Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
mercoledì 27 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 68. Il bambino della campagna
Era nato con i doni della curiosità e della fantasia, e l'impressione che la conoscenza fosse la cosa più importante. E questo fu tutto il suo patrimonio, o almeno l'unica parte che il futuro non gli avrebbe mai tolto.
<<Poiché nella vita ho incontrato molte avversità, preferisco raccontare storie divertenti>> così diceva spesso Roberto Monterovere, riferendosi alla sua "lust zu fabulieren", il piacere di narrare.
Il suo più antico ricordo era legato, ovviamente, alla campagna di Casemurate, alla Contea e a Villa Orsini, dove trascorse gran parte della sua infanzia, insieme ai cugini Fabrizio e Alessio, anche loro figli unici, e non c'è da meravigliarsi se i tre cugini crebbero insieme come fratelli.
Ma Roberto era un po' diverso dagli altri due.
Fabrizio e Alessio erano dei "piccoli lord", molto seri e giudiziosi, mentre Roberto aveva in sé qualcosa di selvaggio: era irrequieto e imprevedibile, con un'indole umorale e ruspante di matrice celtica e gallico-romagnola che lo rendeva, sotto certi aspetti, simile al famigerato nonno materno, il vulcanico Ettore Ricci.
E questo aspetto non passò inosservato.
Ettore se ne compiaceva, vedendo in lui quel tanto sospirato "erede maschio" che desiderava da una vita, e di tanto in tanto dava un buffetto alle guance del nipote, dicendo, in un dialetto affettuoso: "E mi zgalì" il mio cicalino).
Va detto che, per quanto selvatico, il bambino della campagna sapeva essere molto affettuoso con chi gli voleva bene, cioè quasi tutti, nella fiabesca Contea di Casemurate.
Chi lo amava di più, nella Contea, era naturalmente la Contessa, la nonna Diana, l'unica in famiglia ad aver compreso che quello strano bambino aveva molti più tratti caratteriali in comune con lei che con tutti gli altri.
Ne aveva notato immediatamente l'ipersensibilità, che era una caratteristica ambivalente, nel senso che poteva amplificare tutto, sia il bene che il male, e poiché quest'ultimo era prevalente, almeno nel mondo materiale, era chiaro che la sofferenza avrebbe prevalso.
Per questo, prima ancora di costruire con lui un rapporto privilegiato, Diana donò a Roberto più amore di quanto ne avesse mai riservato a qualunque altra persona, nella sua lunga vita.
Era un sentimento che lui percepiva ancor prima di sviluppare una piena coscienza del mondo e delle persone. Un amore quasi pari a quello dei suoi genitori, ma a differenza di quest'ultimo, si trattava di un sentimento libero da ogni intento educativo: la vita avrebbe dato al nipote fin troppi maestri, e non era necessario fagli sapere fin da subito quanto fosse dura ogni lezione da imparare.
Il loro rapporto fu impostato fin dall'inizio su un piano di massima e reciproca comprensione, e nei momenti difficili, al rimprovero si sostituì un dialogo profondo, seguito da un aiuto a tirarsi fuori dai guai.
A volte non c'era nemmeno bisogno di parlare: ciò che c'era tra loro poteva esistere anche senza parole, persino senza un nome.
Diana percepì, per la prima volta in sessantacinque anni di vita, che la sua esistenza aveva un senso e che i sacrifici fatti fino ad allora erano stati compensati da un dono in grado di cambiare la sua stessa personalità.
Lei non era mai stata amata abbastanza, e aveva smesso di sperare, ma ciò che le accadde col suo terzo nipote è la prova che nella vita non è mai troppo tardi per amare ed essere pienamente ricambiati.
Alcuni scrittori della neoavanguardia, specie il defunto Arbasino, ironizzano sui ricordi d'infanzia: forse non hanno letto Proust o l'hanno letto male.
L'immaginaria Combray della Recherche è la prova che le memorie d'infanzia possono essere nel contempo un soggetto magico e avventuroso e un oggetto di ironica e disincantata analisi dell'animo umano.
Immagino che ognuno di noi abbia avuto la sua Combray, il suo "posto delle fragole", il suo "giardino dei ciliegi", e che magari al posto della campagna ci siano il mare o i monti, o un parco, un giardino, un cortile, un luogo che abbia conservato un posto speciale nella nostra memoria.
La Contea di Casemurate, con le sue campagne che si stendevano a perdita d'occhio, i suoi torrentelli e fiumiciattoli, i boschetti di gelso, pioppo, betulla, quercia e robinia, disseminati qua e là, aveva ancora, negli anni Settanta del Novecento, un carattere arcaico, senza tempo, quasi da romanzo fantasy, tale per cui non ci sarebbe meravigliati di veder spuntare, da un buco nel terreno, un Hobbit dalle orecchie a punta e dai piedi ricoperti di morbido pelo.
E così, quando Roberto incominciò a muovere i primi passi, mostrò subito un grande interesse per la natura e gli animali, di cui fu sempre amico per tutta la vita.
Con una similitudine "zoologica", potremmo dire che, sotto tanti aspetti, il piccolo Monterovere era come un gatto: sapeva essere buffo e nel contempo avere un suo stile.
Gli si poteva rimproverare una notevole mancanza di riservatezza, anche se, in fin dei conti, fu proprio grazie a questo suo piacere di raccontare che gli altri, conoscendolo, riuscirono perdonargli i suoi eccessi di stravaganza.
Una mente creativa può salvarsi anche quando tutto il resto è disastroso, e può addirittura fare del bene agli altri.
Per esempio, quello strano bambino riuscì in un'impresa dove ogni altro aveva fallito, e cioè favorire la riappacificazione dei nonni Ettore e Diana, e creare un clima di allegria e spensieratezza a Villa Orsini.
Roberto seguiva la nonna in giardino, dove lei gli insegnava il nome dei fiori, delle piante e degli alberi, e affiancava il nonno nei campi e tra gli animali di allevamento.
Il fatto di essere in buoni rapporti con entrambi i nonni fece sì che loro tornassero a parlarsi più spesso e finissero per scoprire reciprocamente quei lati positivi che avevano rifiutato di vedere per tutta la vita.
Diana era tornata a sorridere.
In seguito avrebbe detto del nipote: <<E' stato come un raggio di sole dopo una lunga notte>>
Dopo essere stato fuori tutto il giorno, Roberto faceva il bagno e cercava di rendersi presentabile per avere l'accesso al Salotto Liberty con le due bisnonne: la maestra Clara Torricelli, vedova Ricci, gli insegnava il disegno, la "Contessa Madre" Emilia Paolucci de' Calboli, vedova Orsini, gli raccontava, tra un bicchiere di vino e l'altro, le storie dei Re, delle dinastie e degli alberi genealogici, che sarebbero diventati la sua fissazione, complice anche, in età scolare, la lettura delle opere di Tolkien.
Si può anzi dire che quella vita di "bambino di campagna", in una Contea agricola ancora molto legata alle tradizioni, e in una famiglia con un quarto di nobiltà e una venerazione per i propri antenati, lo predispose ad apprezzare tutti gli aspetti del mondo creato dalla grande mente del Professore di Oxford.
Persino Michele e Ida Braghiri, per quanto prevenuti e invidiosi, finirono per affezionarsi a lui.
Gli insegnarono a giocare a briscola e a marafone, e lui si sarebbe ricordato per sempre le storpiature romagnole delle varie carte: l'asse al posto dell'asso, la bastona al posto dei bastoni, le danara al posto dei denari, le carti al posto delle carte, lissio al posto di liscio e così via.
Michele arrivò a dire che: <<Quel bambino è simpatico! E' l'unico della sua famiglia che non si dà delle arie>>
La stessa signora Ida dovette ammettere che <<E' affettuoso con tutti, persino con gli animali da allevamento. Non ha certo paura di sporcarsi le mani>>
Il contatto con gli animali era una delle cose che più lo rendevano felice.
E fu lì che nacque il suo amore per i gatti, specie quelli di sua nonna, che discendevano tutti da una "aristogatta" di nome Duchessa, della razza Maine Coon, che Diana aveva acquistato in una fiera. Duchessa era una gatta molto corteggiata, che sfornava almeno quattro cucciolate all'anno, tanto che si può dire che ogni gatto di Casemurate e dintorni discenda da lei.
Ovviamente anche i gatti ebbero il loro albero genealogico e le loro dinastie, a seconda delle varie cucciolate e dei differenti padri.
Con un atto di illuminato progressismo, Roberto conferì dignità dinastica anche alla prole delle galline, dei conigli e persino dei maiali, che al contrario di quel che si pensa, sono animali molto intelligenti.
Ormai tutti questi animali venivano allevati senza più la condanna a diventare cibo per gli umani.
Persino Ettore si lasciò commuovere e in breve tempo il Feudo Orsini e tutti i suoi campi e allevamenti si trasformarono in un'oasi naturalistica (anche su pressione di Fabrizio Spreti di Serachieda, che aveva la vocazione di zoologo e botanico).
Tutti questi elementi illuminati contribuirono a far sì che Casemurate diventasse, nell'immaginario collettivo della Romagna Centrale, una nuova Camelot, con al centro una Dama del Lago, la Contessa Diana Orsini.
E tutto era già pervaso da un alone di leggenda.
L'unica ombra era in un futuro che ancora non aveva manifestato alcun presagio.
Certo, col senno di poi si può capire che c'erano buone possibilità che una simile gioia non sarebbe mai potuta tornare in un modo così pieno, assoluto e nel contempo puro e innocente.
Già si è detto che un'infanzia troppo bella può essere, a modo suo, un "trauma", nel senso che finisce per generare aspettative troppo alte nei confronti delle persone, del mondo e della vita stessa.
Mai più Roberto avrebbe ritrovato un simile amore incondizionato, al di fuori della sua famiglia di origine.
Chi ha avuto una famiglia sinceramente amorevole e affettuosa, potrà forse anche donare ai propri figli e nipoti un simile amore, ma non ne riceverà mai uno più grande.
E' possibile essere troppo amati?
Una nota canzone dice che "chi è troppo amato amore non dà": c'è del vero in questo teorema?
Gli eccessi, in un senso o nell'altro, possono condurre a conseguenze paradossali.
Ma tali conseguenze si sarebbero rivelate soltanto molto più tardi: il bambino della campagna rimase il baricentro della sua personalità, nel bene e nel male, e le accuse di infantilismo, che da adulto le donne, come spesso accade, gli avrebbero rivolto, potevano avere un qualche fondamento. Ma se un corpo solido si sbilancia troppo rispetto al proprio baricentro, allora rischia di cadere, ed è per questo che il bambino della campagna continuò sempre ad essere un prezioso alleato, soprattutto nei momenti di crisi.
mercoledì 20 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 67. Summerchilds : i figli dell'estate
Nel 1975 sono nati David Beckham, Angelina Jolie, Charlize Theron, , Kate Winslet, Marion Cotillard, Drew Barrymore, Matteo Renzi, Andrea Agnelli e molti altri parassiti della società tra cui, ultimo ma non meno parassita, Roberto Monterovere, figlio di Francesco Monterovere e di Silvia Ricci-Orsini.
Stando alle testimonianze, l'estate del 1975 fu molto calda e molto lunga, e si protrasse ben oltre i limiti stagionali, tanto che il caldo continuò per tutto il mese di ottobre.
Francesco lo ricordava bene, perché la scuola iniziò il primo giorno del decimo mese, e per lui fu anche l'inizio della carriera nel Liceo Scientifico, il suo approdo definitivo.
Durante la precedente estate era diventato padre, e suo figlio Roberto era nato sotto il segno del Leone, durante la canicola di luglio.
Il caldo opprimente fu tale che i giornali incominciarono a parlare, con toni apocalittici, di "estate indiana" e di surriscaldamento globale, dopo che per anni si era attesa invano un'imminente glaciazione.
Ma forse c'era davvero qualcosa di strano nell'aria. Qualcosa di nuovo, anzi, d'antico.
I vecchi guardavano il cielo e scuotevano la testa. I più avveduti tra loro interpretavano i segni.
I più lungimiranti capirono che erano presagi funesti per la generazione che nasceva.
Lo capì la contessa madre Emilia Orsini ogni volta che vedeva il pronipote appena nato:
<<Povero figlio dell'estate, che nascerai e crescerai all'apice di questo benessere! Che ne sarà di te quando la stagione cambierà? Perché l'estate non può durare per sempre>>
A dire il vero qualche avvisaglia della tempesta incombente c'era stata: la Guerra dello Yom Kippur, l'impennata del costo del petrolio, l'inflazione, la fine dei cambi fissi stabiliti dal sistema di Bretton Woods, ma di tutto questo in Italia arrivava soltanto una vaga eco, mentre il glamour dei primi Anni Settanta, con la sua moda così elaborata e fantasiosa, e il suo slancio libertario e progressista, faceva scomparire tutte le preoccupazioni per il futuro.
C'era anche l'inizio del terrorismo, in Italia, ma nessuno poteva immaginare la piega che avrebbe preso negli anni immediatamente successivi.
Le Cassandre non sono mai state simpatiche a nessuno, anche quando avevano ragione, anzi soprattutto quando avevano ragione.
Ma in fondo noi che siamo nati in quegli anni credevamo davvero che quel paradiso sarebbe durato per sempre.
Perché avremmo dovuto preoccuparci?
Era l'estate del nostro mondo, e noi ne eravamo i figli.
Era un'epoca di grandi conquiste civili e sociali.
Se i nostri padri erano i Figli dei Fiori, noi fummo senza dubbio i Figli dell'Estate.
C'era nell'aria un grande senso di aspettativa, una forte speranza e fiducia nell'avvenire.
Da bambini, credevamo che quello fosse solo l'inizio di una felicità destinata a diventare sempre più grande.
Abbiamo creduto nel progresso, nel miglioramento, nella crescita.
Non ci rendevamo conto che accanto al progresso c'erano anche segnali di decadenza.
Eravamo molto ambiziosi, ma solo pochi di noi hanno ottenuto ciò che volevano: la maggioranza si è dovuta accontentare: i più ora si trovano in condizioni peggiori di quelle dei loro genitori alla stessa età.
Abbiamo meno diritti, meno opportunità, meno speranze rispetto alla generazione che ci ha preceduto.
