Di ritorno dal viaggio di nozze, Silvia e Francesco presero dimora, temporaneamente, a Villa Orsini.
All'epoca l'antica residenza dei Conti di Casemurate ospitava molte persone.
Oltre ai padroni di casa, Ettore Ricci e Diana Orsini, c'erano le loro anziane madri Clara Torricelli vedova Ricci ed Emilia Paolucci de' Calboli, vedova Orsini, e in più la sorella nubile di Ettore, Adriana, la ferrea governante Ida Braghiri con l'astuto marito Michele e spesso erano presenti anche i nipoti di Ettore e Diana, e cioè Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, figli delle sorelle di Silvia.
La convivenza si rivelò subito difficile.
Francesco Monterovere aveva uno stile di vita completamente diverso da quello della famiglia Ricci-Orsini.
Una primissima avvisaglia di questo si ebbe quando Francesco decise di preparare il caffè ai suoceri, dopo pranzo.
Dichiarò di essere un mago nel preparare il caffè e non volle nessuno attorno, nemmeno l'onnipresente Ida Braghiri.
Dopo qualche minuto, una terribile puzza di bruciato si levò da sopra i fornelli.
Francesco si era dimenticato di mettere l'acqua nella caffettiera, che era rovente e affumicata.
Poiché la cosa gli accadeva di frequente, a causa della sua proverbiale distrazione, rimase imperturbabile e tornò in sala da pranzo dicendo:
<<Ho bruciato la caffettiera, ormai è da buttare. Dove posso trovarne un'altra?>>
Ettore Ricci, la cui tirchieria era altrettanto proverbiale, lo fissò con occhi infuocati e poi si rivolse alla figlia in dialetto come faceva sempre quando era infuriato:
<<Ma quest che que, din dad'venal?>> che tradotto significava "Ma questo qui da dove viene?"
Ida Braghiri, trionfante nel vedere le prime crepe dell'immagine reverenziale del Professore, gli prestò con ostentazione la propria caffettiera, premurandosi di osservare da vicino l'imbarazzo generale della situazione.
Il secondo episodio di tensione tra Ettore Ricci e il genero si ebbe quando Francesco portò a Villa Orsini il suo stereo di Faenza.
Lo collocò in uno studiolo vicino all' "ufficio" dove Ettore Ricci esaminava i conti delle sue aziende.
Una scelta più inopportuna di questa era decisamente inimmaginabile, e infatti, quando per la prima volta Francesco decise di ascoltare la marcia trionfale dell'Aida di Verdi a tutto volume,
nel giro di una frazione di secondo, Ettore, imbestialito, si diresse verso lo studiolo bestemmiando pesantemente, ma fu fermato da sua moglie.
Diana Orsini gli disse:
<<Lascia che parli io al Professore>>
Ma Ettore era fuori controllo e come sempre, in quelle situazioni, passò al dialetto:
<<E fa salté vi la ca!>> (Fa saltar via la casa)
E poi, spalancando la porta:
<<Se non spegni quell'accidente di disco, te lo butto dalla finestra! Tu e le tue diavolerie! Come quell'altro aggeggio... come si chiama? Quella macchina che costa un occhio della testa...>>
Francesco, meravigliato, rispose con aria innocente:
<<E' un microprocessore, un Intel 8080. Me lo sono fatto mandare da mio zio Alfredo, che vive in America>>
Ettore sgranò gli occhi:
<<Lo zio Alfredo! L'unico zio d'America che invece di mandare soldi li chiede! Guarda che lo so quanto ti ha fatto spendere per quell'aggeggio. E poi tu e Silvia venite da me a piangere miseria e a battere cassa! Comunque è chiaro che quella macchina non serve a niente, come dice il professore Giovannelli, lui sì che una persona seria!>>
Francesco guardò il suocero sorridendo:
<<Piero Giovannelli è un uomo all'antica. Per il momento i microprocessori sono in fase sperimentale. Ma tra un anno o due faranno miracoli. Potrebbero servire persino a lei>>
Ettore cacciò un'ennesima bestemmia e uscì scuotendo la testa e borbottando tra sé.
Poi incominciarono ad arrivare i volumi rilegati della Grande Enciclopedia De Agostini, con annesse rate di pagamento.
Ettore Ricci all'inizio credette che si trattasse di un errore del postino e lo cacciò in malo modo.
Quando Francesco chiese se era passato qualcuno con il nuovo volume dell'Enciclopedia, Ettore sbiancò:
<<Ma con quelle rate ci potresti pagare un mutuo! E quanti libri sono? E' impossibile leggere così tanti libri!>>
<<L'Enciclopedia non è un libro da leggere, ma da consultare>>
Ettore scosse la testa, sdegnato:
<<Va' là, va' là, va' là!>> bofonchiò e poi passò al dialetto <<Dal robi acsè, me dég a e mond!>>
L'espressione è quasi intraducibile in italiano, perché perderebbe la sua efficacia, volendo dire, più o meno: "Delle cose così non possono esistere al mondo, dico io".
Poi arrivarono le rate della macchina, una Citroen azzurra dalla forma aerodinamica, comprata da Francesco poco prima del matrimonio.
Ettore questa volta andò a protestare direttamente da sua figlia, investendola con un profluvio di parole in dialetto:
<<Cun toti'oman cu i'era a e mond, t'avivta da tu propri quel che lè? Un sgrazié cun al pezi in te cul!>> che tradotto suonava all'incirca: "Con tutti gli uomini che erano al mondo, proprio quello ti dovevi prendere? Un disgraziato con le pezze al culo!"
Silvia era esasperata;
<<Presto ci trasferiremo a Forlì, babbo, così non dovrai più sopportarci>>
Ed Ettore la fulminava con lo sguardo:
<<A Forlì... ma se non avete ancora trovato un appartamento? E con cosa lo pagherete che non avete un centesimo da sbattere nell'altro? Non avete già abbastanza rate che vi mangiano lo stipendio?>>
<<Troveremo un modo, papà. Ma nel frattempo, dobbiamo cercare di convivere in maniera civile>>
Ettore sbuffò e alla fine cedette:
<<Entro giugno vi trovo una casa! Non voglio neanche che mi paghiate l'affitto, basta che vi togliete dai c... una volta per tutte!>>
Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
venerdì 8 maggio 2020
domenica 3 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 64. La Bancaccia
L'Istituto di Credito di fiducia del clan Ricci-Orsini, di cui è saggio e pietoso tacere persino il nome, era chiamato, dagli addetti ai lavori, "la Bancaccia", per alcune sue abitudini non proprio consone ai criteri dell'onestà e dell'efficienza amministrativa, tra cui l'assunzione di soli raccomandati, il prestito conferito a fondo perduto agli amici e ai potenti e l'abitudine di ricorrere, già a quei tempi, al salvataggio pubblico tramite provvidenziali interventi politici.
Il Consiglio di Amministrazione era infatti nominato da alcune Fondazioni le quali a loro volta facevano capo ad alcuni partiti politici molto forti in Romagna: il Partito Repubblicano Italiano, in primis e la Democrazia Cristiana in secundis.
C'era poi anche il Partito Socialista, seppure, all'epoca, non fosse ancora entrato nell'era craxiana, e dunque mantenesse una condizione un po' "troppo di sinistra" agli occhi degli azionisti e dei clienti più in vista, tra i quali Ettore Ricci.
Non a caso il Presidente del Consiglio di Amministrazione era Leandro Baroni, il Senatore democristiano marito di Caterina Ricci, sorella maggiore di Ettore.
L'Amministratore Delegato era il repubblicano Giuseppe Saffi Bargotti, molto amico del giudice De Gubernatis, altro cognato di Ettore, su cui ritorneremo tra poco.
Il direttore generale, Pio Catellani, era un altro notabile democristiano, che poi divenne deputato.
Ma ancor più della politica, contavano le parentele con le famiglie di spicco.
Per questa ragione la triade Baroni, Saffi e Catellani aveva garantito crediti sempre più consistenti alla Società in Accomandita Semplice "Ricci-Orsini, Spreti e Zanetti" che gestiva il Feudo Orsini di Casemurate e le sue dipendenze, che da sole comprendevano più della metà delle terre della Contea di Casemurate e del Comune di Cervia.
C'erano altri possidenti che incominciavano a farsi strada, tra cui un certo Cassio Baglioni, che non era parente cantante, benché millantasse di esserlo e che era anche proprietario di un mulino e di un inceneritore.
C'era anche, tra gli homines novi, altro tizio che rispondeva al nome di Luciano Bastiani, detto "Bastianone", proprietario di un enorme pollaio e di un ancora più enorme porcile. Ma all'epoca questi personaggio erano soltanto dei comprimari.
Il Senatore Baroni e l'Amministratore Saffi avevano fatto assumere come Capo Ufficio Legale della Bancaccia l'avvocato Goffredo De Gubernatis, fratello minore del giudice Gugliemo De Gubernatis, marito fedifrago di Ginevra Orsini e padre di Elisabetta Braghiri e Anna Trombatore, le due terribili gemelle sposate alle lingue biforcute più velenose della città.
Goffredo De Gubernatis, ormai cinquantenne, era noto per le stravaganze del suo carattere.
La sua nomina, per quanto scandalosa, non aveva meravigliato nessuno.
L’Ufficio Legale, infatti, era soprannominato “Ufficio Raccomandati e figli di...”.
In effetti, a ben vedere, tutti i componenti di tale ufficio, potevano vantare un pedegree di una certa importanza, almeno localmente.
Goffredo non era sposato: l’unico grande amore della sua vita erano i cavalli (e secondo le malelingue anche gli stallieri). Quando era morto il suo cavallo prediletto, chiamato modestamente “Carlo Magno”, lo aveva fatto imbalsamare e collocare presso una apposita dependance delle stalle di Villa Orsini.
In ufficio Goffredo De Gubernatis si comportava in modo ambiguo: da un lato ostentava una melensa e fasulla umiltà, si faceva dare del tu e chiamare per nome dai dipendenti, sembrava, tanto che i più ingenui dicevano di lui che era “un così buon uomo!”.
Dall’altro lato però il suo carattere mostrava inquietanti segni di lunaticità e nevrosi, e soprattutto repentini sbalzi d'umore, a metà strada tra il disturbo borderline e quello bipolare.
Alcuni giorni, quando si svegliava euforico, arrivava in ufficio con ritardi imbarazzanti, leggeva tranquillamente il giornale tutta la mattina, si prendeva delle pause-caffè che duravano ore oppure rimaneva come inebetito con lo sguardo perso nel vuoto mentre nel reparto regnava la più assoluta anarchia.
Quando invece era di cattivo umore, cioè quasi sempre, diventava irascibile, dispotico, puntiglioso e provocatorio. Bastava il minimo errore o il più piccolo sgarro di un dipendente per causare drammatiche scenate, crisi isteriche, inquietanti minacce o funeste manie di perfezionismo.
Non era mai arrivato alla rissa soltanto perché sapeva benissimo che, esile com'era, avrebbe senz'altro avuto la peggio.
Una tipica rappresaglia che in quei momenti si dilettava a esercitare sui malcapitati che quel giorno gli stavano particolarmente antipatici era quella di far riscrivere loro i documenti ufficiali più e più volte, cambiando le parole, ma non il senso del discorso.
Se per esempio uno scriveva: «Il cliente si è dimostrato inadempiente», il dott. Papisco gli faceva correggere: «Il cliente ha mostrato inadempienze», ma poteva benissimo accadere il viceversa con un altro dipendente, o magari con lo stesso una volta che avesse apportato la correzione.
I componenti dell’Ufficio Legale, però, si erano abituati a queste stravaganze e non ci facevano quasi più attenzione.
Erano disposti a passar sopra a tutto, purché non li si costringesse a lavorare sul serio.
Ciò sarebbe stato per loro assolutamente inconcepibile.
Per il Vicecapo Ufficio il lavoro in banca era una sorta di “sinecura”: il grosso dei suoi introiti derivava da consulenze esterne a cui dedicava tutto il tempo, comprese le ore di ufficio.
Fortunatamente c’era il giovane e volenteroso dottor Valentini, fanatico giurista, che si faceva carico anche del lavoro degli altri, sia per il gusto di eccellere nella sua materia, sia per una spontanea e talvolta perniciosa energia organizzativa.
Le due raccomandate di ferro erano le signore “Petruzzelli & Baldini”, ironicamente associate come una società commerciale non solo perché amiche e alleate di ferro, ma anche perché i rispettivi mariti, l’ingegner Petruzzelli e il commercialista Baldini, erano soci in affari.
