Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
sabato 4 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 58. La costruzione di un amore
La costruzione di un amore, secondo una famosa canzone che Ivano Fossati scrisse per Mia Martini, è "come un grattacielo di cento piani".
Per Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini si trattò di qualcosa di più simile al Burj Khalifa, che di piani ne ha 163, più due sotterranei, e mai si seppe se un tale sforzo da parte dei nostri due protagonisti valse la pena di essere compiuto, perché il risultato produsse meno successi di quanti ne ebbe l'emirato di Dubai.
Questo dubbio non riguarda tanto la loro unione, che pur nella sua lunghissima e burrascosa durata, si potrebbe considerate comunque un traguardo notevole, quanto piuttosto le preoccupazioni e le sofferenze che derivarono prima dall'opposizione ferrea delle loro due famiglie d'origine, e poi dall'invidia di tutti gli altri, che trovò facile bersaglio nella loro prole.
Già si è detto delle reazioni della famiglia Monterovere alle confidenze di Francesco, che avvennero molto prima che Silvia si rendesse conto che il giovane Monterovere la stava corteggiando, pur nel suo modo timido e impacciato.
Nulla si è invece anticipato su come il clan Ricci-Orsini recepì le prime confidenze di Silvia, che dopo il viaggio a Parigi aveva incominciato a nutrire una certa curiosità sulla famiglia Monterovere.
Il ritorno di Silvia era stato preceduto da un fattorino, che recapitava un regalo a sua madre, ossia un prezioso tavolino da salotto in stile Art Nuveau acquistato nella Ville Lumière.
Purtroppo, quando il tavolino approdò al suo luogo naturale, ossia il Salotto Liberty di Villa Orsini, era presente anche Ettore Ricci, il cui commento fu assai sprezzante:
<<Chissà quanto è costato! E guarda lì che gambette... non sta in piedi... non arriverà a Natale>>
Diana era stupefatta:
<<Ma si può sapere cosa ti prende? Oggi sei ancora più grezzo e meschino del solito!>>
Ettore non aspettava altro:
<<C'è che nostra figlia, oltre a buttar via i miei soldi e a darsi alla pazza gioia a Parigi, si è anche messa a fraternizzare col nemico>>
Diana alzò gli occhi al cielo:
<<L'unico nemico che abbiamo è quello spione traditore di Massimo Braghiri, che non era nemmeno invitato alla gita di Parigi, e scommetto che è stato lui a metterti in testa queste idiozie!>>
Ettore si concesse un lieve sorriso:
<<Non lui direttamente. Ha mandato avanti la figlia di tua sorella>>
Diana era ancora più sdegnata:
<<Quella velenosa vipera di Elisabetta! Silvia ha detto che a scuola tutti sanno che è la spia del preside. Sarebbe capace di tutto pur di infangare nostra figlia>>
<<Tua figlia! Perché da me non ha preso niente, a parte i soldi!>>
<<Sei disgustoso, Ettore!>>
<<E se ti dicessi che Silvia ha davvero preso in simpatia un certo Francesco Monterovere, figlio di quelli che vogliono far passare un canale nel bel mezzo delle nostre terre?>>
Diana aveva sentito qualcosa al riguardo, ma si trattava di un progetto ancora del tutto teorico.
In compenso, però, la vecchia Contessa Vedova Emilia, risvegliatasi dal suo torpore etilico, bofonchiò:
<<I Monterovere! E' un cognome famoso. C'era un illustre generale, Raimondo Monterovere, Conte di Querciagrossa, che combatté per gli Asburgo contro gli Ottomani!>>
Ettore Ricci rise:
<<No, non credo proprio che siano parenti di questo tale. I Monterovere che dico io sono di Faenza e sono dei comunisti assatanati! E' grazie alle amicizie politiche che hanno avuto l'appalto per la Romagna centrale>>
Ma quel giorno Ettore, incredibilmente, si trovò contro persino sua madre, l'anziana maestra Clara:
<<Comunque la Contessa Emilia ha ragione. Ho letto un libro molto interessante sui Monterovere di Querciagrossa, e non è da escludersi che un ramo della famiglia possa essere...>>
Ettore esplose:
<<Ma allora vi siete messe tutte d'accordo per farmi venire un colpo? Volete tutte sbarazzarvi di me? Anche tu, mamma, ti metti a dare credito a queste stupidaggini!
Be', vi dico una cosa: non permetterò mai a questo Monterovere di prendersi mia figlia e soprattutto la mia terra!>>
Diana scattò in piedi e fronteggiò il marito:
<<La terra sarà anche tua, ma Silvia è mia figlia e non ti permetterò di rovinarle la vita così come hai fatto con me! E non lo permetterò nemmeno a quella serpe di Elisabetta o a quel viscido verme di Massimo! Siete tutti avvertiti: questa volta non accetterò alcun compromesso!>>
Ettore fulminò la moglie con lo sguardo:
<<Lo vedremo!>> sbottò, e se ne andò sbattendo la porta.
Due giorni dopo Silvia, ignara della tempesta che si era scatenata in sua assenza, tornò a casa.
Dagli sguardi costernati delle due nonne, Emilia e Clara, capì subito che c'era qualcosa che non andava. Si recò di sopra da sua madre, che era barricata in camera a causa di una sospetta emicrania.
Diana la ricevette con la faccia delle grandi occasioni:
<<Dobbiamo parlare>> le disse con voce nel contempo afflitta e solenne.
<<Scommetto che il babbo ha fatto una scenata per il tavolino>>
<<Sì, ma il problema è un altro. Elisabetta ha fatto la spia, come al solito, e ha messo in testa a tuo padre che alla gita a Parigi avrebbe partecipato anche un certo Monterovere che secondo lei ti starebbe ronzando attorno...>>
Silvia scosse il capo:
<<Quella vipera di Elisabetta!>>
Diana annuì vigorosamente:
<<Proprio così, quella maledetta vipera! Sarebbe capace di tutto pur di compiacere il suo Massimo.
Si pettina e si veste come Jackie Kennedy, ma l'abito non fa il monaco.
Ah, ma stavolta l'ha pagata cara: ho telefonato a mia sorella e le ho detto che sua figlia deve tenere a freno quella lingua biforcuta! Ginevra si è scusata e ha promesso che non si ripeterà, ma io temo il peggio, perché dietro tutta questa storia, ovviamente, c'è Massimo, che ha il dente avvelenato perché non è stato invitato alla famosa gita di Parigi>>
Silvia si sentì improvvisamente stanca:
<<Ogni volta che torno a Casemurate mi sembra che qui il tempo si sia fermato, come se fossimo ad Avalon, o nel regno di Faerie, avulsi dalla realtà, dal contesto.
Qui siamo tutti come eterni bambini che continuano a farsi i dispetti, mentre fuori il mondo cambia a tutta velocità. Riusciremo mai a comportarci in maniera adulta?>>
Diana sospirò:
<<Sono quarant'anni che me lo chiedo, ovviamente senza risposta, ma stavolta prometto che ti proteggerò dalle trame di Ettore e da quelle di Massimo ed Elisabetta, dovesse essere l'ultima cosa che faccio nella vita. Quando vorrai confidarti con me, io sarò comunque dalla tua parte>>
Silvia era confusa:
<<Ma non c'è niente da confidare. Francesco Monterovere non mi ha mica deflorata! Abbiamo solo parlato... non saprei dire nemmeno se mi piace o no>>
<<Ne sei sicura?>>
<<Sono sicura soltanto di una cosa: più il babbo si opporrà a lui, più lui mi starà simpatico, questo è certo. Mi sto rendendo conto che io e Francesco abbiamo in comune il fatto di essere cresciuti in due famiglie anomale, con padri tirannici, madri sofferenti e un corteo di parassiti intorno, pronti a tradirci appena voltiamo le spalle>>
Quella conversazione segnò una svolta nella mente e nel cuore di Silvia, perché parlando di Francesco aveva oggettivato, davanti a sé, quello che prima era rimasto sospeso nel subconscio, e cioè che in fondo c'era qualcosa che li legava nel profondo, e che era stato sussurrato nelle conversazioni sottovoce nei bistrot di Parigi: una realtà familiare, alle spalle, che li faceva sentire diversi dagli altri.
Certo, "ognuno porta con sé i suoi fantasmi", per dirla con Virgilio, ma quelli di Silvia e Francesco in fondo erano simili, e la similitudine nelle sofferenze è un cemento che unisce molto di più di quella nei piaceri.
Su che dolorose fondamenta aveva avuto inizio la costruzione del loro amore!
Soltanto molto tempo dopo si sarebbero resi conto del rischio a cui andavano incontro: la somma di due sofferenze che altro poteva essere se non una doppia sofferenza?
Forse Diana lo aveva già intuito, perché disse a sua figlia, quel giorno:
<<Se la sua famiglia è invadente come la nostra, allora rischi di cadere dalla padella nella brace. E' meglio non scherzare col fuoco>>
Pur comprendendo il punto di vista di sua madre, Silvia si trovò a rispondere con una frase che sorprese lei stessa prima di chiunque altro:
<<Se non scherzi mai col fuoco, finirai per morire di freddo>>
mercoledì 1 aprile 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 57. L'anatema di Anita Monterovere
Tra i tanti problemi di Francesco Monterovere c'era anche quello dell'invadenza di sua zia Anita, e questo perché Anita Monterovere, non avendo una vita propria, si era insinuata in quella dei suoi nipoti in maniera astuta e implacabile.
Nel caso di Francesco, poi, era stato molto facile.
La madre di lui, Giulia Lanni, soffriva di gravi problemi cardiaci, ed era costretta a vivere a letto, bombardata di farmaci che le abbattevano la pressione sanguigna e la sedavano pesantemente.
Anita quindi era divenuta una sorta di "madre surrogata" per Francesco, aiutata anche dalla sua cultura e dal suo indubbio carisma.
Viveva nel grande appartamento dei genitori, insieme alla vecchia madre Eleonora Bonaccorsi, nonna di Francesco, e ad alcuni cugini di quest'ultimo, rimasti orfani a causa della tubercolosi o della guerra.
Era una dimora signorile, che donna Eleonora e sua figlia Anita avevano acquistato grazie ai proventi che derivavano loro dall'essere socie dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, la quale aveva distribuito le quote anche per oscuri motivi di risparmio fiscale.
