto d'accordo su quel punto:
<<E' vero: vogliono che noi recitiamo il copione scritto da altri. A questo siamo ridotti!
All'inizio eravamo signori feudali, e tutta la Contea era sotto la nostra giurisdizione, e la nostra parola era legge. Poi siamo diventati dei meri proprietari del Feudo Orsini, il quale però è andato sempre più frazionandosi e disperdendosi, fino a sfuggirci di mano. 
E adesso cosa siamo? Marionette! Commedianti di una telenovela che deve divertire il pubblico, un pubblico che ci permette di sopravvivere solo a questa condizione.
Ecco quello che siamo! Ecco come ci siamo ridotti...>>

giovedì 19 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 95. La caduta di Ida Braghiri, la Governante-Dittatrice di Villa Orsini


Riguardo alla cosiddetta "dialettica servo-padrone", Hegel aveva già detto quasi tutto: col passare del tempo e delle generazioni, i proprietari perdono dimestichezza con le abilità pratiche, le quali vengono delegate ai dipendenti, in misura sempre maggiore, e se il dipendente è così abile da rendersi necessario, allora il rapporto si ribalta e il dipendente assume il comando.
Qualcosa di molto simile, e sotto certi aspetti anche peggiore, era accaduto nel rapporto tra la famiglia la famiglia Ricci-Orsini-Monterovere e la famiglia Braghiri.
Sembrava quasi una riedizione in piccolo della tecnica con cui i Carolingi, maggiordomi di palazzo, avevano soppiantato gli antichi re Merovingi, bollati poi impietosamente dalla storia come "re fannulloni".
Diana Orsini, che amava molto la storia, si avvaleva spesso di quell'esempio, ogni volta che metteva in guardia suo nipote, evocando poi, con terrore, lo spettro di Childerico III, deposto, umiliato e bollato dalla storia come "l'Idiota" o "il re fantasma", pace all'anima sua.
Questa inquietante similitudine divenne ancor più minacciosa quando, dopo la tempesta giudiziaria che aveva travolto il Feudo Orsini, la famiglia Braghiri continuò, come se niente fosse, a esercitare il suo potere sulla Villa, tramite il rango della matriarca, la settantacinquenne signora Ida, Governante da più di cinquant'anni.
Quella permanenza era, agli occhi di tutti, non solo scandalosa, ma anche sospetta, poiché appariva come una prova evidente del fatto che Ettore Ricci fosse ricattato e dunque che avesse molte cose da nascondere, e di non poco conto.
Si favoleggiava persino che la signora Ida avesse ereditato dal defunto marito, ex Amministratore del Feudo Orsini, un archivio contenente le prove dei più scabrosi segreti della "dinastia" che per ottocento anni aveva detenuto il potere nella Contea di Casemurate.
Ogni volta che Roberto Monterovere cercava di capire se in quelle voci ci fosse un briciolo di verità, suo nonno Ettore si offendeva con sdegno, mentre la nonna Diana, che sembrava reggere sulle esili spalle il peso di tutte le diciotto generazioni degli Orsini di Casemurate, sospirava e ripeteva, con pazienza non priva di afflizione, che: <<La situazione è un po' più complessa>>.
Roberto se n'era reso conto da un pezzo, e sentiva la necessità di sapere qualcosa di più.
La sua insistenza, però, produceva l'effetto opposto, tanto che, una volta, Diana lo ammonì severamente scandendo le seguenti parole: <<Imparerai che nella vita ci sono cose che è meglio non sapere>>.
Era l'eterna storia delle tre scimmiette che si coprivano occhi, orecchi e bocca, a significare: "non vedo, non sento e non parlo". Alcuni la chiamavano omertà, ma Diana sosteneva che, sempre in piccolo, era lo stesso metodo della Royal Family britannica: "Never complain, never explain", mai lamentarsi, mai dare spiegazioni.
Roberto allora le faceva notare che quel metodo si era rivelato disastroso nella gestione della crisi, ormai sotto gli occhi di tutti, del matrimonio tra il Principe e la Principessa di Galles.
Diana rideva: <<Loro hanno riflettori di tutto il mondo puntati addosso. Noi no. L'unica cosa che ho in comune con la Principessa di Galles è il nome, che temo diventerà infausto>>.
Fu così che Roberto, preso dalla disperazione nel vedere che tutto il mondo della sua infanzia gli si stava sbriciolando sotto gli occhi, incominciò a indagare per conto suo, ricostruendo le radici della faida tra i Ricci-Orsini e i Braghiri.
Ida Braghiri e suo marito Michele erano entrati al servizio del defunto conte Achille Orsini dietro raccomandazione dell'altrettanto defunto usuraio Giorgio Ricci, detto "Zuarz", il padre di Ettore, che deteneva tutte le cambiali firmate dal conte Achille in decenni di folli spese.
Inizialmente Ida era una normale cameriera e Michele un semplice fattore, ma la loro abilità era consistita nel guadagnarsi fin dall'inizio l'ingenua simpatia e la malriposta fiducia sia di Ettore Ricci che di Diana Orsini.
Questo fu possibile perché in fondo, mentre Ettore e Diana pensavano in grande e delegavano i dettagli ai dipendenti, Michele e Ida avevano i piedi saldamente ancorati a terra, ed erano estremamente felici di accumulare le deleghe su deleghe, incarichi su incarichi, poteri su poteri, ben oltre l'ordinaria amministrazione.
In particolare, questo tipo di dinamica era risultato facilissimo per la signoraa Ida.
Tutto quello che per Diana Orsini rappresentava una terribile seccatura, per Ida Braghiri era invece un modo piacevolissimo per esercitare il potere e consolidate la propria autorità.
Diana non amava le questioni pratiche: era uno spirito poetico, che viveva nel mondo dei sogni e dell'immaginazione, un universo fatto di letteratura, di musica, di arte, di spiritualità: tutto il resto le pareva un'imperdonabile perdita di tempo.
Citando, con una punta di snobismo, una celebre battuta di Villiers De L’Isle-Adam, Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, giustificava così ai parenti la propria inerzia e il proprio orrore per le questioni pratiche: <<Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici>>
Mentre pronunciava questa frase in stile Ancien Regime, che pareva uscita dalla bocca della compianta regina di Francia, Maria Antonietta, non immaginava che la Governante stesse origliano dietro la porta del Salotto Liberty, e decidesse di prendere quelle parole alla lettera, tanto da sentirsi moralmente autorizzata a impadronirsi sul serio della vita della sua datrice di lavoro.
Ida Giorgini divenne, per tutti, l' "Arzdora", per usare un termine romagnolo, ossia "colei che regge la casa e la famiglia". 
Ed era un'Arzdora tirannica, una vera e propria dittatrice.
Del resto Ida Braghiri aveva, come si suol dire, le physique du rôle.
C'era un tale piglio autoritario, nel suo sguardo freddo e minaccioso, da far soggezione a tutti, compresi i suoi stessi datori di lavoro.
Era quasi peggio della spaventosa governante del film Rebecca, la prima moglie.
Decisa, sicura di sé, inflessibile e implacabile, aveva esercitato, specialmente nei riguardi delle tre figlie di Ettore e Diana, il ruolo della severa educatrice, approfittando delle continue emicranie e crisi esistenziali della loro romantica madre.