Paola Petruzzelli e Francesca Baldini erano diplomate al liceo classico, non sapevano nulla di questioni di ufficio e tanto meno di questioni legali: a dire il vero non si sapeva neppure quali fossero i loro incarichi e le loro mansioni, e del resto non facevano assolutamente niente, se non spettegolare su tutto e su tutti dalla mattina alla sera.
Fondamentalmente la Petruzzelli e la Baldini fungevano da Gazzetta Ufficiale del Gossip: nulla di ciò che accadeva presso l’alta società cittadina sfuggiva al capillare controllo della rete di amicizie delle due onnipresenti signore.
I loro dialoghi perenni toccavano comunque anche altre “essenziali” questioni.
Paola Petruzzelli, bigotta e conservatrice, era specializzata in argomenti tradizionali come aste di beneficenza, iniziative parrocchiali, ricette di cucina, oroscopi, estrazioni del lotto, teleromanzi, parole crociate.
Francesca Baldini, più progressista, era invece l’ arbitra elegantiarum in fatto di ultime mode, acconciature, vestiario, viaggi, villeggiature e persino rivendicazioni femministe.
Tra la scrivania della Petruzzelli, alla destra rispetto all’ingresso, e quello della Baldini, alla sinistra, c’era il tavolo di lavoro del ragionier Poponi, un ometto basso e grasso sulla cinquantina, trasandato, scarmigliato, distratto, volenteroso lavoratore, ma mediocre e pasticcione.
Scribacchiava continuamente scarabocchi incomprensibili su polverosi registri e fogliacci semiaccartocciati e macchiati, che tentava poi di ricopiare con la macchina da scrivere, sbagliando continuamente e borbottando tra sé.
Non parlava molto: di lui si sapeva che aveva una famiglia numerosa e problematica, con una moglie gelosissima, una suocera terribile, due cognate nubili a carico e cinque figlie una più brutta e antipatica dell’altra. Insomma, una specie di Belluca della novella "Il treno ha fischiato" di Luigi Pirandello.
Altro personaggio che faceva parte per se stesso era il geometra Cipressi: uomo alto, magro, riservatissimo, taciturno al punto da apparire muto, pareva sempre immerso in qualche fondamentale questione di lavoro, anche se nessuno avrebbe saputo dire esattamente quali pratiche stesse seguendo.
Neppure il Capo ufficio Goffredo Papisco riusciva a svelare il mistero che circondava il geometra Cipressi: quando gli chiedeva di cosa si stesse occupando, Cipressi era evasivo, cupo, terreo, quasi sdegnato. Se veniva messo alle strette, si chiudeva in un ostinato mutismo, interrotto solo da vaghe allusioni a un suo carissimo amico, ex attendente del generale De Toschi. Al che, ogni questione subito si stemperava in un nulla di fatto.
Questa situazione da Castello kafkiano era tenuta in piedi dal solo ed esclusivo collante dell'alleanza politica, economica e familiare tra i vari partiti politici e i principali esponenti delle famiglie di spicco dell'alta società forlivese, che trovava il suo vertice nel clan Ricci-Orsini.
Eppure c'era un anello debole, ed era proprio Goffredo De Gubernatis, che nascondeva un segreto talmente imbarazzante che non aveva mai confidato a nessuno. Anche questo giocò un ruolo determinante, quando il castello di carta del clan Ricci-Orsini incominciò a traballare, perché a questo mondo esiste una regola aurea: niente è eterno e niente è indistruttibile.
Bisogna solo avere pazienza e fare di tutto per sopravvivere così a lungo da vedere il crepuscolo degli dei.
Per gli invidiosi la pazienza e la sopravvivenza sono sempre le due alleate fondamentali, ma restano comunque aperti alcuni quesiti. Primo: ne vale la pena? Secondo: cos'è la sopravvivenza se si è perduta l'integrità? Terzo: possono davvero bastare queste motivazioni, in mancanza di un nobile scopo?
Da lungo tempo Diana Orsini, che pure non nutriva risentimento per tutto il dolore che Ettore le aveva causato, si era data un'unica risposta: senza un nobile scopo che dia un senso alla nostra sopravvivenza, noi non siamo niente.
Il Consiglio di Amministrazione era infatti nominato da alcune Fondazioni le quali a loro volta facevano capo ad alcuni partiti politici molto forti in Romagna: il Partito Repubblicano Italiano, in primis e la Democrazia Cristiana in secundis.
C'era poi anche il Partito Socialista, seppure, all'epoca, non fosse ancora entrato nell'era craxiana, e dunque mantenesse una condizione un po' "troppo di sinistra" agli occhi degli azionisti e dei clienti più in vista, tra i quali Ettore Ricci.
Non a caso il Presidente del Consiglio di Amministrazione era Leandro Baroni, il Senatore democristiano marito di Caterina Ricci, sorella maggiore di Ettore.
L'Amministratore Delegato era il repubblicano Giuseppe Saffi Bargotti, molto amico del giudice De Gubernatis, altro cognato di Ettore, su cui ritorneremo tra poco.
Il direttore generale, Pio Catellani, era un altro notabile democristiano, che poi divenne deputato.
Ma ancor più della politica, contavano le parentele con le famiglie di spicco.
Per questa ragione la triade Baroni, Saffi e Catellani aveva garantito crediti sempre più consistenti alla Società in Accomandita Semplice "Ricci-Orsini, Spreti e Zanetti" che gestiva il Feudo Orsini di Casemurate e le sue dipendenze, che da sole comprendevano più della metà delle terre della Contea di Casemurate e del Comune di Cervia.
C'erano altri possidenti che incominciavano a farsi strada, tra cui un certo Cassio Baglioni, che non era parente cantante, benché millantasse di esserlo e che era anche proprietario di un mulino e di un inceneritore.
C'era anche, tra gli homines novi, altro tizio che rispondeva al nome di Luciano Bastiani, detto "Bastianone", proprietario di un enorme pollaio e di un ancora più enorme porcile. Ma all'epoca questi personaggio erano soltanto dei comprimari.
Il Senatore Baroni e l'Amministratore Saffi avevano fatto assumere come Capo Ufficio Legale della Bancaccia l'avvocato Goffredo De Gubernatis, fratello minore del giudice Gugliemo De Gubernatis, marito fedifrago di Ginevra Orsini e padre di Elisabetta Braghiri e Anna Trombatore, le due terribili gemelle sposate alle lingue biforcute più velenose della città.
Goffredo De Gubernatis, ormai cinquantenne, era noto per le stravaganze del suo carattere.
La sua nomina, per quanto scandalosa, non aveva meravigliato nessuno.
L’Ufficio Legale, infatti, era soprannominato “Ufficio Raccomandati e figli di...”.
In effetti, a ben vedere, tutti i componenti di tale ufficio, potevano vantare un pedegree di una certa importanza, almeno localmente.
Goffredo non era sposato: l’unico grande amore della sua vita erano i cavalli (e secondo le malelingue anche gli stallieri). Quando era morto il suo cavallo prediletto, chiamato modestamente “Carlo Magno”, lo aveva fatto imbalsamare e collocare presso una apposita dependance delle stalle di Villa Orsini.
In ufficio Goffredo De Gubernatis si comportava in modo ambiguo: da un lato ostentava una melensa e fasulla umiltà, si faceva dare del tu e chiamare per nome dai dipendenti, sembrava, tanto che i più ingenui dicevano di lui che era “un così buon uomo!”.
Dall’altro lato però il suo carattere mostrava inquietanti segni di lunaticità e nevrosi, e soprattutto repentini sbalzi d'umore, a metà strada tra il disturbo borderline e quello bipolare.
Alcuni giorni, quando si svegliava euforico, arrivava in ufficio con ritardi imbarazzanti, leggeva tranquillamente il giornale tutta la mattina, si prendeva delle pause-caffè che duravano ore oppure rimaneva come inebetito con lo sguardo perso nel vuoto mentre nel reparto regnava la più assoluta anarchia.
Quando invece era di cattivo umore, cioè quasi sempre, diventava irascibile, dispotico, puntiglioso e provocatorio. Bastava il minimo errore o il più piccolo sgarro di un dipendente per causare drammatiche scenate, crisi isteriche, inquietanti minacce o funeste manie di perfezionismo.
Non era mai arrivato alla rissa soltanto perché sapeva benissimo che, esile com'era, avrebbe senz'altro avuto la peggio.
Una tipica rappresaglia che in quei momenti si dilettava a esercitare sui malcapitati che quel giorno gli stavano particolarmente antipatici era quella di far riscrivere loro i documenti ufficiali più e più volte, cambiando le parole, ma non il senso del discorso.
Se per esempio uno scriveva: «Il cliente si è dimostrato inadempiente», il dott. Papisco gli faceva correggere: «Il cliente ha mostrato inadempienze», ma poteva benissimo accadere il viceversa con un altro dipendente, o magari con lo stesso una volta che avesse apportato la correzione.
I componenti dell’Ufficio Legale, però, si erano abituati a queste stravaganze e non ci facevano quasi più attenzione.
Erano disposti a passar sopra a tutto, purché non li si costringesse a lavorare sul serio.
Ciò sarebbe stato per loro assolutamente inconcepibile.
Per il Vicecapo Ufficio il lavoro in banca era una sorta di “sinecura”: il grosso dei suoi introiti derivava da consulenze esterne a cui dedicava tutto il tempo, comprese le ore di ufficio.
Fortunatamente c’era il giovane e volenteroso dottor Valentini, fanatico giurista, che si faceva carico anche del lavoro degli altri, sia per il gusto di eccellere nella sua materia, sia per una spontanea e talvolta perniciosa energia organizzativa.
Le due raccomandate di ferro erano le signore “Petruzzelli & Baldini”, ironicamente associate come una società commerciale non solo perché amiche e alleate di ferro, ma anche perché i rispettivi mariti, l’ingegner Petruzzelli e il commercialista Baldini, erano soci in affari.
Paola Petruzzelli e Francesca Baldini erano diplomate al liceo classico, non sapevano nulla di questioni di ufficio e tanto meno di questioni legali: a dire il vero non si sapeva neppure quali fossero i loro incarichi e le loro mansioni, e del resto non facevano assolutamente niente, se non spettegolare su tutto e su tutti dalla mattina alla sera.
Fondamentalmente la Petruzzelli e la Baldini fungevano da Gazzetta Ufficiale del Gossip: nulla di ciò che accadeva presso l’alta società cittadina sfuggiva al capillare controllo della rete di amicizie delle due onnipresenti signore.
I loro dialoghi perenni toccavano comunque anche altre “essenziali” questioni.
Paola Petruzzelli, bigotta e conservatrice, era specializzata in argomenti tradizionali come aste di beneficenza, iniziative parrocchiali, ricette di cucina, oroscopi, estrazioni del lotto, teleromanzi, parole crociate.
Francesca Baldini, più progressista, era invece l’ arbitra elegantiarum in fatto di ultime mode, acconciature, vestiario, viaggi, villeggiature e persino rivendicazioni femministe.
Tra la scrivania della Petruzzelli, alla destra rispetto all’ingresso, e quello della Baldini, alla sinistra, c’era il tavolo di lavoro del ragionier Poponi, un ometto basso e grasso sulla cinquantina, trasandato, scarmigliato, distratto, volenteroso lavoratore, ma mediocre e pasticcione.
Scribacchiava continuamente scarabocchi incomprensibili su polverosi registri e fogliacci semiaccartocciati e macchiati, che tentava poi di ricopiare con la macchina da scrivere, sbagliando continuamente e borbottando tra sé.
Non parlava molto: di lui si sapeva che aveva una famiglia numerosa e problematica, con una moglie gelosissima, una suocera terribile, due cognate nubili a carico e cinque figlie una più brutta e antipatica dell’altra. Insomma, una specie di Belluca della novella "Il treno ha fischiato" di Luigi Pirandello.
Altro personaggio che faceva parte per se stesso era il geometra Cipressi: uomo alto, magro, riservatissimo, taciturno al punto da apparire muto, pareva sempre immerso in qualche fondamentale questione di lavoro, anche se nessuno avrebbe saputo dire esattamente quali pratiche stesse seguendo.
Neppure il Capo ufficio Goffredo Papisco riusciva a svelare il mistero che circondava il geometra Cipressi: quando gli chiedeva di cosa si stesse occupando, Cipressi era evasivo, cupo, terreo, quasi sdegnato. Se veniva messo alle strette, si chiudeva in un ostinato mutismo, interrotto solo da vaghe allusioni a un suo carissimo amico, ex attendente del generale De Toschi. Al che, ogni questione subito si stemperava in un nulla di fatto.