E quello era un motivo decisamente concreto per cui il padre di Francesco, l'inflessibile Romano Monterovere, aveva imposto d'autorità ai figli di recarsi ogni maledetta domenica a rendere omaggio alla nonna Eleonora e alla zia Anita, nonché ai cuginetti.
Il salotto della "signorina Monterovere" era molto grande e riccamente arredato, con uno stile tardo vittoriano che dava l'impressione di trovarsi all'interno di un castello neogotico inglese.
Essendo inoltre Anita una donna colta, l'unica dei nove fratelli Monterovere ad aver frequentato il Ginnasio e successivamente l'Istituto Magistrale, esercitando onorevolmente la professione per quarant'anni, ci teneva che il proprio salotto diventasse un centro di ritrovo per l'intellighenzia faentina, anche sfruttando le numerose amicizie di suo fratello Edoardo, la cui carriera politica era ormai consolidata.
Se c'era dunque una donna teoricamente in grado di poter apprezzare la futura suocera di suo nipote Francesco avrebbe dovuto essere proprio Anita Monterovere, e invece, come purtroppo accade di frequente, quelli che in teoria dovrebbero essere i nostri principali sostenitori, diventano al contrario, e per ragioni difficilmente comprensibili, i nostri più acerrimi nemici.
Quando infatti Francesco, vincendo la sua naturale ritrosia a parlare di questioni personali, soprattutto quelle che riguardavano i suoi sentimenti, si confidò con la zia Anita, quest'ultima reagì mostrando una freddezza mai vista prima.
E dire che all'epoca non c'era ancora nulla di concreto tra Francesco e Silvia!
Ma la zia mostrò uno sdegno che non avrebbe sfoderato nemmeno se il nipote le avesse dichiarato di aver commesso un omicidio.
Francesco ne fu sconvolto, ma attribuì tale reazione ai meri pregiudizi di suo padre nei confronti di Ettore Ricci, e questo fu il suo secondo errore, perché l'oggetto del risentimento di Anita era un altro.
La signorina Monterovere, infatti, aveva maturato, in segreto, un rancore del tutto irrazionale nei confronti della famosa Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, la cui fama era giunta molto oltre i confini della Contea, arrivando fino a Faenza e dunque fino al salotto della zia Anita, la quale, ascoltando i miti che circolavano riguardo a quella donna leggendaria, si era subito schierata contro di lei, quasi ne avesse ricevuto un torto personale.
I meno informati avrebbero potuto liquidare la questione come una tipica rivalità tra primedonne, ma questa spiegazione sarebbe stata riduttiva e parziale, perché in fondo il rancore di Anita nacque ben prima di conoscere Diana di persona, e il suo anatema verso la figlia di quest'ultima fu del tutto immotivato e assurdamente esagerato, tanto da sfociare in una vera e propria faida, una sorta di Guerra delle Due Rose.
In questo caso, le radici di questo conflitto vanno ricercate molto in profondità, nella psicologia delle due donne che per i successivi quarant'anni si sfidarono in un duello senza esclusione di colpi.
Contrariamente a quel che si crede, le faide familiari non riguardano l'odio e nemmeno gli interessi materiali o le competizioni che possono, in origine, averle causate.
Le faide riguardano il dolore e hanno la loro vera origine nel dolore.
E' il dolore che le alimenta e le tiene in vita anche quando se n'è perso ogni plausibile significato.
Nel caso della faida che a partire dagli Anni Settanta si sviluppò tra Anita Monterovere e la suocera di suo nipote Francesco, Diana Orsini, c'erano da parte della prima le frustrazioni tipiche di una vecchia zitella inacidita e da parte della seconda la totale sfiducia nell'istituzione matrimoniale da parte di una nobildonna decaduta costretta a sposare, in giovane età, un contadino arricchito per evitare la rovina economica della propria dinastia.
Per capire come mai questi due dolori, vissuti da due donne intelligenti, seppur di carattere orgoglioso e permaloso, siano sfociati in un'ostilità così profonda da ripercuotersi su tutte e due le loro famiglie (il clan Monterovere e il clan Ricci-Orsini), è necessario partire da origini remote, che affondano le radici in profondità (perché come scrisse Tolkien: "le radici profonde non gelano").
Incominciamo dunque dalle origini.
Anita Monterovere e Diana Orsini erano coetanee, entrambe nate nel 1913, alla fine della Belle Epoque, di cui sembravano essere l'ultima sopravvivenza esistente sulla faccia della Terra, in particolare quelle rare volte in cui si sarebbero trovate ad essere "compagne di merende" nei loro rispettivi salotti: quello neogotico della prima e quello liberty della seconda.
Ma le similitudini non finivano qui.
Sia Anita che Diana erano venute al mondo in famiglie che, pur essendo state un tempo ricche e importanti, attraversavano una fase di profonda crisi finanziaria, e dunque, nonostante avessero ricevuto un'educazione di prima classe (studi ginnasiali, diploma magistrale, lezioni di pianoforte, canto, francese, equitazione e danza classica) erano ben consapevoli che soltanto un matrimonio con un uomo ricco avrebbe potuto salvarle dagli usurai.
Come ben sappiamo, Diana fu costretta dai genitori a sposare Ettore Ricci, il figlio dell'usuraio Giorgio Ricci detto "Zuarz",
Sappiamo inoltre (per quanto sia ora opportuno ritornare sull'argomento) che Anita Monterovere non si sposò mai, pur essendo più bella di Marlene Dietrich (a cui assomigliava in modo sorprendente), a causa del suo carattere acido e irascibile, che metteva in fuga anche i pretendenti più determinati.
Lei stessa ne parlava con disprezzo, chiamandoli "i miei sette fidanzati di gomma", alludendo anche alle loro scadenti prestazioni sessuali.
Pur ostentando disprezzo verso i suoi ex, Anita invidiava profondamente tutte le donne sposate, in particolare quelle che avevano sposato un uomo ricco, mentre Diana invidiava tutte le donne nubili, perché non erano state costrette a sposare un uomo che non amavano, come era invece successo a lei.
La questione economica era un'altro motivo di rancore.
Anita Monterovere, che in gioventù avrebbe tanto desiderato farsi mantenere dalla famiglia o da un marito o un amante, dovette invece lavorare come maestra elementare nella lontana città di Fiume (che all'epoca era ancora italiana) per sopravvivere negli anni in cui la sua famiglia stava cercando di risollevarsi dalla crisi creando l'Azienda Escavatrice e Idraulica di cui si è detto sopra.
Diana Orsini invece, che avrebbe desiderato più di ogni altra cosa di diventare insegnante, fu costretta dal marito a occuparsi delle questioni domestiche, subendo peraltro le insolenze della governante Ida Braghiri, la donna più perfida e astuta della sua generazione, che poteva contare sulla cieca fiducia della famiglia Ricci.
Ma arriviamo a questioni più vicine agli argomenti e agli eventi che furono alla base della faida.
Anita invidiava tutte le donne che avevano figli e pertanto, quando (miracolosamente scampata alle foibe titine) tornò da Fiume a Faenza nel '44, fece di tutto per insinuarsi nella vita familiare dei suoi fratelli e, approfittando del carattere fragile o della salute cagionevole delle sue tisiche e cardiopatiche cognate, riuscì a fare da madre ai suoi nipoti, in particolare a quelli maschi, tra cui il nostro Francesco, futuro genero di Diana Orsini.
L'appartamento di Anita Monterovere a Faenza divenne quasi l'abitazione principale dei figli dei suoi fratelli, così come il suo salotto si trasformò, come lungamente auspicato, in un ritrovo intellettuale.
Ma Anita sapeva che avere dei nipoti, per quanto assoggettati, non era la stessa cosa che avere dei figli.
Lo sapeva bene anche Diana, che invece aveva vissuto le sue tre gravidanze come un'ulteriore sciagura capitatale durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale e dell'occupazione tedesca, seguita poi dalle vendette partigiane, e in più si era sentita rimproverare dal marito perché aveva partorito solo figlie femmine.
E dal momento che Diana non era il tipo da sopportare in silenzio le critiche, rispose ai rimproveri del marito con un vero e proprio "sciopero sessuale", impedendo ad Ettore di toccarla fino a quando una fortunatamente prematura menopausa svincolò entrambi i coniugi dal dovere matrimoniale della riproduzione.
Per Anita tutto questo era scandaloso e disdicevole, ma in fondo era sempre l'invidia a muovere il suo apparente disprezzo verso Diana.
Ma la colpa principale di quest'ultima era aver generato una figlia che, senza nemmeno rendersene conto, stava strappando ad Anita il suo nipote preferito, Francesco, per il quale aveva già, nelle sue fantasie, scelto la moglie ideale, ossia una certa Ivana, maestra elementare che era stata sua allieva e poi giovane collega.
Era semplicemente inconcepibile, per Anita, che Francesco potesse aver messo gli occhi su un'altra donna non scelta da lei, e men che meno proprio sulla figlia di Diana Orsini.
Per questa ragione, quando Francesco, ingenuamente, confidò alla zia di essersi innamorato di Silvia Ricci-Orsini, la signorina Monterovere considerò questo fatto come un gravissimo affronto personale e un imperdonabile atto di lesa maestà.
E come un pontefice del Medioevo, Anita, dopo una lunga e severissima requisitoria, degradò il nipote a "pecora nera della famiglia" e scagliò contro Silvia e sua madre Diana il proprio inappellabile anatema, a cui tenne fede con implacabile determinazione, dedicando il resto della sua purtroppo lunga vita a rovinare la vita stessa delle altre due donne, che all'epoca non avevano mai neppure sentito parlare di lei.
venerdì 27 marzo 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 56. Chiare, fresche e dolci acque
Sostiene una nota canzone "primaverile" che per innamorarsi basta un'ora.
Non fu così per Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini.
Non ci fu il cosiddetto "colpo di fulmine" in stile petrarchesco, con lui che viene trafitto dalla freccia di Cupido non appena la vede, il venerdì santo del 1327, e benedice quel giorno e quel luogo in uno dei suoi più famosi sonetti.
Niente di tutto questo.
O per lo meno, se proprio deve esserci uno sfondo idilliaco, con tanto di "chiare, fresche et dolci acque", si trattò, al massimo, di quelle del Canale Emiliano Romagnolo.