In parte è anche colpa nostra: abbiamo dato tutto per scontato, abbiamo preteso molto senza imparare lo spirito di sacrificio, siamo stati troppo avidi.
Ci siamo comportati come cicale, mentre avremmo dovuto imitare le formiche, che nella bella stagione fanno le scorte per l'inverno.
Però eravamo in buona fede, almeno all'inizio. Come può un bambino sapere che "sempre azzurra non può essere l'età"?
Ci sentivamo in primavera, credevamo che il meglio dovesse ancora venire, che la vera estate dovesse ancora arrivare e non siamo stati capaci di capire in tempo che era quella l'estate. era quella la felicità, era quello il nostro momento, era quello, e noi avremmo dovuto farne tesoro.
E invece ci siamo lasciati sfuggire tutto tra le mani.
Non siamo nemmeno riusciti a difendere i diritti per i quali i nostri genitori e i nostri nonni avevano lottato e faticato.
Chi ha quarant'anni adesso sa bene di cosa sto parlando.
E ne parlo perché quella è stata la sorte della generazione di Roberto Monterovere, che nacque in una famiglia all'epoca benestante ed ebbe un'infanzia molto felice.
Durante quei primi anni, circondato da una corte adorante di genitori, nonni, bisnonne, zii, cugini e quant'altro, si convinse, a suo danno, di essere una specie di Principe di Galles, per poi accorgersi, troppo tardi, di non essere nessuno. Si credeva il Delfino di un grande regno e si trovò erede di niente di particolare.
Fu travolto da una frana: e non era solo la frana destinata a rovinare il clan Ricci-Orsini-Monterovere: a quella avrebbe anche potuto porre rimedio. No, era la frana della Generazione X, del ceto medio, dell'Italia, dell'Europa, e forse anche della stessa Civiltà Occidentale.
Ma un bambino che ne sa, che sempre azzurra non può essere l'età...
Avere un'infanzia troppo bella può essere un freno alla crescita, così come i traumi di chi al contrario ha dovuto fronteggiare durissime avversità.
E questo non fece altro che aggravare il giudizio che alla fine fu emesso sulla sua persona, quarantacinque anni dopo, all'epoca in cui stiamo scrivendo.
Non c'è disonore più grande di aver avuto e perduto tutto ciò che è possibile avere e perdere, nella vita.
sabato 16 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 66. Il condominio dei pazzi
Non bisogna porre eccessiva attenzione al futuro a discapito del presente, anche perché, come è stato autorevolmente detto: "il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena".
Ci sono variabili che non possono in alcun modo essere previste, e purtroppo si tratta, nella maggior parte dei casi, di variabili negative, i cosiddetti cigni neri.
Un intero stormo di cigni neri stava per funestare il futuro radioso che Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini avevano previsto per sé e la propria discendenza e che, anche se loro se ne accorsero troppo tardi, era destinato a rimanere una specie di castello in aria, anche a causa di altre circostanze, questa volta premeditate, ma comunque difficilmente prevedibili.
Come dice un noto cantante: "a volte il destino ha più fantasia di noi". Ammesso che un destino esista, cosa opinabile, dato che la vita sembra piuttosto in balia di una cieca casualità o di una sfiga che invece ha dieci decimi di capacità visive oculari.
La città in cui i due sposi andarono a vivere, l'antica Forum Livii, mercato di granaglie e prodotti agricoli, che nel medioevo fu fieramente ghibellina, tanto da guadagnarsi l'aquila nera imperiale come stemma, e attualmente conosciuta con il nome non esaltante di Forlì, si rivelò, per loro figlio, una sorta di "natio borgo selvaggio" di leopardiana memoria.
La loro stessa abitazione, per quanto molto confortevole nel suo interno, si trovò ad essere turbata da un vicinato non del tutto amichevole.
Si trattava di un condominio che l'agente immobiliare aveva, con una certa immaginazione, definito "di lusso", situato nella zona residenziale di Forlì e comprendente otto appartamenti di circa duecento metri quadrati ciascuno, con ampi terrazzi, garages al piano terra, cantine nel seminterrato e un cortile esterno di tutto rispetto.
La cosa che i Monterovere non avevano previsto e che li atterrì come un fulmine a ciel sereno fu il fatto che il padre di Silvia, Ettore Ricci, senza aver detto nulla a nessun familiare, avesse comprato altri due appartamenti e ne avesse fatto dono al vecchio Michele Braghiri, il potentissimo amministratore del Feudo Orsini.
Alla fine, quando si trovò costretto a confermare le voci, disse che si trattava di un premio per la fedeltà della famiglia Braghiri e un dono per i figli di Michele e Ida, ma tutti pensarono, con validi fondamenti, che Michele stesse ricattando Ettore su certe vecchie questioni su cui era meglio che si continuasse a tacere.
Gli appartamenti acquistati da Ricci si trovavano tutti e tre al secondo piano.
In quello sulla sinistra andarono a vivere Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini, verso la fine del 1974.
Nell'appartamento al centro, sempre al secondo piano, si stabilì Floriana Braghiri con il marito Sergio Pesaresi, gioielliere, e i due figli, Ivan e Igor, tutti e due grandi sportivi e giovani promesse del calcio.
Inutile dire che da quell'appartamento provenivano quasi sempre rumori molesti derivanti dalle partite di calcio viste in televisione con annesso tifo da stadio, ma quello era niente in confronto a ciò che avveniva nel terzo appartamento di quel piano.
Infatti l'appartamento sulla destra, la cui porta fronteggiava in maniera minacciosa quella dei Monterovere, andò a vivere niente meno che il loro principale antagonista Massimo Braghiri, con la moglie Elisabetta De Gubernatis, cugina di Silvia.
La rivalità tra la famiglia Braghiri e quella Monterovere fu degna dell'odio tra i Montecchi e i Capuleti di Verona, anche se in questo caso non ci furono né Giuliette, né Romei a mitigare il tutto.
Alcuni sussurravano che Massimo Braghiri tenessero sotto ricatto anche l'anziano suocero, il giudice De Gubernatis, marito di Ginevra Orsini e quindi cognato di Ettore Ricci.
E per rendere più credibile la minaccia, la vecchia Ida Braghiri, madre di Massimo, insinuava aneddoti particolari sull'argomento, del tipo: <<Quando Ettore Ricci chiedeva al giudice se una tal cosa era legale, il vecchio De Benedictis era solito rispondere: "io la renderò legale">>-
Bastava questo per ricordare ai Ricci-Orsini e ai De Gubernatis un fatto incontestabile e cioè che il potere non è detenuto dai potenti ufficiali, ma da chi in segreto li ricatta.
Certo la soluzione del tutto sarebbe stata nel comportarsi fin dal principio in maniera integerrima, cosa praticamente impossibile nel ginepraio di leggi e cavilli che l'Italia già allora era diventata.
Gli altri condomini erano ancora più singolari.
Conosciamoli partendo dal primo piano, dove c'era una identica disposizione degli appartamenti.
Quello a sinistra era stato comprato da un impiegato della Prefettura, il dottore in legge Cesare Benito Semenzana, un "romano de Roma", così come sua moglie Sara. La coppia aveva due figlie: la grande, Ramona, assomigliava a un cavallo, ma era molto ambiziosa; la piccola, Federica, sembrava una Barbie, ma non brillava per intelletto.
Sia Cesare che Sara Semenzana erano accaniti fumatori, ma il marito fumava solo sigaracci toscani puzzolenti e la moglie solo sigarette nazionali altamente tossiche.
La coppia, che aveva lasciato la capitare per Forlì anche in omaggio al loro idolo, il Duce, era impegnata politicamente nel Movimento Sociale Italiano, e professava con tenacia le proprie convinzioni, che peraltro trapelavano anche da alcune scelte comportamentali.
In primo luogo lui era un grande esperto di armi e un cacciatore che avrebbe fatto impallidire Terminator.
Il suo aspetto cupo era reso ancora più minaccioso da due baffoni spioventi alla Bismarck.
Naturalmente aveva tre cani da caccia che teneva in tre rispettivi terrazzi, senza portarli in giro, di modo che le loro deiezioni corporali colavano direttamente nel cortile sottostante. Le povere bestie abbaiavano ad ogni ora del giorno e della notte.
Ci furono denunce, processi e diatribe giuridiche a non finire, ma all'epoca purtroppo non esisteva una legislazione mirata contro le molestie agli animali, e dunque nemmeno il Giudice De Gubernatis, la Signorina De Toschi con tutti i suoi avvocati e il Senatore Baroni, con tutti i suoi agganci politici, poterono contrastare le più influenti raccomandazioni in alto loco del Semenzana. Si diceva infatti che a Roma conoscesse personaggi importantissimi, tra cui lo stesso Andreotti, e che potesse persino vantare amicizie in Vaticano.
Floriana Braghiri, che una volta era entrata nel loro appartamento con qualche scusa ben architettata, era rimasta sconvolta da ciò che aveva visto e sentito. Corse subito a riferirlo a Silvia Ricci:
<<Hanno armi ovunque, trofei di caccia appesi alle pareti, una testa di cervo sopra il camino, e poi i busti del Duce dappertutto e nel suo studio ho visto perfino un ritratto di Hitler! E la moglie mi ha preso da parte e mi ha detto: "Lo sa di chi è la colpa di tutto?" E io: "Di chi?". E lei: "Degli Ebbbbrei" con venti "b" l'avrà detto. E c'era un puzzo di fumo che non ci si stava>>
Le parole della signora Floriana si rivelarono fondate.
Silvia, che era una donna pragmatica, ne trasse subito una conclusione incontestabile a cui si attenne per tutto il tempo a venire:
<<Be', se le cose stanno così, mi sa che è meglio non farli arrabbiare>>
Diversamente la pensava il vicino dell'appartamento di centro del primo piano e cioè il biologo Gualtiero Casadei, detto anche Casadei di Sotto, per non confonderlo con Casadei di Sopra del terzo piano.
Gualtiero e sua moglie Ornella erano libertari hippie anarco-comunisti con un passato da "figli dei fiori" con tento di camper e vita on the road, per cui si trovavano agli antipodi dei Semenzana, come mentalità, e passarono il resto dei loro giorni in perpetua lite coi vicini.
Del resto la vita di condomino è fatta così: per qualche incomprensibile ragione, il vicino di casa, specie quello che ha una parete di muro in comune, è sempre ai nostri antipodi, e perennemente in lite con noi.
Su un solo punto i Casadei di Sotto si trovavano in accordo con i Semenzana, e cioè il tabagismo: Gualtiero fumava le Marlboro, Ornella le Gitanes, ed entrambi, ovviamente, gli spinelli di cannabis.
Nei momenti in cui erano sotto l'effetto dell'erba, assumevano una preoccupante tendenza a elaborare iniziative progressiste e culturali da sottoporre all'attenzione dei cari amici condomini, attaccando bottone col minimo pretesto e perdendosi in discorsi tanto fumosi quanto ciò che li aveva ispirati.
Il problema maggiore era però il fatto che in quei momenti si spostavano col camper anche per andare alla Conad, e siccome quel pachiderma non entrava nel garage, lo tenevano parcheggiato vicino al cancello, in una posizione che quasi impediva l'ingresso agli altri veicoli.
Se qualcuno osava protestare, loro minacciavano di comprare un altro camper, e ne sarebbero stati di certo capaci, per questo si ritenne meglio evitare polemiche.
Il terzo condomino del primo piano, sulla destra, era ancora più bizzarro degli altri.
Si trattava di un certo Luciano Bonetti, ingenere meccanico, soprannominato il Potatore Folle per la sua mania ossessivo-compulsiva di trascorrere ogni fine settimana tagliando il prato (fiori compresi), potando le siepi in modo da farle sembrare dei cubi di plastica e riducendo gli alberi a tronchi smozzicati con pochi sparuti germogli.
Alla fine di questo scempio, naturalmente, lavava la macchina, la lucidava e poi rimaneva a fissarla con due occhi sbarrati, come se avesse in mente di "potare" anche gli specchietti e i tergicristalli, e non solo del suo veicolo.
La moglie di Bonetti, Manuela, era completamente sottomessa al marito e ai figli.
Ne avevano due: il maschio, Loris, era fissato col motociclismo fin dalla primissima infanzia; la femmina, Marina, era l'unica sana di mente in famiglia e forse nell'intero condominio.
Concludiamo questa rassegna passando "al piani alto", il terzo.
Lassù in cima c'erano solo due appartamenti molto grandi.
In quello sulla sinistra si alternarono numerosi condomini, tutti ritenuti vittime del maleficio lasciato dalla prima proprietaria, la famigerata vedova Schiavina (il suo nome proprio era ignoto, così come il suo cognome da ragazza), che aveva ereditato l'azienda del defunto marito e aveva fama di essere, oltre che una ninfomane insaziabile (la sfilata dei suoi amanti era interminabile su e giù per le scale), anche un'esperta in stregoneria.
Tale convinzione fu suffragata dal fatto che, dopo la dipartita della vedova, i successivi proprietari non rimasero in quell'appartamento per più di due o tre anni, nei quali la malasorte li colpiva con ogni avversità.
Dall'altro lato, a tenere testa al maleficio, c'erano i Casadei di Sopra.
Il capofamiglia era l'integerrimo cavalier Arnaldo Casadei, dirigente dell'Eni, detto il Censore, per la sua severità e parsimonia, ma soprannominato anche "il Rospo" per la sua inarrivabile bruttezza.
Sua moglie Leni era una tedesca bavarese conosciuta durante uno degli innumerevoli viaggi di lavoro del Rospo, in un momento di disinibizione dovuta agli effetti di una birra scura sottocosto all'Oktoberfest.
In molti si chiedevano come mai Helena Gruber, detta Leni, avesse sposato Casadei di Sopra, anche se circolava una leggenda metropolitana secondo cui la bionda tedesca avesse sperato, purtroppo invano, che baciando il Rospo, lui si trasformasse in un principe. Ma la vita non è una favola, e dunque, inevitabilmente, anche dopo il bacio, il Rospo era rimasto tale.
Inoltre, la sua espressione eternamente accigliata, così come l'esposizione al sole del deserto del Qatar, negli anni gloriosi in cui andava in cerca di petrolio, avevano prodotto nel volto di Arnaldo Casadei delle rughe enormi, spropositate, come dei fossi, dei solchi che si diramavano dal naso in tutte le direzioni.