Questa situazione da Castello kafkiano era tenuta in piedi dal solo ed esclusivo collante dell'alleanza politica, economica e familiare tra i vari partiti politici e i principali esponenti delle famiglie di spicco dell'alta società forlivese, che trovava il suo vertice nel clan Ricci-Orsini.
Eppure c'era un anello debole, ed era proprio Goffredo De Gubernatis, che nascondeva un segreto talmente imbarazzante che non aveva mai confidato a nessuno. Anche questo giocò un ruolo determinante, quando il castello di carta del clan Ricci-Orsini incominciò a traballare, perché a questo mondo esiste una regola aurea: niente è eterno e niente è indistruttibile.
Bisogna solo avere pazienza e fare di tutto per sopravvivere così a lungo da vedere il crepuscolo degli dei.
Per gli invidiosi la pazienza e la sopravvivenza sono sempre le due alleate fondamentali, ma restano comunque aperti alcuni quesiti. Primo: ne vale la pena? Secondo: cos'è la sopravvivenza se si è perduta l'integrità? Terzo: possono davvero bastare queste motivazioni, in mancanza di un nobile scopo?
Da lungo tempo Diana Orsini, che pure non nutriva risentimento per tutto il dolore che Ettore le aveva causato, si era data un'unica risposta: senza un nobile scopo che dia un senso alla nostra sopravvivenza, noi non siamo niente.
venerdì 1 maggio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 63. Mare mare mare
Mentre Silvia e Francesco erano in viaggio di nozze, la famiglia Ricci-Orsini continuava a espandere la propria ricchezza e il proprio potere, e con essa le terre, gli alleati e purtroppo anche i nemici.
In particolare, Ettore Ricci era riuscito a mettere a segno un colpo a cui mirava da tempo, e cioè l'estensione del Feudo Orsini verso la costa, in direzione di Cervia.
Da tempo la Contea di Casemurate ambiva ad uno "sbocco al mare", e il porto turistico cervese, con le sue spiagge e le sue meravigliose saline, era un gioiello di rara bellezza, incastonato al centro della riviera romagnola.
La "conquista di Cervia" da parte dei Ricci-Orsini avvenne in maniera astuta, per mezzo di una serie di eventi fortuiti.
Il tutto ebbe inizio quando il potente vicepreside dell'Istituto Tecnico Industriale di Forlì, prof. Primo Marchesi, dirigente locale della Dc, venne a sapere, in seguito ad una soffiata da parte del suo fedelissimo alleato di partito, Pio Catellani, direttore provinciale di una banca di cui è pietoso e saggio tacere persino il nome (ci limiteremo a chiamarla, nei capitoli successivi, "la Bancaccia"), che il Comune di Cervia aveva intenzione di costruire una strada confiscando una porzione significativa dell'ampio terreno antistante la decrepita casa di villeggiatura appartenente da generazioni alla famiglia Marchesi.
Tale strada avrebbe dovuto collegare la via Milazzo con la via Giove, incrociandole entrambe ad angolo retto e sbucando proprio davanti a Villa Marchesi, il che era già di per sé intollerabile per il Vice-Preside prof. Primo.
Ma la cosa più oltraggiosa, imputabile senza dubbio alla giunta di sinistra, era che l'indennizzo era stato preventivato a livelli risibili,
Priamo Marchesi non aveva influenza politica da quelle parti, per cui l'unico modo di scampare a quel sopruso era vendere quel terreno a un prezzo di mercato a qualche ingenuo e disinformato pollo disposto a lasciarsi spennare.
Non poteva però ricorrere ad agenzie o a mezzi troppo vistosi per trovare il pollo di cui sopra, pertanto decise di rivolgersi al suo mentore politico, il potentissimo Senatore Leandro Baroni, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone e Grand'Ufficiale al merito della Repubblica Italiana, il quale promise di interessarsi della faccenda.
Il senatore Baroni, però, aveva informatori migliori, e dunque venne a conoscenza del fatto che il Comune di Cervia aveva deciso di accantonare quel progetto, dal momento che, in fin dei conti, quella strada era del tutto inutile.
E qui viene il bello (si fa per dire).
Il Senatore, infatti, non riferì al Vicepreside ciò che aveva appreso, perché c'era un altro suo alleato, molto più importante, che avrebbe tratto profitto da quell'informazione.
Questo non dovrebbe stupirci e forse nemmeno indignarci più di tanto, perché si tratta di un fenomeno molto diffuso nel Bel Paese, anche tra i cosiddetti "probiviri" e non solo a quei tempi.
C'era e c'è tutt'ora una regola fondamentale che contraddistingue gli Italiani più di ogni altro popolo: la famiglia prima di tutto.
E per famiglia si intende qualcosa di ampio e allargato, senza necessariamente tirare in ballo la mafia, dal momento che i rapporti di parentela erano l'asse portante di un tutto che non implicava necessariamente atti illegali, almeno non sempre.
Per questo il Senatore preferì comunicare il tutto al suo potentissimo cognato, il nostro Ettore Ricci, che da tempo, come si è detto, cercava "uno sbocco al mare" per la Contea di Casemurate.
E tenuto conto che la strada principale di Casemurate era ed è ancor oggi la Cervese, la località balneare di Cervia era il luogo naturale verso cui espandersi.
Appena Ettore fu informato, prese subito in mano la situazione e la gestì da par suo.
Gli affari, per riuscire bene, richiedono una certa accortezza.
Quando si ha la fama di affarista, è meglio non trattare in prima persona, perché la controparte potrebbe sentire subito odore di fregatura.
Ettore incaricò dunque il suo principale prestanome, Michele Braghiri, affinché si occupasse della questione.
L'unico errore di Ettore, che però si sarebbe manifestato solo molti anni dopo, era quello di aver riposto in Michele troppa fiducia, senza riconoscere in lui il veleno dell'invidia.
Ma in quegli anni il vecchio Braghiri era ancora lontano dal realizzare il suo segreto disegno di vendetta, per cui i patti sarebbero stati rispettati.
Una volta che ci fosse stato il trasferimento di proprietà, sarebbe poi seguita una successiva donazione a beneficio di Ricci, e il fedele amministratore avrebbe avuto come compenso una quota dell'immobile.
Quando Michele Braghiri ne parlò con sua moglie Ida, lei ebbe un'idea:
<<E se, dopo aver comprato il terreno a tuo nome, ce lo tenessimo noi? Abbiamo già messo da parte abbastanza soldi per renderci indipendenti. Potremmo costruire un albergo, metterci in proprio>>
Lui scosse il capo:
<<Ma sei impazzita? Guadagno molto di più come Amministratore Delegato del Feudo Orsini!
E soprattutto conosco i segreti più oscuri del bilancio aziendale. E un giorno questi segreti ci torneranno utili>>
Lei era impaziente:
<<Sentì, sono trent'anni che mi dici di aspettare, ma io non ne posso più di fare la governante! Io voglio diventare la padrona!>>
Michele allora le si avvicinò e disse sottovoce:
<<Ti prometto che nel giro di cinque anni al massimo, avrò in mano tutti gli elementi per ricattare Ettore Ricci e ottenere per noi una fetta enorme del suo impero>>
Ida rimase pensosa:
<<Cinque anni sono lunghi. Non so se ne avrò la pazienza>>
Lui la guardò con i suoi occhi grigi e freddi:
<<Ci sono momenti in cui l'unica virtù che può essere d'aiuto è la pazienza>>
Lei decise di fidarsi di suo marito:
<<E va bene. Facciamo a modo tuo. Ma io mi aspetto molto>>
<<Ne avrai ancora di più>>
Convinta la moglie, Michele Braghiri fece ancora una volta la sua parte.
Comprò la terra a suo nome, con i soldi di Ettore Ricci, poi, trascorso il tempo necessario, gliela donò in cambio di una parte dell'immobile.
Il terreno era edificabile e su di esso sarebbero sorte tre case, una per ogni sorella Ricci-Orsini, con tre appartamenti, di cui due destinati alla locazione stagionale turistica.
Erano gli anni d'oro dell'edilizia, senza tasse sugli immobili e sugli affitti, e chi investiva nel settore poteva costruire imperi dal nulla.
Ettore era raggiante:
<<Caro Michele, muoio dalla voglia di vedere la faccia che farà Priamo Marchesi quando scoprirà che nelle terre che ci ha venduto per un tozzo di pane non passerà nessunissima strada! Voleva fregarci ed è rimasto fregato lui, quel minchione!>>
Michele Braghiri sorrise, con quella sua faccia da faina, che nascondeva molti più segreti di quanti Ettore Ricci avrebbe mai potuto immaginare.
Non bisogna mai credersi troppo furbi, perché c'è sempre qualcuno più furbo di noi, pronto a farci le scarpe: così come Marchesi era stato fregato da Ricci, quest'ultimo a sua volta sarebbe stato fregato da qualcun altro, molto vicino a lui, di cui aveva sottovalutato la scaltrezza.
Il giorno in cui Ettore Ricci, trionfante, poté dire che ormai la Contea di Casemurate aveva finalmente raggiunto il suo sbocco al mare, passeggiò lungo la spiaggia, come se ne fosse il padrone, e il suo sguardo si perse nell'acqua calma e limpida della riviera, senza sapere che ben presto sarebbero arrivate onde impetuose e vorticose, pronte a travolgere tutto ciò che lui aveva di più caro e sacro.
PS
Mare mare mare di Luca Carboni
Ho comprato anche la moto
Usata ma tenuta bene
Ho fatto il pieno e in autostrada
Prendo l'aria sulla faccia
Olè tengo il ritmo prendo un caffè
Lo so
Questa notte ti troverò
Usata ma tenuta bene
Ho fatto il pieno e in autostrada
Prendo l'aria sulla faccia
Olè tengo il ritmo prendo un caffè
Lo so
Questa notte ti troverò
Son partito da Bologna
Con le luci della sera
Forse tu mi stai aspettando
Mentre io attraverso il mondo
Con le luci della sera
Forse tu mi stai aspettando
Mentre io attraverso il mondo
Olè questa notte mi porta via
Alè questa vita mi porta via
Mi porta al mare
Alè questa vita mi porta via
Mi porta al mare
Mare, mare, mare
Ma che voglia di arrivare lì da te, da te
Sto accelerando e adesso ormai ti prendo
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha il suo mare dentro al cuore sì
E che ogni tanto gli fa sentire l'onda
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha i suoi sogni da inseguire sì
Per stare a galla e non affondare no, no
Ma che voglia di arrivare lì da te, da te
Sto accelerando e adesso ormai ti prendo
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha il suo mare dentro al cuore sì
E che ogni tanto gli fa sentire l'onda
Mare, mare, mare
Ma sai che ognuno c'ha i suoi sogni da inseguire sì
Per stare a galla e non affondare no, no
Ma son finito qui sul molo
A parlare all'infinito
Le ragazze che sghignazzano
E mi fan sentire solo
Sì ma cosa son venuto a fare
Ho già un sonno da morire
A parlare all'infinito
Le ragazze che sghignazzano
E mi fan sentire solo
Sì ma cosa son venuto a fare
Ho già un sonno da morire
Va beh, cameriere un altro caffè
Per piacere
Alè tengo il ritmo e ballo con me
Per piacere
Alè tengo il ritmo e ballo con me
Mare, mare, mare
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Avevo voglia di abbracciare tutte quante voi
Ragazze belle del mare, mare,
Mare, mare, mare
Poi lo so
Che torno sempre a naufragare qui
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Cosa son venuto a fare se non ci sei tu
No, non voglio restarci più no, no, no,
Mare, mare, mare
Avevo voglia di abbracciare tutte quante voi
Ragazze belle del mare, mare,
Mare, mare, mare
Poi lo so
Che torno sempre a naufragare qui
Fonte: LyricFind
Compositori: Luca Carboni / Mauro Malavasi
Testo di Mare mare © Universal Music Publishing Group, Sony/ATV Music Publishing LLC, A.E.P.I.
sabato 25 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 62. Rubare la scena alla sposa
Le nozze di Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini, nel giugno del 1974, furono l'unica occasione in cui tutti i personaggi di questo romanzo (ovviamente quelli all'epoca viventi) si incontrarono di persona e sedettero fianco a fianco nello stesso luogo.