E questo perché la realtà è tremendamente prosaica, a dispetto di tutte le romanticherie immaginarie che si ripetono di generazione in generazione, dai grandi esempi letterari fino alle loro vulgate cinematografiche, fatte di film con Audrey Hepburn o Julia Roberts, via via decadendo, fino alle serie tv per adolescenti, tipo Riverdale, dove le coppie e gli amori sono falsi come l'ottone, per esprimersi con un'espressione che Ettore Ricci usava di frequente.
Ma torniamo ai nostri "anti-eroi" per ricostruire i loro primi dialoghi, tenendo conto che essi avvennero all'inizio degli Anni Settanta.
Innanzitutto va detto che il prof. Giovannelli, richiesto da Silvia di descrivere il collega Monterovere, non fu particolarmente generoso nei suoi confronti:
<<Mah, è un tipo strano. Dicono che venga dai monti. Ha dei modi bruschi, si mangia le parole, divora i cibi come un selvaggio, si sbriciola tutto. E poi come si esprime! Sembra dislessico...
E come insegnante non ne parliamo! E' pieno di controsensi: è laureato in matematica e non sa fare i conti, in compenso però ha messo in programma delle cose assurde, inaudite : la logica, gli insiemi, le relazioni... sta dei mesi a parlare di quella roba. E niente algebra, niente geometria! E poi è un fanatico di quelle cose strane di elettronica... non so cosa siano, li chiama calcolatori, ma non servono per fare i conti... sono delle macchine assurde, enormi, totalmente inutili... sai, la classica americanata... lui le chiama anche con un nome in inglese che non mi ricordo nemmeno, tanto si capisce subito che non hanno futuro...
Lui poi è una testa calda, un anticonformista, uno che ci tiene a épater le bourgeois...
Però, nonostante tutto, ho deciso di invitarlo per la gita a Parigi perché sono sicuro che ci farà ridere, senza volerlo, naturalmente>>
Questa dunque, la presentazione,
Ma cerchiamo di ricostruire insieme quello che accadde nel giorno in cui "il club di Piero" (ossia la cerchia eletta del prof. Giovannelli) si ritrovò sul treno che li avrebbe portati a Parigi.
Silvia non era molto alta di statura, ma nascondeva astutamente questo fatto avvalendosi della moda degli Anni Settanta: i pantaloni svasati, a zampa o a palazzo, le permettevano di indossare tacchi vertiginosi senza dare scandalo.
In quel fatidico giorno, Silvia vide avvicinarsi Francesco e lo osservò con attenzione: era molto alto, aveva capelli folti e castani, occhi nocciola screziati di verde, lo sguardo distratto, che sembrava sempre guardare altrove, in qualche dimensione parallela.
Quando però riconobbe Silvia, fu lui a farsi avanti e dopo le presentazioni e i convenevoli, iniziò subito a sondare il terreno:
<<Mi hanno detto che sei una letterata d'eccezione e una latinista insuperabile>>
<<Oh, che esagerazioni! Sono solo una che ha studiato molto>>
<<Ma per essere bravi in latino bisogna essere anche molto intelligenti. E' una materia logica>>
<<Be', sì...>>
<<E poi... ehm... ho sentito dire anche altre cose. Che i tuoi genitori hanno un feudo addirittura, e conoscenze nell'alta società>>
Lei sorrise per quella descrizione bambinesca, ma cercò di minimizzare, col suo solito undestatement:
<<Mah, a dire il vero mio padre è un semplice contadino che ha fatto fortuna e mia madre appartiene a una famiglia nobile decaduta. Hanno delle terre, ma il nome "Feudo Orsini", che hanno voluto mantenere in onore di mia madre, è fuorviante: è più che altro un'azienda agricola. E riguardo alla cosiddetta "alta società", che dire? Abbiamo qualche parente che ha fatto carriera, ma io non ho mai voluto favori. Quello che ho fatto, l'ho fatto con le mie forze. Non dare retta a tutte le chiacchiere di Piero>>
Lui la squadrò con attenzione:
<<Non è stato solo lui a parlarmi della tua famiglia. Hai presente i lavori per il Canale Emiliano-Romagnolo?>>
<<Sì, certo. Dovrà proprio passare per le terre di mio padre. Lui teme un esproprio da parte della Province di Ravenna e di Forlì. E' arrabbiatissimo per questa storia: sai, le giunte sono di sinistra e mio padre è sempre stato di destra, per cui è certo che non gli daranno gran che, come indennizzo>>
Francesco sorrise:
<<Ecco, tu pensa che i lavori per il tratto della Romagna Centrale sono stati affidati all'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere, che è attualmente diretta da mio padre.
E nella famosa giunta "di sinistra" di Ravenna, l'assessore alle opere pubbliche è mio zio Edoardo, un comunista della prima ora.
E' lui che ha preso informazioni sul Feudo Ricci-Orsini>>
Silvia rimase di sasso:
<<Ma guarda che scherzo del destino! Mi ritrovo come collega e compagno di viaggio il figlio di un nemico di mio padre... Neanche in un romanzo d'appendice da quattro soldi si potrebbe trovare una trama così stereotipata>>
Francesco esitò qualche istante, poi disse:
<<Ad essere sinceri, mi pare che la storia dei Ricci-Orsini assomigli più che altro ad un romanzo giallo, un thriller, forse persino un noir con venature horror.
Mio padre mi ha raccontato delle storie veramente strane su certi episodi del vostro passato, si parla di delitti irrisolti, di alcune morti sospette...>>
Silvia si rabbuiò:
<<Tutte sciocchezze! Sono solo dicerie senza fondamento. Vaneggiamenti! E spero bene che tu non dia alcun credito a queste chiacchiere. Noi siamo gente per bene. Non dimenticarlo!>>
Detto questo, Silvia tirò dritto per il corridoio del treno, alla ricerca dello scompartimento di Piero e dei suoi eletti, facendo ticchettare i suoi tacchi alti, mentre Francesco la fissava con interesse accresciuto, perché gli piacevano le donne battagliere, specie quelle che sapevano combattere, per così dire, "in punta di tacco"...
In ogni caso, il ghiaccio era stato rotto.
La gita a Parigi permise a Francesco Monterovere di stringere amicizia con tutti i componenti del "club di Piero", compreso lo stesso Piero, il quale ebbe modo di apprezzare due qualità del nuovo "adepto" ossia l'indubbia intelligenza e la capacità di ascoltare senza mai pretendere di diventare il protagonista, ruolo che era "de iure" destinato al prof. Giovannelli.
Anche Silvia ebbe modo di rendersi conto che in fondo il Monterovere era un uomo interessante, che la faceva sentire a suo agio e la cui compagnia aveva il raro dono di rallegrarla, tanto che, in quella gita a Parigi, ella sentì alleviarsi, dopo tanto, tanto tempo, il peso della propria coscienza.
sabato 21 marzo 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 55. Partners in crime
Nessuno aveva mai capito perché Silvia Ricci-Orsini, nonostante fosse corteggiata, fin dai tempi del liceo, da tanti validi pretendenti, li avesse respinti uno dietro l'altro fino all'età di trent'anni.
A dire il vero, non lo capiva esattamente nemmeno lei.
La sua personalità era infatti piuttosto complessa e lacerata da numerosi conflitti interiori.
In lei la componente genetica paterna dei Ricci e quella materna degli Orsini si erano trovate in perfetta parità, e dunque nessuna delle due riusciva a prendere stabilmente il sopravvento sull'altra.
E questo aveva riprodotto, dentro di lei, qualcosa che accadeva da sempre fuori di lei e intorno a lei, ossia le interminabili liti tra suo padre e sua madre.
Ettore Ricci e Diana Orsini continuavano a farsi la guerra all'interno della psiche della loro figlia di mezzo, che comprendeva le ragioni di entrambi e non riusciva a scegliere da che parte stare e di conseguenza che tipo di persona essere.
Del padre ammirava la forza, la determinazione, il coraggio e la laboriosità, ma si vergognava dei suoi modi rozzi, della sua insaziabile sete di denaro e di potere, dei suoi metodi poco ortodossi e dei collaboratori di cui si era circondato, e che sua madre divideva in due categorie: i "pendagli da forca" e quelli che non valevano la corda per impiccarli.
Della madre ammirava la gentilezza, il garbo, la raffinatezza e la cultura, ma non poteva fare a meno di notarne la sensibilità eccessiva, l'ironia corrosiva, il pessimismo radicale e assoluto (per quanto fondato su esperienze terribili e ragionamenti inconfutabili), tutti elementi che la portavano a indulgere all'accidia, in una sorta di quasi masochistica voluptas dolendi.
E ciò che preoccupava Silvia più di ogni altra cosa, era il riscontrare in se stessa gli stessi pregi, ma purtroppo anche, seppure in maniera attenuata e nascosta, una parte degli stessi difetti.
Ogni volta che individuava in sé un sentimento o un atteggiamento che le ricordava tali difetti, cercava subito di porvi rimedio, e ci riusciva, ma a caro prezzo, poiché la repressione degli istinti tende a ripresentarsi sotto forma di nevrosi.
E a voler essere sinceri, i primi sintomi di certe forme di ansia, di fobia, di pensieri ossessivi, o di emozioni troppo intense, avevano già fatto la comparsa nella sua mente a partire dall'adolescenza, sebbene nascosti dietro una facciata assolutamente irreprensibile.
Si era dunque convinta, e non senza validi argomenti, di non essere adatta al matrimonio o alla maternità, e per questo aveva rifuggito ogni relazione sentimentale, e fatto tacere ogni forma di sentimento o di desiderio.
Aveva adottato come suo motto due versi di una canzone francese dei tempi di Maria Antonietta, che spesso aveva sentito canticchiare da sua nonna, la Contessa Vedova Emilia, quando il delirio etilico allentava i già piuttosto deboli freni inibitori:
"Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie"
Quel motto, a dire il vero, era stato trasmesso di generazione in generazione, probabilmente fin dai tempi dell'Ancien Regime, e fatto proprio da ogni Contessa Orsini di Casemurate, quasi che l'infelicità matrimoniale fosse una maledizione di famiglia.
E se anche, per puro caso, qualche matrimonio fosse stato meno fallimentare degli altri, era comunque stato funestato (poiché non è dato all'uomo di godere di gioie incontaminate), da una prole quasi del tutto fallimentare.