Col tempo non si curò nemmeno di nascondere il sadico piacere che traeva dall'aver instillato nelle figlie dei padroni una sorta di sudditanza psicologica.
Nessuno si meravigliò quando la Governante tentò di ripetere quell'operazione con i tre nipoti di Ettore e Diana, ma qui le cose non funzionarono egualmente bene.
In particolare Alessio e Roberto non sopportavano la presenza asfissiante e ingombrante di quella donna terribile. il cui cipiglio ancora faceva tremare le loro madri e la loro nonna.
Resasi conto che con Alessio e Roberto le sole maniere forti non funzionavano, passò al metodo del bastone e della carota, alternando i rimproveri con le lusinghe.
<<Per me siete come figli, anzi nipoti, e vi voglio bene come ai miei stessi nipoti>>
Roberto non ci credette neanche per un decimo di secondo, ma finse di stare al gioco, per riuscire a trovare un punto debole, una "maglia rotta nella rete", un anello cedevole della catena con cui la signora Ida teneva avvinghiata la famiglia Ricci-Orsini.
Alla fine si convinse che l'unica debolezza di Ida Braghiri era l'eccesso di autostima, che la portava, a volte, ad abbassare la guardia.
Era talmente sicura del proprio potere che non si prendeva più nemmeno la briga di nascondere le proprie emozioni, in particolare la vile tendenza a gioire delle disgrazie altrui.
La cosa era fin troppo evidente. Quegli occhi gelidi improvvisamente scintillavano di una gioia sadica e la bocca si incurvava in un ghigno malefico.
Un giorno, durante una riunione di famiglia, la Governante si spinse troppo oltre.
Il casus belli fu una conversazione tra Ida Braghiri e Margherita Ricci-Orsini, coniugata Spreti, la figlia maggiore di Ettore e Diana. L'argomento era un esame universitario che il figlio di Margherita, Fabrizio, non era riuscito a superare.
Si vedeva chiaramente che Margherita era molto dispiaciuta, e Ida si divertiva ad agitare il coltello nella piaga, con domande tese a conoscere tutti i particolari di quell'umiliazione. 
Fabrizio era presente, ma a un certo punto lasciò la stanza. Gli altri due cugini, Alessio e Roberto, si scambiarono un segnale, come a dire che era venuto il momento di fare qualcosa.
Fu così che Alessio Zanetti, che dei tre cugini era il più coraggioso e ruspante, nel vedere sua zia torturata in quel modo e suo cugino così vilipeso, se ne uscì con parole che di certo il Salotto Liberty non aveva mai sentito:
<<Zia, perché le rispondi? Non vedi come gioisce per i nostri fallimenti? Guardala bene: non vedi che le ride anche il culo?>>
Il gelo calò nella stanza.
Anche le altre conversazioni si spensero. 
Era come se qualcuno finalmente avesse gridato che il re era nudo.
Ida Braghiri rimase stupefatta, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, nel dubbio di come reagire a quella mossa imprevista.


Improvvisamente, e in maniera del tutto inaspettata, Margherita Spreti di Serachieda incominciò a ridere e la risata si estese a tutti gli altri presenti.
Ida Braghiri divenne paonazza per la rabbia e mollò un ceffone sulla faccia di Alessio Zanetti Protonotari Campi, cadendo così nella trappola che il ragazzo le aveva teso.
In quel momento Diana Orsini si alzò e tutti tacquero:
<<Signora Ida, c'è un limite a tutto e lei lo ha superato ampiamente e da molto tempo.
Non sono disposta a tollerare oltre. La sollevo da tutti gli incarichi che ricopre e la invito a lasciare al più preso questa casa>>
Ida Braghiri non si mosse di un millimetro:
<<Questa casa è di suo marito: solo lui ha il potere di licenziarmi e credo che gli convenga farlo>>
Ettore Ricci, che era stato avvertito della situazione, intervenne:
<<Questa casa appartiene alla famiglia Ricci-Orsini, a cui lei ha mancato di rispetto, in maniera pubblica e plateale. Per cui confermo ciò che ha detto mia moglie: lei è licenziata per giusta causa. La invito a seguirmi nel mio studio per informarla riguardo al trattamento di fine rapporto. Potrà rimanere nel suo appartamento fino a quando non avrà trovato una nuova sistemazione>>
Ida Braghiri lo fissò con sguardo omicida e abbandonando ogni forma di cortesia, urlò:
<<Sarai tu a dovertene andare, Ettore! E lo sai dove? In galera!>> poi si rivolse al resto della famiglia <<E voi altri, non durerete nemmeno mezza giornata, senza di me. Non siete capaci nemmeno di svuotare un pitale! Verrete a supplicarmi in ginocchio di ritornare a mettere ordine in questa gabbia di matti!>>
Ettore le si parò davanti:
<<Non peggiori la sua situazione>>
Ida rimase immobile:
<<Se no cosa mi fai, Ettore? Chiami la polizia? Il grand'uomo agli arresti domiciliari che chiama la polizia... sembra una barzelletta>>
Ettore si sentì stranamente sollevato, come se finalmente, dopo tanto tempo, fosse libero da un peso che lo stava schiacciando:
<<Io sono innocente fino a sentenza definitiva. Nel frattempo ho tutto il diritto di chiamare chi di dovere per difendere la mia casa e la mia famiglia>>
Ida Braghiri si rese conto di aver perso, per la prima volta in vita sua, una battaglia:
<<E va bene, Ettore, mi ritiro, ma non finisce qui, puoi scommetterci!>>
Ettore le lasciò l'ultima parola, purché se ne andasse.
Quando finalmente la Governante-Dittatrice abbandonò il campo di battaglia, tutti si sentirono leggeri come non erano mai stati.
Diana abbracciò Ettore e gli sussurrò all'orecchio una parola che non gli aveva detto quasi mai, in cinquant'anni di matrimonio: <<Grazie>>