Una volta Silvia lo descrisse in questo modo: "Le sue rughe sembrano i raggi di un sole, ma un sole brutto" e da allora il Sole Brutto divenne il terzo appellativo di Casadei di Sopra.
Ma lui non sembrava particolarmente preoccupato per la propria bruttezza, come del resto accade agli uomini ricchi e in carriera, che più che altro sono interessanti a diventare sempre più ricchi.
Come diceva la buon'anima di Tsa Tsa Gabor, "un uomo ricco è sempre bello" e il cavalier Arnaldo Casadei, dirigente dell'Eni, era decisamente un uomo ricco.
Ebbero una figlia, Adele, che per sua fortuna assomigliava alla madre nel fisico e al padre nel carattere.
Il Censore seppe comunque guidare il condominio dal punto di vista decisionale, mettendo in riga persino l'amministratore, o deponendolo qualora gli fosse parso inefficiente o inaffidabile, cioè quasi sempre.
Da questa prima rassegna si può capire come quel luogo non fosse proprio il massimo per ospitare il "nido d'amore" da cui i coniugi Monterovere avrebbero dovuto dar vita ad una numerosa famiglia, che non fu affatto numerosa, dal momento che il primo figlio si rivelò talmente impegnativo da farli desistere da ogni altra velleità genitoriale.
Ci sono variabili che non possono in alcun modo essere previste, e purtroppo si tratta, nella maggior parte dei casi, di variabili negative, i cosiddetti cigni neri.
Un intero stormo di cigni neri stava per funestare il futuro radioso che Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini avevano previsto per sé e la propria discendenza e che, anche se loro se ne accorsero troppo tardi, era destinato a rimanere una specie di castello in aria, anche a causa di altre circostanze, questa volta premeditate, ma comunque difficilmente prevedibili.
Come dice un noto cantante: "a volte il destino ha più fantasia di noi". Ammesso che un destino esista, cosa opinabile, dato che la vita sembra piuttosto in balia di una cieca casualità o di una sfiga che invece ha dieci decimi di capacità visive oculari.
La città in cui i due sposi andarono a vivere, l'antica Forum Livii, mercato di granaglie e prodotti agricoli, che nel medioevo fu fieramente ghibellina, tanto da guadagnarsi l'aquila nera imperiale come stemma, e attualmente conosciuta con il nome non esaltante di Forlì, si rivelò, per loro figlio, una sorta di "natio borgo selvaggio" di leopardiana memoria.
La loro stessa abitazione, per quanto molto confortevole nel suo interno, si trovò ad essere turbata da un vicinato non del tutto amichevole.
Si trattava di un condominio che l'agente immobiliare aveva, con una certa immaginazione, definito "di lusso", situato nella zona residenziale di Forlì e comprendente otto appartamenti di circa duecento metri quadrati ciascuno, con ampi terrazzi, garages al piano terra, cantine nel seminterrato e un cortile esterno di tutto rispetto.
La cosa che i Monterovere non avevano previsto e che li atterrì come un fulmine a ciel sereno fu il fatto che il padre di Silvia, Ettore Ricci, senza aver detto nulla a nessun familiare, avesse comprato altri due appartamenti e ne avesse fatto dono al vecchio Michele Braghiri, il potentissimo amministratore del Feudo Orsini.
Alla fine, quando si trovò costretto a confermare le voci, disse che si trattava di un premio per la fedeltà della famiglia Braghiri e un dono per i figli di Michele e Ida, ma tutti pensarono, con validi fondamenti, che Michele stesse ricattando Ettore su certe vecchie questioni su cui era meglio che si continuasse a tacere.
Gli appartamenti acquistati da Ricci si trovavano tutti e tre al secondo piano.
In quello sulla sinistra andarono a vivere Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini, verso la fine del 1974.
Nell'appartamento al centro, sempre al secondo piano, si stabilì Floriana Braghiri con il marito Sergio Pesaresi, gioielliere, e i due figli, Ivan e Igor, tutti e due grandi sportivi e giovani promesse del calcio.
Inutile dire che da quell'appartamento provenivano quasi sempre rumori molesti derivanti dalle partite di calcio viste in televisione con annesso tifo da stadio, ma quello era niente in confronto a ciò che avveniva nel terzo appartamento di quel piano.
Infatti l'appartamento sulla destra, la cui porta fronteggiava in maniera minacciosa quella dei Monterovere, andò a vivere niente meno che il loro principale antagonista Massimo Braghiri, con la moglie Elisabetta De Gubernatis, cugina di Silvia.
La rivalità tra la famiglia Braghiri e quella Monterovere fu degna dell'odio tra i Montecchi e i Capuleti di Verona, anche se in questo caso non ci furono né Giuliette, né Romei a mitigare il tutto.
Alcuni sussurravano che Massimo Braghiri tenessero sotto ricatto anche l'anziano suocero, il giudice De Gubernatis, marito di Ginevra Orsini e quindi cognato di Ettore Ricci.
E per rendere più credibile la minaccia, la vecchia Ida Braghiri, madre di Massimo, insinuava aneddoti particolari sull'argomento, del tipo: <<Quando Ettore Ricci chiedeva al giudice se una tal cosa era legale, il vecchio De Benedictis era solito rispondere: "io la renderò legale">>-
Bastava questo per ricordare ai Ricci-Orsini e ai De Gubernatis un fatto incontestabile e cioè che il potere non è detenuto dai potenti ufficiali, ma da chi in segreto li ricatta.
Certo la soluzione del tutto sarebbe stata nel comportarsi fin dal principio in maniera integerrima, cosa praticamente impossibile nel ginepraio di leggi e cavilli che l'Italia già allora era diventata.
Gli altri condomini erano ancora più singolari.
Conosciamoli partendo dal primo piano, dove c'era una identica disposizione degli appartamenti.
Quello a sinistra era stato comprato da un impiegato della Prefettura, il dottore in legge Cesare Benito Semenzana, un "romano de Roma", così come sua moglie Sara. La coppia aveva due figlie: la grande, Ramona, assomigliava a un cavallo, ma era molto ambiziosa; la piccola, Federica, sembrava una Barbie, ma non brillava per intelletto.
Sia Cesare che Sara Semenzana erano accaniti fumatori, ma il marito fumava solo sigaracci toscani puzzolenti e la moglie solo sigarette nazionali altamente tossiche.
La coppia, che aveva lasciato la capitare per Forlì anche in omaggio al loro idolo, il Duce, era impegnata politicamente nel Movimento Sociale Italiano, e professava con tenacia le proprie convinzioni, che peraltro trapelavano anche da alcune scelte comportamentali.
In primo luogo lui era un grande esperto di armi e un cacciatore che avrebbe fatto impallidire Terminator.
Il suo aspetto cupo era reso ancora più minaccioso da due baffoni spioventi alla Bismarck.
Naturalmente aveva tre cani da caccia che teneva in tre rispettivi terrazzi, senza portarli in giro, di modo che le loro deiezioni corporali colavano direttamente nel cortile sottostante. Le povere bestie abbaiavano ad ogni ora del giorno e della notte.
Ci furono denunce, processi e diatribe giuridiche a non finire, ma all'epoca purtroppo non esisteva una legislazione mirata contro le molestie agli animali, e dunque nemmeno il Giudice De Gubernatis, la Signorina De Toschi con tutti i suoi avvocati e il Senatore Baroni, con tutti i suoi agganci politici, poterono contrastare le più influenti raccomandazioni in alto loco del Semenzana. Si diceva infatti che a Roma conoscesse personaggi importantissimi, tra cui lo stesso Andreotti, e che potesse persino vantare amicizie in Vaticano.
Floriana Braghiri, che una volta era entrata nel loro appartamento con qualche scusa ben architettata, era rimasta sconvolta da ciò che aveva visto e sentito. Corse subito a riferirlo a Silvia Ricci:
<<Hanno armi ovunque, trofei di caccia appesi alle pareti, una testa di cervo sopra il camino, e poi i busti del Duce dappertutto e nel suo studio ho visto perfino un ritratto di Hitler! E la moglie mi ha preso da parte e mi ha detto: "Lo sa di chi è la colpa di tutto?" E io: "Di chi?". E lei: "Degli Ebbbbrei" con venti "b" l'avrà detto. E c'era un puzzo di fumo che non ci si stava>>
Le parole della signora Floriana si rivelarono fondate.
Silvia, che era una donna pragmatica, ne trasse subito una conclusione incontestabile a cui si attenne per tutto il tempo a venire:
<<Be', se le cose stanno così, mi sa che è meglio non farli arrabbiare>>
Diversamente la pensava il vicino dell'appartamento di centro del primo piano e cioè il biologo Gualtiero Casadei, detto anche Casadei di Sotto, per non confonderlo con Casadei di Sopra del terzo piano.
Gualtiero e sua moglie Ornella erano libertari hippie anarco-comunisti con un passato da "figli dei fiori" con tento di camper e vita on the road, per cui si trovavano agli antipodi dei Semenzana, come mentalità, e passarono il resto dei loro giorni in perpetua lite coi vicini.
Del resto la vita di condomino è fatta così: per qualche incomprensibile ragione, il vicino di casa, specie quello che ha una parete di muro in comune, è sempre ai nostri antipodi, e perennemente in lite con noi.
Su un solo punto i Casadei di Sotto si trovavano in accordo con i Semenzana, e cioè il tabagismo: Gualtiero fumava le Marlboro, Ornella le Gitanes, ed entrambi, ovviamente, gli spinelli di cannabis.
Nei momenti in cui erano sotto l'effetto dell'erba, assumevano una preoccupante tendenza a elaborare iniziative progressiste e culturali da sottoporre all'attenzione dei cari amici condomini, attaccando bottone col minimo pretesto e perdendosi in discorsi tanto fumosi quanto ciò che li aveva ispirati.
Il problema maggiore era però il fatto che in quei momenti si spostavano col camper anche per andare alla Conad, e siccome quel pachiderma non entrava nel garage, lo tenevano parcheggiato vicino al cancello, in una posizione che quasi impediva l'ingresso agli altri veicoli.
Se qualcuno osava protestare, loro minacciavano di comprare un altro camper, e ne sarebbero stati di certo capaci, per questo si ritenne meglio evitare polemiche.
Il terzo condomino del primo piano, sulla destra, era ancora più bizzarro degli altri.
Si trattava di un certo Luciano Bonetti, ingenere meccanico, soprannominato il Potatore Folle per la sua mania ossessivo-compulsiva di trascorrere ogni fine settimana tagliando il prato (fiori compresi), potando le siepi in modo da farle sembrare dei cubi di plastica e riducendo gli alberi a tronchi smozzicati con pochi sparuti germogli.
Alla fine di questo scempio, naturalmente, lavava la macchina, la lucidava e poi rimaneva a fissarla con due occhi sbarrati, come se avesse in mente di "potare" anche gli specchietti e i tergicristalli, e non solo del suo veicolo.
La moglie di Bonetti, Manuela, era completamente sottomessa al marito e ai figli.
Ne avevano due: il maschio, Loris, era fissato col motociclismo fin dalla primissima infanzia; la femmina, Marina, era l'unica sana di mente in famiglia e forse nell'intero condominio.
Concludiamo questa rassegna passando "al piani alto", il terzo.
Lassù in cima c'erano solo due appartamenti molto grandi.
In quello sulla sinistra si alternarono numerosi condomini, tutti ritenuti vittime del maleficio lasciato dalla prima proprietaria, la famigerata vedova Schiavina (il suo nome proprio era ignoto, così come il suo cognome da ragazza), che aveva ereditato l'azienda del defunto marito e aveva fama di essere, oltre che una ninfomane insaziabile (la sfilata dei suoi amanti era interminabile su e giù per le scale), anche un'esperta in stregoneria.
Tale convinzione fu suffragata dal fatto che, dopo la dipartita della vedova, i successivi proprietari non rimasero in quell'appartamento per più di due o tre anni, nei quali la malasorte li colpiva con ogni avversità.
Dall'altro lato, a tenere testa al maleficio, c'erano i Casadei di Sopra.
Il capofamiglia era l'integerrimo cavalier Arnaldo Casadei, dirigente dell'Eni, detto il Censore, per la sua severità e parsimonia, ma soprannominato anche "il Rospo" per la sua inarrivabile bruttezza.
Sua moglie Leni era una tedesca bavarese conosciuta durante uno degli innumerevoli viaggi di lavoro del Rospo, in un momento di disinibizione dovuta agli effetti di una birra scura sottocosto all'Oktoberfest.
In molti si chiedevano come mai Helena Gruber, detta Leni, avesse sposato Casadei di Sopra, anche se circolava una leggenda metropolitana secondo cui la bionda tedesca avesse sperato, purtroppo invano, che baciando il Rospo, lui si trasformasse in un principe. Ma la vita non è una favola, e dunque, inevitabilmente, anche dopo il bacio, il Rospo era rimasto tale.
Inoltre, la sua espressione eternamente accigliata, così come l'esposizione al sole del deserto del Qatar, negli anni gloriosi in cui andava in cerca di petrolio, avevano prodotto nel volto di Arnaldo Casadei delle rughe enormi, spropositate, come dei fossi, dei solchi che si diramavano dal naso in tutte le direzioni.
Una volta Silvia lo descrisse in questo modo: "Le sue rughe sembrano i raggi di un sole, ma un sole brutto" e da allora il Sole Brutto divenne il terzo appellativo di Casadei di Sopra.
Ma lui non sembrava particolarmente preoccupato per la propria bruttezza, come del resto accade agli uomini ricchi e in carriera, che più che altro sono interessanti a diventare sempre più ricchi.
Come diceva la buon'anima di Tsa Tsa Gabor, "un uomo ricco è sempre bello" e il cavalier Arnaldo Casadei, dirigente dell'Eni, era decisamente un uomo ricco.
Ebbero una figlia, Adele, che per sua fortuna assomigliava alla madre nel fisico e al padre nel carattere.
Il Censore seppe comunque guidare il condominio dal punto di vista decisionale, mettendo in riga persino l'amministratore, o deponendolo qualora gli fosse parso inefficiente o inaffidabile, cioè quasi sempre.