E dunque tali nozze possono essere considerate come il punto in cui le vite "quasi parallele" a cui fa riferimento il titolo, simili a rette in uno spazio geometrico, si incrociarono per poi tornare, lentamente, ma inesorabilmente, ad allontanarsi.
Dal momento che il numero di invitati era decisamente troppo grande per la chiesa di Casemurate o di Pievequinta, gli sposi decisero che la cerimonia si sarebbe tenuta nella basilica di San Mercuriale, nel centro di Forlì, a metà strada tra le residenze delle rispettive famiglie.
Ad officiare la funzione, a fianco del parroco di San Mercuriale, fu chiamato Don Pino Ricci, lo sferico e panciuto parroco di Casemurate, cugino del padre della sposa.
Don Pino era un uomo che ispirava serenità solo a guardarlo: il suo volto roseo e circolare era improntato ad un eterno sorriso. Era noto per una risposta costante e memorabile, ogni volta che un fedele in preda al dolore gli chiedeva dove fosse Dio: <<Dio è ovunque, ma Gesù è qui>>
Per l'Arciprete di Cervia, che faceva le veci dell'Arcivescovo di Ravenna, questa asserzione era al limite dell'eresia, ma la parrocchia di Don Pino rientrava nella Diocesi di Forlì, e dunque "il Don" rispondeva soltanto al Vescovo di Forlì, uomo pragmatico e molto amico del senatore democristiano Leandro Baroni, marito di Caterina Ricci, sorella maggiore di Ettore e quindi cugina dello stesso Don Pino, il quale si considerava, a ragione, in una botte di ferro.
Come il lettore avrà certamente intuito, Forlì è una cittadina piccola e piuttosto noiosa, un posto dove non succede mai niente, a parte qualche mostra di quadri e qualche scossa di terremoto.
Per questo il matrimonio tra Silvia e Francesco, due docenti già noti e apprezzati, con un grande numero di amici e parenti "di peso", tra cui famosi e controversi notabili, "optimates" e personaggi altolocati, divenne, contro le intenzioni degli sposi, un evento mondano che riscosse da parte della popolazione locale un entusiasmo spropositato, manco si trattasse delle nozze del Principe di Galles.
Per l'occasione, i genitori della sposa, Ettore Ricci e Diana Orsini, finsero di andare d'amore e d'accordo, per la prima volta nella vita.
Si rivolgevano persino qualche sorriso accompagnato da un monosillabo, non molto, ma era già qualcosa.
I genitori dello sposo spiccavano per la loro altezza e distinzione: Romano Monterovere era alto due metri e sua moglie Giulia Lanni era molto longilinea, benché la sua bellezza apparisse debilitata dalla malattia cardiaca che di lì a due anni l'avrebbe portata precocemente alla tomba.
Romano Monterovere, integer vitae scelerisque purus, sembrava un tedesco di "pura razza ariana", con quegli occhi azzurri, quei capelli d'oro e avorio e quello sguardo severo alla Rommel che incuteva timore reverenziale.
Le due consuocere Diana Orsini e Giulia Lanni si conobbero per la prima volta e ahimè anche ultima volta, e scoprirono di essere stranamente simili, sia nel fisico che nel carattere.
C'erano anche le tre nonne ultranovantenni degli sposi: la maestra Clara Torricelli vedova Ricci, la contessa madre Emilia Orsini, nata de' Calboli, e la matriarca Eleonora Bonaccorsi Monterovere, che in quel contesto ritenne opportuno rispolverare il feudo perduto, presentandosi come Contessa di Querciagrossa e di Pavullo nel Frignano.
Queste tre dame rinsecchite, ingioiellate, con ampi cappelli piumati e ghirigori di pizzo bianco, ricordavano la buonanima della "queen Mary" di Teck (moglie di Giorgio V e nonna di Elisabetta II), e pertanto sembravano l'ultimo, antichissimo residuo della Belle Epoque: rimanenze di un'età conclusa da molto tempo, e che tuttavia persisteva, ostinata, nel non voler morire.
Seguiva la sorella minore di donna Eleonora, ossia Valentina Bassi-Pallai, nata Bonaccorsi, col marito Carlomanno e le figlie Berta e Fernanda. I Bassi-Pallai erano tutti soci di peso della premiata ditta Fratelli Monterovere, un dettaglio che avrà un notevole peso negli eventi futuri di questa narrazione.
Giulia Lanni Monterovere, molto emozionata, accompagnò all'altare il figlio Francesco.
La sposa si fece aspettare il classico quarto d'ora e poi fece il suo ingesso, deludendo tutti per il minimalismo e la sobrietà del suo abito da sposa.
Ettore Ricci, con aria seccata e la lingua tra i denti (immortalata per l'eternità dal fotografo) fece la stessa cosa con sua figlia Silvia, lanciando occhiate minacciose a destra e a manca.
L'abito di Silvia, per quanto minimalista, era comunque molto elegante.
Purtroppo tale sobrietà non apparteneva alla grande maggioranza delle invitate.
Esiste una regola ferrea, riguardo a come vestirsi ai matrimoni: non bisogna rubare la scena agli sposi, e in particolare le invitate non devono rubare la scena alla sposa.
Ebbene, le numerose fotografie che hanno immortalato quel giorno memorabile mostrano senza ombra di dubbio che mai, in tutta la storia, la regola del "non rubare la scena alla sposa" fu violata in maniera così plateale.
Certo gli Anni Settanta non erano sobri, ma quella cerimonia involontariamente barocca andò molto oltre.
Come c'era da aspettarsi, colei che più di ogni altra invitata attirò su di sé l'attenzione, anche se in maniera ridicola e a tratti esilarante, fu l'ultraottantenne Signorina Mariucca De' Toschi, la cui mise tutta fiocchi, balze, gioielli e boccoli, unita alla sua imponente e massiccia bruttezza, ricordava, per gli intenditori, quella di Sua Altezza Reale Anna Maria Luisa di Borbone-Orleans, Duchessa di Montpensier, meglio conosciuta, nella Versailles di Luigi XIV, come La Grande Mademoiselle.
A pensarci bene, la Signorina De Toschi era in tutto e per tutto la reincarnazione della Grande Mademoiselle de Montpensier.
Ma non fu l'unica ad esibire uno sfarzo degno del più esuberante barocco.
Infatti, il secondo posto in ordine di vistosità, fu il look di Anita Monterovere, zia dello sposo, anche lei zitella e nel contempo ninfomane, animatrice di salotti e personalità istrionica con evidente disturbo narcisistico della personalità-
Anita detestava la sposa e dunque la sua scelta di rubarle la scena fu doppiamente colpevole.
Si presentò completamente vestita di nero (per sottolineare la luttuosità rappresentata per lei da quell'evento), con un cappello a veletta sopra una tinta di capelli rosso fuoco catarifrangente, occhiali da sole oblunghi e puntati verso l'alto, tenuti anche in chiesa, pelliccia ottenuta sterminando l'intera popolazione dei visoni della Siberia, sigaretta con bocchino d'avorio, perennemente accesa, calze a rete nere, scarpe nere a punta con tacco 14.
Ma lo spettacolo più impressionante derivò dalle sorelle e dai fratelli di Ettore Ricci.
La più grande, Caterina, moglie del Senatore Baroni, sembrava un incrocio tra Mina, Milva e Iva Zanicchi.
La seconda, Carolina, vedova del Conte Gagni di Montescuto, indossava una tiara di diamanti e smeraldi con collier, orecchini e anelli in coordinato,
Ma era nulla rispetto a ciò che segue.
La terza, Adriana Ricci diede scandalo vestendosi da uomo.
I due fratelli di Ettore riuscirono a fare anche peggio.
Aristide indossò un tight con tuba che sarebbe stato considerato eccessivo anche al Royal Ascot.
L'altro fratello, il ruvido e burbero Alberico, che per principio faceva tutto il contrario di quel che erano le convenzioni, sembrava un barbone.
La quarta ed ultima sorella, Maria Teresa, era ancor più sferica di Don Pino, ed era tutta impegnata a tenere a bada il marito, l'ex commissario in pensione Onofrio Tartaglia, che cercava di sedurre ogni donna al di sotto dei trent'anni, comprese le minorenni.
I figli di Maria Teresa erano un'attrazione da circo: enorme e impassibile, Arido occupava una panca intera. Magrissima e tignosa, con gli occhi fissi e il naso a becco.
Aurelia sembrava un barbagianni e suo marito, l'ufficiale sardo Augusto Vermis, era calvo, basso e rotondo nel viso e nella pancia, ma i suoi occhi libidinosi tradivano una rapacità sessuale di non poco conto.
L'unica bella e maestosa, Viviana, mostrava con orgoglio il fidanzato cavaliere Piercarlo Maria Zampetti, ricco imprenditore della zona.
Infine, vistosamente incinta, Virginia copriva interamente il magrissimo marito, ingegner Lando Landini.
Passando momentaneamente al "lato nobile della famiglia", un posto di primo piano era ricoperto Ginevra Orsini e da suo marito, il giudice Guglielmo De Gubernatis.
Ginevra aveva un fascino simile a quello di sua sorella Diana, ma al contrario di lei aveva i capelli rossi e gli occhi verdi, come la madre, e aveva assunto, col tempo, un portamento rigido e solenne, tipico delle dame dell'alta società impegnate in opere filantropiche per far dimenticare gli scandali di famiglia (suo marito aveva infatti avuto un figlio dalla segretaria, ma di questo si parlerà in uno dei capitoli successivi)
Le figlie gemelle di Ginevra Orsini e del giudice De Gubernatis occupavano a loro volta un ruolo di spicco nella "crème de la crème" forlivese.
Elisabetta sembrava la sosia di Jackie Kennedy durante il matrimonio con Onassis.
La sua felicità era ben motivata: finalmente era riuscita nel suo decennale obiettivo, ossia fidanzarsi con Massimo Braghiri, il quale, a trentacinque anni, aveva già i capelli bianchi, dovuti allo stress derivante dalla sconfitta nei tentativi di impalmare Silvia Ricci-Orsini. Ma già la sua mente tramava una vendetta implacabile, che era destinata ad avverarsi in tutti i minimi dettagli.
L'altra gemella, Anna si era fatta le meches, ma a catturare l'attenzione fu suo marito, Adriano Trombatore, il Sommo Poeta, che per l'occasione sfoggiava un vero look bohémienne: capelli lunghi e scompigliati alla Beethoven, cappello floscio alla Goethe, pipa, mantello alla Sherlock Holmes, sciarpa di seta alla Oscar Wilde, giacca di velluto marrone, un'ombra di barba di tre giorni, pantaloni bordeaux, stivali neri lucidi, panciotto di satin verde pisello con orologio d'oro da taschino, sul cui coperchio era inciso in corsivo il motto di famiglia: "De Bono et Malo".
Fortunatamente i testimoni, le damigelle e i paggetti riuscirono a contenere il loro estro.
Testimoni dello sposo erano suo fratello Lorenzo, ricercatore universitario, e suo cognato Ludovico Lamoni, marito di Enrichetta, la quale era perennemente occupata a tenere a bada i due figli fin troppo esuberanti
Testimoni della sposa erano i cognati, Amilcare Spreti di Serachieda, marito di Margherita Ricci-Orsini e Silvio Zanetti Protonotari Campi, marito di Isabella Ricci-Orsini.
La loro aria compunta sembrava quasi voler dire addio ad un terzo dell'eredità di Ettore Ricci.
Ida Braghiri, suo marito Michele e i loro numerosi figli e nipoti, erano tutti lividi per l'invidia e pareva che già tramassero qualcosa per rovinare la festa.
Ma la vera attrazione erano i pezzi grossi: molti imboscati, infatti, erano accorsi più che altro per incontrare di persona i notabili.
Il Senatore Baroni, andreottiano, complottava trame politiche col Vice-Preside Prof. Priamo Marchesi, eminente doroteo, col sottosegretario De Angelis, socialista e con l'assessore Edoardo Monterovere, comunista (di cui furono molto apprezzate la moglie e le figlie, di una bellezza dal sapor mediorientale) insieme al Presidente del Rotary Club, Everardo Rocca Rossellino, liberale di vecchio stampo, e all'Avvocato Altiero Oddi Ruspanti, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone, che ricordava Marlon Brando nella parte di Don Vito Corleone.
Inutile dire che fu un gran giorno.