Roberto, sconvolto dagli eventi, si chiese se le minacce di Ida Giorgini potessero avere un qualche fondamento.
Per cinquant'anni, la Governante aveva saputo nascondere bene sia i suoi reali sentimenti che le sue trame. Per tutti quei decenni, dietro alla maschera di una apparente e rigorosa professionalità, Ida Braghiri si era mantenuta fredda, livida, divorata dall'invidia, chiusa nel suo cupo disegno di rivalsa, valutando, ponderando, prendendo la mira, aggiustando il tiro come un cacciatore esperto.
Per quanto Ettore fosse stato generoso con lei e con la sua famiglia, questo non bastava.
Mentre fingeva di accettare con ritrosia sdegnosa i premi per la sua presunta fedeltà, Ida era rimasta, nel suo intimo, una regista gelida, impenetrabile, indifferente ai valori dell'amicizia, senza dubbi, senza palpiti , senza un briciolo di pietà umana.  
Aveva agito nell'ombra, come certi ragni velenosi di cui non ci si accorge se non quando sono diventati troppo pericolosi per poterli sfidare.
E infine, dopo la morte di suo marito Michele, Ida aveva consumato il tradimento che meditava da anni, diffondendo documenti riservati, mettendo in giro voci allarmanti, ma soprattutto tessendo una ragnatela di alleanze in grado di infliggere allo stesso Ettore un colpo decisivo.
E tutto questo per cosa?
Invidia e odio, poiché lei apparteneva a quella miserabile schiatta di individui che desiderano soltanto distruggere tutto ciò che non appartiene a loro, traendo il massimo piacere nell'assistere alla rovina altrui.
Per lei l'intero clan Ricci-Orsini rimaneva, anche dopo una vita di convivenza sotto lo stesso tetto, un nemico da distruggere.
Tutte le malefatte del suo defunto marito dovevano essere scontate da Ettore Ricci, che ne era venuto a conoscenza soltanto a posteriori, e poi costretto ad insabbiare tutto per evitare uno scandalo nel momento in cui il Feudo Orsini doveva ancora riprendersi dalla cattiva gestione del conte Achille.
Diana l'aveva capito subito e dentro di sé pensava: "Ettore e Achille, come nell'Iliade, e il Feudo Orsini rischia di fare la fine di Troia".
Ed era proprio ciò che Ida Braghiri e suo figlio Massimo incominciarono a desiderare nel momento in cui le figlie di Ettore rifiutarono di sposare Massimo stesso.
Isa e Massimo chiamavano quel piano di distruzione "il Grande Disegno", lo scopo di una vita intera: una vita dedicata al Male.
E tutto questo senza alcuno scrupolo di coscienza.
Cosa significava, per Ida Braghiri, la rovina di uomo, della sua anziana sposa, lo sfascio di una famiglia già danneggiata, l'ostracismo della sedicente "buona società", una volta che fossero stati accusati ingiustamente di tremendi delitti? 
Perché era questo il punto: gettare su Ettore l'ombra della responsabilità della morte di tre persone: Isabella Orsini, Arturo Orsini e Federico Traversari, in realtà uccisi da Michele Braghiri.
Che significava tutto questo per Ida Braghiri, una volta esercitato il potere per fare il Male come sempre aveva fatto nella sua vita?
La risposta era semplice e sconcertante nello stesso tempo.
Tutto questo non significava niente.
Non è nostra intenzione rievocare ulteriormente la sua grigia freddezza. Non è questa una colpa.
Si può essere grigi, ma buoni; grigi, ma onesti; grigi, ma sinceri nel rendere conto del proprio operato di fronte al tribunale della coscienza. 
Ebbene, a Ida Braghiri era proprio questo che mancava: una coscienza morale.
Le mancava quell’insieme di lealtà, rettitudine, sincerità e coraggio che rendono una persona degna di fiducia, di amicizia e di ammirazione.

venerdì 13 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 94. Lambrugo Bava detto "Mattoncini Lego", catastrofico Amministratore Giudiziario del Feudo Orsini

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Dopo le inevitabili dimissioni del Consiglio di Amministrazione, la gestione del Feudo Orsini fu affidata dal Tribunale ad un Amministratore Giudiziario.
La scelta cadde su un personaggio a dir poco sgradevole.
Si trattava di un certo Lambrugo Bava, detto "Mattoncini Lego" a causa di una similitudine che usava in continuazione, ma che nessuno aveva mai capito ("Un buon investimento è come i mattoncini Lego").
Il dottor Bava era un uomo di mezza età, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto, occhi infossati, un riporto di capelli radi color topo, tendenti alla forfora, la faccia arrossata di chi sembra reduce da un'insolazione senza crema protettiva, la pelle sudaticcia, la voce stridula e nasale e un modo di fare affettato e viscido, come del resto era anche la sua stretta di mano.
Si presentò a Villa Orsini all'ora del tè, con un completo gessato che aveva decisamente visto tempi migliori, e un'orribile cravatta verde elettrico, e fu fatto accomodare nel Salotto Liberty.
Quando Diana Orsini gli chiese se voleva una tazza di tè, lui, con un sorrisetto lezioso e con voce querula in falsetto, dichiarò:
<<Preferirei un caffè doppio, alto e amaro>>
Nel dire questo divenne color lilla in faccia e nelle mani.
Fu a quel punto che tutti i presenti incominciarono a percepire l'odore del suo alito.
Inizialmente rimasero confusi per il fatto che si trattava di un alito diverso da quelli normalmente considerati pesanti, nel senso che quel lezzo era troppo fetido per poter provenire da una bocca umana.
Pertanto incominciarono a formulare mentalmente le più svariate ipotesi.
Come poi emerse, dopo che "Mattoncini Lego" se ne fu andato, tutti i presenti avevano inizialmente pensato che quel fetore rivoltante dovesse provenire dalle feci di un cane pestate dal dottor Lambrugo Bava.
Purtroppo però avevano dovuto ricredersi.
Quell'inequivocabile puzza di merda (perdonateci il francesismo) proveniva altrettanto inequivocabilmente dall'alito del dottor Bava.
Il caffè doppio amaro non fece che peggiorare la situazione.
Ben presto la maggior parte dei presenti lasciò la stanza in preda alla nausea e ai conati di vomito.
Ettore Ricci e sua figlia Isabella resistettero, perché era di vitale importanza capire se quello sgradevole personaggio fosse almeno in grado di gestire un'azienda.

La sua frase d'esordio, che riprendeva il suo cavallo di battaglia, lasciò al riguardo ben poche speranze.