E dunque niente relazioni, niente amori, niente sesso, niente matrimonio, niente figli, niente di niente di niente...
Queste almeno erano le intenzioni di Silvia Ricci-Orsini nell'anno 1971.
Ma come si è detto nel capitolo precedente, la volontà umana incontra i suoi limiti di fronte ai principi fondamentali dell'universo, che restano pur sempre l'Errore e il Caso.
Tali forze erano state evocate dal collega e organizzatore di eventi ricreativi, prof. Piero Giovannelli, e avevano trovato la loro caotica incarnazione in Francesco Monterovere, un uomo che era un enigma persino per se stesso, e che fino a quel momento aveva attraversato la propria vita come un sonnambulo, dimenticando tutto e rimuovendo ogni ricordo sgradevole, e cioè dunque la quasi totalità.
Anche in lui, sebbene non ne fosse consapevole, si consumava il conflitto tra le tare ereditarie dei Monterovere, in particolare il carattere iracondo, ansioso, ombroso ed ossessivo e quelle materne dei Lanni, di indole introversa, malinconica e afflitta da fobie di ogni genere.
Il trentatreenne professor Monterovere era entrato da poco, per cooptazione, nel Club esclusivissimo del Giovannelli, di cui Silvia era tra le fondatrici, e dunque era stato nel contesto delle numerose cene e gite di quell'illustre comitiva che i due, ossia Silvia e Francesco, avevano avuto occasione di scambiare le loro prime parole e di conoscersi meglio.
Sappiamo che Francesco era già infatuato di lei, ma questo non giocò affatto a suo favore, perché i suoi tentativi di seduzione erano talmente goffi e maldestri da risultare comici nella migliore delle ipotesi, e profondamente imbarazzanti in tutte le altre.
E allora quale fu la scintilla che fece nascere tra quelle due persone così diverse e distanti il desiderio di unire le proprie sorti, dimenticando tutti i buoni propositi del passato?
Non è facile trovare una risposta, ma dopo lunghe ricerche crediamo infine di averla individuata.
Ci vuole molta forza per riuscire a percorrere l'intero cammino della vita da soli, senza l'appoggio di qualcuno che dice di amarci, e che sembra avere compreso il nostro animo meglio di tutti gli altri.
Ma a volte succede che questo "qualcuno" non ci ama come vorremmo e non ha realmente capito chi siamo, e di questo ci accorgiamo solo in un secondo momento, quando la lucidità torna a prendere il controllo sulle emozioni e sulle passioni. E accade che, per dirla con Lucrezio, dimidio de fonte leporum surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat. E allora ci svegliamo un giorno di fianco a una persona sconosciuta e veniamo colti dallo sgomento e dalla tentazione di fuggire.
Pochi, però, hanno sufficiente lucidità per capirlo e determinazione per farlo.
Ciò che intendiamo dire è che le coppie che restano unite non sono necessariamente entusiaste di questa unione, ma semplicemente ci si ritrovano a tal punto invischiate che non riescono a trovare la forza per uscirne, anche perché il ritornare da soli richiede un coraggio immenso.
E' forse questa paura della solitudine che tiene insieme le coppie e le spinge a cementare la loro unione col matrimonio e la procreazione?
Dispiace dirlo, ma forse è proprio così: ciò che garantisce la sopravvivenza del genere umano non è l'amore, ma è la paura della solitudine.
Mentre scriviamo queste cose, ci torna alla mente una canzone dal titolo significativo: "Home", perché è quello, e non l'amore, ciò che una coppia crea: una casa, un nido dove riscaldarsi a vicenda e fecondarsi e deporre le uova, e covarle finché non si schiudono e i piccoli non hanno imparato a volare, ammesso che ci riescano.
"Heaven knows- what keeps mankind alive
Ev'ry hand- goes searching for its partner
In crime- under chairs and behind tables"
Ogni mano cerca la sua complice in un crimine. Per un pessimista radicale il semplice mettere al mondo qualcuno è un sopruso. Non stiamo dicendo nulla di nuovo : già Sofocle, duemila e quattrocento anni fa, nella sua ultima tragedia, l'Edipo a Colono, espresse, novantenne, il suo pensiero: «Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia» (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237). In molti, e tra i più saggi, nei secoli seguenti si sono espressi in tal senso: non nascere può essere il più grande dei doni.
Chi si scrive si trova alquanto d'accordo su questo punto, ma ammette che tale asserzione non può essere sufficiente nell'esaminare ciò che rese realmente Silvia e Francesco "partners in crime".
La ragione essenziale è un'altra, di cui nessuno dei due all'epoca era pienamente consapevole, e cioè che l'unione di due corredi genetici portatori di predisposizioni patologiche (nel loro caso prevalentemente di tipo psichico), rende estremamente probabile che una predisposizione patologica ancor più grave si manifesti nella prole.
Eppure in fin dei conti furono proprio quelle tare genetiche che finirono col buttarli l'una nelle braccia dell'altro.
Silvia infatti, che era così abituata e determinata nel respingere la corte degli uomini forti, che le ricordavano troppo suo padre, e dunque le facevano paura, finì con l'abbassare la guardia di fronte a quello che riteneva dopo tutto un personaggio innocuo, un animo gentile e una valida spalla su cui piangere.
A dire il vero, non lo capiva esattamente nemmeno lei.
La sua personalità era infatti piuttosto complessa e lacerata da numerosi conflitti interiori.
In lei la componente genetica paterna dei Ricci e quella materna degli Orsini si erano trovate in perfetta parità, e dunque nessuna delle due riusciva a prendere stabilmente il sopravvento sull'altra.
E questo aveva riprodotto, dentro di lei, qualcosa che accadeva da sempre fuori di lei e intorno a lei, ossia le interminabili liti tra suo padre e sua madre.
Ettore Ricci e Diana Orsini continuavano a farsi la guerra all'interno della psiche della loro figlia di mezzo, che comprendeva le ragioni di entrambi e non riusciva a scegliere da che parte stare e di conseguenza che tipo di persona essere.
Del padre ammirava la forza, la determinazione, il coraggio e la laboriosità, ma si vergognava dei suoi modi rozzi, della sua insaziabile sete di denaro e di potere, dei suoi metodi poco ortodossi e dei collaboratori di cui si era circondato, e che sua madre divideva in due categorie: i "pendagli da forca" e quelli che non valevano la corda per impiccarli.
Della madre ammirava la gentilezza, il garbo, la raffinatezza e la cultura, ma non poteva fare a meno di notarne la sensibilità eccessiva, l'ironia corrosiva, il pessimismo radicale e assoluto (per quanto fondato su esperienze terribili e ragionamenti inconfutabili), tutti elementi che la portavano a indulgere all'accidia, in una sorta di quasi masochistica voluptas dolendi.
E ciò che preoccupava Silvia più di ogni altra cosa, era il riscontrare in se stessa gli stessi pregi, ma purtroppo anche, seppure in maniera attenuata e nascosta, una parte degli stessi difetti.
Ogni volta che individuava in sé un sentimento o un atteggiamento che le ricordava tali difetti, cercava subito di porvi rimedio, e ci riusciva, ma a caro prezzo, poiché la repressione degli istinti tende a ripresentarsi sotto forma di nevrosi.
E a voler essere sinceri, i primi sintomi di certe forme di ansia, di fobia, di pensieri ossessivi, o di emozioni troppo intense, avevano già fatto la comparsa nella sua mente a partire dall'adolescenza, sebbene nascosti dietro una facciata assolutamente irreprensibile.
Si era dunque convinta, e non senza validi argomenti, di non essere adatta al matrimonio o alla maternità, e per questo aveva rifuggito ogni relazione sentimentale, e fatto tacere ogni forma di sentimento o di desiderio.
Aveva adottato come suo motto due versi di una canzone francese dei tempi di Maria Antonietta, che spesso aveva sentito canticchiare da sua nonna, la Contessa Vedova Emilia, quando il delirio etilico allentava i già piuttosto deboli freni inibitori:
"Plaisir d'amour ne dure qu'un moment / Chagrin d'amour dure toute la vie"
Quel motto, a dire il vero, era stato trasmesso di generazione in generazione, probabilmente fin dai tempi dell'Ancien Regime, e fatto proprio da ogni Contessa Orsini di Casemurate, quasi che l'infelicità matrimoniale fosse una maledizione di famiglia.
E se anche, per puro caso, qualche matrimonio fosse stato meno fallimentare degli altri, era comunque stato funestato (poiché non è dato all'uomo di godere di gioie incontaminate), da una prole quasi del tutto fallimentare.
E dunque niente relazioni, niente amori, niente sesso, niente matrimonio, niente figli, niente di niente di niente...
Queste almeno erano le intenzioni di Silvia Ricci-Orsini nell'anno 1971.
Ma come si è detto nel capitolo precedente, la volontà umana incontra i suoi limiti di fronte ai principi fondamentali dell'universo, che restano pur sempre l'Errore e il Caso.
Tali forze erano state evocate dal collega e organizzatore di eventi ricreativi, prof. Piero Giovannelli, e avevano trovato la loro caotica incarnazione in Francesco Monterovere, un uomo che era un enigma persino per se stesso, e che fino a quel momento aveva attraversato la propria vita come un sonnambulo, dimenticando tutto e rimuovendo ogni ricordo sgradevole, e cioè dunque la quasi totalità.
Anche in lui, sebbene non ne fosse consapevole, si consumava il conflitto tra le tare ereditarie dei Monterovere, in particolare il carattere iracondo, ansioso, ombroso ed ossessivo e quelle materne dei Lanni, di indole introversa, malinconica e afflitta da fobie di ogni genere.
Il trentatreenne professor Monterovere era entrato da poco, per cooptazione, nel Club esclusivissimo del Giovannelli, di cui Silvia era tra le fondatrici, e dunque era stato nel contesto delle numerose cene e gite di quell'illustre comitiva che i due, ossia Silvia e Francesco, avevano avuto occasione di scambiare le loro prime parole e di conoscersi meglio.
Sappiamo che Francesco era già infatuato di lei, ma questo non giocò affatto a suo favore, perché i suoi tentativi di seduzione erano talmente goffi e maldestri da risultare comici nella migliore delle ipotesi, e profondamente imbarazzanti in tutte le altre.