Fu anche l'inizio di un matrimonio d'amore, molto ben riuscito, ma destinato a dover affrontare troppe avversità e una sciagura inenarrabile, ossia un figlio totalmente inadeguato alle grandissime aspettative nutrite nei suoi confronti da due intere dinastie.
martedì 21 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 61. Molti difetti in comune
Quando Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere ufficializzarono il proprio fidanzamento, il prof. Piero Giovannelli rimase di sasso.
<<Ma quindi fate sul serio? Voglio dire, intendete proprio sposarvi?>>
I neo-fidanzati confermarono.
Giovannelli scosse il capo, sinceramente costernato.
Per quanto avesse da molti anni una relazione con la professoressa Gatti, era contrarissimo ad ogni forma di convivenza, e più che mai al matrimonio, che definiva senza mezzi termini "un salto nel buio".
Nel caso concreto di Silvia e Francesco, poi, si aggiungevano ragioni oggettivamente fondate, che sarebbero apparse chiare anche a loro, se non fossero stati innamorati.
<<Io mi sento in colpa>> disse Giovannelli sconcertato <<Se avessi anche solo lontanamente immaginato le conseguenze, non vi avrei mai fatti conoscere!>>
Francesco si accigliò:
<<Ma di cosa stai parlando?>>
Silvia intervenne:
<<Piero non crede nel matrimonio in generale e tanto meno nel nostro caso, visto che le nostre famiglie, fino a poco fa, si odiavano>>
Giovannelli però non era soddisfatto di quella risposta:
<<Magari fosse solo per quello! Anzi! Per me è stata proprio l'opposizione alle vostre famiglie la cosa che vi ha fatto sentire uniti... ma adesso che la Guerra delle Due Rose si è momentaneamente fermata, dovreste cercare di ritornare con i piedi per terra e ragionare un po' anche con la testa.
Non offendetevi, io vi invito a riflettere su cosa vi unisce... ascoltatemi... è un discorso serio: non vi siete resi conto che le cose che avete in comune sono solo i punti deboli? Pensateci bene!>>
Detto questo fuggì via, prima che Francesco potesse esplodere in uno dei suoi temibili attacchi di rabbia.
<<Ma come si permette?>>
Silvia cercò di placare il fidanzato:
<< Ah, non farci caso, Piero è fatto così, a volte non riesce a frenare la lingua, ma non è per cattiveria. In fondo è stato lui a farci conoscere. Ha paura di sentirsi in colpa se tra noi le cose non dovessero andar bene>>
Francesco era perplesso:
<<E perché mai non dovrebbero andar bene?>>
Silvia scrollò le spalle:
<<E infatti andranno benissimo, e glielo dimostreremo, ma con lui bisogna aver pazienza, e poi... sai, è una di quelle persone che hanno un certo seguito, da queste parti. E' meglio non averlo come nemico>>
Su quel punto anche Francesco era d'accordo:
<<Sì, hai ragione. Però come si fa a dire delle cose del genere... che abbiamo in comune solo i difetti!
E poi quali sarebbero questi difetti in comune? Avrei voluto che ci facesse qualche esempio, tanto per capire se aveva degli argomenti concreti o solo dei pregiudizi>>
In effetti era una domanda interessante.
Silvia ci pensò, passandosi una mano nei capelli, che all'epoca erano lunghi e mossi, come tutti quelli delle donne degli Anni Settanta.
<<Magari siamo un po' ansiosi. Tu che ne dici?>>
Lui piegò le labbra all'ingiù, in espressione dubitativa:
<<Mah, va be', forse un po', ma in fondo, chi non lo è, al giorno d'oggi, con tutte queste cose che succedono, questo ritmo frenetico in un mondo meccanizzato che non è più a misura d'uomo>>
E da lì nacque tutto un discorso filosofico di profonda critica verso la società dei consumi, espresso tuttavia, va detto per onestà, da una persona che era perseguitata dalle rate da pagare per la macchina nuova, l'impianto stereo, la cinepresa, il proiettore, la macchina fotografica ultimo modello e altre simili amenità.
Silvia aveva già intuito quelle contraddizioni, ma non aveva dato loro troppa importanza, perché in fondo le aveva riconosciute anche in se stessa.
<<Forse non abbiamo molto senso pratico...>> disse Silvia, riconducendo il discorso nell'alveo iniziale.
Lui lo sapeva benissimo, ma cercò nuovamente di svicolare:
<<Ma anche questo dipende dal fatto che certe cose non ci sono state insegnate, perché del resto anche certi mestieri stanno scomparendo, nella società tecnologica.
In fondo perché imparare a fare cose che possono essere replicate con maggiore precisione da una macchina? A questo proposito aveva già detto tutto Walter Benjamin ne L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità...>>
E anche qui Francesco si perse in una digressione profondamente intellettualistica, ma in fin dei conti poco pertinente con il discorso principale.
Ma Silvia, con altrettante ostinazione, tornò, come si direbbe adesso "on topic":
<<Magari a volte ci lasciamo prendere un po' dalla malinconia, o da una visione pessimistica della realtà. Siamo ipercritici, bisogna ammetterlo>>
Francesco inarcò le sopracciglia:
<<Ma questo succede perché siamo persone di intelligenza superiore: è chiaro che vediamo tutto con più chiarezza e profondità, ne individuiamo subito i punti deboli, la maglia rotta nella rete, il punto morto del mondo, l'anello che non tiene. E' quello che, come tu ben sai, Montale chiamava il male di vivere. Del resto, la felicità è il premio di consolazione degli idioti. Soltanto un idiota può essere felice di fronte alle palesi ingiustizie di questo mondo, alla crudeltà dell'esistenza, alla spaventosa sorte del vivere>>
Silvia fu colta da un dubbio:
<<Ma se questa è la nostra idea della vita e del mondo, come possiamo pensare di fare un figlio?>>
Francesco fu colto di sorpresa:
<<Un figlio? Ma io ne voglio almeno dieci!>>
A lei venne da ridere:
<<Ah, ah, te lo scordi! E poi scusa, oltre che essere un pensiero velleitario, non lo trovi contraddittorio con quello che hai detto prima?>>
Lui scrollò le spalle:
<<Ma noi offriremo ai nostri figli il meglio del meglio! Non commetteremo gli errori dei nostri genitori... l'abbiamo detto tante volte! I nostri figli avranno tutto quello che a noi è stato negato. Ti posso garantire che avranno tutto il sostegno necessario per diventare forti e capaci di difendersi dai colpi della vita>>
Silvia sospirò:
<<Certo, certo, le nostre intenzioni sono le migliori, e ce la metteremo tutta, ma a volte tutto questo non è sufficiente>>
Francesco la fissò con aria severa:
<<Si tratta di casi rari. Non vedo perché dovrebbe capitare proprio a noi!>>
Lei socchiuse gli occhi, come per cercare dentro di sé una risposta che non urtasse i sentimenti del fidanzato:
<<Non so, hai presente quando ci si sposa tra cugini o consanguinei c'è il rischio che nascano figli menomati.
No, non ridere, ha un senso quello che dico...
Il fatto è che, a prescindere dai pregi e dai difetti, noi ci somigliamo troppo, abbiamo troppe cose insieme, sembriamo davvero parenti di sangue.
I nostri genitori si somigliano moltissimo tra loro, le nostre madri sono quasi identiche, sia nel corpo che nell'anima, o nel carattere, nel temperamento>>
Lui sorrise:
<<Ma è proprio per questo che siamo anime gemelle! Siamo simili pur senza essere consanguinei, e quindi non c'è nulla da temere, perché, come ho detto, siamo gemelli nell'anima, e soltanto nell'anima!
Non devi dare ascolto a gente come Piero Giovannelli, che in fondo ha di noi soltanto una conoscenza superficiale.
Dobbiamo concentrarci solo su noi stessi, sul fatto che vogliamo le stesse cose e questo garantirà equilibrio ed armonia alla nostra unione>>
Anche Silvia sorrise:
<<Hai ragione. Perdonami per tutte le mie paure.
Derivano da quello che è successo a mia madre, a sua sorella, a suo fratello, e anche all'uomo che amava. Un uomo che non era mio padre.
C'è stato così tanto dolore, ed io sono nata nel dolore.
E' un'ombra che mi porto dietro da tutta la vita, senza mai parlarne con nessuno, anche se tutti ne parlano alle mie spalle>>
Lui la abbracciò:
<<Non preoccuparti, noi fonderemo una nuova famiglia, tutta nostra, e i fantasmi del passato non ci inseguiranno>>
Lei si strinse nell'abbraccio, tremando:
<<Non sono fantasmi. Mio padre ha molti nemici ed io sono sempre stata il loro bersaglio. Io e tutti coloro che amo. Se la prenderanno con te e con i nostri figli. E' gente disposta a tutto, e non ci lasceranno mai in pace>>
Francesco aveva incominciato a rendersene conto, ma non aveva ancora compreso l'intensità dell'odio di questi nemici:
<<Sappiamo difenderci, e ci difenderemo!>>
giovedì 16 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 60. Tu, felix Austria, nube!
Molto spesso le guerre del passato si concludevano con un fidanzamento tra gli eredi delle due parti in causa. In alcuni casi, addirittura, le guerre venivano evitate del tutto proprio grazie ad una astuta politica matrimoniale: il caso più clamoroso fu quello di Filippo I d'Asburgo, detto il Bello, della casa d'Austria e Borgogna, e Giovanna di Castiglia, detta la Pazza, erede al trono della casa di Castiglia e d'Aragona. Dalla loro unione, la cui vicenda appassionata e tormentata meriterebbe un romanzo a sé, nacque Carlo V, che dominò su un Impero talmente vasto, nel vecchio e nel nuovo continente, che il sole non vi tramontava mai.
Dai tempi del padre di Filippo, l'imperatore Massimiliano, già Arciduca d'Austria, pare sia stato coniato da Mattia Corvino, re di Boemia d'Ungheria, per stigmatizzare ironicamente l'espansionismo asburgico (che avrebbe poi inglobato anche la corona boema e ungherese) : "Bella gerant alii, tu felix Austria nube" : <<Che gli altri facciano le guerre, tu, fortunata Austria, sposati!>>
Questa strategia era stata seguita anche, se è lecito accostare le grandi vicende a quelle piccole, dagli Orsini di Casemurate, prima con le famose e burrascose nozze di Diana Orsini con Ettore Ricci, poi con quelle delle loro figlie: Margherita con Amilcare Spreti di Serachieda e Isabella con Silvio Zanetti Protonotari Campi.
In tal modo, come sappiamo, il clan Ricci-Orsini, che era già di suo una ragnatela di relazioni tra famiglie influenti, riuscì a far nascere la Società Ricci, Orsini, Spreti e Zanetti, in accomandita semplice, che controllava, oltre al Feudo Orsini, anche tutte le attività economiche della famiglia Ricci e di quelle dei generi del "prode Ettore".
In questo sublime arazzo, però, c'era quella che Montale avrebbe chiamato "una maglia rotta nella rete", "il punto morto del mondo, l'anello che non tiene".
Si trattava, naturalmente, della relazione di Silvia Ricci-Orsini, la figlia ribelle di Ettore e Diana, con Francesco Monterovere, l'erede altrettanto ribelle dei Monterovere di Querciagrossa, i cui interessi economici e politici costituivano una grave minaccia per la Contea di Casemurate.
Si era tentato di tutto per separare i due giovani, ma più si insisteva in quella direzione e più la loro unione si rinsaldava.
A quel punto si decise che era meglio cambiare strategia ed ebbero inizio, segretamente e "col favore delle tenebre", i primi tentativi di arrivare quantomeno ad un un armistizio.
In fondo c'erano margini di trattativa e, messo da parte l'orgoglio, si sarebbe persino potuti arrivare ad un vantaggioso compromesso.
Si tennero dunque degli incontri riservati tra gli "onesti sensali" in rappresentanza delle due famiglie,
Ciò che si dissero era segretissimo, e proprio per questo, nel giro di pochi giorni, tutti lo vennero a sapere.
A Casemurate e dintorni non si parlava d'altro. In ogni punto di ritrovo, le comari formavano assembramenti e bisbigliavano tra loro. La fonte principale, come sempre, era la governante di Villa Orsini, Ida Braghiri, regina del pettegolezzo.
Il luogo era quasi sempre il negozio di alimentari della "donna baffuta", la famosa Lucia Biasoni.
<<Allora, ci sono novità da Villa Orsini?>> chiese, lisciandosi i mustacchi rossicci.