Con un ghigno untuoso e una voce nasale e petulante, emise una zaffata micidiale:
<<Io concepisco l'amministrazione di un'azienda come se fosse, tra virgolette, un insieme di "mattoncini lego">>
Cercando di evitare l'impatto massiccio dell'ultima "emissione gassosa" del signor Mattoncini Lego, Ettore Ricci gli chiese di spiegarsi meglio.
Lambrugo Bava continuò a parlare per un'ora, appestando non solo il Salotto, ma tutta la casa, perché la pesantezza del suo fiato sembrava penetrare attraverso ogni interstizio:
<<Intendo dire che per me un'azienda è, tra virgolette, un investimento fatto di tanti diversi mattoncini da combinare in modo tale che, tra virgolette, risulti tutto ben frazionato>>
Ettore Ricci, asfissiato dalla mancanza d'ossigeno in quella stanza ormai piena di zolfo, si allarmò a tal punto da perdere quasi conoscenza, e solo con grande sforzo alla fine protestò:
<<Frazionato? Vuole forse smembrare il Feudo Orsini?>>
La faccia di Mattoncini Lego divenne color fucsia e il sudore gli colò dalla fronte stempiata:
<<Lei dice "smembrare", ma io preferisco dire "diversificare". E' una prassi comune>>
Ettore, ormai in apnea, ribatté:
<<Lo è nella gestione di un portafoglio azionario! Ma il Feudo Orsini è un'azienda agricola cha già diversificato i propri investimenti in attività industriali legate alle macchine agricole e all'allevamento avicolo e suino. Questa è la natura della nostra azienda che non deve in nessun modo essere trasformata in qualcosa di diverso>>
Mattoncini Lego iniziò a ghignare, emettendo gas mefitico da quella bocca che ricordava una cloaca:
<<Si fidi di me, signor Ricci. Vedrà che un mattoncino dopo l'altro io costruirò un'azienda nuova, con agriturismi, campi da golf, laghi di pesca sportiva, parchi da gioco per bambini e per cani, alberghi, insomma tra virgolette, un "resort di lusso">>
A quel punto Ettore Ricci esplose e scattò in piedi:
<<Ma questa non è una zona turistica! Ci sono porcili e pollai e inceneritori di biomassa! E' tutto piatto, nebbioso d'inverno e afoso d'estate. Non siamo mica la Toscana! E nemmeno sugli Appennini o in Riviera!>>
Lambrugo Bava non si lasciò minimamente scalfire ed emise l'ennesima nube tossica:
<<Ma lei ha una mentalità arcaica. Adesso viviamo in un mondo, tra virgolette, "green", che cerca un divertimento, tra virgolette, "eco", mi verrebbe da dire che la presenza di porcili e pollai, con il loro odore così caratteristico, sia un fattore, tra virgolette "folk" e tra virgolette "etno" che conferisce al tutto quel sapore tra virgolette "vintage" che è così tra virgolette "trendy"...>>
A quel punto Ettore Ricci non riuscì più a contenersi:
<<Basta con queste cazzate! Le ricordo che un Amministratore Giudiziario deve occuparsi solo dell'ordinaria amministrazione e non degli investimenti straordinari! Lo tenga bene a mente! Non le permetterò di buttar via il lavoro di tutta la mia vita! E adesso fuori da casa mia! 
E se vuole un consiglio, si lavi i denti, prima di andare ad appestare la casa della gente!>>
Poco ci mancò che lo prendesse a calci.
La faccia di Mattoncini Lego aveva raggiunto ormai un color prugna e nemmeno la deferenza della Governante-Dittatrice Ida Braghiri riuscì a tranquillizzarlo.
I Braghiri speravano infatti che l'Amministratore Giudiziario avrebbe definitivamente affossato il Feudo Orsini, e Lambrugo Bava era la persona giusta per quel compito.
Dopo che finalmente Mattoncini Lego ebbe preso congedo, salutando con la mano sudaticcia i pochi presenti che si erano avventurati nell'atrio completamente invaso dal gas tossico, fu necessario tenere aperte tutte le finestre di Villa Orsini per tre giorni e tre notti, al fine di cacciare via quel tanfo rivoltante che era penetrato fin nei suoi angoli più reconditi.

venerdì 6 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 93. Après nous le déluge


Forse, in circostanze diverse e meno complesse, la novantottenne Contessa Madre Emilia Orsini, nata Paolucci de' Calboli, avrebbe detto <<Laissez faire, laissez passer, le monde va de lui meme>>, "laciate fare, lasciate passare, il mondo va avanti da sé".
Ma quella volta, quando sua figlia Diana e suo genero Ettore le riferirono i rischi dei processi che stavano per cominciare a carico dei dirigenti del Feudo Orsini, la veneranda matriarca si sentiva ormai come una reliquia della Belle Epoque interminabilmente sopravvissuta a se stessa ed era ben consapevole di avere ormai un piede nella fossa, pertanto il suo distacco dalla realtà contingente e dai beni materiali aveva modificato il suo punto di vista.
La sua risposta, per quanto ancora espressa in francese, fu diversa e più apocalittica.
Rispolverò infatti la frase che Madame de Pompadour disse a Luigi XV dopo la terribile disfatta dell'esercito francese nella battaglia di Rossbach, durante la guerra dei Sette Anni:
<<Il ne faut point s'affliger; vous tomberiez malade. Après nous, le déluge!>>



"Non è il caso di affliggersi; vi ammalereste. Dopo di noi, il diluvio!"
Annuì per ribadire il concetto :
<<Dopo di noi il diluvio!>> ripeté in italiano, a beneficio del genero, e spiegò <<Ora ci criticano, ma un giorno ci rimpiangeranno, perché siamo stati noi a tenere in piedi la baracca per più di mezzo secolo, e quando non ci saremo più, andrà tutto a catafascio, e tanti perderanno il lavoro, i risparmi e il rispetto che noi abbiamo sempre manifestato nei loro confronti>>
Quelle considerazioni non risollevarono però il morale di Ettore Ricci, che già di per sé era consapevole che senza di lui il Feudo Orsini si sarebbe disgregato nel giro di una generazione.
Certo sua suocera non avrebbe visto nulla, di quel diluvio, dal momento che i suoi giorni erano contati.




A Villa Orsini, il ruolo della novantottenne Contessa Madre Emilia, era sempre stato quello di rasserenare gli animi, trasmettere calore umano, rassicurare chiunque entrasse nel suo Salotto Liberty, dove lei garantiva la presenza di pasticcini, biscotti, tè, ma anche buon vino pregiato, il tutto accompagnato da battute brillanti, aneddoti spassosi e validi consigli (non potendo più dare cattivi esempi, a causa dell'età e del divieto dei medici sulle quantità di alcool assunte nei bei vecchi tempi).
Quando infine si ammalò, tutti i suoi numerosi interlocutori si trovarono perduti e spaesati.
Il Salotto perdeva la sua coesione, poiché Emilia si era sempre prodigata affinché le sue due figlie supersisti, ossia la Contessa Diana Orsini Balducci di Casemurate e la vedova Ginevra De Gubernatis, continuassero a intrattenere rapporti cordiali, nonostante Ginevra parteggiasse per suo genero, Massimo Braghiri, e per la sua terribile madre, la Governante Ida Braghiri, che era riuscita fino ad allora a dettar legge a Villa Orsini.
La dipartita dell'antica matriarca, nel febbraio del 1988, segnò la fine della tregua armata tra il clan Ricci-Orsini-Monterovere e quello De Gubernatis-Braghiri.
Diana e Ginevra furono le uniche a mantenere una certa compostezza.
Meno diplomatiche furono le loro rispettive figlie.
Silvia Monterovere disse ad Elisabetta Braghiri una frase poi divenuta memorabile; 
<<Senti, facciamo un patto: tu smetti di dire falsità su di me e io smetto di dire la verità su di te>>
I discendenti della defunta, a riprova che, come dice il proverbio, "il denaro non dorme mai", erano già pronti all'ennesima battaglia per l'ennesimo testamento.
Ma c'erano dissapori anche nella generazione più giovane.
Sia Roberto Monterovere che Vittorio Braghiri erano pronipoti della Contessa Madre, ma mentre il primo provava un dolore immenso, perché con la bisnonna se ne andava una parte della sua infanzia, il secondo sembrava del tutto estraneo al lutto.
Pareva persino affascinato e quasi divertito dal manifesto funebre affisso su tutte le strade di Casemurate e Pievequinta, dove il nome della defunta si estendeva per quasi tutto lo spazio.
"E' mancata all'affetto dei suoi cari la contessa Emilia Paolucci de' Calboli vedova Orsini Balducci di Casemurate, di anni 98. Ne danno il triste annuncio le figlie, il genero, le nipoti, i pronipoti e i parenti tutti".
La Chiesa di Casemurate era gremita 
Il nuovo parroco, succeduto a don Pino Ricci, pronunciò un'accorata omelia, concludendo con due citazioni evangeliche:
<<Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. 
Da quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia>> e a quel punto rivolse lo sguardo direttamente ad Ettore Ricci:
<<Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti condurrà dove tu non vorrai>>
Ettore non batté ciglio, ma un brivido di paura lo percorse, e ripensò ai bei tempi, quando il clan Ricci-Orsini controllava anche la nomina del parroco e poteva contare persino sulla benevolenza del vescovo.
Terminata la funzione, il corteo funebre si diresse verso il cimitero di Casemurate.
Diana Orsini e il marito Ettore Ricci camminavano per primi dietro il feretro, tenendosi a braccetto, come se fossero stati per cinquant'anni la coppia più bella del mondo, ma a volte le avversità hanno l'effetto di ricompattare coloro che prima erano in disaccordo, poiché i saggi sanno che, tra compagni di sventura, l'unica speranza è unire le forze, per non fare la fine dei manzoniani "capponi di Renzo"
Infine si giunse al camposanto, dove, alla destra dell'ingresso, incombeva la cappella funebre dei Ricci-Orsini, mentre alla sinistra c'era la tomba comune dei Ricci "di seconda classe": i genitori di Ettore, i suoi fratelli maggiori, i cognati e i cugini, tra cui don Pino.
<<Ecco, lì è dove finiremo tutti>> commentò Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, indicando la cappella dei Ricci-Orsini, come se quel luogo di sepoltura fosse un hotel a cinque stelle.
<<Tranne i tuoi discendenti, cara suocera>> specificò Massimo Braghiri <<ma noi ci costruiremo un mausoleo più grande in città, dove tutti potranno vederci, non solo questi bravi villici casemuratensi>>