Da questa prima rassegna si può capire come quel luogo non fosse proprio il massimo per ospitare il "nido d'amore" da cui i coniugi Monterovere avrebbero dovuto dar vita ad una numerosa famiglia, che non fu affatto numerosa, dal momento che il primo figlio si rivelò talmente impegnativo da farli desistere da ogni altra velleità genitoriale.
venerdì 8 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 65. Tutti insieme appassionatamente
Di ritorno dal viaggio di nozze, Silvia e Francesco presero dimora, temporaneamente, a Villa Orsini.
All'epoca l'antica residenza dei Conti di Casemurate ospitava molte persone.
Oltre ai padroni di casa, Ettore Ricci e Diana Orsini, c'erano le loro anziane madri Clara Torricelli vedova Ricci ed Emilia Paolucci de' Calboli, vedova Orsini, e in più la sorella nubile di Ettore, Adriana, la ferrea governante Ida Braghiri con l'astuto marito Michele e spesso erano presenti anche i nipoti di Ettore e Diana, e cioè Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, figli delle sorelle di Silvia.
La convivenza si rivelò subito difficile.
Francesco Monterovere aveva uno stile di vita completamente diverso da quello della famiglia Ricci-Orsini.
Una primissima avvisaglia di questo si ebbe quando Francesco decise di preparare il caffè ai suoceri, dopo pranzo.
Dichiarò di essere un mago nel preparare il caffè e non volle nessuno attorno, nemmeno l'onnipresente Ida Braghiri.
Dopo qualche minuto, una terribile puzza di bruciato si levò da sopra i fornelli.
Francesco si era dimenticato di mettere l'acqua nella caffettiera, che era rovente e affumicata.
Poiché la cosa gli accadeva di frequente, a causa della sua proverbiale distrazione, rimase imperturbabile e tornò in sala da pranzo dicendo:
<<Ho bruciato la caffettiera, ormai è da buttare. Dove posso trovarne un'altra?>>
Ettore Ricci, la cui tirchieria era altrettanto proverbiale, lo fissò con occhi infuocati e poi si rivolse alla figlia in dialetto come faceva sempre quando era infuriato:
<<Ma quest che que, din dad'venal?>> che tradotto significava "Ma questo qui da dove viene?"
Ida Braghiri, trionfante nel vedere le prime crepe dell'immagine reverenziale del Professore, gli prestò con ostentazione la propria caffettiera, premurandosi di osservare da vicino l'imbarazzo generale della situazione.
Il secondo episodio di tensione tra Ettore Ricci e il genero si ebbe quando Francesco portò a Villa Orsini il suo stereo di Faenza.
Lo collocò in uno studiolo vicino all' "ufficio" dove Ettore Ricci esaminava i conti delle sue aziende.
Una scelta più inopportuna di questa era decisamente inimmaginabile, e infatti, quando per la prima volta Francesco decise di ascoltare la marcia trionfale dell'Aida di Verdi a tutto volume,
nel giro di una frazione di secondo, Ettore, imbestialito, si diresse verso lo studiolo bestemmiando pesantemente, ma fu fermato da sua moglie.
Diana Orsini gli disse:
<<Lascia che parli io al Professore>>
Ma Ettore era fuori controllo e come sempre, in quelle situazioni, passò al dialetto:
<<E fa salté vi la ca!>> (Fa saltar via la casa)
E poi, spalancando la porta:
<<Se non spegni quell'accidente di disco, te lo butto dalla finestra! Tu e le tue diavolerie! Come quell'altro aggeggio... come si chiama? Quella macchina che costa un occhio della testa...>>
Francesco, meravigliato, rispose con aria innocente:
<<E' un microprocessore, un Intel 8080. Me lo sono fatto mandare da mio zio Alfredo, che vive in America>>
Ettore sgranò gli occhi:
<<Lo zio Alfredo! L'unico zio d'America che invece di mandare soldi li chiede! Guarda che lo so quanto ti ha fatto spendere per quell'aggeggio. E poi tu e Silvia venite da me a piangere miseria e a battere cassa! Comunque è chiaro che quella macchina non serve a niente, come dice il professore Giovannelli, lui sì che una persona seria!>>
Francesco guardò il suocero sorridendo:
<<Piero Giovannelli è un uomo all'antica. Per il momento i microprocessori sono in fase sperimentale. Ma tra un anno o due faranno miracoli. Potrebbero servire persino a lei>>
Ettore cacciò un'ennesima bestemmia e uscì scuotendo la testa e borbottando tra sé.
Poi incominciarono ad arrivare i volumi rilegati della Grande Enciclopedia De Agostini, con annesse rate di pagamento.
Ettore Ricci all'inizio credette che si trattasse di un errore del postino e lo cacciò in malo modo.
Quando Francesco chiese se era passato qualcuno con il nuovo volume dell'Enciclopedia, Ettore sbiancò:
<<Ma con quelle rate ci potresti pagare un mutuo! E quanti libri sono? E' impossibile leggere così tanti libri!>>
<<L'Enciclopedia non è un libro da leggere, ma da consultare>>
Ettore scosse la testa, sdegnato:
<<Va' là, va' là, va' là!>> bofonchiò e poi passò al dialetto <<Dal robi acsè, me dég a e mond!>>
L'espressione è quasi intraducibile in italiano, perché perderebbe la sua efficacia, volendo dire, più o meno: "Delle cose così non possono esistere al mondo, dico io".
Poi arrivarono le rate della macchina, una Citroen azzurra dalla forma aerodinamica, comprata da Francesco poco prima del matrimonio.
Ettore questa volta andò a protestare direttamente da sua figlia, investendola con un profluvio di parole in dialetto:
<<Cun toti'oman cu i'era a e mond, t'avivta da tu propri quel che lè? Un sgrazié cun al pezi in te cul!>> che tradotto suonava all'incirca: "Con tutti gli uomini che erano al mondo, proprio quello ti dovevi prendere? Un disgraziato con le pezze al culo!"
Silvia era esasperata;
<<Presto ci trasferiremo a Forlì, babbo, così non dovrai più sopportarci>>
Ed Ettore la fulminava con lo sguardo:
<<A Forlì... ma se non avete ancora trovato un appartamento? E con cosa lo pagherete che non avete un centesimo da sbattere nell'altro? Non avete già abbastanza rate che vi mangiano lo stipendio?>>
<<Troveremo un modo, papà. Ma nel frattempo, dobbiamo cercare di convivere in maniera civile>>
Ettore sbuffò e alla fine cedette:
<<Entro giugno vi trovo una casa! Non voglio neanche che mi paghiate l'affitto, basta che vi togliete dai c... una volta per tutte!>>
All'epoca l'antica residenza dei Conti di Casemurate ospitava molte persone.
Oltre ai padroni di casa, Ettore Ricci e Diana Orsini, c'erano le loro anziane madri Clara Torricelli vedova Ricci ed Emilia Paolucci de' Calboli, vedova Orsini, e in più la sorella nubile di Ettore, Adriana, la ferrea governante Ida Braghiri con l'astuto marito Michele e spesso erano presenti anche i nipoti di Ettore e Diana, e cioè Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, figli delle sorelle di Silvia.
La convivenza si rivelò subito difficile.
Francesco Monterovere aveva uno stile di vita completamente diverso da quello della famiglia Ricci-Orsini.
Una primissima avvisaglia di questo si ebbe quando Francesco decise di preparare il caffè ai suoceri, dopo pranzo.
Dichiarò di essere un mago nel preparare il caffè e non volle nessuno attorno, nemmeno l'onnipresente Ida Braghiri.
Dopo qualche minuto, una terribile puzza di bruciato si levò da sopra i fornelli.
Francesco si era dimenticato di mettere l'acqua nella caffettiera, che era rovente e affumicata.
Poiché la cosa gli accadeva di frequente, a causa della sua proverbiale distrazione, rimase imperturbabile e tornò in sala da pranzo dicendo:
<<Ho bruciato la caffettiera, ormai è da buttare. Dove posso trovarne un'altra?>>
Ettore Ricci, la cui tirchieria era altrettanto proverbiale, lo fissò con occhi infuocati e poi si rivolse alla figlia in dialetto come faceva sempre quando era infuriato:
<<Ma quest che que, din dad'venal?>> che tradotto significava "Ma questo qui da dove viene?"
Ida Braghiri, trionfante nel vedere le prime crepe dell'immagine reverenziale del Professore, gli prestò con ostentazione la propria caffettiera, premurandosi di osservare da vicino l'imbarazzo generale della situazione.
Il secondo episodio di tensione tra Ettore Ricci e il genero si ebbe quando Francesco portò a Villa Orsini il suo stereo di Faenza.
Lo collocò in uno studiolo vicino all' "ufficio" dove Ettore Ricci esaminava i conti delle sue aziende.
Una scelta più inopportuna di questa era decisamente inimmaginabile, e infatti, quando per la prima volta Francesco decise di ascoltare la marcia trionfale dell'Aida di Verdi a tutto volume,
nel giro di una frazione di secondo, Ettore, imbestialito, si diresse verso lo studiolo bestemmiando pesantemente, ma fu fermato da sua moglie.
Diana Orsini gli disse:
<<Lascia che parli io al Professore>>
Ma Ettore era fuori controllo e come sempre, in quelle situazioni, passò al dialetto:
<<E fa salté vi la ca!>> (Fa saltar via la casa)
E poi, spalancando la porta:
<<Se non spegni quell'accidente di disco, te lo butto dalla finestra! Tu e le tue diavolerie! Come quell'altro aggeggio... come si chiama? Quella macchina che costa un occhio della testa...>>
Francesco, meravigliato, rispose con aria innocente:
<<E' un microprocessore, un Intel 8080. Me lo sono fatto mandare da mio zio Alfredo, che vive in America>>
Ettore sgranò gli occhi:
<<Lo zio Alfredo! L'unico zio d'America che invece di mandare soldi li chiede! Guarda che lo so quanto ti ha fatto spendere per quell'aggeggio. E poi tu e Silvia venite da me a piangere miseria e a battere cassa! Comunque è chiaro che quella macchina non serve a niente, come dice il professore Giovannelli, lui sì che una persona seria!>>
Francesco guardò il suocero sorridendo:
<<Piero Giovannelli è un uomo all'antica. Per il momento i microprocessori sono in fase sperimentale. Ma tra un anno o due faranno miracoli. Potrebbero servire persino a lei>>
Ettore cacciò un'ennesima bestemmia e uscì scuotendo la testa e borbottando tra sé.
Poi incominciarono ad arrivare i volumi rilegati della Grande Enciclopedia De Agostini, con annesse rate di pagamento.
Ettore Ricci all'inizio credette che si trattasse di un errore del postino e lo cacciò in malo modo.
Quando Francesco chiese se era passato qualcuno con il nuovo volume dell'Enciclopedia, Ettore sbiancò:
<<Ma con quelle rate ci potresti pagare un mutuo! E quanti libri sono? E' impossibile leggere così tanti libri!>>
<<L'Enciclopedia non è un libro da leggere, ma da consultare>>
Ettore scosse la testa, sdegnato:
<<Va' là, va' là, va' là!>> bofonchiò e poi passò al dialetto <<Dal robi acsè, me dég a e mond!>>
L'espressione è quasi intraducibile in italiano, perché perderebbe la sua efficacia, volendo dire, più o meno: "Delle cose così non possono esistere al mondo, dico io".
Poi arrivarono le rate della macchina, una Citroen azzurra dalla forma aerodinamica, comprata da Francesco poco prima del matrimonio.
Ettore questa volta andò a protestare direttamente da sua figlia, investendola con un profluvio di parole in dialetto:
<<Cun toti'oman cu i'era a e mond, t'avivta da tu propri quel che lè? Un sgrazié cun al pezi in te cul!>> che tradotto suonava all'incirca: "Con tutti gli uomini che erano al mondo, proprio quello ti dovevi prendere? Un disgraziato con le pezze al culo!"
Silvia era esasperata;
<<Presto ci trasferiremo a Forlì, babbo, così non dovrai più sopportarci>>
Ed Ettore la fulminava con lo sguardo:
<<A Forlì... ma se non avete ancora trovato un appartamento? E con cosa lo pagherete che non avete un centesimo da sbattere nell'altro? Non avete già abbastanza rate che vi mangiano lo stipendio?>>
<<Troveremo un modo, papà. Ma nel frattempo, dobbiamo cercare di convivere in maniera civile>>
Ettore sbuffò e alla fine cedette:
<<Entro giugno vi trovo una casa! Non voglio neanche che mi paghiate l'affitto, basta che vi togliete dai c... una volta per tutte!>>
domenica 3 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 64. La Bancaccia
L'Istituto di Credito di fiducia del clan Ricci-Orsini, di cui è saggio e pietoso tacere persino il nome, era chiamato, dagli addetti ai lavori, "la Bancaccia", per alcune sue abitudini non proprio consone ai criteri dell'onestà e dell'efficienza amministrativa, tra cui l'assunzione di soli raccomandati, il prestito conferito a fondo perduto agli amici e ai potenti e l'abitudine di ricorrere, già a quei tempi, al salvataggio pubblico tramite provvidenziali interventi politici.
Il Consiglio di Amministrazione era infatti nominato da alcune Fondazioni le quali a loro volta facevano capo ad alcuni partiti politici molto forti in Romagna: il Partito Repubblicano Italiano, in primis e la Democrazia Cristiana in secundis.
C'era poi anche il Partito Socialista, seppure, all'epoca, non fosse ancora entrato nell'era craxiana, e dunque mantenesse una condizione un po' "troppo di sinistra" agli occhi degli azionisti e dei clienti più in vista, tra i quali Ettore Ricci.
Non a caso il Presidente del Consiglio di Amministrazione era Leandro Baroni, il Senatore democristiano marito di Caterina Ricci, sorella maggiore di Ettore.
L'Amministratore Delegato era il repubblicano Giuseppe Saffi Bargotti, molto amico del giudice De Gubernatis, altro cognato di Ettore, su cui ritorneremo tra poco.
Il direttore generale, Pio Catellani, era un altro notabile democristiano, che poi divenne deputato.
Ma ancor più della politica, contavano le parentele con le famiglie di spicco.
Per questa ragione la triade Baroni, Saffi e Catellani aveva garantito crediti sempre più consistenti alla Società in Accomandita Semplice "Ricci-Orsini, Spreti e Zanetti" che gestiva il Feudo Orsini di Casemurate e le sue dipendenze, che da sole comprendevano più della metà delle terre della Contea di Casemurate e del Comune di Cervia.