<<Ieri sono venuti tutti i vari parenti che contano: il Senatore Baroni, il giudice De Gubernatis, il commissario Tartaglia e persino la Signorina De Toschi! Da Faenza invece, in rappresentanza, è arrivato l'assessore Edoardo Monterovere, lo zio di Francesco, con alcuni dirigenti del Consorzio di Bonifica e il Sottosegretario ai Lavori Pubblici in persona.
Hanno confabulato per un bel po' di tempo, nello studio di Ettore Ricci.
Era presente anche mio marito Michele>>
Le comari rimasero a bocca aperta, con gli occhi fissi, come grasse oche in attesa del pasto.
<<E allora, cosa si sono detti?>> chiese la Biasoni
<<Sembra che si siano messi d'accordo su un "indennizzo speciale superiore" per le terre di proprietà dei Ricci-Orsini e dei loro soci>>
La Biasoni continuava a tormentarsi i baffi:
<<E cosa vorrebbe dire "indennizzo speciale superiore"?>>
La Braghiri, con le mani sui fianchi, dichiarò:
<<Vuol dire che Ettore incasserà molti più soldi degli altri proprietari. Una montagna di soldi!>>
La Biasoni si strappò un baffo per la rabbia:
<<Insomma, piove sul bagnato!>>
Ida Braghiri annuì:
<<Proprio così! Piove sul bagnato, anzi, strapiove sul bagnato... o per meglio dire, piovono soldi, e soldo chiama soldo... e questo vale anche per il fatto che alla fine, con questo accordo, le famiglie hanno dato il consenso al matrimonio di Silvia con Francesco Monterovere.
I due piccioncini si amano, per il momento, ma i loro parenti hanno sempre guardato le cose in altro modo. Adesso vedono i vantaggi. Un'alleanza commerciale!
I Monterovere diventeranno soci dei Ricci-Orsini, degli Spreti e dei Zanetti.
Un'unica grande famiglia, che vorrebbe controllare un territorio che va da Faenza fino al mare, perché poi vi racconterò anche la storia dei terreni che Ettore ha comprato a Cervia e di quelli che Enrichetta Monterovere ha comprato a Casal Borsetti dopo aver terminato il canale a destra del Reno. Sì, piove proprio sul bagnato, ma la fortuna non può durare in eterno... verrà il giorno in cui Ettore Ricci pagherà per tutti i suoi traffici... mi dispiace solo che il mio Michele si sia legato a gente del genere, ma noi abbiamo le mani pulite, non abbiamo mai preso un centesimo in più rispetto a quello del nostro onesto stipendio >>
Naturalmente era una balla colossale, perché Michele e Ida Braghiri erano i più avidi nella spartizione del bottino, ma la gente credeva a loro, perché si fingevano alfieri del popolo e tribuni della plebe.
Questa serie di notizie gettò il pubblico delle comari nella costernazione.
Avevano sperato di sentire il resoconto di una lite furibonda, magari anche di un'ennesima disgrazia famigliare, e invece si trovavano davanti ad un successo diplomatico che univa l'utile col dilettevole.
La Lucia Biasoni si strappò altri ciuffi dai baffoni da tricheco:
<<Io dico che non potrà durare. E' una nave che sta diventando troppo grande, e sta viaggiando troppo veloce. Presto o tardi finirà contro qualche scoglio e farà naufragio, perché nella vita, prima o poi, si fa sempre naufragio>>
venerdì 10 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 59. La Guerra delle Due Rose
La guerra tra i Lancaster e gli York per conquistare la Corona d'Inghilterra è forse una delle fasi più romanzesche della storia britannica e come spesso succede nelle guerre civili, alla fine si concluse con una specie di sterminio reciproco, da cui trasse giovamento una fazione "terza", capeggiata dalla Enrico VII Tudor, un gallese vagamente imparentato con i Lancaster, che dopo aver sconfitto Riccardo III di York, ne sposò la nipote, Elisabetta, da cui ebbe come figlio il terribile Enrico VIII.
La Rosa Tudor, che Shakespeare lodò come "il più nobile dei fiori", fu la "terza rosa", quella che non era stata prevista: bianca al centro, come quella degli York e rossa all'esterno, come quella dei Lancaster, a significare la sempiterna riappacificazione, negli eredi dei Tudor, delle due fazioni rivali.
Ora, si pava licet componere magnis, le cose andarono più o meno così, nel mezzo secolo di faida familiare che oppose i Monterovere ai Ricci-Orsini e che terminò con il vantaggio di una terza fazione, che per molto tempo si tenne nell'ombra, per poi colpire al momento opportuno.
Ma toniamo agli inizi, ossia all'anno di grazia 1972, quando ebbero inizio gli eventi mirabili e terribili di cui spero di poter essere, sine ira ac studio, narratore trasparente e cronista fedele.
Com'era da prevedersi, la ferrea avversione di Anita Monterovere nei confronti di Silvia Ricci-Orsini, e l'iraconda opposizione di Ettore Ricci a Francesco Monterovere, non fecero altro favorire la nascita di una relazione tra Silvia e Francesco, fornendo loro un elemento di complicità che altrimenti non ci sarebbe mai stato.
Fu tale complicità a esaltare ciò che avevano in comune, che purtroppo era molto meno di ciò che li distingueva, ma questo sarebbe emerso dopo, quando era troppo tardi.In fondo anche Silvia, nonostante una certa dose di pragmatismo che le derivava dal padre, era intrisa delle romanticherie della sua epoca: i film con Audrey Hepburn, le canzoni di Mina e di Battisti, la moda Hippie, il ribellismo giovanilistico che proveniva da oltralpe, oltre Manica e oltre Oceano, e tutti quegli elementi annessi e connessi che avevano reso la sua verde età una sorta di Eden spensierato, lontanissimo dalla concretezza e dall'opaca trafila delle cose della quotidianità che l'attendeva, silenziosa e paziente come un predatore, dietro al giro di boa dei trent'anni e del matrimonio.
Le sue sorelle non erano state nemmeno sfiorate da quell'ondata neoromantica: per loro il mondo iniziava e finiva nella Contea, con qualche propaggine "tra i monti e il mare", tra l'Appennino e la Riviera. Guardavano Silvia e non capivano, ma non disapprovavano nemmeno: semplicemente la osservavano come qualcosa di esotico, influenzato certamente dalla vita di città e da quella universitaria, ma anche dai sogni ad occhi aperti della loro madre, la leggendaria Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che con inimitabile classe era passata indenne da uno scandalo all'altro senza mai perdere la devota ammirazione generale.
E questo perché Diana si era sempre battuta per garantire ai lavoratori del Feudo Orsini le migliori condizioni in termini di salario, orario di lavoro, ferie, sicurezza, contributi, laddove invece suo marito era assai recalcitrante a spendere anche un centesimo in più. Ma alla fine lei riusciva sempre a convincerlo, ponendolo di fronte all'evidenza secondo cui un lavoratore che si sente rispettato e valorizzato sarà sempre più motivato a svolgere nel modo migliore la propria attività.
Ma Diana era una "progressista" senza saperlo, senza rendersene conto, ed Ettore la prendeva in giro, chiamandola la Contessa Rossa, accostandola ad altre nobildonne della sinistra al caviale, come Luisa Alvarez de Toledo, Duchessa di Medina-Sidonia o Maria Teresa di Borbone-Parma, detta "la Principessa Rossa".
Forse era anche per questo dissidio tra i genitori che Silvia non aveva mai preso partito di fronte alle questioni politiche e tanto meno quelle riguardanti gli affari di famiglia.
Francesco le offriva un'orizzonte più ampio e consapevole, e cioè quello tipico dell'intellettuale impegnato, ma non organico, del filosofo che passa dalla visione d'insieme della conoscenza scientifica a quella specifica dell'ideale politico. Anche questo faceva molto "Anni Settanta"
Silvia ascoltava affascinata tutti quei discorsi e non sapeva che in seguito avrebbe finito per detestarli e considerarli alla stregua di pericolose utopie, tornando quindi con l'età ad avvicinarsi alle destrorse posizioni paterne.
Ma questo avvenne molto dopo, quando lo scialo di triti fatti, vano più che crudele, delle necessità quotidiane e materiali, finì col distruggere ogni alone di romanticismo, come accadde, seppur in termini più drammatici, a Madame Bovary.
Nel 1972 la nostra Silvia era ancora una "poetessa" che si commuoveva contemplando i chiari di luna e perdendosi nelle dissertazioni di Francesco sulle stelle e sulla vastità dell'Universo.
In quelle serate le pareva incredibilmente profondo lo sguardo del suo corteggiatore, che sembrava sondare tutti i misteri del cosmo, smascherandone le contraddizioni e sopportandone il peso, come un eroe wagneriano.
Per tutte queste ragioni, ed altre ancora, ella consentì a Francesco di trasportarla in un mondo che aveva per lei il fascino di un continente inesplorato, dove c'era posto per la canzone di Marinella di De Andrè, idolo di Francesco per quanto riguardava la musica leggera, e la Quinta di Beethoven o le sonate di Chopin, che lo stesso Francesco eseguiva al pianoforte con la maestria imparata ai tempi del collegio.
Non poteva nemmeno lontanamente immaginare, la nostra Silvia, che soltanto tre anni dopo, mentre era incinta del suo primo e unico figlio, avrebbe imparato ad odiare la musica classica che piaceva tanto al novello marito, il quale teneva a tutto volume lo stereo con disco di vinile dell'Aida di Verdi, specie per l'immortale scena del trionfo di Radames, che invece nel '72, all'Arena di Verona, le era parsa così esaltante da farle venire i brividi.
Tutto ciò per ribadire che le stesse atmosfere che li avevano uniti in un romantico abbraccio ai tempi in cui la loro storia era un atto di insurrezione contro il mos maiorum paterno, divennero poi, nel giro di non troppo tempo, quelle crepe su cui i padri o altri parenti contrariati dalla loro unione, avrebbero fatto leva per far sì che la Guerra delle Due Rose riprendesse più forte di prima, avendo come campo di battaglia lo stesso focolare domestico, e come trofeo la conquista della fiducia dell'erede, blandito da entrambe le stirpi, per quanto capacissimo, fin da bambino, di distinguere il grano dal loglio.
sabato 4 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 58. La costruzione di un amore
La costruzione di un amore, secondo una famosa canzone che Ivano Fossati scrisse per Mia Martini, è "come un grattacielo di cento piani".
Per Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini si trattò di qualcosa di più simile al Burj Khalifa, che di piani ne ha 163, più due sotterranei, e mai si seppe se un tale sforzo da parte dei nostri due protagonisti valse la pena di essere compiuto, perché il risultato produsse meno successi di quanti ne ebbe l'emirato di Dubai.
Questo dubbio non riguarda tanto la loro unione, che pur nella sua lunghissima e burrascosa durata, si potrebbe considerate comunque un traguardo notevole, quanto piuttosto le preoccupazioni e le sofferenze che derivarono prima dall'opposizione ferrea delle loro due famiglie d'origine, e poi dall'invidia di tutti gli altri, che trovò facile bersaglio nella loro prole.
Già si è detto delle reazioni della famiglia Monterovere alle confidenze di Francesco, che avvennero molto prima che Silvia si rendesse conto che il giovane Monterovere la stava corteggiando, pur nel suo modo timido e impacciato.
Nulla si è invece anticipato su come il clan Ricci-Orsini recepì le prime confidenze di Silvia, che dopo il viaggio a Parigi aveva incominciato a nutrire una certa curiosità sulla famiglia Monterovere.
Il ritorno di Silvia era stato preceduto da un fattorino, che recapitava un regalo a sua madre, ossia un prezioso tavolino da salotto in stile Art Nuveau acquistato nella Ville Lumière.