Ma i Braghiri non erano gli unici a sentirsi in ombra.
Le sorelle di Ettore Ricci e i loro parenti e affini vari avevano preteso un posto in prima fila.
In primo piano c'erano Caterina, vedova del senatore Baroni e Carolina, vedova del conte Gagni di Montescudo. Le altre sorelle, ossia la vergine Adriana e la battagliera Maria Teresa Tartaglia si erano dovute accontentare della seconda fila, il che era inaudito, considerando la parentela dei Tartaglia con i Visconti di Bertinoro.
E infatti, con una certa virulenza, la signora Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, si fece avanti, con tanto di marito, figlia, sorella e nipote.
E fu in quell'occasione che accadde un evento gravido di conseguenze nefaste, ossia la saldatura di un'alleanza tra due famiglie che nutrivano rivalità verso i Monterovere.
Quando Aurora Visconti fece le condoglianze a Roberto, subito Vittorio Braghiri rimase colpito dalla bellezza della fanciulla dai capelli d'oro e anche dall'ingombrante e massiccia presenza dell'onnipresente cugino, Felice Porcu.
Fu in quel momento che il seme del male, piantato da tempo, incominciò a germogliare nel cuore di Vittorio Braghiri.
Quella rivalità che fino ad allora Vittorio era riuscito a tenere a freno, improvvisamente divenne manifesta.
Alexandre Dumas avrebbe detto: "Cherchez la femme!", anche se al giorno d'oggi quell'antico motto di spirito sarebbe tacciato di sessismo politicamente scorretto.
In ogni caso, si profilava all'orizzonte un ennesimo motivo di scontro tra due famiglie che erano ormai ai ferri corti.
Non era ancora il diluvio preconizzato dalla compianta bisnonna Emilia, ma di certo grandi nuvole cariche di pioggia incominciavano ad addensarsi in un cielo color cenere.
E nella loro stamberga nei pressi della confluenza tra il Bevano e la Torricchia, le tre streghe Iole, Irma ed Ermide tessevano la tela che Eclion ed Elvira avevano disegnato.
Tutto era in movimento, eppure Roberto Monterovere sentiva soltanto il dolore per la perdita della bisnonna e del mondo che lei rappresentava.
Gli tornarono in mente, chissà perché, alcuni versi di Montale che aveva studiato pochi giorni prima.

<<                         ... un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. 
Ed io non so più chi va e chi resta>>



lunedì 2 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 92. L'avvocato Marco Tullio Vanesio, specialista in cause perse.


Il quarto socio dello studio legale Calderisi, Orbace, Rodagni e Vanesio era, per l'appunto, l'illustre penalista Marco Tullio Vanesio, specialista in cause perse, relitti umani e casi disperati.
Ma non era sempre stato così.
I più anziani ricordavano i tempi in cui lo studio era ancora dotato di un certo prestigio, quando era ancora vivo il fondatore, ossia Giulio Cesare Vanesio, un legale di successo, insignito del rango di Cavaliere di Gran Croce, Grand'Ufficiale, Commendatore, Consigliere di Stato, Presidente della Camera Penale e Presidente onorario di una ventina di associazioni e fondazioni.
Suo figlio, che gli subentrò negli anni '80, era fatto di tutt'altra pasta.
Sembrava il ridicolo Miles gloriosus delle commedie plautine, e nei suoi roboanti discorsi con qualunque malcapitato incontrasse mescolava arcaismi, latinismi, millanterie e vere proprie fanfaronate.
Da quando il suo illustre genitore era deceduto, Marco Tullio Vanesio non perdeva occasione di raccontare sul conto del defunto, che lui chiamava dottamente "de cuius"aneddoti inverosimili per esaltare la rispettabilità della propria stirpe:
<<Il mio valoroso padre, poco prima di far fronte eroicamente all'oste avversa, in partibus infidelium , per così dire, ebbe modo di conoscere, quale suo giovine commilitone, il collega avvocato Gianni Agnelli, che manifestava nei suoi confronti una grande e profonda devozione. 
Ebbene mio padre ci raccontava spesso che il collega Agnelli, chiamato alle armi, accettò un 18 nell'esame di Scienza delle Finanze, la cui cattedra, a Torino, era tenuta da Luigi Einaudi. Ebbene, in tale incombenza, il cattedratico economista strigliò il giovane Agnelli esclamando: "Col cognome che porta, lei dovrebbe vergognarsi di accettare un 18 proprio in Scienza delle Finanze", e allora il caro Gianni rispose: "E lei, illustre Professor Einaudi, col cognome che porta, dovrebbe vergognarsi di insegnare in un'università che richiede l'iscrizione al Partito Fascista".
Eh, quelli sì che erano tempi! Pensate... mio padre e il collega Agnelli, tra le nevi della taiga, si confidavano i segreti delle loro vite. E poiché dulce et decorum est pro Patria mori, è opportuno e decente affermare che il mio caro padre si sarebbe sacrificato senza fallo contro l'orda sovietica, ma ahimè fu ordinata la ritirata. Mio padre si conquistò comunque numerose medaglie al valor militare, mente il collega Agnelli si dovette accontentare di tornarsene a Villar Perosa, a vendere macchine di terza categoria, serbando, come unico ricordo della sua esperienza di milite, una gamba tinca, che lo costrinse, come voi m'insegnate, a servirsi di un bastone di malacca per il resto dei suoi giorni>>
Già da questo primo aneddoto, possiamo dedurre che l'eloquio di Marco Tullio Vanesio non godesse del dono della sintesi e men che meno di quello della modestia.