E allora quale fu la scintilla che fece nascere tra quelle due persone così diverse e distanti il desiderio di unire le proprie sorti, dimenticando tutti i buoni propositi del passato?
Non è facile trovare una risposta, ma dopo lunghe ricerche crediamo infine di averla individuata.
Ci vuole molta forza per riuscire a percorrere l'intero cammino della vita da soli, senza l'appoggio di qualcuno che dice di amarci, e che sembra avere compreso il nostro animo meglio di tutti gli altri.
Ma a volte succede che questo "qualcuno" non ci ama come vorremmo e non ha realmente capito chi siamo, e di questo ci accorgiamo solo in un secondo momento, quando la lucidità torna a prendere il controllo sulle emozioni e sulle passioni. E accade che, per dirla con Lucrezio, dimidio de fonte leporum surgit amari aliquid, quod in ipsis floribus angat. E allora ci svegliamo un giorno di fianco a una persona sconosciuta e veniamo colti dallo sgomento e dalla tentazione di fuggire.
Pochi, però, hanno sufficiente lucidità per capirlo e determinazione per farlo.
Ciò che intendiamo dire è che le coppie che restano unite non sono necessariamente entusiaste di questa unione, ma semplicemente ci si ritrovano a tal punto invischiate che non riescono a trovare la forza per uscirne, anche perché il ritornare da soli richiede un coraggio immenso.
E' forse questa paura della solitudine che tiene insieme le coppie e le spinge a cementare la loro unione col matrimonio e la procreazione?
Dispiace dirlo, ma forse è proprio così: ciò che garantisce la sopravvivenza del genere umano non è l'amore, ma è la paura della solitudine.
Mentre scriviamo queste cose, ci torna alla mente una canzone dal titolo significativo: "Home", perché è quello, e non l'amore, ciò che una coppia crea: una casa, un nido dove riscaldarsi a vicenda e fecondarsi e deporre le uova, e covarle finché non si schiudono e i piccoli non hanno imparato a volare, ammesso che ci riescano.
"Heaven knows- what keeps mankind alive
Ev'ry hand- goes searching for its partner
In crime- under chairs and behind tables"
Ogni mano cerca la sua complice in un crimine. Per un pessimista radicale il semplice mettere al mondo qualcuno è un sopruso. Non stiamo dicendo nulla di nuovo : già Sofocle, duemila e quattrocento anni fa, nella sua ultima tragedia, l'Edipo a Colono, espresse, novantenne, il suo pensiero: «Non nascere, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare presto là da dove si è giunti. Quando passa la giovinezza con le sue lievi follie, quale pena mai manca? Invidie, lotte, battaglie, contese, sangue, e infine, spregiata e odiosa a tutti, la vecchiaia» (Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1224-1237). In molti, e tra i più saggi, nei secoli seguenti si sono espressi in tal senso: non nascere può essere il più grande dei doni.
Chi si scrive si trova alquanto d'accordo su questo punto, ma ammette che tale asserzione non può essere sufficiente nell'esaminare ciò che rese realmente Silvia e Francesco "partners in crime".
La ragione essenziale è un'altra, di cui nessuno dei due all'epoca era pienamente consapevole, e cioè che l'unione di due corredi genetici portatori di predisposizioni patologiche (nel loro caso prevalentemente di tipo psichico), rende estremamente probabile che una predisposizione patologica ancor più grave si manifesti nella prole.
Eppure in fin dei conti furono proprio quelle tare genetiche che finirono col buttarli l'una nelle braccia dell'altro.
Silvia infatti, che era così abituata e determinata nel respingere la corte degli uomini forti, che le ricordavano troppo suo padre, e dunque le facevano paura, finì con l'abbassare la guardia di fronte a quello che riteneva dopo tutto un personaggio innocuo, un animo gentile e una valida spalla su cui piangere.
giovedì 12 marzo 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 54. L'errore e il caso
In un ipotetico mondo perfetto e razionale, governato da un ordine geometrico euclideo, Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere sarebbero stati come due rette parallele destinate a non incontrarsi mai, se non, astrattamente, all'infinito.
Ma il cosmo, a dispetto del suo stesso nome, è talmente complesso e caotico da sfuggire ad ogni modello matematico per mezzo del quale gli scienziati vorrebbero ingabbiarlo, e per quanto ci si sforzi di trovare una formula che riesca a ricondurre le leggi fisiche ad un unico grande disegno, prima o poi si giunge, più o meno apertamente, alla rivelazione secondo cui i principi fondamentali dell'universo restano pur sempre l'errore e il caso.
E' soltanto alla luce di questa considerazione che si può tentare di capire come sia stato possibile che due personalità così distanti da sembrare incompatibili abbiano deciso di unire i loro destini per il resto della vita "nel sacro vincolo del matrimonio", e siano riusciti, nonostante ogni genere di avversità e di probabilità, a mantener fede a questo giuramento per mezzo secolo, fino all'ultimo respiro.
I loro stessi familiari, e più di tutti gli altri il loro figlio ed erede, Roberto Monterovere, avrebbero trascorso la vita intera domandandosi che cosa mai li avesse spinti, in un lontano giorno degli Anni Settanta, a finire l'una delle braccia dell'altro per poi proseguire questa unione contro ogni pronostico, attribuendo all'arbitrarietà del fatto compiuto e poi all'abitudine, il colore rosa pallido di un sentimento indefinibile e quello rosso sangue che lega per sempre i complici in un crimine.
Della natura di questo crimine, se di crimine si può parlare, tratteremo nel prossimo capitolo.
Prima di tutto, infatti, è necessario cercare di ricostruire la sottile dinamica degli eventi che precedettero e favorirono il loro primo incontro e quali meccanismi si misero in moto, all'inizio in maniera quasi impercettibile, poi gradualmente in maniera via via più marcata, verso una direzione che rimase comunque incerta fino all'ultimo e quasi sconosciuta negli esiti non solo ai testimoni, ma persino ai protagonisti.
Non c'è da prestar fede ai racconti celebrativi confezionati col senno di poi, mezzo secolo dopo: si tratta solo di ricostruzioni ex post , che poggiano la loro precaria sicurezza sul fatto che il tempo funge da collante per tutto ciò che si sedimenta, comprese le coppie, e conferisce un'aura di venerabilità a tutto ciò che è longevo.
Le abitudini diventano tradizioni, gli errori si trasformano, nel ricordo, in scelte ponderate e il caso assume le sembianze inconfutabili della necessità.
Gli inizi furono invece alquanto incerti e fumosi, frutto di equivoci e malintesi, tali per cui entrambi svilupparono inizialmente l'uno riguardo all'altra, prima ancora che avessero avuto occasione di parlarsi, un'idea non del tutto corrispondente alla realtà.
Del resto bisogna tener presente che ognuno dei due, quando immaginava chi sarebbe potuto essere un eventuale futuro coniuge, partiva dal presupposto che non si sarebbero dovute in alcun modo riprodurre le dinamiche del rapporto coniugale dei propri genitori, che veniva preso come modello negativo da evitare come la peste.
Non essendo colleghi di sezione, Silvia e Francesco si erano soltanto visti di straforo, senza mai aver avuto l'occasione di parlare o di essere presentati.
Del resto, nessuno dei due era particolarmente portato a socializzare: avevano alcuni amici, ma non tanti, e questo perché una delle poche cose che condividevano era la convinzione che le persone oneste e sincere non hanno tanti amici.
Non si erano nemmeno, per così dire, "notati", e questo perché Francesco, per natura, aveva sempre la testa tra le nuvole, ed era quasi completamente privo di memoria visiva, mentre Silvia, che al contrario aveva lo spirito di osservazione di un detective, non era rimasta particolarmente colpita da quel personaggio allampanato e trasandato.
A svolgere il ruolo di Cupido, seppur in maniera non intenzionale, fu il professor Giovannelli, amico di entrambi, e animatore di un gruppo di colleghi che organizzava gite, pranzi, cene ed altri eventi ricreativi.
Da quel gruppo, va subito precisato, era escluso Massimo Braghiri, non solo per la sua presunzione e il suo livore verso chiunque potesse metterlo in ombra, ma anche per la ben nota legge secondo cui non ci possono essere due galli nel pollaio.
E infatti non era un caso se la cerchia, per lo più femminile, animata da Piero Giovannelli, era chiamata da tutti "il club di Piero".
A questa elite erano ammesse solo persone selezionate con cura.
I requisiti essenziali consistevano principalmente nell'essere persone "di cultura e di spirito", con raffinato senso dell'umorismo, ma senza la pretesa di stare al centro dell'attenzione, ruolo che spettava indiscutibilmente, quasi per diritto divino, al professor Giovannelli.
Silvia era stata tra le prime ad essere cooptata tra i "soci fondatori" di quel gruppo, mentre per molto tempo Francesco Monterovere non aveva ricevuto alcun invito.
E tuttavia fu proprio il suo modo di fare distratto e maldestro che attirò la curiosità di Piero Giovannelli, che lo trovava particolarmente buffo e nel contempo innocuo, due elementi che ispiravano una certa simpatia.
Fu così che un giorno, mentre si trovavano alla macchinetta del caffé, Giovannelli attaccò bottone con Francesco, e scoprì, con una certa meraviglia, che il collega Monterovere aveva tutti i requisiti per entrare nel suo club.
Prima di presentarlo ufficialmente agli altri membri, però, gliene volle dare, in anticipo, una descrizione informale.
Quando fu il momento di parlare di Silvia Ricci-Orsini, il prof. Giovanelli sondò il terreno:
<<Tu non hai mai sentito parlare di lei o della sua famiglia?>>
Francesco, come al solito, cadde dalle nuvole:
<<No... io vengo da Faenza>>
Lo disse come se Faenza distasse da Forlì quanto il Polo Nord dall'Equatore.