C'erano altri possidenti che incominciavano a farsi strada, tra cui un certo Cassio Baglioni, che non era parente cantante, benché millantasse di esserlo e che era anche proprietario di un mulino e di un inceneritore.
C'era anche, tra gli homines novi, altro tizio che rispondeva al nome di Luciano Bastiani, detto "Bastianone", proprietario di un enorme pollaio e di un ancora più enorme porcile. Ma all'epoca questi personaggio erano soltanto dei comprimari.
Il Senatore Baroni e l'Amministratore Saffi avevano fatto assumere come Capo Ufficio Legale della Bancaccia l'avvocato Goffredo De Gubernatis, fratello minore del giudice Gugliemo De Gubernatis, marito fedifrago di Ginevra Orsini e padre di Elisabetta Braghiri e Anna Trombatore, le due terribili gemelle sposate alle lingue biforcute più velenose della città.
Goffredo De Gubernatis, ormai cinquantenne, era noto per le stravaganze del suo carattere.
La sua nomina, per quanto scandalosa, non aveva meravigliato nessuno.
L’Ufficio Legale, infatti, era soprannominato “Ufficio Raccomandati e figli di...”.
In effetti, a ben vedere, tutti i componenti di tale ufficio, potevano vantare un pedegree di una certa importanza, almeno localmente.
Goffredo non era sposato: l’unico grande amore della sua vita erano i cavalli (e secondo le malelingue anche gli stallieri). Quando era morto il suo cavallo prediletto, chiamato modestamente “Carlo Magno”, lo aveva fatto imbalsamare e collocare presso una apposita dependance delle stalle di Villa Orsini.
In ufficio Goffredo De Gubernatis si comportava in modo ambiguo: da un lato ostentava una melensa e fasulla umiltà, si faceva dare del tu e chiamare per nome dai dipendenti, sembrava, tanto che i più ingenui dicevano di lui che era “un così buon uomo!”.
Dall’altro lato però il suo carattere mostrava inquietanti segni di lunaticità e nevrosi, e soprattutto repentini sbalzi d'umore, a metà strada tra il disturbo borderline e quello bipolare.
Alcuni giorni, quando si svegliava euforico, arrivava in ufficio con ritardi imbarazzanti, leggeva tranquillamente il giornale tutta la mattina, si prendeva delle pause-caffè che duravano ore oppure rimaneva come inebetito con lo sguardo perso nel vuoto mentre nel reparto regnava la più assoluta anarchia.
Quando invece era di cattivo umore, cioè quasi sempre, diventava irascibile, dispotico, puntiglioso e provocatorio. Bastava il minimo errore o il più piccolo sgarro di un dipendente per causare drammatiche scenate, crisi isteriche, inquietanti minacce o funeste manie di perfezionismo.
Non era mai arrivato alla rissa soltanto perché sapeva benissimo che, esile com'era, avrebbe senz'altro avuto la peggio.
Una tipica rappresaglia che in quei momenti si dilettava a esercitare sui malcapitati che quel giorno gli stavano particolarmente antipatici era quella di far riscrivere loro i documenti ufficiali più e più volte, cambiando le parole, ma non il senso del discorso.
Se per esempio uno scriveva: «Il cliente si è dimostrato inadempiente», il dott. Papisco gli faceva correggere: «Il cliente ha mostrato inadempienze», ma poteva benissimo accadere il viceversa con un altro dipendente, o magari con lo stesso una volta che avesse apportato la correzione.
I componenti dell’Ufficio Legale, però, si erano abituati a queste stravaganze e non ci facevano quasi più attenzione.
Erano disposti a passar sopra a tutto, purché non li si costringesse a lavorare sul serio.
Ciò sarebbe stato per loro assolutamente inconcepibile.
Per il Vicecapo Ufficio il lavoro in banca era una sorta di “sinecura”: il grosso dei suoi introiti derivava da consulenze esterne a cui dedicava tutto il tempo, comprese le ore di ufficio.
Fortunatamente c’era il giovane e volenteroso dottor Valentini, fanatico giurista, che si faceva carico anche del lavoro degli altri, sia per il gusto di eccellere nella sua materia, sia per una spontanea e talvolta perniciosa energia organizzativa.
Le due raccomandate di ferro erano le signore “Petruzzelli & Baldini”, ironicamente associate come una società commerciale non solo perché amiche e alleate di ferro, ma anche perché i rispettivi mariti, l’ingegner Petruzzelli e il commercialista Baldini, erano soci in affari.
Paola Petruzzelli e Francesca Baldini erano diplomate al liceo classico, non sapevano nulla di questioni di ufficio e tanto meno di questioni legali: a dire il vero non si sapeva neppure quali fossero i loro incarichi e le loro mansioni, e del resto non facevano assolutamente niente, se non spettegolare su tutto e su tutti dalla mattina alla sera.
Fondamentalmente la Petruzzelli e la Baldini fungevano da Gazzetta Ufficiale del Gossip: nulla di ciò che accadeva presso l’alta società cittadina sfuggiva al capillare controllo della rete di amicizie delle due onnipresenti signore.
I loro dialoghi perenni toccavano comunque anche altre “essenziali” questioni.
Paola Petruzzelli, bigotta e conservatrice, era specializzata in argomenti tradizionali come aste di beneficenza, iniziative parrocchiali, ricette di cucina, oroscopi, estrazioni del lotto, teleromanzi, parole crociate.
Francesca Baldini, più progressista, era invece l’ arbitra elegantiarum in fatto di ultime mode, acconciature, vestiario, viaggi, villeggiature e persino rivendicazioni femministe.
Tra la scrivania della Petruzzelli, alla destra rispetto all’ingresso, e quello della Baldini, alla sinistra, c’era il tavolo di lavoro del ragionier Poponi, un ometto basso e grasso sulla cinquantina, trasandato, scarmigliato, distratto, volenteroso lavoratore, ma mediocre e pasticcione.
Scribacchiava continuamente scarabocchi incomprensibili su polverosi registri e fogliacci semiaccartocciati e macchiati, che tentava poi di ricopiare con la macchina da scrivere, sbagliando continuamente e borbottando tra sé.
Non parlava molto: di lui si sapeva che aveva una famiglia numerosa e problematica, con una moglie gelosissima, una suocera terribile, due cognate nubili a carico e cinque figlie una più brutta e antipatica dell’altra. Insomma, una specie di Belluca della novella "Il treno ha fischiato" di Luigi Pirandello.
Altro personaggio che faceva parte per se stesso era il geometra Cipressi: uomo alto, magro, riservatissimo, taciturno al punto da apparire muto, pareva sempre immerso in qualche fondamentale questione di lavoro, anche se nessuno avrebbe saputo dire esattamente quali pratiche stesse seguendo.
Neppure il Capo ufficio Goffredo Papisco riusciva a svelare il mistero che circondava il geometra Cipressi: quando gli chiedeva di cosa si stesse occupando, Cipressi era evasivo, cupo, terreo, quasi sdegnato. Se veniva messo alle strette, si chiudeva in un ostinato mutismo, interrotto solo da vaghe allusioni a un suo carissimo amico, ex attendente del generale De Toschi. Al che, ogni questione subito si stemperava in un nulla di fatto.
Questa situazione da Castello kafkiano era tenuta in piedi dal solo ed esclusivo collante dell'alleanza politica, economica e familiare tra i vari partiti politici e i principali esponenti delle famiglie di spicco dell'alta società forlivese, che trovava il suo vertice nel clan Ricci-Orsini.
Eppure c'era un anello debole, ed era proprio Goffredo De Gubernatis, che nascondeva un segreto talmente imbarazzante che non aveva mai confidato a nessuno. Anche questo giocò un ruolo determinante, quando il castello di carta del clan Ricci-Orsini incominciò a traballare, perché a questo mondo esiste una regola aurea: niente è eterno e niente è indistruttibile.
Bisogna solo avere pazienza e fare di tutto per sopravvivere così a lungo da vedere il crepuscolo degli dei.
Per gli invidiosi la pazienza e la sopravvivenza sono sempre le due alleate fondamentali, ma restano comunque aperti alcuni quesiti. Primo: ne vale la pena? Secondo: cos'è la sopravvivenza se si è perduta l'integrità? Terzo: possono davvero bastare queste motivazioni, in mancanza di un nobile scopo?
Da lungo tempo Diana Orsini, che pure non nutriva risentimento per tutto il dolore che Ettore le aveva causato, si era data un'unica risposta: senza un nobile scopo che dia un senso alla nostra sopravvivenza, noi non siamo niente.
Il Consiglio di Amministrazione era infatti nominato da alcune Fondazioni le quali a loro volta facevano capo ad alcuni partiti politici molto forti in Romagna: il Partito Repubblicano Italiano, in primis e la Democrazia Cristiana in secundis.
C'era poi anche il Partito Socialista, seppure, all'epoca, non fosse ancora entrato nell'era craxiana, e dunque mantenesse una condizione un po' "troppo di sinistra" agli occhi degli azionisti e dei clienti più in vista, tra i quali Ettore Ricci.
Non a caso il Presidente del Consiglio di Amministrazione era Leandro Baroni, il Senatore democristiano marito di Caterina Ricci, sorella maggiore di Ettore.
L'Amministratore Delegato era il repubblicano Giuseppe Saffi Bargotti, molto amico del giudice De Gubernatis, altro cognato di Ettore, su cui ritorneremo tra poco.
Il direttore generale, Pio Catellani, era un altro notabile democristiano, che poi divenne deputato.
Ma ancor più della politica, contavano le parentele con le famiglie di spicco.
Per questa ragione la triade Baroni, Saffi e Catellani aveva garantito crediti sempre più consistenti alla Società in Accomandita Semplice "Ricci-Orsini, Spreti e Zanetti" che gestiva il Feudo Orsini di Casemurate e le sue dipendenze, che da sole comprendevano più della metà delle terre della Contea di Casemurate e del Comune di Cervia.
C'erano altri possidenti che incominciavano a farsi strada, tra cui un certo Cassio Baglioni, che non era parente cantante, benché millantasse di esserlo e che era anche proprietario di un mulino e di un inceneritore.
C'era anche, tra gli homines novi, altro tizio che rispondeva al nome di Luciano Bastiani, detto "Bastianone", proprietario di un enorme pollaio e di un ancora più enorme porcile. Ma all'epoca questi personaggio erano soltanto dei comprimari.
Il Senatore Baroni e l'Amministratore Saffi avevano fatto assumere come Capo Ufficio Legale della Bancaccia l'avvocato Goffredo De Gubernatis, fratello minore del giudice Gugliemo De Gubernatis, marito fedifrago di Ginevra Orsini e padre di Elisabetta Braghiri e Anna Trombatore, le due terribili gemelle sposate alle lingue biforcute più velenose della città.
Goffredo De Gubernatis, ormai cinquantenne, era noto per le stravaganze del suo carattere.
La sua nomina, per quanto scandalosa, non aveva meravigliato nessuno.
L’Ufficio Legale, infatti, era soprannominato “Ufficio Raccomandati e figli di...”.
In effetti, a ben vedere, tutti i componenti di tale ufficio, potevano vantare un pedegree di una certa importanza, almeno localmente.
Goffredo non era sposato: l’unico grande amore della sua vita erano i cavalli (e secondo le malelingue anche gli stallieri). Quando era morto il suo cavallo prediletto, chiamato modestamente “Carlo Magno”, lo aveva fatto imbalsamare e collocare presso una apposita dependance delle stalle di Villa Orsini.
In ufficio Goffredo De Gubernatis si comportava in modo ambiguo: da un lato ostentava una melensa e fasulla umiltà, si faceva dare del tu e chiamare per nome dai dipendenti, sembrava, tanto che i più ingenui dicevano di lui che era “un così buon uomo!”.
Dall’altro lato però il suo carattere mostrava inquietanti segni di lunaticità e nevrosi, e soprattutto repentini sbalzi d'umore, a metà strada tra il disturbo borderline e quello bipolare.
Alcuni giorni, quando si svegliava euforico, arrivava in ufficio con ritardi imbarazzanti, leggeva tranquillamente il giornale tutta la mattina, si prendeva delle pause-caffè che duravano ore oppure rimaneva come inebetito con lo sguardo perso nel vuoto mentre nel reparto regnava la più assoluta anarchia.
Quando invece era di cattivo umore, cioè quasi sempre, diventava irascibile, dispotico, puntiglioso e provocatorio. Bastava il minimo errore o il più piccolo sgarro di un dipendente per causare drammatiche scenate, crisi isteriche, inquietanti minacce o funeste manie di perfezionismo.
Non era mai arrivato alla rissa soltanto perché sapeva benissimo che, esile com'era, avrebbe senz'altro avuto la peggio.
Una tipica rappresaglia che in quei momenti si dilettava a esercitare sui malcapitati che quel giorno gli stavano particolarmente antipatici era quella di far riscrivere loro i documenti ufficiali più e più volte, cambiando le parole, ma non il senso del discorso.
Se per esempio uno scriveva: «Il cliente si è dimostrato inadempiente», il dott. Papisco gli faceva correggere: «Il cliente ha mostrato inadempienze», ma poteva benissimo accadere il viceversa con un altro dipendente, o magari con lo stesso una volta che avesse apportato la correzione.
I componenti dell’Ufficio Legale, però, si erano abituati a queste stravaganze e non ci facevano quasi più attenzione.
Erano disposti a passar sopra a tutto, purché non li si costringesse a lavorare sul serio.
Ciò sarebbe stato per loro assolutamente inconcepibile.
Per il Vicecapo Ufficio il lavoro in banca era una sorta di “sinecura”: il grosso dei suoi introiti derivava da consulenze esterne a cui dedicava tutto il tempo, comprese le ore di ufficio.
Fortunatamente c’era il giovane e volenteroso dottor Valentini, fanatico giurista, che si faceva carico anche del lavoro degli altri, sia per il gusto di eccellere nella sua materia, sia per una spontanea e talvolta perniciosa energia organizzativa.
Le due raccomandate di ferro erano le signore “Petruzzelli & Baldini”, ironicamente associate come una società commerciale non solo perché amiche e alleate di ferro, ma anche perché i rispettivi mariti, l’ingegner Petruzzelli e il commercialista Baldini, erano soci in affari.