Fisicamente aveva l'aria di chi, in un lontanissimo giorno di gioventù, dovesse aver goduto di una qualche forma di prestanza, ben presto trasformatasi, tuttavia, in qualcosa di ambiguo, nel contempo ampolloso e stucchevole.
I capelli color avorio erano fissati con la brillantina, le sopracciglia depilate "ad ali di gabbiano", la pelle cadente era carica di fondotinta, le labbra carnose e turgide suggerivano il ricorso a qualche "ritocco" di chirurgia estetica, gli occhi celesti brillavano febbrilmente, la dentiera dondolava un po' troppo... tutto insomma contribuiva a comunicare l'immagine di un vecchio gagà diventato la caricatura di se stesso.



Nonostante volesse dare l'idea di essere un uomo estremamente ricco, l'avvocato Vanesio navigava da molto tempo in pessime acque.
L'inflazione aveva divorato i risparmi degli avi, così come un contenzioso legale con alcuni parenti l'aveva privato di gran parte dei beni immobili paterni e materni. E questo a riprova del fatto che Vanesio perdeva non solo le cause dei suoi clienti, ma anche quelle che lo riguardavano in prima persona.
Altre calamità si erano poi abbattute sui suoi beni ereditari.
Sua madre, che apparteneva alla facoltosa famiglia dei Marangoni, gli aveva lasciato in eredità un'intera vallata, nell'Appennino, con una villa, che sfortunatamente era andata distrutta durante un terremoto.
Gli rimaneva una vecchia e cadente dimora di campagna nei dintorni di Pievequinta, dove risiedeva insieme a una dozzina di cani.
Questa debacle finanziaria traspariva dalle condizioni stesse dei locali in cui era domiciliato il suo studio legale, condiviso con i decrepiti soci Calderisi, Orbace e Rodagni.
Calderisi non esercitava più: in compenso dedicava il suo tempo alla predicazione evangelica sull'immediatezza della fine del mondo.
Orbace era afflitto da bronchite cronica, flatulenza e meteorismo, il che aveva incominciato a creare imbarazzo tra i colleghi e i clienti.
L'unico presentabile era Rodagni, il quale tuttavia non brillava per genialità.
Rimaneva dunque Marco Tullio Vanesio, il cui ufficio, ai più istruiti, avrebbe potuto ricordare quello del dottor Azzeccagarbugli di manzoniana memoria.
I clienti "non letterati", invece, si limitavano a notare le macchie e gli strappi nella carta da parati e nella fodera delle poltrone, le ragnatele negli angoli del soffitto, i pavimenti sbeccati, i tappeti lisi, i legni tarlati, i tomi di diritto romano sfasciati e scomposti, le bottiglie di liquori inaciditi e i bicchierini sparsi in giro, con file di formiche ubriache intorno.
Tutto questo però sembrava al di fuori della consapevolezza dell'illustre Principe del Foro, che si comportava come se quelle "superbe ruine", per usare un termine a lui caro, fossero motivo di vanto e di giustificato orgoglio.
Era sempre stato molto pomposo.
Si faceva dare del Lei da tutti, anche dagli amici più intimi, che erano tenuti a chiamarlo Avvocato in ogni circostanza.
Parlava di se stesso usando spesso il pluralis maiestatis, a cui ormai non ricorreva più nemmeno la regina Elisabetta.
Una delle sue caratteristiche più ridicole era il fatto che millantasse con la massima convinzione amicizie altolocate inesistenti, specie quelle rare volte in cui si recava a Roma, alla Corte di Cassazione (almeno così diceva lui).
<<L'altro giorno in Cassazione ho incontrato il Ministro Martelli, che ha studiato su uno dei miei libri di diritto romano, ed ha voluto una dedica personale pro bono publico>>
E qui merita di essere aperta una parentesi sul suo eloquio classicheggiante.
Le sue citazioni latine, a dire il vero, non erano sempre del tutto appropriate. Anzi, a volte sembravano messe lì più che altro per gettare fumo negli occhi a quei "bravi villici" che si rivolgevano alle sue illustri consulenze.
In effetti la sua clientela era composta più che altro da sprovveduti totali conosciuti in piazza o in treno e attirati nella trappola della sua ragnatela dalle citazioni latine e dai continui riferimenti alle conoscenze in alto loco.
Fortuna volle, però, che un giorno bussasse alla sua porta nientemeno che (parole sue) "quella vecchia canaglia di Ettore Ricci".
E poiché, quanto ad essere una vecchia canaglia, l'avvocato Vanesio non era secondo a nessunosi rese conto che se fosse riuscito, per una incredibile concomitanza di casi, a far assolvere Ettore, il suo studio legale sarebbe tornato ai fasti dei tempi del padre, e lui avrebbe potuto aspirare a quello che riteneva "il minimo" che gli fosse dovuto, ossia un seggio in Senato, a vita.
Questo sogno ad occhi aperti di Vanesio era giunto alle orecchie dello stesso Ettore Ricci, il quale dichiarò:
<<Se mi fa vincere la causa, di seggi in Senato gliene faccio avere anche due, uno per ogni chiappa!>>

martedì 27 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 91. "Erano i capei d'oro a l'aura sparsi"


Tra Aurora Visconti e Roberto Monterovere non ci fu, almeno nei primi tempi, il classico "colpo di fulmine" alla Petrarca, e a dire il vero nessuno sa esattamente quando e come ebbe inizio la tormentata vicenda dell'amore devastante che Roberto provò per Aurora, che fu sua compagna di classe dalla prima media fino all'ultimo anno del Liceo.
Per quanto tutti i loro conoscenti, col senno di poi, si siano sbizzarriti nell'inventare ipotesi assurde e situazioni improbabili, nessuno di loro si avvicinò mai, nemmeno lontanamente, alla verità.
Soltanto molti anni dopo, quando Roberto, ormai uomo di mezza età, fece ritorno al "natio borgo selvaggio", ci fu l'occasione per rievocare i vecchi tempi con gli "happy few", i pochi confidenti di antichi data che erano miracolosamente sopravvissuti alle periodiche epurazioni con "damnatio memoriae" con cui l'ultimo dei Monterovere scandiva implacabilmente il passaggio da una fase all'altra della sua vita.
Non che Roberto abbia mai avuto intenzione di rivelare tutto, ma c'era qualcosa che andava detto, perché per troppi anni si era preso lui la colpa di tutto, e questo non era giusto.
Bisognava spiegare il perché di alcune decisioni, e soprattutto di alcune omissioni: il motivo delle cose non dette e non fatte, che fu così gravido di sofferenze.


A costo di apparire sentimentale, Roberto rivelò solo allora che "Mille giorni di te e di me" di Baglioni era stata <<la nostra canzone, mia e di Aurora, non fosse altro perché lei me la fece ascoltare almeno un milione di volte, non immaginando che io avrei preso quelle parole così sul serio>>.
In particolare una strofa della canzone fu applicata alla lettera, quando lui decise di fare dolorosissimo passo indietro, per il bene di lei:

"Non ti lasciai un motivo né una colpa
Ti ho fatto male per non farlo alla tua vita
Tu eri in piedi contro il cielo e io così
Dolente mi levai, imputato alzatevi!"