Piero Giovannelli sorrise con l'indulgente bonomia che si riserverebbe a un bambino o a un simpatico animaletto da compagnia:
<<Il clan Ricci-Orsini è un insieme di famiglie che controllano praticamente tutto dalle nostre parti, e al vertice di questa potenza ci sono proprio i genitori di Silvia, e cioè Ettore Ricci, un uomo d'affari spregiudicato e la nobildonna Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che ai suoi tempi è stata una bellezza leggendaria, e ancora oggi è una specie di icona, un mito vivente>>
Chiunque altro sarebbe rimasto colpito da quel tipo di discorso, ma la reazione di Francesco Monterovere fu del tutto diversa:
<<Casemurate... ho già sentito quel nome... cosa c'è una specie di casello autostradale da quelle parti?>>
Giovannelli, che non aveva nemmeno la patente, trovò quella risposta particolarmente buffa:
<<Ah, ah, che soggetto che sei... comunque penso di sì, dev'esserci la stazione del Bevano, che è il torrente che passa di fianco a Villa Orsini>>
A quel punto Francesco ebbe una specie di illuminazione:
<<Bevano, sì... ne ho sentito parlare da mio padre, che lavora in un'azienda escavatrice e idraulica. Hanno vinto un appalto per far passare un canale di irrigazione da quelle parti>>
Gli occhi di Piero Giovannelli si illuminarono, nell'intravedere, in questa informazione, un preavviso di eventi interessanti:
<<Un canale nel bel mezzo del Feudo Orsini? Non credo proprio che Ettore Ricci lo permetterà!>>
Francesco non capiva:
<<E perché non dovrebbe? Conviene anche a lui. E' poi è un'opera pubblica, la pagheranno gli enti locali, penso. E per la terra requisita credo che ci sarà un qualche indennizzo...>>
Giovanelli rise:
<<Terra requisita? Ah ah ah! Ettore scatenerà l'inferno>>
Francesco era sempre più confuso:
<<Non capisco...>>
<<Tu non hai la minima idea...>>
<<Di cosa?>>
<<Di tutto>>
E a quel punto suonò la fine della ricreazione, lasciando Francesco Monterovere con un palmo di naso.
Per la prima volta, quel giorno, alla fine delle lezioni, osservò Silvia con attenzione.
Ciò che prima gli era parso come il frutto di un'eccessiva cura di sé, di ore trascorse dal parrucchiere e dall'estetista, o dal sarto e dal calzolaio, per rendersi più bella e più alta, gli si rivelò essere in realtà una naturale e spontanea tendenza al buon gusto, appresa tra le mura domestiche, assunta e assimilata insieme al latte materno.
Ed era naturale che fosse così, ora lo sapeva per certo, se sua madre era davvero, come il Giovannelli asseriva, "una bellezza leggendaria, una specie di icona, un mito vivente", nonché la "diciottesima Contessa Orsini di Casemurate".
Come per incanto, tutte le diciotto generazioni di nobildonne che avevano preceduto Silvia, apparvero improvvisamente disegnate nei suoi tratti, che Francesco trovò simili a quelli dell'attrice francese Anouk Aimée, per la quale aveva provato qualcosa di simile ad un innamoramento, quando l'aveva vista recitare ne La dolce vita e in Fellini 8 e 1/2.
Quella somiglianza, che gli era parsa tale soltanto dopo le informazioni ricevute dal Giovannelli, fu decisiva nel trasformare, agli occhi di Francesco, la collega Silvia Ricci-Orsini in una sorta di creatura mitologica, sicuramente dotata delle massime doti del corpo e dello spirito, che fino a quel giorno gli erano rimaste celate, come il Noumeno kantiano dietro a quello che Schopenauer, memore della sapienza induista, chiamava "Il velo di Maya".
Quando tornò a casa, Francesco chiese a suo padre se conosceva qualcosa riguardo a Ettore Ricci e Diana Orsini.
Romano Monterovere sgranò i suoi famosi occhi di ghiaccio e guardò il figlio con una nuova considerazione:
<<Vedo che finalmente hai deciso di interessarti agli affari di famiglia! Ettore Ricci possiede o controlla per mezzo di alleanze strategiche, quasi tutte le terre che vanno da Forlì a Ravenna. Suo padre era un contadino, ma aveva il bernoccolo degli affari, ed è riuscito a farlo sposare con...>>
<<Con la mitica Diana Orsini di Casemurate, una leggenda vivente>> concluse Francesco.
Romano lo fissò:
<<Come fai a saperlo, tu che hai sempre la testa per aria e non ti sei mai degnato di chiedermi chi è che ci sta creando tanti problemi per il tracciato del Canale Emiliano Romagnolo?>>
Francesco, contento di essere riuscito, forse per la prima volta in vita sua, ad impressionare il padre, dichiarò:
<<Silvia Ricci-Orsini, la figlia di Ettore e Diana, è mia collega, a scuola>>
Romano era scettico;
<<Con tutti i soldi che hanno i suoi, non capisco perché debba abbassarsi a insegnare in un istituto tecnico>>
Francesco sorrise:
<<Forse perché non vuole dipendere dai soldi del padre, e in questo avrebbe tutta la mia comprensione. E comunque l'insegnamento è una nobile arte>>
Romano scosse il capo in segno di generica e universale disapprovazione:
<<Dev'essere una testa calda come te. O come sua madre... perché circolano molte voci su tutti gli scandali che hanno avuto come protagonista donna Diana e la sua cerchia più intima: fratelli, sorelle, amanti, tutti coinvolti in vicende oscure, compresi tradimenti, incidenti mortali e presunti suicidi>>
E qui si mise a raccontare ciò che noi già conosciamo più approfonditamente e in maniera più corretta.
La versione data da Romano a suo figlio, riguardo a tutte le leggende che si narravano con grande immaginazione riguardo alla contessa Diana e al clan Ricci-Orsini, manco fosse la Famiglia Reale Inglese, non fece altro che proiettare intorno all'immagine di Silvia un'aura di luce semi-divina, che abbagliò Francesco in modo irreparabile, folgorandolo come Paolo sulla via di Damasco.
Ma il cosmo, a dispetto del suo stesso nome, è talmente complesso e caotico da sfuggire ad ogni modello matematico per mezzo del quale gli scienziati vorrebbero ingabbiarlo, e per quanto ci si sforzi di trovare una formula che riesca a ricondurre le leggi fisiche ad un unico grande disegno, prima o poi si giunge, più o meno apertamente, alla rivelazione secondo cui i principi fondamentali dell'universo restano pur sempre l'errore e il caso.
E' soltanto alla luce di questa considerazione che si può tentare di capire come sia stato possibile che due personalità così distanti da sembrare incompatibili abbiano deciso di unire i loro destini per il resto della vita "nel sacro vincolo del matrimonio", e siano riusciti, nonostante ogni genere di avversità e di probabilità, a mantener fede a questo giuramento per mezzo secolo, fino all'ultimo respiro.
I loro stessi familiari, e più di tutti gli altri il loro figlio ed erede, Roberto Monterovere, avrebbero trascorso la vita intera domandandosi che cosa mai li avesse spinti, in un lontano giorno degli Anni Settanta, a finire l'una delle braccia dell'altro per poi proseguire questa unione contro ogni pronostico, attribuendo all'arbitrarietà del fatto compiuto e poi all'abitudine, il colore rosa pallido di un sentimento indefinibile e quello rosso sangue che lega per sempre i complici in un crimine.
Della natura di questo crimine, se di crimine si può parlare, tratteremo nel prossimo capitolo.
Prima di tutto, infatti, è necessario cercare di ricostruire la sottile dinamica degli eventi che precedettero e favorirono il loro primo incontro e quali meccanismi si misero in moto, all'inizio in maniera quasi impercettibile, poi gradualmente in maniera via via più marcata, verso una direzione che rimase comunque incerta fino all'ultimo e quasi sconosciuta negli esiti non solo ai testimoni, ma persino ai protagonisti.
Non c'è da prestar fede ai racconti celebrativi confezionati col senno di poi, mezzo secolo dopo: si tratta solo di ricostruzioni ex post , che poggiano la loro precaria sicurezza sul fatto che il tempo funge da collante per tutto ciò che si sedimenta, comprese le coppie, e conferisce un'aura di venerabilità a tutto ciò che è longevo.
Le abitudini diventano tradizioni, gli errori si trasformano, nel ricordo, in scelte ponderate e il caso assume le sembianze inconfutabili della necessità.
Gli inizi furono invece alquanto incerti e fumosi, frutto di equivoci e malintesi, tali per cui entrambi svilupparono inizialmente l'uno riguardo all'altra, prima ancora che avessero avuto occasione di parlarsi, un'idea non del tutto corrispondente alla realtà.
Del resto bisogna tener presente che ognuno dei due, quando immaginava chi sarebbe potuto essere un eventuale futuro coniuge, partiva dal presupposto che non si sarebbero dovute in alcun modo riprodurre le dinamiche del rapporto coniugale dei propri genitori, che veniva preso come modello negativo da evitare come la peste.
Non essendo colleghi di sezione, Silvia e Francesco si erano soltanto visti di straforo, senza mai aver avuto l'occasione di parlare o di essere presentati.
Del resto, nessuno dei due era particolarmente portato a socializzare: avevano alcuni amici, ma non tanti, e questo perché una delle poche cose che condividevano era la convinzione che le persone oneste e sincere non hanno tanti amici.
Non si erano nemmeno, per così dire, "notati", e questo perché Francesco, per natura, aveva sempre la testa tra le nuvole, ed era quasi completamente privo di memoria visiva, mentre Silvia, che al contrario aveva lo spirito di osservazione di un detective, non era rimasta particolarmente colpita da quel personaggio allampanato e trasandato.
A svolgere il ruolo di Cupido, seppur in maniera non intenzionale, fu il professor Giovannelli, amico di entrambi, e animatore di un gruppo di colleghi che organizzava gite, pranzi, cene ed altri eventi ricreativi.
Da quel gruppo, va subito precisato, era escluso Massimo Braghiri, non solo per la sua presunzione e il suo livore verso chiunque potesse metterlo in ombra, ma anche per la ben nota legge secondo cui non ci possono essere due galli nel pollaio.
E infatti non era un caso se la cerchia, per lo più femminile, animata da Piero Giovannelli, era chiamata da tutti "il club di Piero".
A questa elite erano ammesse solo persone selezionate con cura.
I requisiti essenziali consistevano principalmente nell'essere persone "di cultura e di spirito", con raffinato senso dell'umorismo, ma senza la pretesa di stare al centro dell'attenzione, ruolo che spettava indiscutibilmente, quasi per diritto divino, al professor Giovannelli.