Paola Petruzzelli e Francesca Baldini erano diplomate al liceo classico, non sapevano nulla di questioni di ufficio e tanto meno di questioni legali: a dire il vero non si sapeva neppure quali fossero i loro incarichi e le loro mansioni, e del resto non facevano assolutamente niente, se non spettegolare su tutto e su tutti dalla mattina alla sera.
Fondamentalmente la Petruzzelli e la Baldini fungevano da Gazzetta Ufficiale del Gossip: nulla di ciò che accadeva presso l’alta società cittadina sfuggiva al capillare controllo della rete di amicizie delle due onnipresenti signore.
I loro dialoghi perenni toccavano comunque anche altre “essenziali” questioni.
Paola Petruzzelli, bigotta e conservatrice, era specializzata in argomenti tradizionali come aste di beneficenza, iniziative parrocchiali, ricette di cucina, oroscopi, estrazioni del lotto, teleromanzi, parole crociate.
Francesca Baldini, più progressista, era invece l’ arbitra elegantiarum in fatto di ultime mode, acconciature, vestiario, viaggi, villeggiature e persino rivendicazioni femministe.
Tra la scrivania della Petruzzelli, alla destra rispetto all’ingresso, e quello della Baldini, alla sinistra, c’era il tavolo di lavoro del ragionier Poponi, un ometto basso e grasso sulla cinquantina, trasandato, scarmigliato, distratto, volenteroso lavoratore, ma mediocre e pasticcione.
Scribacchiava continuamente scarabocchi incomprensibili su polverosi registri e fogliacci semiaccartocciati e macchiati, che tentava poi di ricopiare con la macchina da scrivere, sbagliando continuamente e borbottando tra sé.
Non parlava molto: di lui si sapeva che aveva una famiglia numerosa e problematica, con una moglie gelosissima, una suocera terribile, due cognate nubili a carico e cinque figlie una più brutta e antipatica dell’altra. Insomma, una specie di Belluca della novella "Il treno ha fischiato" di Luigi Pirandello.
Altro personaggio che faceva parte per se stesso era il geometra Cipressi: uomo alto, magro, riservatissimo, taciturno al punto da apparire muto, pareva sempre immerso in qualche fondamentale questione di lavoro, anche se nessuno avrebbe saputo dire esattamente quali pratiche stesse seguendo.
Neppure il Capo ufficio Goffredo Papisco riusciva a svelare il mistero che circondava il geometra Cipressi: quando gli chiedeva di cosa si stesse occupando, Cipressi era evasivo, cupo, terreo, quasi sdegnato. Se veniva messo alle strette, si chiudeva in un ostinato mutismo, interrotto solo da vaghe allusioni a un suo carissimo amico, ex attendente del generale De Toschi. Al che, ogni questione subito si stemperava in un nulla di fatto.
Questa situazione da Castello kafkiano era tenuta in piedi dal solo ed esclusivo collante dell'alleanza politica, economica e familiare tra i vari partiti politici e i principali esponenti delle famiglie di spicco dell'alta società forlivese, che trovava il suo vertice nel clan Ricci-Orsini.
Eppure c'era un anello debole, ed era proprio Goffredo De Gubernatis, che nascondeva un segreto talmente imbarazzante che non aveva mai confidato a nessuno. Anche questo giocò un ruolo determinante, quando il castello di carta del clan Ricci-Orsini incominciò a traballare, perché a questo mondo esiste una regola aurea: niente è eterno e niente è indistruttibile.
Bisogna solo avere pazienza e fare di tutto per sopravvivere così a lungo da vedere il crepuscolo degli dei.
Per gli invidiosi la pazienza e la sopravvivenza sono sempre le due alleate fondamentali, ma restano comunque aperti alcuni quesiti. Primo: ne vale la pena? Secondo: cos'è la sopravvivenza se si è perduta l'integrità? Terzo: possono davvero bastare queste motivazioni, in mancanza di un nobile scopo?
Da lungo tempo Diana Orsini, che pure non nutriva risentimento per tutto il dolore che Ettore le aveva causato, si era data un'unica risposta: senza un nobile scopo che dia un senso alla nostra sopravvivenza, noi non siamo niente.
venerdì 1 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 63. Mare mare mare
Mentre Silvia e Francesco erano in viaggio di nozze, la famiglia Ricci-Orsini continuava a espandere la propria ricchezza e il proprio potere, e con essa le terre, gli alleati e purtroppo anche i nemici.
In particolare, Ettore Ricci era riuscito a mettere a segno un colpo a cui mirava da tempo, e cioè l'estensione del Feudo Orsini verso la costa, in direzione di Cervia.
Da tempo la Contea di Casemurate ambiva ad uno "sbocco al mare", e il porto turistico cervese, con le sue spiagge e le sue meravigliose saline, era un gioiello di rara bellezza, incastonato al centro della riviera romagnola.
La "conquista di Cervia" da parte dei Ricci-Orsini avvenne in maniera astuta, per mezzo di una serie di eventi fortuiti.
Il tutto ebbe inizio quando il potente vicepreside dell'Istituto Tecnico Industriale di Forlì, prof. Primo Marchesi, dirigente locale della Dc, venne a sapere, in seguito ad una soffiata da parte del suo fedelissimo alleato di partito, Pio Catellani, direttore provinciale di una banca di cui è pietoso e saggio tacere persino il nome (ci limiteremo a chiamarla, nei capitoli successivi, "la Bancaccia"), che il Comune di Cervia aveva intenzione di costruire una strada confiscando una porzione significativa dell'ampio terreno antistante la decrepita casa di villeggiatura appartenente da generazioni alla famiglia Marchesi.
Tale strada avrebbe dovuto collegare la via Milazzo con la via Giove, incrociandole entrambe ad angolo retto e sbucando proprio davanti a Villa Marchesi, il che era già di per sé intollerabile per il Vice-Preside prof. Primo.
Ma la cosa più oltraggiosa, imputabile senza dubbio alla giunta di sinistra, era che l'indennizzo era stato preventivato a livelli risibili,
Priamo Marchesi non aveva influenza politica da quelle parti, per cui l'unico modo di scampare a quel sopruso era vendere quel terreno a un prezzo di mercato a qualche ingenuo e disinformato pollo disposto a lasciarsi spennare.
Non poteva però ricorrere ad agenzie o a mezzi troppo vistosi per trovare il pollo di cui sopra, pertanto decise di rivolgersi al suo mentore politico, il potentissimo Senatore Leandro Baroni, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone e Grand'Ufficiale al merito della Repubblica Italiana, il quale promise di interessarsi della faccenda.
Il senatore Baroni, però, aveva informatori migliori, e dunque venne a conoscenza del fatto che il Comune di Cervia aveva deciso di accantonare quel progetto, dal momento che, in fin dei conti, quella strada era del tutto inutile.
E qui viene il bello (si fa per dire).
Il Senatore, infatti, non riferì al Vicepreside ciò che aveva appreso, perché c'era un altro suo alleato, molto più importante, che avrebbe tratto profitto da quell'informazione.
Questo non dovrebbe stupirci e forse nemmeno indignarci più di tanto, perché si tratta di un fenomeno molto diffuso nel Bel Paese, anche tra i cosiddetti "probiviri" e non solo a quei tempi.
C'era e c'è tutt'ora una regola fondamentale che contraddistingue gli Italiani più di ogni altro popolo: la famiglia prima di tutto.
E per famiglia si intende qualcosa di ampio e allargato, senza necessariamente tirare in ballo la mafia, dal momento che i rapporti di parentela erano l'asse portante di un tutto che non implicava necessariamente atti illegali, almeno non sempre.
Per questo il Senatore preferì comunicare il tutto al suo potentissimo cognato, il nostro Ettore Ricci, che da tempo, come si è detto, cercava "uno sbocco al mare" per la Contea di Casemurate.
E tenuto conto che la strada principale di Casemurate era ed è ancor oggi la Cervese, la località balneare di Cervia era il luogo naturale verso cui espandersi.
Appena Ettore fu informato, prese subito in mano la situazione e la gestì da par suo.
Gli affari, per riuscire bene, richiedono una certa accortezza.
Quando si ha la fama di affarista, è meglio non trattare in prima persona, perché la controparte potrebbe sentire subito odore di fregatura.
Ettore incaricò dunque il suo principale prestanome, Michele Braghiri, affinché si occupasse della questione.
L'unico errore di Ettore, che però si sarebbe manifestato solo molti anni dopo, era quello di aver riposto in Michele troppa fiducia, senza riconoscere in lui il veleno dell'invidia.
Ma in quegli anni il vecchio Braghiri era ancora lontano dal realizzare il suo segreto disegno di vendetta, per cui i patti sarebbero stati rispettati.
Una volta che ci fosse stato il trasferimento di proprietà, sarebbe poi seguita una successiva donazione a beneficio di Ricci, e il fedele amministratore avrebbe avuto come compenso una quota dell'immobile.
Quando Michele Braghiri ne parlò con sua moglie Ida, lei ebbe un'idea:
<<E se, dopo aver comprato il terreno a tuo nome, ce lo tenessimo noi? Abbiamo già messo da parte abbastanza soldi per renderci indipendenti. Potremmo costruire un albergo, metterci in proprio>>
Lui scosse il capo:
<<Ma sei impazzita? Guadagno molto di più come Amministratore Delegato del Feudo Orsini!
E soprattutto conosco i segreti più oscuri del bilancio aziendale. E un giorno questi segreti ci torneranno utili>>
Lei era impaziente:
<<Sentì, sono trent'anni che mi dici di aspettare, ma io non ne posso più di fare la governante! Io voglio diventare la padrona!>>
Michele allora le si avvicinò e disse sottovoce:
<<Ti prometto che nel giro di cinque anni al massimo, avrò in mano tutti gli elementi per ricattare Ettore Ricci e ottenere per noi una fetta enorme del suo impero>>
Ida rimase pensosa:
<<Cinque anni sono lunghi. Non so se ne avrò la pazienza>>
Lui la guardò con i suoi occhi grigi e freddi:
<<Ci sono momenti in cui l'unica virtù che può essere d'aiuto è la pazienza>>
Lei decise di fidarsi di suo marito:
<<E va bene. Facciamo a modo tuo. Ma io mi aspetto molto>>
<<Ne avrai ancora di più>>
Convinta la moglie, Michele Braghiri fece ancora una volta la sua parte.
Comprò la terra a suo nome, con i soldi di Ettore Ricci, poi, trascorso il tempo necessario, gliela donò in cambio di una parte dell'immobile.
Il terreno era edificabile e su di esso sarebbero sorte tre case, una per ogni sorella Ricci-Orsini, con tre appartamenti, di cui due destinati alla locazione stagionale turistica.
Erano gli anni d'oro dell'edilizia, senza tasse sugli immobili e sugli affitti, e chi investiva nel settore poteva costruire imperi dal nulla.
Ettore era raggiante:
<<Caro Michele, muoio dalla voglia di vedere la faccia che farà Priamo Marchesi quando scoprirà che nelle terre che ci ha venduto per un tozzo di pane non passerà nessunissima strada! Voleva fregarci ed è rimasto fregato lui, quel minchione!>>
Michele Braghiri sorrise, con quella sua faccia da faina, che nascondeva molti più segreti di quanti Ettore Ricci avrebbe mai potuto immaginare.
Non bisogna mai credersi troppo furbi, perché c'è sempre qualcuno più furbo di noi, pronto a farci le scarpe: così come Marchesi era stato fregato da Ricci, quest'ultimo a sua volta sarebbe stato fregato da qualcun altro, molto vicino a lui, di cui aveva sottovalutato la scaltrezza.
Il giorno in cui Ettore Ricci, trionfante, poté dire che ormai la Contea di Casemurate aveva finalmente raggiunto il suo sbocco al mare, passeggiò lungo la spiaggia, come se ne fosse il padrone, e il suo sguardo si perse nell'acqua calma e limpida della riviera, senza sapere che ben presto sarebbero arrivate onde impetuose e vorticose, pronte a travolgere tutto ciò che lui aveva di più caro e sacro.
PS
Mare mare mare di Luca Carboni
Ho comprato anche la moto
Usata ma tenuta bene
Ho fatto il pieno e in autostrada
Prendo l'aria sulla faccia
Olè tengo il ritmo prendo un caffè
Lo so
Questa notte ti troverò
Usata ma tenuta bene
Ho fatto il pieno e in autostrada
Prendo l'aria sulla faccia
Olè tengo il ritmo prendo un caffè
Lo so
Questa notte ti troverò
Son partito da Bologna
Con le luci della sera
Forse tu mi stai aspettando
Mentre io attraverso il mondo
Con le luci della sera
Forse tu mi stai aspettando
Mentre io attraverso il mondo
Olè questa notte mi porta via
Alè questa vita mi porta via
Mi porta al mare
Alè questa vita mi porta via
Mi porta al mare
Mare, mare, mare
Ma che voglia di arrivare lì da te, da te
Sto accelerando e adesso ormai ti prendo
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha il suo mare dentro al cuore sì
E che ogni tanto gli fa sentire l'onda
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha i suoi sogni da inseguire sì
Per stare a galla e non affondare no, no
Ma che voglia di arrivare lì da te, da te
Sto accelerando e adesso ormai ti prendo
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha il suo mare dentro al cuore sì
E che ogni tanto gli fa sentire l'onda
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha i suoi sogni da inseguire sì
Per stare a galla e non affondare no, no
Ma son finito qui sul molo
A parlare all'infinito
Le ragazze che sghignazzano
E mi fan sentire solo
Sì ma cosa son venuto a fare
Ho già un sonno da morire
A parlare all'infinito
Le ragazze che sghignazzano
E mi fan sentire solo
Sì ma cosa son venuto a fare
Ho già un sonno da morire
Va beh, cameriere un altro caffè
Per piacere
Alè tengo il ritmo e ballo con me
Per piacere
Alè tengo il ritmo e ballo con me
Mare, mare, mare
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Avevo voglia di abbracciare tutte quante voi
Ragazze belle del mare, mare,
Mare, mare, mare
Poi lo so
Che torno sempre a naufragare qui
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Avevo voglia di abbracciare tutte quante voi
Ragazze belle del mare, mare,
Mare, mare, mare
Poi lo so
Che torno sempre a naufragare qui
Fonte: LyricFind
Compositori: Luca Carboni / Mauro Malavasi
Testo di Mare mare © Universal Music Publishing Group, Sony/ATV Music Publishing LLC, A.E.P.I.
sabato 25 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 62. Rubare la scena alla sposa
Le nozze di Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini, nel giugno del 1974, furono l'unica occasione in cui tutti i personaggi di questo romanzo (ovviamente quelli all'epoca viventi) si incontrarono di persona e sedettero fianco a fianco nello stesso luogo.