Ma per capire come si arrivò a quella fine, bisogna raccontare le cose fin dall'inizio, almeno quelle che col tempo trapelarono, tanto che solo allora parve chiaro che Roberto aveva raggiunto, in conclusione, la condizione petrarchesca e ne aveva compreso le conseguenze:

 "Ma ben veggio or sì come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno"

E in effetti Aurora aveva molto della Laura petrarchesca, compresi i "capei d'oro a l'aura sparsi".
Tutti concordano nel dire che Aurora aveva la classica bellezza angelica : capelli biondi, occhi azzurri, lineamenti dolci e nel contempo raffinati, corpo longilineo e quasi etereo, voce flautata, portamento armonioso e abbigliamento da "brava ragazza acqua e sapone" con qualche dettaglio di gran classe.


Ma non era solo una questione di aspetto fisico!
Aurora era intelligente, sensibile, colta, raffinata : si vedeva che la sua istruzione era stata, fino a quel momento, quella tipica di una fille rangée. una"ragazza di buona famiglia".
Ed in effetti la sua famiglia era una tra le più eminenti nella "buona società" forlivese.
I Visconti di Bertinoro erano veramente visconti della località collinare bertinorese, la Beverly Hills della Romagna Centrale e lì possedevano ancora la principesca dimora degli antenati, restaurata a dovere. In mezzo ad una valle dove nasceva il Bevano, che poi, scendendo, arrivava a Casemurate e quindi al Feudo Orsini.
E forse era proprio destino che tra Bertinoro e Casemurate potesse nascere un'alleanza ideale che controllasse l'intera valle del Bevano fino alla sua foce.
Il padre di Aurora, l'illustre Bartolomeo Visconti-Ordelaffi di Bertinoro, aveva sposato infatti Maria Antonietta Tartaglia. Quest'ultima era figlia di Paride Tartaglia, fratello dell'ex ispettore Onofrio Tartaglia, marito di Maria Teresa Ricci, sorella di Ettore Ricci, marito di Diana Orsini.
Paride era inizialmente un benzinaio che però col tempo aveva aperto molti distributori e si era enormemente arricchito.
Strapiove sul bagnato, fu il commento di tutti quando i due rampolli convolarono a nozze.
Meno bene andò alla sorella minore di Maria Antonietta, ossia Maria Carolina, poco bella (sembrava un barbagianni) , che si dovette accontentare di un tarchiato ragioniere di origine che lavorava per i Visconti.
Questi riguardanti le due sorelle Tartaglia sono di estrema importanza ai fini della nostra storia, poiché coinvolsero due personaggi determinanti nella rovina dei Ricci-Orsini prima e dei Monterovere poi.
Il primo è una nostra vecchia conoscenza, ossia l'onnipresente Massimo Braghiri, che aveva corteggiato invano Maria Antonietta, e si era ritrovato invece nel circolo degli amici di Maria Carolina e del marito ragionier Taddeo Porcu.
Ed è proprio dall'unione del suddetto Porcu con Maria Carolina Tartaglia che nacque il secondo acerrimo di Roberto Monterovere, e cioè il coetaneo Felice Porcu, un personaggio che Svetonio avrebbe descritto con la formula "omni parte vitae detestabilis" , riservato a Gneo Domizio Enobarbo, il padre naturale di Nerone.
Per quanto incredibile potesse essere la cosa, Felice Porcu era il cugino di primo grado di Aurora Visconti e si comportava, nei confronti di lei, come una specie di cane da guardia, essendo in classe con lei dalle elementari al Liceo.
Nella logica dei "gruppetti" all'interno delle medie, Porcu si collocava nella zona mediana, quella di coloro che aspiravano al ruolo di pretoriani del Bullo e alla fine riuscì in qualche modo ad entrare nelle grazie di Martino Aspide, interessato a sua volta alla "principessa Aurora, bella più che mai".
Fu forse la sgradevole presenza di Felice Porcu e di Martino Aspide nell'orbita di Aurora Visconti ciò che inizialmente convinse Roberto a tenersi alla larga da lei, arrivando persino a rifiutare un invito alla sua festa di compleanno.
Questo gran rifiuto fu causa di un "incidente diplomatico" che coinvolse tutta la ragnatela di parentele e affinità che necessiterebbe di vari alberi genealogici per essere ben chiarita al lettore.
La madre di Aurora, Maria Antonietta Visconti, telefonò a Silvia Monterovere ed espresse la sua delusione: <<Mi dispiace che tuo figlio non sia venuto>>
Silvia Monterovere, che non sapeva nemmeno dell'esistenza di quella dannata festa di compleanno, cadde dalle nuvole: <<Io non sapevo niente dell'invito. Forse lui si è dimenticato, sai com'è, ha sempre la le nuvole>>
<<Ah, allora la prossima volta vi mando un invito scritto, puoi venire anche tu, è tanto tempo che non ci vediamo>>
Silvia interruppe quel profluvio di parole senza senso:
<<Volentieri, Maria Antonietta>>
La signora Visconti non aspettava altro:
<<Mi chiedo se per caso Roberto non sia venuto perché il cugino di Aurora è amico di quel Martino Aspide, il bullo...>>
Silvia Monterovere non era molto informata, perché all'epoca Roberto non si confidava con nessuno:
<<Può essere. Con me non ha detto niente, però. E se io gli faccio delle domande, lui si chiude a riccio>>
Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, interpretò quella risposta come se fosse un messaggio in codice o addirittura un ultimatum:
<<Ma sì, l'avevo detto con Maria Carolina che tenesse suo figlio alla larga da quell'Aspide, che oltretutto è un mezzo teppista, figlio di un ubriacone che lavora alla Cantina Sociale. 
Avrei dovuto capirlo subito...>>
Silvia era confusa:
<<E' un'età difficile per i ragazzi. A volte non so cosa fare, cosa dire, cosa pensare...>>
La viscontessa era d'accordo:
<<Ai nostri tempi era più facile. C'erano delle regole ben precise, dei codici di comportamento... ti ricordi com'eravamo quando andavamo a ballare a Pievequinta?>>
Silvia confermò e per un po' entrambe si abbandonarono ai ricordi.
Poi, dopo alcuni convenevoli, si salutarono.
Silvia si rese conto di un dato di fatto inquietante.
"Non riesco a liberarmi del passato. Più cerco di fuggire e più m'insegue. E temo che sarà mio figlio a pagare questo prezzo più di tutti gli altri. La cosa sta già accadendo, e lo colpirà proprio dove è più indifeso: negli affetti familiari, nelle amicizie e nell'amore"
Si ricordò di una canzone in inglese, una specie di inno patriottico risalente alla prima età elisabettiana e poi rispolverato durante l'ultima guerra.
"She stands and goes alone, ally nor friends has she, old England stands alone" 
Forse era questo il destino che attendeva la sua famiglia, e ogni suo componente, soprattutto il più giovane?
Alla fine decise soltanto di chiedergli perché non era andato alla festa di Aurora.
Roberto fu sincero:
<<Aurora si circonda delle persone sbagliate. Spero che un giorno se ne renda conto. Fino ad allora io preferisco stare alla larga>>
Sua madre era preoccupata:
<<La vita è piena di persone "sbagliate". Non puoi fuggire in eterno: a volte un po' di diplomazia può evitarci molte spiacevoli conseguenze>>
Lui la guardò con un'espressione incredibilmente matura per la sua giovane età:
<<Me ne rendo conto. Ma in questo caso sento che è meglio mantenere le distanze. C'è un legame malsano tra Aurora e suo cugino, e non ne verrà fuori niente di buono>>
Col senno di poi, possiamo dire che aveva ragione e che, se avesse mantenuto con fermezza quel proposito, gran parte dei suoi guai sarebbe potuta essere evitata.
Ma quando ci si innamora, la saggezza si disperde.
Succede così negli affari di cuore: la ragione cerca di frenarlo, ma lui fa quel che vuole.