Silvia era stata tra le prime ad essere cooptata tra i "soci fondatori" di quel gruppo, mentre per molto tempo Francesco Monterovere non aveva ricevuto alcun invito.
E tuttavia fu proprio il suo modo di fare distratto e maldestro che attirò la curiosità di Piero Giovannelli, che lo trovava particolarmente buffo e nel contempo innocuo, due elementi che ispiravano una certa simpatia.
Fu così che un giorno, mentre si trovavano alla macchinetta del caffé, Giovannelli attaccò bottone con Francesco, e scoprì, con una certa meraviglia, che il collega Monterovere aveva tutti i requisiti per entrare nel suo club.
Prima di presentarlo ufficialmente agli altri membri, però, gliene volle dare, in anticipo, una descrizione informale.
Quando fu il momento di parlare di Silvia Ricci-Orsini, il prof. Giovanelli sondò il terreno:
<<Tu non hai mai sentito parlare di lei o della sua famiglia?>>
Francesco, come al solito, cadde dalle nuvole:
<<No... io vengo da Faenza>>
Lo disse come se Faenza distasse da Forlì quanto il Polo Nord dall'Equatore.
Piero Giovannelli sorrise con l'indulgente bonomia che si riserverebbe a un bambino o a un simpatico animaletto da compagnia:
<<Il clan Ricci-Orsini è un insieme di famiglie che controllano praticamente tutto dalle nostre parti, e al vertice di questa potenza ci sono proprio i genitori di Silvia, e cioè Ettore Ricci, un uomo d'affari spregiudicato e la nobildonna Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che ai suoi tempi è stata una bellezza leggendaria, e ancora oggi è una specie di icona, un mito vivente>>
Chiunque altro sarebbe rimasto colpito da quel tipo di discorso, ma la reazione di Francesco Monterovere fu del tutto diversa:
<<Casemurate... ho già sentito quel nome... cosa c'è una specie di casello autostradale da quelle parti?>>
Giovannelli, che non aveva nemmeno la patente, trovò quella risposta particolarmente buffa:
<<Ah, ah, che soggetto che sei... comunque penso di sì, dev'esserci la stazione del Bevano, che è il torrente che passa di fianco a Villa Orsini>>
A quel punto Francesco ebbe una specie di illuminazione:
<<Bevano, sì... ne ho sentito parlare da mio padre, che lavora in un'azienda escavatrice e idraulica. Hanno vinto un appalto per far passare un canale di irrigazione da quelle parti>>
Gli occhi di Piero Giovannelli si illuminarono, nell'intravedere, in questa informazione, un preavviso di eventi interessanti:
<<Un canale nel bel mezzo del Feudo Orsini? Non credo proprio che Ettore Ricci lo permetterà!>>
Francesco non capiva:
<<E perché non dovrebbe? Conviene anche a lui. E' poi è un'opera pubblica, la pagheranno gli enti locali, penso. E per la terra requisita credo che ci sarà un qualche indennizzo...>>
Giovanelli rise:
<<Terra requisita? Ah ah ah! Ettore scatenerà l'inferno>>
Francesco era sempre più confuso:
<<Non capisco...>>
<<Tu non hai la minima idea...>>
<<Di cosa?>>
<<Di tutto>>
E a quel punto suonò la fine della ricreazione, lasciando Francesco Monterovere con un palmo di naso.
Per la prima volta, quel giorno, alla fine delle lezioni, osservò Silvia con attenzione.
Ciò che prima gli era parso come il frutto di un'eccessiva cura di sé, di ore trascorse dal parrucchiere e dall'estetista, o dal sarto e dal calzolaio, per rendersi più bella e più alta, gli si rivelò essere in realtà una naturale e spontanea tendenza al buon gusto, appresa tra le mura domestiche, assunta e assimilata insieme al latte materno.
Ed era naturale che fosse così, ora lo sapeva per certo, se sua madre era davvero, come il Giovannelli asseriva, "una bellezza leggendaria, una specie di icona, un mito vivente", nonché la "diciottesima Contessa Orsini di Casemurate".
Come per incanto, tutte le diciotto generazioni di nobildonne che avevano preceduto Silvia, apparvero improvvisamente disegnate nei suoi tratti, che Francesco trovò simili a quelli dell'attrice francese Anouk Aimée, per la quale aveva provato qualcosa di simile ad un innamoramento, quando l'aveva vista recitare ne La dolce vita e in Fellini 8 e 1/2.
Quella somiglianza, che gli era parsa tale soltanto dopo le informazioni ricevute dal Giovannelli, fu decisiva nel trasformare, agli occhi di Francesco, la collega Silvia Ricci-Orsini in una sorta di creatura mitologica, sicuramente dotata delle massime doti del corpo e dello spirito, che fino a quel giorno gli erano rimaste celate, come il Noumeno kantiano dietro a quello che Schopenauer, memore della sapienza induista, chiamava "Il velo di Maya".
Quando tornò a casa, Francesco chiese a suo padre se conosceva qualcosa riguardo a Ettore Ricci e Diana Orsini.
Romano Monterovere sgranò i suoi famosi occhi di ghiaccio e guardò il figlio con una nuova considerazione:
<<Vedo che finalmente hai deciso di interessarti agli affari di famiglia! Ettore Ricci possiede o controlla per mezzo di alleanze strategiche, quasi tutte le terre che vanno da Forlì a Ravenna. Suo padre era un contadino, ma aveva il bernoccolo degli affari, ed è riuscito a farlo sposare con...>>
<<Con la mitica Diana Orsini di Casemurate, una leggenda vivente>> concluse Francesco.
Romano lo fissò:
<<Come fai a saperlo, tu che hai sempre la testa per aria e non ti sei mai degnato di chiedermi chi è che ci sta creando tanti problemi per il tracciato del Canale Emiliano Romagnolo?>>
Francesco, contento di essere riuscito, forse per la prima volta in vita sua, ad impressionare il padre, dichiarò:
<<Silvia Ricci-Orsini, la figlia di Ettore e Diana, è mia collega, a scuola>>
Romano era scettico;
<<Con tutti i soldi che hanno i suoi, non capisco perché debba abbassarsi a insegnare in un istituto tecnico>>
Francesco sorrise:
<<Forse perché non vuole dipendere dai soldi del padre, e in questo avrebbe tutta la mia comprensione. E comunque l'insegnamento è una nobile arte>>
Romano scosse il capo in segno di generica e universale disapprovazione:
<<Dev'essere una testa calda come te. O come sua madre... perché circolano molte voci su tutti gli scandali che hanno avuto come protagonista donna Diana e la sua cerchia più intima: fratelli, sorelle, amanti, tutti coinvolti in vicende oscure, compresi tradimenti, incidenti mortali e presunti suicidi>>
E qui si mise a raccontare ciò che noi già conosciamo più approfonditamente e in maniera più corretta.
La versione data da Romano a suo figlio, riguardo a tutte le leggende che si narravano con grande immaginazione riguardo alla contessa Diana e al clan Ricci-Orsini, manco fosse la Famiglia Reale Inglese, non fece altro che proiettare intorno all'immagine di Silvia un'aura di luce semi-divina, che abbagliò Francesco in modo irreparabile, folgorandolo come Paolo sulla via di Damasco.
domenica 1 marzo 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 53. Niente è come sembra
<<Sai, mi sono chiesta spesso qual è il reale motivo che ci spinge a fare dei figli>> disse Diana alla sua secondogenita, Silvia <<e la conclusione a cui sono arrivata è che, a un certo punto delle nostre vite, ci rendiamo conto che le cose sono andate a rotoli in modo irreparabile, e così decidiamo di ricominciare da capo, di ripartire da zero: un nuovo inizio. E facciamo dei figli, piccole copie carbone alle quali dire: "Tu farai quello che io non ho potuto fare, tu avrai successo là dove io ho fallito", perché vogliamo qualcuno che faccia la cosa giusta, questa volta.
Poi i figli crescono, e cresce anche la nostra apprensione, la nostra paura che possano soffrire, che vadano incontro ai pericoli, e vorremmo trattenerli, anche se non ne abbiamo il diritto, perché la loro vita appartiene solo a loro, e noi abbiamo già commesso un grande atto di prevaricazione nel decidere di metterli al mondo senza il loro consenso>>
Quel discorso era coerente col suo comportamento, perché Diana Orsini non era mai stata una madre invadente, anzi, al contrario aveva sempre mantenuto un comportamento alquanto permissivo, limitandosi a qualche consiglio mirato o a pochi e cauti avvertimenti.
Quel giorno però c'era qualcosa che la preoccupava più del solito.
Approfittando dell'assenza del marito, in viaggio d'affari con i fratelli, le sorelle e i soci, e della governante, in visita al figlio prediletto a Forlì, Diana aveva chiamato sua figlia Silvia nel Salotto Liberty per esprimere il suo pensiero su alcune questioni che le stavano molto a cuore.
Era presente anche la madre di Diana, la vecchia contessa vedova Emilia.
Le altre due figlie, Margherita e Isabella, parevano aver formato famiglie felici, ma Diana pensava a ciò che Tolstoj aveva scritto in Anna Karenina:
"Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo".
E la famiglia di Diana era stata un cumulo di scandali, lutti e infelicità.
<<Ci sono tante persone sciocche che si vantano della loro felicità coniugale e familiare, come se fosse un dato di fatto acquisito una volta per tutte. Ma non è mica finita! I conti si fanno alla fine...>>
Silvia aveva annuito:
<<Basta guardare cos'è successo ai De Gubernatis. Zia Ginevra sembrava così sicura della fedeltà di suo marito, l'irreprensibile giudice istruttore, e poi viene a scoprire che ha avuto un figlio dalla segretaria>>
Era lo scandalo del momento, che era quasi costato la carriera al giudice Guglielmo De Gubernatis, marito di Ginevra Orsini.
Le parole di Silvia aleggiarono come corvi negli arredi floreali del Salotto Liberty di Villa Orsini.
Diana era consapevole che una eventuale caduta in disgrazia del giudice avrebbe reso più vulnerabile tutto il clan Ricci-Orsini. Per questo la sua collera era così grande.