E dunque tali nozze possono essere considerate come il punto in cui le vite "quasi parallele" a cui fa riferimento il titolo, simili a rette in uno spazio geometrico, si incrociarono per poi tornare, lentamente, ma inesorabilmente, ad allontanarsi.
Dal momento che il numero di invitati era decisamente troppo grande per la chiesa di Casemurate o di Pievequinta, gli sposi decisero che la cerimonia si sarebbe tenuta nella basilica di San Mercuriale, nel centro di Forlì, a metà strada tra le residenze delle rispettive famiglie.
Ad officiare la funzione, a fianco del parroco di San Mercuriale, fu chiamato Don Pino Ricci, lo sferico e panciuto parroco di Casemurate, cugino del padre della sposa.
Don Pino era un uomo che ispirava serenità solo a guardarlo: il suo volto roseo e circolare era improntato ad un eterno sorriso. Era noto per una risposta costante e memorabile, ogni volta che un fedele in preda al dolore gli chiedeva dove fosse Dio: <<Dio è ovunque, ma Gesù è qui>>
Per l'Arciprete di Cervia, che faceva le veci dell'Arcivescovo di Ravenna, questa asserzione era al limite dell'eresia, ma la parrocchia di Don Pino rientrava nella Diocesi di Forlì, e dunque "il Don" rispondeva soltanto al Vescovo di Forlì, uomo pragmatico e molto amico del senatore democristiano Leandro Baroni, marito di Caterina Ricci, sorella maggiore di Ettore e quindi cugina dello stesso Don Pino, il quale si considerava, a ragione, in una botte di ferro.
Come il lettore avrà certamente intuito, Forlì è una cittadina piccola e piuttosto noiosa, un posto dove non succede mai niente, a parte qualche mostra di quadri e qualche scossa di terremoto.
Per questo il matrimonio tra Silvia e Francesco, due docenti già noti e apprezzati, con un grande numero di amici e parenti "di peso", tra cui famosi e controversi notabili, "optimates" e personaggi altolocati, divenne, contro le intenzioni degli sposi, un evento mondano che riscosse da parte della popolazione locale un entusiasmo spropositato, manco si trattasse delle nozze del Principe di Galles.
Per l'occasione, i genitori della sposa, Ettore Ricci e Diana Orsini, finsero di andare d'amore e d'accordo, per la prima volta nella vita.
Si rivolgevano persino qualche sorriso accompagnato da un monosillabo, non molto, ma era già qualcosa.
I genitori dello sposo spiccavano per la loro altezza e distinzione: Romano Monterovere era alto due metri e sua moglie Giulia Lanni era molto longilinea, benché la sua bellezza apparisse debilitata dalla malattia cardiaca che di lì a due anni l'avrebbe portata precocemente alla tomba.
Romano Monterovere, integer vitae scelerisque purus, sembrava un tedesco di "pura razza ariana", con quegli occhi azzurri, quei capelli d'oro e avorio e quello sguardo severo alla Rommel che incuteva timore reverenziale.
Le due consuocere Diana Orsini e Giulia Lanni si conobbero per la prima volta e ahimè anche ultima volta, e scoprirono di essere stranamente simili, sia nel fisico che nel carattere.
C'erano anche le tre nonne ultranovantenni degli sposi: la maestra Clara Torricelli vedova Ricci, la contessa madre Emilia Orsini, nata de' Calboli, e la matriarca Eleonora Bonaccorsi Monterovere, che in quel contesto ritenne opportuno rispolverare il feudo perduto, presentandosi come Contessa di Querciagrossa e di Pavullo nel Frignano.
Queste tre dame rinsecchite, ingioiellate, con ampi cappelli piumati e ghirigori di pizzo bianco, ricordavano la buonanima della "queen Mary" di Teck (moglie di Giorgio V e nonna di Elisabetta II), e pertanto sembravano l'ultimo, antichissimo residuo della Belle Epoque: rimanenze di un'età conclusa da molto tempo, e che tuttavia persisteva, ostinata, nel non voler morire.
Seguiva la sorella minore di donna Eleonora, ossia Valentina Bassi-Pallai, nata Bonaccorsi, col marito Carlomanno e le figlie Berta e Fernanda. I Bassi-Pallai erano tutti soci di peso della premiata ditta Fratelli Monterovere, un dettaglio che avrà un notevole peso negli eventi futuri di questa narrazione.
Giulia Lanni Monterovere, molto emozionata, accompagnò all'altare il figlio Francesco.
La sposa si fece aspettare il classico quarto d'ora e poi fece il suo ingesso, deludendo tutti per il minimalismo e la sobrietà del suo abito da sposa.
Ettore Ricci, con aria seccata e la lingua tra i denti (immortalata per l'eternità dal fotografo) fece la stessa cosa con sua figlia Silvia, lanciando occhiate minacciose a destra e a manca.
L'abito di Silvia, per quanto minimalista, era comunque molto elegante.
Purtroppo tale sobrietà non apparteneva alla grande maggioranza delle invitate.
Esiste una regola ferrea, riguardo a come vestirsi ai matrimoni: non bisogna rubare la scena agli sposi, e in particolare le invitate non devono rubare la scena alla sposa.
Ebbene, le numerose fotografie che hanno immortalato quel giorno memorabile mostrano senza ombra di dubbio che mai, in tutta la storia, la regola del "non rubare la scena alla sposa" fu violata in maniera così plateale.
Certo gli Anni Settanta non erano sobri, ma quella cerimonia involontariamente barocca andò molto oltre.
Come c'era da aspettarsi, colei che più di ogni altra invitata attirò su di sé l'attenzione, anche se in maniera ridicola e a tratti esilarante, fu l'ultraottantenne Signorina Mariucca De' Toschi, la cui mise tutta fiocchi, balze, gioielli e boccoli, unita alla sua imponente e massiccia bruttezza, ricordava, per gli intenditori, quella di Sua Altezza Reale Anna Maria Luisa di Borbone-Orleans, Duchessa di Montpensier, meglio conosciuta, nella Versailles di Luigi XIV, come La Grande Mademoiselle.
A pensarci bene, la Signorina De Toschi era in tutto e per tutto la reincarnazione della Grande Mademoiselle de Montpensier.
Ma non fu l'unica ad esibire uno sfarzo degno del più esuberante barocco.
Infatti, il secondo posto in ordine di vistosità, fu il look di Anita Monterovere, zia dello sposo, anche lei zitella e nel contempo ninfomane, animatrice di salotti e personalità istrionica con evidente disturbo narcisistico della personalità-
Anita detestava la sposa e dunque la sua scelta di rubarle la scena fu doppiamente colpevole.
Si presentò completamente vestita di nero (per sottolineare la luttuosità rappresentata per lei da quell'evento), con un cappello a veletta sopra una tinta di capelli rosso fuoco catarifrangente, occhiali da sole oblunghi e puntati verso l'alto, tenuti anche in chiesa, pelliccia ottenuta sterminando l'intera popolazione dei visoni della Siberia, sigaretta con bocchino d'avorio, perennemente accesa, calze a rete nere, scarpe nere a punta con tacco 14.
Ma lo spettacolo più impressionante derivò dalle sorelle e dai fratelli di Ettore Ricci.
La più grande, Caterina, moglie del Senatore Baroni, sembrava un incrocio tra Mina, Milva e Iva Zanicchi.
La seconda, Carolina, vedova del Conte Gagni di Montescuto, indossava una tiara di diamanti e smeraldi con collier, orecchini e anelli in coordinato,
Ma era nulla rispetto a ciò che segue.
La terza, Adriana Ricci diede scandalo vestendosi da uomo.
I due fratelli di Ettore riuscirono a fare anche peggio.
Aristide indossò un tight con tuba che sarebbe stato considerato eccessivo anche al Royal Ascot.
L'altro fratello, il ruvido e burbero Alberico, che per principio faceva tutto il contrario di quel che erano le convenzioni, sembrava un barbone.
La quarta ed ultima sorella, Maria Teresa, era ancor più sferica di Don Pino, ed era tutta impegnata a tenere a bada il marito, l'ex commissario in pensione Onofrio Tartaglia, che cercava di sedurre ogni donna al di sotto dei trent'anni, comprese le minorenni.
I figli di Maria Teresa erano un'attrazione da circo: enorme e impassibile, Arido occupava una panca intera. Magrissima e tignosa, con gli occhi fissi e il naso a becco.
Aurelia sembrava un barbagianni e suo marito, l'ufficiale sardo Augusto Vermis, era calvo, basso e rotondo nel viso e nella pancia, ma i suoi occhi libidinosi tradivano una rapacità sessuale di non poco conto.
L'unica bella e maestosa, Viviana, mostrava con orgoglio il fidanzato cavaliere Piercarlo Maria Zampetti, ricco imprenditore della zona.
Infine, vistosamente incinta, Virginia copriva interamente il magrissimo marito, ingegner Lando Landini.
Passando momentaneamente al "lato nobile della famiglia", un posto di primo piano era ricoperto Ginevra Orsini e da suo marito, il giudice Guglielmo De Gubernatis.
Ginevra aveva un fascino simile a quello di sua sorella Diana, ma al contrario di lei aveva i capelli rossi e gli occhi verdi, come la madre, e aveva assunto, col tempo, un portamento rigido e solenne, tipico delle dame dell'alta società impegnate in opere filantropiche per far dimenticare gli scandali di famiglia (suo marito aveva infatti avuto un figlio dalla segretaria, ma di questo si parlerà in uno dei capitoli successivi)
Le figlie gemelle di Ginevra Orsini e del giudice De Gubernatis occupavano a loro volta un ruolo di spicco nella "crème de la crème" forlivese.
Elisabetta sembrava la sosia di Jackie Kennedy durante il matrimonio con Onassis.
La sua felicità era ben motivata: finalmente era riuscita nel suo decennale obiettivo, ossia fidanzarsi con Massimo Braghiri, il quale, a trentacinque anni, aveva già i capelli bianchi, dovuti allo stress derivante dalla sconfitta nei tentativi di impalmare Silvia Ricci-Orsini. Ma già la sua mente tramava una vendetta implacabile, che era destinata ad avverarsi in tutti i minimi dettagli.
L'altra gemella, Anna si era fatta le meches, ma a catturare l'attenzione fu suo marito, Adriano Trombatore, il Sommo Poeta, che per l'occasione sfoggiava un vero look bohémienne: capelli lunghi e scompigliati alla Beethoven, cappello floscio alla Goethe, pipa, mantello alla Sherlock Holmes, sciarpa di seta alla Oscar Wilde, giacca di velluto marrone, un'ombra di barba di tre giorni, pantaloni bordeaux, stivali neri lucidi, panciotto di satin verde pisello con orologio d'oro da taschino, sul cui coperchio era inciso in corsivo il motto di famiglia: "De Bono et Malo".
Fortunatamente i testimoni, le damigelle e i paggetti riuscirono a contenere il loro estro.
Testimoni dello sposo erano suo fratello Lorenzo, ricercatore universitario, e suo cognato Ludovico Lamoni, marito di Enrichetta, la quale era perennemente occupata a tenere a bada i due figli fin troppo esuberanti
Testimoni della sposa erano i cognati, Amilcare Spreti di Serachieda, marito di Margherita Ricci-Orsini e Silvio Zanetti Protonotari Campi, marito di Isabella Ricci-Orsini.
La loro aria compunta sembrava quasi voler dire addio ad un terzo dell'eredità di Ettore Ricci.
Ida Braghiri, suo marito Michele e i loro numerosi figli e nipoti, erano tutti lividi per l'invidia e pareva che già tramassero qualcosa per rovinare la festa.
Ma la vera attrazione erano i pezzi grossi: molti imboscati, infatti, erano accorsi più che altro per incontrare di persona i notabili.
Il Senatore Baroni, andreottiano, complottava trame politiche col Vice-Preside Prof. Priamo Marchesi, eminente doroteo, col sottosegretario De Angelis, socialista e con l'assessore Edoardo Monterovere, comunista (di cui furono molto apprezzate la moglie e le figlie, di una bellezza dal sapor mediorientale) insieme al Presidente del Rotary Club, Everardo Rocca Rossellino, liberale di vecchio stampo, e all'Avvocato Altiero Oddi Ruspanti, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone, che ricordava Marlon Brando nella parte di Don Vito Corleone.
Inutile dire che fu un gran giorno.
Fu anche l'inizio di un matrimonio d'amore, molto ben riuscito, ma destinato a dover affrontare troppe avversità e una sciagura inenarrabile, ossia un figlio totalmente inadeguato alle grandissime aspettative nutrite nei suoi confronti da due intere dinastie.
martedì 21 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 61. Molti difetti in comune
Quando Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere ufficializzarono il proprio fidanzamento, il prof. Piero Giovannelli rimase di sasso.
<<Ma quindi fate sul serio? Voglio dire, intendete proprio sposarvi?>>
I neo-fidanzati confermarono.
Giovannelli scosse il capo, sinceramente costernato.
Per quanto avesse da molti anni una relazione con la professoressa Gatti, era contrarissimo ad ogni forma di convivenza, e più che mai al matrimonio, che definiva senza mezzi termini "un salto nel buio".
Nel caso concreto di Silvia e Francesco, poi, si aggiungevano ragioni oggettivamente fondate, che sarebbero apparse chiare anche a loro, se non fossero stati innamorati.
<<Io mi sento in colpa>> disse Giovannelli sconcertato <<Se avessi anche solo lontanamente immaginato le conseguenze, non vi avrei mai fatti conoscere!>>
Francesco si accigliò:
<<Ma di cosa stai parlando?>>
Silvia intervenne:
<<Piero non crede nel matrimonio in generale e tanto meno nel nostro caso, visto che le nostre famiglie, fino a poco fa, si odiavano>>
Giovannelli però non era soddisfatto di quella risposta:
<<Magari fosse solo per quello! Anzi! Per me è stata proprio l'opposizione alle vostre famiglie la cosa che vi ha fatto sentire uniti... ma adesso che la Guerra delle Due Rose si è momentaneamente fermata, dovreste cercare di ritornare con i piedi per terra e ragionare un po' anche con la testa.