 



giovedì 22 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 90. Il Bullo, i gruppetti, le ragazze e il Triangolo delle Bermuda


Nell'autunno del 1986, Roberto Monterovere incominciò le scuole medie e fu subito una doccia fredda, per non dire gelida.
La maggior parte dei compagni di classe provenivano da altre scuole elementari e dunque lui non conosceva quasi nessuno, a parte poche persone che comunque avrebbero avuto un grande rilievo negli anni seguenti.
Ma prima di parlare di questi personaggi, è bene mettere in chiaro che tipo di "clima" si respirava in quella classe.
All'epoca il termine "bullismo" era poco diffuso, anche se fu chiaro fin dall'inizio chi era il bulletto e quali erano i suoi complici.


Martino Aspide, il bullo della 1° E era un prepotente e il suo atteggiamento era arrogante, presuntuoso e strafottente: si divertiva moltissimo a umiliare tutti coloro che non gli andavano a genio, prendendoli in giro in maniera costante e persecutoria.
La cosa incredibile era che gli altri non solo lo lasciavano fare, ma provavano una certa ammirazione nei suoi confronti. 
Roberto non riusciva a capire come fosse possibile che un simile personaggio potesse comportarsi in quel modo senza che nessuno si ribellasse.
All'inizio il giovane Monterovere aveva cercato di sondare il terreno per vedere se era possibile creare una maggioranza che si opponesse al gruppetto di Aspide e dei suoi fedelissimi, ma quasi tutti avevano paura di farselo nemico.
La cosa si sarebbe anche potuta comprendere se Aspide fosse stato un violento a livello fisico, ma non essendo questo il caso, l'omertà generale che gli permetteva di esercitare la sua leadership bullistica era in gran parte fondata sul fatto che tutti cercavano di farselo amico.
Perché accadeva questo?
La domanda tormentava Roberto.
Molto dipendeva dalla composizione di quella classe "pollaio": un'accozzaglia di trenta alunni che si era subito frammentata in gruppetti omogenei, reciprocamente diffidenti, ma soprattutto già stratificati secondo una gerarchia di caste che andava, dal basso verso l'altro, dal "Club degli sfigati" al "Circolo dei Fighi".


Il gruppetto a cui apparteneva Roberto era intermedio, e per essere sinceri, l'unico motivo perché lui e i suoi amici non erano precipitati nel "Club degli Sfigati" stava nel fatto che ognuno di loro poteva contare su una famiglia potente alle spalle e su numerosi appoggi all'interno del corpo insegnante.
Per esempio, l'insegnante di italiano era Anna De Gubernatis, moglie del Sommo Poeta Adriano Trombatore e cugina di primo grado di Silvia Ricci-Orsini.
A differenza di sua sorella Elisabetta, moglie di Massimo Braghiri, la professoressa Anna Trombatore era in ottimi rapporti con i Monterovere e stravedeva per Roberto.
Il secondo componente del gruppetto era Ludovico Corzani, figlio di un illustre ingegnere (dirigente del Rotary Club) e di una brillante pittrice, entrambi frequentatori assidui del salotto di Silvia Monterovere. Ludovico era simpatico, ma molto suscettibile e se si convinceva che qualcuno lo prendesse in giro per via dei capelli rossastri arruffati, non esitava a passare "alle vie di fatto", e nel menare fendenti era un asso. 


L'amicizia di Ludovico, che fu suo compagno di banco sia alle medie che al liceo, garantiva a Roberto un valido appoggio e una protezione efficace contro i tipi maneschi.
Ma nel gruppo vi era anche un terzo componente, Daniele Destri, un biondino esile e riccioluto, figlio di un alto funzionario statale e della professoressa di educazione fisica, che in gioventù era stata in collegio con Silvia Ricci-Orsini. Daniele era un ragazzo oggettivamente effeminato, che nutriva nei confronti di Roberto un'adorazione che suscitava l'ilarità e le maldicenze dei bulli.



La cosa suscitò sorpresa e sgomento nel giovane Monterovere, che era arrivato all'età di 11 anni senza sapere, né sospettare, né mai lontanamente immaginare l'esistenza stessa degli omosessuali.
Fino a quel momento le sue conoscenze in materia di educazione sessuale erano quasi zero, e quelle poche derivavano dal fatto che in campagna aveva visto gli accoppiamenti dei galli con le galline e aveva ipotizzato che qualcosa di altrettanto bestiale accadesse agli umani quando volevano generare un figlio.
Al contrario l'amore, per come lo percepiva Roberto, era avvolto in un'aura di sacralità quasi stilnovistica, per cui le compagne di classe nei confronti delle quali, alla fine delle elementari, aveva provato i suoi primi innamoramenti, erano come angeli irraggiungibili, di fronte a cui si doveva abbassare rispettosamente lo sguardo, e dunque esse non potevano nemmeno immaginare i sentimenti del loro dantesco ammiratore.



Nella classe 1° E , a destare subito l'attenzione di Roberto fu una certa Aurora Visconti, molto bella, intelligente e raffinata, di cui peraltro conosceva alcuni familiari materni: la madre di Aurora era infatti una parente acquisita di Maria Teresa Ricci, una delle sorelle di Ettore.
Questo dettaglio si rivelerà molto importante in seguito, e dunque ci ritorneremo più avanti. Per ora basti pensare che Roberto, per timidezza e senso di inadeguatezza, nascondeva così bene il suo sentimento per Aurora, da apparire del tutto disinteressato nei confronti delle ragazze.


Tutto ciò non fece altro che alimentare le prese in giro di Martino Aspide, che si avvaleva di una terminologia brutalmente volgare che pose fine in maniera sudicia e rivoltante all'ingenuità gentile di un'infanzia che al giorno d'oggi, nell'era di internet, sarebbe del tutto inimmaginabile.
La reazione di Roberto e di Daniele fu quella di riferire il tutto ai genitori, i quali a loro volta fecero presente la questione a chi di dovere per far rispettare la disciplina.
Diversa fu invece la reazione di Ludovico, che aspettò Martino Aspide sotto casa e lo prese a pugni.
Questa duplice rappresaglia conferì una certa rispettabilità al trio Corzani, Destri e Monterovere, che venne soprannominato "il Triangolo delle Bermuda", in relazione alle innumerevoli calamità che accadevano a chi si inoltrava a navigare all'interno del triangolo stesso.