Purtroppo, quando il tavolino approdò al suo luogo naturale, ossia il Salotto Liberty di Villa Orsini, era presente anche Ettore Ricci, il cui commento fu assai sprezzante:
<<Chissà quanto è costato! E guarda lì che gambette... non sta in piedi... non arriverà a Natale>>
Diana era stupefatta:
<<Ma si può sapere cosa ti prende? Oggi sei ancora più grezzo e meschino del solito!>>
Ettore non aspettava altro:
<<C'è che nostra figlia, oltre a buttar via i miei soldi e a darsi alla pazza gioia a Parigi, si è anche messa a fraternizzare col nemico>>
Diana alzò gli occhi al cielo:
<<L'unico nemico che abbiamo è quello spione traditore di Massimo Braghiri, che non era nemmeno invitato alla gita di Parigi, e scommetto che è stato lui a metterti in testa queste idiozie!>>
Ettore si concesse un lieve sorriso:
<<Non lui direttamente. Ha mandato avanti la figlia di tua sorella>>
Diana era ancora più sdegnata:
<<Quella velenosa vipera di Elisabetta! Silvia ha detto che a scuola tutti sanno che è la spia del preside. Sarebbe capace di tutto pur di infangare nostra figlia>>
<<Tua figlia! Perché da me non ha preso niente, a parte i soldi!>>
<<Sei disgustoso, Ettore!>>
<<E se ti dicessi che Silvia ha davvero preso in simpatia un certo Francesco Monterovere, figlio di quelli che vogliono far passare un canale nel bel mezzo delle nostre terre?>>
Diana aveva sentito qualcosa al riguardo, ma si trattava di un progetto ancora del tutto teorico.
In compenso, però, la vecchia Contessa Vedova Emilia, risvegliatasi dal suo torpore etilico, bofonchiò:
<<I Monterovere! E' un cognome famoso. C'era un illustre generale, Raimondo Monterovere, Conte di Querciagrossa, che combatté per gli Asburgo contro gli Ottomani!>>
Ettore Ricci rise:
<<No, non credo proprio che siano parenti di questo tale. I Monterovere che dico io sono di Faenza e sono dei comunisti assatanati! E' grazie alle amicizie politiche che hanno avuto l'appalto per la Romagna centrale>>
Ma quel giorno Ettore, incredibilmente, si trovò contro persino sua madre, l'anziana maestra Clara:
<<Comunque la Contessa Emilia ha ragione. Ho letto un libro molto interessante sui Monterovere di Querciagrossa, e non è da escludersi che un ramo della famiglia possa essere...>>
Ettore esplose:
<<Ma allora vi siete messe tutte d'accordo per farmi venire un colpo? Volete tutte sbarazzarvi di me? Anche tu, mamma, ti metti a dare credito a queste stupidaggini!
Be', vi dico una cosa: non permetterò mai a questo Monterovere di prendersi mia figlia e soprattutto la mia terra!>>
Diana scattò in piedi e fronteggiò il marito:
<<La terra sarà anche tua, ma Silvia è mia figlia e non ti permetterò di rovinarle la vita così come hai fatto con me! E non lo permetterò nemmeno a quella serpe di Elisabetta o a quel viscido verme di Massimo! Siete tutti avvertiti: questa volta non accetterò alcun compromesso!>>
Ettore fulminò la moglie con lo sguardo:
<<Lo vedremo!>> sbottò, e se ne andò sbattendo la porta.
Due giorni dopo Silvia, ignara della tempesta che si era scatenata in sua assenza, tornò a casa.
Dagli sguardi costernati delle due nonne, Emilia e Clara, capì subito che c'era qualcosa che non andava. Si recò di sopra da sua madre, che era barricata in camera a causa di una sospetta emicrania.
Diana la ricevette con la faccia delle grandi occasioni:
<<Dobbiamo parlare>> le disse con voce nel contempo afflitta e solenne.
<<Scommetto che il babbo ha fatto una scenata per il tavolino>>
<<Sì, ma il problema è un altro. Elisabetta ha fatto la spia, come al solito, e ha messo in testa a tuo padre che alla gita a Parigi avrebbe partecipato anche un certo Monterovere che secondo lei ti starebbe ronzando attorno...>>
Silvia scosse il capo:
<<Quella vipera di Elisabetta!>>
Diana annuì vigorosamente:
<<Proprio così, quella maledetta vipera! Sarebbe capace di tutto pur di compiacere il suo Massimo.
Si pettina e si veste come Jackie Kennedy, ma l'abito non fa il monaco.
Ah, ma stavolta l'ha pagata cara: ho telefonato a mia sorella e le ho detto che sua figlia deve tenere a freno quella lingua biforcuta! Ginevra si è scusata e ha promesso che non si ripeterà, ma io temo il peggio, perché dietro tutta questa storia, ovviamente, c'è Massimo, che ha il dente avvelenato perché non è stato invitato alla famosa gita di Parigi>>
Silvia si sentì improvvisamente stanca:
<<Ogni volta che torno a Casemurate mi sembra che qui il tempo si sia fermato, come se fossimo ad Avalon, o nel regno di Faerie, avulsi dalla realtà, dal contesto.
Qui siamo tutti come eterni bambini che continuano a farsi i dispetti, mentre fuori il mondo cambia a tutta velocità. Riusciremo mai a comportarci in maniera adulta?>>
Diana sospirò:
<<Sono quarant'anni che me lo chiedo, ovviamente senza risposta, ma stavolta prometto che ti proteggerò dalle trame di Ettore e da quelle di Massimo ed Elisabetta, dovesse essere l'ultima cosa che faccio nella vita. Quando vorrai confidarti con me, io sarò comunque dalla tua parte>>
Silvia era confusa:
<<Ma non c'è niente da confidare. Francesco Monterovere non mi ha mica deflorata! Abbiamo solo parlato... non saprei dire nemmeno se mi piace o no>>
<<Ne sei sicura?>>
<<Sono sicura soltanto di una cosa: più il babbo si opporrà a lui, più lui mi starà simpatico, questo è certo. Mi sto rendendo conto che io e Francesco abbiamo in comune il fatto di essere cresciuti in due famiglie anomale, con padri tirannici, madri sofferenti e un corteo di parassiti intorno, pronti a tradirci appena voltiamo le spalle>>
Quella conversazione segnò una svolta nella mente e nel cuore di Silvia, perché parlando di Francesco aveva oggettivato, davanti a sé, quello che prima era rimasto sospeso nel subconscio, e cioè che in fondo c'era qualcosa che li legava nel profondo, e che era stato sussurrato nelle conversazioni sottovoce nei bistrot di Parigi: una realtà familiare, alle spalle, che li faceva sentire diversi dagli altri.
Certo, "ognuno porta con sé i suoi fantasmi", per dirla con Virgilio, ma quelli di Silvia e Francesco in fondo erano simili, e la similitudine nelle sofferenze è un cemento che unisce molto di più di quella nei piaceri.
Su che dolorose fondamenta aveva avuto inizio la costruzione del loro amore!
Soltanto molto tempo dopo si sarebbero resi conto del rischio a cui andavano incontro: la somma di due sofferenze che altro poteva essere se non una doppia sofferenza?
Forse Diana lo aveva già intuito, perché disse a sua figlia, quel giorno:
<<Se la sua famiglia è invadente come la nostra, allora rischi di cadere dalla padella nella brace. E' meglio non scherzare col fuoco>>
Pur comprendendo il punto di vista di sua madre, Silvia si trovò a rispondere con una frase che sorprese lei stessa prima di chiunque altro:
<<Se non scherzi mai col fuoco, finirai per morire di freddo>>
mercoledì 1 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 57. L'anatema di Anita Monterovere
Tra i tanti problemi di Francesco Monterovere c'era anche quello dell'invadenza di sua zia Anita, e questo perché Anita Monterovere, non avendo una vita propria, si era insinuata in quella dei suoi nipoti in maniera astuta e implacabile.
Nel caso di Francesco, poi, era stato molto facile.
La madre di lui, Giulia Lanni, soffriva di gravi problemi cardiaci, ed era costretta a vivere a letto, bombardata di farmaci che le abbattevano la pressione sanguigna e la sedavano pesantemente.
Anita quindi era divenuta una sorta di "madre surrogata" per Francesco, aiutata anche dalla sua cultura e dal suo indubbio carisma.
Viveva nel grande appartamento dei genitori, insieme alla vecchia madre Eleonora Bonaccorsi, nonna di Francesco, e ad alcuni cugini di quest'ultimo, rimasti orfani a causa della tubercolosi o della guerra.
Era una dimora signorile, che donna Eleonora e sua figlia Anita avevano acquistato grazie ai proventi che derivavano loro dall'essere socie dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, la quale aveva distribuito le quote anche per oscuri motivi di risparmio fiscale.
E quello era un motivo decisamente concreto per cui il padre di Francesco, l'inflessibile Romano Monterovere, aveva imposto d'autorità ai figli di recarsi ogni maledetta domenica a rendere omaggio alla nonna Eleonora e alla zia Anita, nonché ai cuginetti.
Il salotto della "signorina Monterovere" era molto grande e riccamente arredato, con uno stile tardo vittoriano che dava l'impressione di trovarsi all'interno di un castello neogotico inglese.
Essendo inoltre Anita una donna colta, l'unica dei nove fratelli Monterovere ad aver frequentato il Ginnasio e successivamente l'Istituto Magistrale, esercitando onorevolmente la professione per quarant'anni, ci teneva che il proprio salotto diventasse un centro di ritrovo per l'intellighenzia faentina, anche sfruttando le numerose amicizie di suo fratello Edoardo, la cui carriera politica era ormai consolidata.
Se c'era dunque una donna teoricamente in grado di poter apprezzare la futura suocera di suo nipote Francesco avrebbe dovuto essere proprio Anita Monterovere, e invece, come purtroppo accade di frequente, quelli che in teoria dovrebbero essere i nostri principali sostenitori, diventano al contrario, e per ragioni difficilmente comprensibili, i nostri più acerrimi nemici.
Quando infatti Francesco, vincendo la sua naturale ritrosia a parlare di questioni personali, soprattutto quelle che riguardavano i suoi sentimenti, si confidò con la zia Anita, quest'ultima reagì mostrando una freddezza mai vista prima.
E dire che all'epoca non c'era ancora nulla di concreto tra Francesco e Silvia!
Ma la zia mostrò uno sdegno che non avrebbe sfoderato nemmeno se il nipote le avesse dichiarato di aver commesso un omicidio.
Francesco ne fu sconvolto, ma attribuì tale reazione ai meri pregiudizi di suo padre nei confronti di Ettore Ricci, e questo fu il suo secondo errore, perché l'oggetto del risentimento di Anita era un altro.
La signorina Monterovere, infatti, aveva maturato, in segreto, un rancore del tutto irrazionale nei confronti della famosa Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, la cui fama era giunta molto oltre i confini della Contea, arrivando fino a Faenza e dunque fino al salotto della zia Anita, la quale, ascoltando i miti che circolavano riguardo a quella donna leggendaria, si era subito schierata contro di lei, quasi ne avesse ricevuto un torto personale.
I meno informati avrebbero potuto liquidare la questione come una tipica rivalità tra primedonne, ma questa spiegazione sarebbe stata riduttiva e parziale, perché in fondo il rancore di Anita nacque ben prima di conoscere Diana di persona, e il suo anatema verso la figlia di quest'ultima fu del tutto immotivato e assurdamente esagerato, tanto da sfociare in una vera e propria faida, una sorta di Guerra delle Due Rose.
In questo caso, le radici di questo conflitto vanno ricercate molto in profondità, nella psicologia delle due donne che per i successivi quarant'anni si sfidarono in un duello senza esclusione di colpi.
Contrariamente a quel che si crede, le faide familiari non riguardano l'odio e nemmeno gli interessi materiali o le competizioni che possono, in origine, averle causate.
Le faide riguardano il dolore e hanno la loro vera origine nel dolore.
E' il dolore che le alimenta e le tiene in vita anche quando se n'è perso ogni plausibile significato.
Nel caso della faida che a partire dagli Anni Settanta si sviluppò tra Anita Monterovere e la suocera di suo nipote Francesco, Diana Orsini, c'erano da parte della prima le frustrazioni tipiche di una vecchia zitella inacidita e da parte della seconda la totale sfiducia nell'istituzione matrimoniale da parte di una nobildonna decaduta costretta a sposare, in giovane età, un contadino arricchito per evitare la rovina economica della propria dinastia.
Per capire come mai questi due dolori, vissuti da due donne intelligenti, seppur di carattere orgoglioso e permaloso, siano sfociati in un'ostilità così profonda da ripercuotersi su tutte e due le loro famiglie (il clan Monterovere e il clan Ricci-Orsini), è necessario partire da origini remote, che affondano le radici in profondità (perché come scrisse Tolkien: "le radici profonde non gelano").
Incominciamo dunque dalle origini.
Anita Monterovere e Diana Orsini erano coetanee, entrambe nate nel 1913, alla fine della Belle Epoque, di cui sembravano essere l'ultima sopravvivenza esistente sulla faccia della Terra, in particolare quelle rare volte in cui si sarebbero trovate ad essere "compagne di merende" nei loro rispettivi salotti: quello neogotico della prima e quello liberty della seconda.