Non offendetevi, io vi invito a riflettere su cosa vi unisce... ascoltatemi... è un discorso serio: non vi siete resi conto che le cose che avete in comune sono solo i punti deboli? Pensateci bene!>>
Detto questo fuggì via, prima che Francesco potesse esplodere in uno dei suoi temibili attacchi di rabbia.
<<Ma come si permette?>>
Silvia cercò di placare il fidanzato:
<< Ah, non farci caso, Piero è fatto così, a volte non riesce a frenare la lingua, ma non è per cattiveria. In fondo è stato lui a farci conoscere. Ha paura di sentirsi in colpa se tra noi le cose non dovessero andar bene>>
Francesco era perplesso:
<<E perché mai non dovrebbero andar bene?>>
Silvia scrollò le spalle:
<<E infatti andranno benissimo, e glielo dimostreremo, ma con lui bisogna aver pazienza, e poi... sai, è una di quelle persone che hanno un certo seguito, da queste parti. E' meglio non averlo come nemico>>
Su quel punto anche Francesco era d'accordo:
<<Sì, hai ragione. Però come si fa a dire delle cose del genere... che abbiamo in comune solo i difetti!
E poi quali sarebbero questi difetti in comune? Avrei voluto che ci facesse qualche esempio, tanto per capire se aveva degli argomenti concreti o solo dei pregiudizi>>
In effetti era una domanda interessante.
Silvia ci pensò, passandosi una mano nei capelli, che all'epoca erano lunghi e mossi, come tutti quelli delle donne degli Anni Settanta.
<<Magari siamo un po' ansiosi. Tu che ne dici?>>
Lui piegò le labbra all'ingiù, in espressione dubitativa:
<<Mah, va be', forse un po', ma in fondo, chi non lo è, al giorno d'oggi, con tutte queste cose che succedono, questo ritmo frenetico in un mondo meccanizzato che non è più a misura d'uomo>>
E da lì nacque tutto un discorso filosofico di profonda critica verso la società dei consumi, espresso tuttavia, va detto per onestà, da una persona che era perseguitata dalle rate da pagare per la macchina nuova, l'impianto stereo, la cinepresa, il proiettore, la macchina fotografica ultimo modello e altre simili amenità.
Silvia aveva già intuito quelle contraddizioni, ma non aveva dato loro troppa importanza, perché in fondo le aveva riconosciute anche in se stessa.
<<Forse non abbiamo molto senso pratico...>> disse Silvia, riconducendo il discorso nell'alveo iniziale.
Lui lo sapeva benissimo, ma cercò nuovamente di svicolare:
<<Ma anche questo dipende dal fatto che certe cose non ci sono state insegnate, perché del resto anche certi mestieri stanno scomparendo, nella società tecnologica.
In fondo perché imparare a fare cose che possono essere replicate con maggiore precisione da una macchina? A questo proposito aveva già detto tutto Walter Benjamin ne L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità...>>
E anche qui Francesco si perse in una digressione profondamente intellettualistica, ma in fin dei conti poco pertinente con il discorso principale.
Ma Silvia, con altrettante ostinazione, tornò, come si direbbe adesso "on topic":
<<Magari a volte ci lasciamo prendere un po' dalla malinconia, o da una visione pessimistica della realtà. Siamo ipercritici, bisogna ammetterlo>>
Francesco inarcò le sopracciglia:
<<Ma questo succede perché siamo persone di intelligenza superiore: è chiaro che vediamo tutto con più chiarezza e profondità, ne individuiamo subito i punti deboli, la maglia rotta nella rete, il punto morto del mondo, l'anello che non tiene. E' quello che, come tu ben sai, Montale chiamava il male di vivere. Del resto, la felicità è il premio di consolazione degli idioti. Soltanto un idiota può essere felice di fronte alle palesi ingiustizie di questo mondo, alla crudeltà dell'esistenza, alla spaventosa sorte del vivere>>
Silvia fu colta da un dubbio:
<<Ma se questa è la nostra idea della vita e del mondo, come possiamo pensare di fare un figlio?>>
Francesco fu colto di sorpresa:
<<Un figlio? Ma io ne voglio almeno dieci!>>
A lei venne da ridere:
<<Ah, ah, te lo scordi! E poi scusa, oltre che essere un pensiero velleitario, non lo trovi contraddittorio con quello che hai detto prima?>>
Lui scrollò le spalle:
<<Ma noi offriremo ai nostri figli il meglio del meglio! Non commetteremo gli errori dei nostri genitori... l'abbiamo detto tante volte! I nostri figli avranno tutto quello che a noi è stato negato. Ti posso garantire che avranno tutto il sostegno necessario per diventare forti e capaci di difendersi dai colpi della vita>>
Silvia sospirò:
<<Certo, certo, le nostre intenzioni sono le migliori, e ce la metteremo tutta, ma a volte tutto questo non è sufficiente>>
Francesco la fissò con aria severa:
<<Si tratta di casi rari. Non vedo perché dovrebbe capitare proprio a noi!>>
Lei socchiuse gli occhi, come per cercare dentro di sé una risposta che non urtasse i sentimenti del fidanzato:
<<Non so, hai presente quando ci si sposa tra cugini o consanguinei c'è il rischio che nascano figli menomati.
No, non ridere, ha un senso quello che dico...
Il fatto è che, a prescindere dai pregi e dai difetti, noi ci somigliamo troppo, abbiamo troppe cose insieme, sembriamo davvero parenti di sangue.
I nostri genitori si somigliano moltissimo tra loro, le nostre madri sono quasi identiche, sia nel corpo che nell'anima, o nel carattere, nel temperamento>>
Lui sorrise:
<<Ma è proprio per questo che siamo anime gemelle! Siamo simili pur senza essere consanguinei, e quindi non c'è nulla da temere, perché, come ho detto, siamo gemelli nell'anima, e soltanto nell'anima!
Non devi dare ascolto a gente come Piero Giovannelli, che in fondo ha di noi soltanto una conoscenza superficiale.
Dobbiamo concentrarci solo su noi stessi, sul fatto che vogliamo le stesse cose e questo garantirà equilibrio ed armonia alla nostra unione>>
Anche Silvia sorrise:
<<Hai ragione. Perdonami per tutte le mie paure.
Derivano da quello che è successo a mia madre, a sua sorella, a suo fratello, e anche all'uomo che amava. Un uomo che non era mio padre.
C'è stato così tanto dolore, ed io sono nata nel dolore.
E' un'ombra che mi porto dietro da tutta la vita, senza mai parlarne con nessuno, anche se tutti ne parlano alle mie spalle>>
Lui la abbracciò:
<<Non preoccuparti, noi fonderemo una nuova famiglia, tutta nostra, e i fantasmi del passato non ci inseguiranno>>
Lei si strinse nell'abbraccio, tremando:
<<Non sono fantasmi. Mio padre ha molti nemici ed io sono sempre stata il loro bersaglio. Io e tutti coloro che amo. Se la prenderanno con te e con i nostri figli. E' gente disposta a tutto, e non ci lasceranno mai in pace>>
Francesco aveva incominciato a rendersene conto, ma non aveva ancora compreso l'intensità dell'odio di questi nemici:
<<Sappiamo difenderci, e ci difenderemo!>>
giovedì 16 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 60. Tu, felix Austria, nube!
Molto spesso le guerre del passato si concludevano con un fidanzamento tra gli eredi delle due parti in causa. In alcuni casi, addirittura, le guerre venivano evitate del tutto proprio grazie ad una astuta politica matrimoniale: il caso più clamoroso fu quello di Filippo I d'Asburgo, detto il Bello, della casa d'Austria e Borgogna, e Giovanna di Castiglia, detta la Pazza, erede al trono della casa di Castiglia e d'Aragona. Dalla loro unione, la cui vicenda appassionata e tormentata meriterebbe un romanzo a sé, nacque Carlo V, che dominò su un Impero talmente vasto, nel vecchio e nel nuovo continente, che il sole non vi tramontava mai.
Dai tempi del padre di Filippo, l'imperatore Massimiliano, già Arciduca d'Austria, pare sia stato coniato da Mattia Corvino, re di Boemia d'Ungheria, per stigmatizzare ironicamente l'espansionismo asburgico (che avrebbe poi inglobato anche la corona boema e ungherese) : "Bella gerant alii, tu felix Austria nube" : <<Che gli altri facciano le guerre, tu, fortunata Austria, sposati!>>
Questa strategia era stata seguita anche, se è lecito accostare le grandi vicende a quelle piccole, dagli Orsini di Casemurate, prima con le famose e burrascose nozze di Diana Orsini con Ettore Ricci, poi con quelle delle loro figlie: Margherita con Amilcare Spreti di Serachieda e Isabella con Silvio Zanetti Protonotari Campi.
In tal modo, come sappiamo, il clan Ricci-Orsini, che era già di suo una ragnatela di relazioni tra famiglie influenti, riuscì a far nascere la Società Ricci, Orsini, Spreti e Zanetti, in accomandita semplice, che controllava, oltre al Feudo Orsini, anche tutte le attività economiche della famiglia Ricci e di quelle dei generi del "prode Ettore".
In questo sublime arazzo, però, c'era quella che Montale avrebbe chiamato "una maglia rotta nella rete", "il punto morto del mondo, l'anello che non tiene".
Si trattava, naturalmente, della relazione di Silvia Ricci-Orsini, la figlia ribelle di Ettore e Diana, con Francesco Monterovere, l'erede altrettanto ribelle dei Monterovere di Querciagrossa, i cui interessi economici e politici costituivano una grave minaccia per la Contea di Casemurate.
Si era tentato di tutto per separare i due giovani, ma più si insisteva in quella direzione e più la loro unione si rinsaldava.
A quel punto si decise che era meglio cambiare strategia ed ebbero inizio, segretamente e "col favore delle tenebre", i primi tentativi di arrivare quantomeno ad un un armistizio.
In fondo c'erano margini di trattativa e, messo da parte l'orgoglio, si sarebbe persino potuti arrivare ad un vantaggioso compromesso.
Si tennero dunque degli incontri riservati tra gli "onesti sensali" in rappresentanza delle due famiglie,
Ciò che si dissero era segretissimo, e proprio per questo, nel giro di pochi giorni, tutti lo vennero a sapere.
A Casemurate e dintorni non si parlava d'altro. In ogni punto di ritrovo, le comari formavano assembramenti e bisbigliavano tra loro. La fonte principale, come sempre, era la governante di Villa Orsini, Ida Braghiri, regina del pettegolezzo.
Il luogo era quasi sempre il negozio di alimentari della "donna baffuta", la famosa Lucia Biasoni.
<<Allora, ci sono novità da Villa Orsini?>> chiese, lisciandosi i mustacchi rossicci.
<<Ieri sono venuti tutti i vari parenti che contano: il Senatore Baroni, il giudice De Gubernatis, il commissario Tartaglia e persino la Signorina De Toschi! Da Faenza invece, in rappresentanza, è arrivato l'assessore Edoardo Monterovere, lo zio di Francesco, con alcuni dirigenti del Consorzio di Bonifica e il Sottosegretario ai Lavori Pubblici in persona.
Hanno confabulato per un bel po' di tempo, nello studio di Ettore Ricci.
Era presente anche mio marito Michele>>
Le comari rimasero a bocca aperta, con gli occhi fissi, come grasse oche in attesa del pasto.
<<E allora, cosa si sono detti?>> chiese la Biasoni
<<Sembra che si siano messi d'accordo su un "indennizzo speciale superiore" per le terre di proprietà dei Ricci-Orsini e dei loro soci>>
La Biasoni continuava a tormentarsi i baffi:
<<E cosa vorrebbe dire "indennizzo speciale superiore"?>>
La Braghiri, con le mani sui fianchi, dichiarò:
<<Vuol dire che Ettore incasserà molti più soldi degli altri proprietari. Una montagna di soldi!>>
La Biasoni si strappò un baffo per la rabbia:
<<Insomma, piove sul bagnato!>>
Ida Braghiri annuì:
<<Proprio così! Piove sul bagnato, anzi, strapiove sul bagnato... o per meglio dire, piovono soldi, e soldo chiama soldo... e questo vale anche per il fatto che alla fine, con questo accordo, le famiglie hanno dato il consenso al matrimonio di Silvia con Francesco Monterovere.
I due piccioncini si amano, per il momento, ma i loro parenti hanno sempre guardato le cose in altro modo. Adesso vedono i vantaggi. Un'alleanza commerciale!
I Monterovere diventeranno soci dei Ricci-Orsini, degli Spreti e dei Zanetti.
Un'unica grande famiglia, che vorrebbe controllare un territorio che va da Faenza fino al mare, perché poi vi racconterò anche la storia dei terreni che Ettore ha comprato a Cervia e di quelli che Enrichetta Monterovere ha comprato a Casal Borsetti dopo aver terminato il canale a destra del Reno. Sì, piove proprio sul bagnato, ma la fortuna non può durare in eterno... verrà il giorno in cui Ettore Ricci pagherà per tutti i suoi traffici... mi dispiace solo che il mio Michele si sia legato a gente del genere, ma noi abbiamo le mani pulite, non abbiamo mai preso un centesimo in più rispetto a quello del nostro onesto stipendio >>
Naturalmente era una balla colossale, perché Michele e Ida Braghiri erano i più avidi nella spartizione del bottino, ma la gente credeva a loro, perché si fingevano alfieri del popolo e tribuni della plebe.
Questa serie di notizie gettò il pubblico delle comari nella costernazione.
Avevano sperato di sentire il resoconto di una lite furibonda, magari anche di un'ennesima disgrazia famigliare, e invece si trovavano davanti ad un successo diplomatico che univa l'utile col dilettevole.
La Lucia Biasoni si strappò altri ciuffi dai baffoni da tricheco:
<<Io dico che non potrà durare. E' una nave che sta diventando troppo grande, e sta viaggiando troppo veloce. Presto o tardi finirà contro qualche scoglio e farà naufragio, perché nella vita, prima o poi, si fa sempre naufragio>>
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