Ma le similitudini non finivano qui.
Sia Anita che Diana erano venute al mondo in famiglie che, pur essendo state un tempo ricche e importanti, attraversavano una fase di profonda crisi finanziaria, e dunque, nonostante avessero ricevuto un'educazione di prima classe (studi ginnasiali, diploma magistrale, lezioni di pianoforte, canto, francese, equitazione e danza classica) erano ben consapevoli che soltanto un matrimonio con un uomo ricco avrebbe potuto salvarle dagli usurai.
Come ben sappiamo, Diana fu costretta dai genitori a sposare Ettore Ricci, il figlio dell'usuraio Giorgio Ricci detto "Zuarz",
Sappiamo inoltre (per quanto sia ora opportuno ritornare sull'argomento) che Anita Monterovere non si sposò mai, pur essendo più bella di Marlene Dietrich (a cui assomigliava in modo sorprendente), a causa del suo carattere acido e irascibile, che metteva in fuga anche i pretendenti più determinati.
Lei stessa ne parlava con disprezzo, chiamandoli "i miei sette fidanzati di gomma", alludendo anche alle loro scadenti prestazioni sessuali.
Pur ostentando disprezzo verso i suoi ex, Anita invidiava profondamente tutte le donne sposate, in particolare quelle che avevano sposato un uomo ricco, mentre Diana invidiava tutte le donne nubili, perché non erano state costrette a sposare un uomo che non amavano, come era invece successo a lei.
La questione economica era un'altro motivo di rancore.
Anita Monterovere, che in gioventù avrebbe tanto desiderato farsi mantenere dalla famiglia o da un marito o un amante, dovette invece lavorare come maestra elementare nella lontana città di Fiume (che all'epoca era ancora italiana) per sopravvivere negli anni in cui la sua famiglia stava cercando di risollevarsi dalla crisi creando l'Azienda Escavatrice e Idraulica di cui si è detto sopra.
Diana Orsini invece, che avrebbe desiderato più di ogni altra cosa di diventare insegnante, fu costretta dal marito a occuparsi delle questioni domestiche, subendo peraltro le insolenze della governante Ida Braghiri, la donna più perfida e astuta della sua generazione, che poteva contare sulla cieca fiducia della famiglia Ricci.
Ma arriviamo a questioni più vicine agli argomenti e agli eventi che furono alla base della faida.
Anita invidiava tutte le donne che avevano figli e pertanto, quando (miracolosamente scampata alle foibe titine) tornò da Fiume a Faenza nel '44, fece di tutto per insinuarsi nella vita familiare dei suoi fratelli e, approfittando del carattere fragile o della salute cagionevole delle sue tisiche e cardiopatiche cognate, riuscì a fare da madre ai suoi nipoti, in particolare a quelli maschi, tra cui il nostro Francesco, futuro genero di Diana Orsini.
L'appartamento di Anita Monterovere a Faenza divenne quasi l'abitazione principale dei figli dei suoi fratelli, così come il suo salotto si trasformò, come lungamente auspicato, in un ritrovo intellettuale.
Ma Anita sapeva che avere dei nipoti, per quanto assoggettati, non era la stessa cosa che avere dei figli.
Lo sapeva bene anche Diana, che invece aveva vissuto le sue tre gravidanze come un'ulteriore sciagura capitatale durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e dell'occupazione tedesca, seguita poi dalle vendette partigiane, e in più si era sentita rimproverare dal marito perché aveva partorito solo figlie femmine.
E dal momento che Diana non era il tipo da sopportare in silenzio le critiche, rispose ai rimproveri del marito con un vero e proprio "sciopero sessuale", impedendo ad Ettore di toccarla fino a quando una fortunatamente prematura menopausa svincolò entrambi i coniugi dal dovere matrimoniale della riproduzione.
Per Anita tutto questo era scandaloso e disdicevole, ma in fondo era sempre l'invidia a muovere il suo apparente disprezzo verso Diana.
Ma la colpa principale di quest'ultima era aver generato una figlia che, senza nemmeno rendersene conto, stava strappando ad Anita il suo nipote preferito, Francesco, per il quale aveva già, nelle sue fantasie, scelto la moglie ideale, ossia una certa Ivana, maestra elementare che era stata sua allieva e poi giovane collega.
Era semplicemente inconcepibile, per Anita, che Francesco potesse aver messo gli occhi su un'altra donna non scelta da lei, e men che meno proprio sulla figlia di Diana Orsini.
Per questa ragione, quando Francesco, ingenuamente, confidò alla zia di essersi innamorato di Silvia Ricci-Orsini, la signorina Monterovere considerò questo fatto come un gravissimo affronto personale e un imperdonabile atto di lesa maestà.
E come un pontefice del Medioevo, Anita, dopo una lunga e severissima requisitoria, degradò il nipote a "pecora nera della famiglia" e scagliò contro Silvia e sua madre Diana il proprio inappellabile anatema, a cui tenne fede con implacabile determinazione, dedicando il resto della sua purtroppo lunga vita a rovinare la vita stessa delle altre due donne, che all'epoca non avevano mai neppure sentito parlare di lei.
venerdì 27 marzo 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 56. Chiare, fresche e dolci acque
Sostiene una nota canzone "primaverile" che per innamorarsi basta un'ora.
Non fu così per Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini.
Non ci fu il cosiddetto "colpo di fulmine" in stile petrarchesco, con lui che viene trafitto dalla freccia di Cupido non appena la vede, il venerdì santo del 1327, e benedice quel giorno e quel luogo in uno dei suoi più famosi sonetti.
Niente di tutto questo.
O per lo meno, se proprio deve esserci uno sfondo idilliaco, con tanto di "chiare, fresche et dolci acque", si trattò, al massimo, di quelle del Canale Emiliano Romagnolo.
E questo perché la realtà è tremendamente prosaica, a dispetto di tutte le romanticherie immaginarie che si ripetono di generazione in generazione, dai grandi esempi letterari fino alle loro vulgate cinematografiche, fatte di film con Audrey Hepburn o Julia Roberts, via via decadendo, fino alle serie tv per adolescenti, tipo Riverdale, dove le coppie e gli amori sono falsi come l'ottone, per esprimersi con un'espressione che Ettore Ricci usava di frequente.
Ma torniamo ai nostri "anti-eroi" per ricostruire i loro primi dialoghi, tenendo conto che essi avvennero all'inizio degli Anni Settanta.
Innanzitutto va detto che il prof. Giovannelli, richiesto da Silvia di descrivere il collega Monterovere, non fu particolarmente generoso nei suoi confronti:
<<Mah, è un tipo strano. Dicono che venga dai monti. Ha dei modi bruschi, si mangia le parole, divora i cibi come un selvaggio, si sbriciola tutto. E poi come si esprime! Sembra dislessico...
E come insegnante non ne parliamo! E' pieno di controsensi: è laureato in matematica e non sa fare i conti, in compenso però ha messo in programma delle cose assurde, inaudite : la logica, gli insiemi, le relazioni... sta dei mesi a parlare di quella roba. E niente algebra, niente geometria! E poi è un fanatico di quelle cose strane di elettronica... non so cosa siano, li chiama calcolatori, ma non servono per fare i conti... sono delle macchine assurde, enormi, totalmente inutili... sai, la classica americanata... lui le chiama anche con un nome in inglese che non mi ricordo nemmeno, tanto si capisce subito che non hanno futuro...
Lui poi è una testa calda, un anticonformista, uno che ci tiene a épater le bourgeois...
Però, nonostante tutto, ho deciso di invitarlo per la gita a Parigi perché sono sicuro che ci farà ridere, senza volerlo, naturalmente>>
Questa dunque, la presentazione,
Ma cerchiamo di ricostruire insieme quello che accadde nel giorno in cui "il club di Piero" (ossia la cerchia eletta del prof. Giovannelli) si ritrovò sul treno che li avrebbe portati a Parigi.
Silvia non era molto alta di statura, ma nascondeva astutamente questo fatto avvalendosi della moda degli Anni Settanta: i pantaloni svasati, a zampa o a palazzo, le permettevano di indossare tacchi vertiginosi senza dare scandalo.
In quel fatidico giorno, Silvia vide avvicinarsi Francesco e lo osservò con attenzione: era molto alto, aveva capelli folti e castani, occhi nocciola screziati di verde, lo sguardo distratto, che sembrava sempre guardare altrove, in qualche dimensione parallela.
Quando però riconobbe Silvia, fu lui a farsi avanti e dopo le presentazioni e i convenevoli, iniziò subito a sondare il terreno:
<<Mi hanno detto che sei una letterata d'eccezione e una latinista insuperabile>>
<<Oh, che esagerazioni! Sono solo una che ha studiato molto>>
<<Ma per essere bravi in latino bisogna essere anche molto intelligenti. E' una materia logica>>
<<Be', sì...>>
<<E poi... ehm... ho sentito dire anche altre cose. Che i tuoi genitori hanno un feudo addirittura, e conoscenze nell'alta società>>
Lei sorrise per quella descrizione bambinesca, ma cercò di minimizzare, col suo solito undestatement:
<<Mah, a dire il vero mio padre è un semplice contadino che ha fatto fortuna e mia madre appartiene a una famiglia nobile decaduta. Hanno delle terre, ma il nome "Feudo Orsini", che hanno voluto mantenere in onore di mia madre, è fuorviante: è più che altro un'azienda agricola. E riguardo alla cosiddetta "alta società", che dire? Abbiamo qualche parente che ha fatto carriera, ma io non ho mai voluto favori. Quello che ho fatto, l'ho fatto con le mie forze. Non dare retta a tutte le chiacchiere di Piero>>
Lui la squadrò con attenzione:
<<Non è stato solo lui a parlarmi della tua famiglia. Hai presente i lavori per il Canale Emiliano-Romagnolo?>>
<<Sì, certo. Dovrà proprio passare per le terre di mio padre. Lui teme un esproprio da parte della Province di Ravenna e di Forlì. E' arrabbiatissimo per questa storia: sai, le giunte sono di sinistra e mio padre è sempre stato di destra, per cui è certo che non gli daranno gran che, come indennizzo>>
Francesco sorrise:
<<Ecco, tu pensa che i lavori per il tratto della Romagna Centrale sono stati affidati all'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, che è attualmente diretta da mio padre.
E nella famosa giunta "di sinistra" di Ravenna, l'assessore alle opere pubbliche è mio zio Edoardo, un comunista della prima ora.
E' lui che ha preso informazioni sul Feudo Ricci-Orsini>>
Silvia rimase di sasso:
<<Ma guarda che scherzo del destino! Mi ritrovo come collega e compagno di viaggio il figlio di un nemico di mio padre... Neanche in un romanzo d'appendice da quattro soldi si potrebbe trovare una trama così stereotipata>>
Francesco esitò qualche istante, poi disse:
<<Ad essere sinceri, mi pare che la storia dei Ricci-Orsini assomigli più che altro ad un romanzo giallo, un thriller, forse persino un noir con venature horror.
Mio padre mi ha raccontato delle storie veramente strane su certi episodi del vostro passato, si parla di delitti irrisolti, di alcune morti sospette...>>
Silvia si rabbuiò:
<<Tutte sciocchezze! Sono solo dicerie senza fondamento. Vaneggiamenti! E spero bene che tu non dia alcun credito a queste chiacchiere. Noi siamo gente per bene. Non dimenticarlo!>>
Detto questo, Silvia tirò dritto per il corridoio del treno, alla ricerca dello scompartimento di Piero e dei suoi eletti, facendo ticchettare i suoi tacchi alti, mentre Francesco la fissava con interesse accresciuto, perché gli piacevano le donne battagliere, specie quelle che sapevano combattere, per così dire, "in punta di tacco"...
In ogni caso, il ghiaccio era stato rotto.
La gita a Parigi permise a Francesco Monterovere di stringere amicizia con tutti i componenti del "club di Piero", compreso lo stesso Piero, il quale ebbe modo di apprezzare due qualità del nuovo "adepto" ossia l'indubbia intelligenza e la capacità di ascoltare senza mai pretendere di diventare il protagonista, ruolo che era "de iure" destinato al prof. Giovannelli.
Anche Silvia ebbe modo di rendersi conto che in fondo il Monterovere era un uomo interessante, che la faceva sentire a suo agio e la cui compagnia aveva il raro dono di rallegrarla, tanto che, in quella gita a Parigi, ella sentì alleviarsi, dopo tanto, tanto tempo, il peso della propria coscienza.
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