<<Se quel disgraziato di De Gubernatis non conoscesse tutte le magagne di Ettore>> riprese Diana riferendosi rispettivamente al cognato e al marito <<non avrei mai approvato la scelta di quella sciocca di Ginevra di riprenderselo in casa come se niente fosse>>
Questo aspro commento risvegliò la vecchia contessa vedova Emilia dal suo torpore etilico:
<<Oh, avanti, Diana, non devi essere così dura con tua sorella. E poi, in questo modo, non fai altro che spaventare la nostra cara Silvia, che ancora non ha incontrato la sua anima gemella>>
Diana scosse il capo:
<<Non l'ha incontrata perché non esiste! Credere nell'anima gemella è come credere a Babbo Natale>>
Silvia sorrise: era abituata ai battibecchi tra sua madre e sua nonna riguardo al matrimonio.
<<Per me la libertà viene prima di ogni altra cosa. E poi ormai siamo negli Anni Settanta, non è necessario sposarsi per fare l'amore>>
A queste parole sia Diana che Emilia la guardarono con sospetto.
Un conto era parlare di certe cose in astratto, e un conto era insinuare un dubbio sulla questione della verginità.
La prima a parlare fu la contessa vedova Emilia:
<<Mia cara nipote, tu frequenti delle brutte compagnie. E non mi riferisco solo a quelle amiche "femministe" o come si fanno chiamare...>>
Subito però intervenne Diana, in qualità di Contessa in carica e capo formale del clan Ricci-Orsini:
<<Io ti capisco, Silvia e so benissimo che i tempi sono cambiati, ma purtroppo noi viviamo in una piccola Contea di campagna, in provincia di una piccola città che è un misto tra un covo di vipere e un nido di vespe. Per cui occorre prudenza.
Tuo padre non vuole credermi, ma io so per certo che la famiglia Braghiri è disposta a tutto pur di rovinarci>>
Silvia conosceva le ipotesi di sua madre riguardo al ruolo di Michele Braghiri nella morte di zia Isabella, di zio Arturo e del nobile Federico Traversari, l'amante di Diana.
E suo figlio Massimo era quasi peggio del padre.
<<Non so più come comportarmi con Massimo. Gli ho fatto capire in tutti i modi che non sono interessata a lui, ma è come se parlassi a un muro. E' ossessionato da me...>>
La contessa vedova Emilia, che era alla seconda bottiglia di Cabernet-Sauvignon, sbottò:
<<Non da te, ma dal tuo cognome! Lui gira per casa e vede i ritratti di tutti i Conti Orsini di Casemurate, di tutti i Papi e i Principi che appartengono al nostro casato e naturalmente...>>
Di nuovo Diana intervenne per fermare il delirio etilico dell'anziana madre:
<<Non esageriamo, in fondo Silvia è una Orsini solo per metà. Per l'altra metà è una Ricci, e i Ricci, nonostante i loro soldi, non sono principi di nessun luogo>>
Silvia rise e sollevò la sua tazza di tè:
<<E allora brindiamo a Silvia Ricci-Orsini, Principessa di Nessun Luogo>>
Sua nonna Emilia si unì al brindisi, scolandosi altro vino.
Diana avrebbe voluto sorridere, ma la sua mente era tormentata dai fantasmi del passato e dalle paure del futuro.
<<Perdonatemi se non condivido la vostra spensieratezza, ma ci sono cose che non posso dimenticare, neanche se bevessi come mia madre o se fossi giovane e libera come mia figlia.
Nei lunghi e sconfinati inverni che ho trascorso chiusa nella mia camera da letto, sono arrivata alla conclusione che sarebbe stato meglio non nascere, e in ogni caso non sposarsi e non fare figli, ma dal momento che il passato non si può cambiare, ho cercato di concentrarmi sul futuro, affinché non si ripetano certi eventi oscuri su cui per paura io stessa ho evitato di far luce.
Forse ho danzato per troppo tempo con i miei fantasmi, lassù nella stanza dai muri di pietra, ma non posso fare a meno di temere che il passato ritorni e ci chieda il suo tributo>>
Silvia comprendeva la sofferenza di sua madre, le coercizioni a cui era stata sottoposta, gli anni della guerra, i lutti, i tradimenti, gli scandali.
<<Io sono consapevole che nel passato della nostra famiglia niente è come sembra.
C'ero anch'io quando trovarono il corpo di zia Isabella, e quando ci dissero dell'incidente di zio Arturo, e anche quando morì Federico Traversari.
Ero piccola, ma mi ricordo tutto, perché i bambini e gli adolescenti hanno buona memoria.
Però ho sempre cercato di non pensarci troppo, perché non volevo essere travolta da questo peso. So che la verità, se mai ce ne fosse una, è sepolta dietro ad infiniti veli, ma non mi sono posta domande su ciò che è veramente accaduto.
Le mie domande sono altre.
Fino a che punto i nostri ricordi ci definiscono?
Fino a che punto noi siamo il risultato delle circostanze della nostra nascita e della nostra crescita?
Forse un fiore è responsabile del proprio colore?>>
Gli occhi grandi e belli di Diana, che in un tempo lontano avevano fatto innamorate tanti giovani sgraditi a suo padre, sembravano guardare lontano, in un altro tempo, forse in un'altra dimensione.
<<Mi sono posta anch'io le stesse domande, e dal punto di vista teorico credo che il libero arbitrio non esista. Questo però non deve essere una scusa per rifuggire dalle proprie responsabilità.
Io mi sento responsabile per compromessi che ho accettato, per i ricatti a cui ho ceduto, per i silenzi e le omissioni con cui ho coperto la colpevolezza di altre persone.
Quando è morto mio padre e gli sono succeduta come guida di questa Contea, mi ero ripromessa di cambiare.
Avevo guardato i ritratti degli antenati e avevo pensato che sarei stata degna della loro eredità, perché: "I giganti sono come montagne: si parlano attraverso i secoli".
Ero convinta di poter essere persino meglio di loro.
Mi ero detta: "Questo è un regno di rettitudine, oppure non è niente".
E infatti non rimane più niente.
Etiam periere ruinae>>
Silvia si sentì gelare:
<<Non è tutto perduto, mamma. Ci sono io al tuo fianco, e io non mi arrendo, e non mi arrenderò mai>>
Diana sapeva che sua figlia avrebbe risposto in quel modo.
Era proprio quella determinazione ciò che la esponeva maggiormente al pericolo:
<<Ammiro il tuo coraggio, ma ti invito a non fidarti di nessuno, tranne me e le tue sorelle, perché, come hai ammesso tu stessa, da queste parti niente è come sembra.
Ricordatelo bene, Silvia.
Niente è come sembra!>>
Poi i figli crescono, e cresce anche la nostra apprensione, la nostra paura che possano soffrire, che vadano incontro ai pericoli, e vorremmo trattenerli, anche se non ne abbiamo il diritto, perché la loro vita appartiene solo a loro, e noi abbiamo già commesso un grande atto di prevaricazione nel decidere di metterli al mondo senza il loro consenso>>
Quel discorso era coerente col suo comportamento, perché Diana Orsini non era mai stata una madre invadente, anzi, al contrario aveva sempre mantenuto un comportamento alquanto permissivo, limitandosi a qualche consiglio mirato o a pochi e cauti avvertimenti.
Quel giorno però c'era qualcosa che la preoccupava più del solito.
Approfittando dell'assenza del marito, in viaggio d'affari con i fratelli, le sorelle e i soci, e della governante, in visita al figlio prediletto a Forlì, Diana aveva chiamato sua figlia Silvia nel Salotto Liberty per esprimere il suo pensiero su alcune questioni che le stavano molto a cuore.
Era presente anche la madre di Diana, la vecchia contessa vedova Emilia.
Le altre due figlie, Margherita e Isabella, parevano aver formato famiglie felici, ma Diana pensava a ciò che Tolstoj aveva scritto in Anna Karenina:
"Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo".
E la famiglia di Diana era stata un cumulo di scandali, lutti e infelicità.
<<Ci sono tante persone sciocche che si vantano della loro felicità coniugale e familiare, come se fosse un dato di fatto acquisito una volta per tutte. Ma non è mica finita! I conti si fanno alla fine...>>
Silvia aveva annuito:
<<Basta guardare cos'è successo ai De Gubernatis. Zia Ginevra sembrava così sicura della fedeltà di suo marito, l'irreprensibile giudice istruttore, e poi viene a scoprire che ha avuto un figlio dalla segretaria>>
Era lo scandalo del momento, che era quasi costato la carriera al giudice Guglielmo De Gubernatis, marito di Ginevra Orsini.
Le parole di Silvia aleggiarono come corvi negli arredi floreali del Salotto Liberty di Villa Orsini.
Diana era consapevole che una eventuale caduta in disgrazia del giudice avrebbe reso più vulnerabile tutto il clan Ricci-Orsini. Per questo la sua collera era così grande.
<<Se quel disgraziato di De Gubernatis non conoscesse tutte le magagne di Ettore>> riprese Diana riferendosi rispettivamente al cognato e al marito <<non avrei mai approvato la scelta di quella sciocca di Ginevra di riprenderselo in casa come se niente fosse>>
Questo aspro commento risvegliò la vecchia contessa vedova Emilia dal suo torpore etilico:
<<Oh, avanti, Diana, non devi essere così dura con tua sorella. E poi, in questo modo, non fai altro che spaventare la nostra cara Silvia, che ancora non ha incontrato la sua anima gemella>>
Diana scosse il capo:
<<Non l'ha incontrata perché non esiste! Credere nell'anima gemella è come credere a Babbo Natale>>
Silvia sorrise: era abituata ai battibecchi tra sua madre e sua nonna riguardo al matrimonio.
<<Per me la libertà viene prima di ogni altra cosa. E poi ormai siamo negli Anni Settanta, non è necessario sposarsi per fare l'amore>>
A queste parole sia Diana che Emilia la guardarono con sospetto.
Un conto era parlare di certe cose in astratto, e un conto era insinuare un dubbio sulla questione della verginità.
La prima a parlare fu la contessa vedova Emilia:
<<Mia cara nipote, tu frequenti delle brutte compagnie. E non mi riferisco solo a quelle amiche "femministe" o come si fanno chiamare...>>
Subito però intervenne Diana, in qualità di Contessa in carica e capo formale del clan Ricci-Orsini:
<<Io ti capisco, Silvia e so benissimo che i tempi sono cambiati, ma purtroppo noi viviamo in una piccola Contea di campagna, in provincia di una piccola città che è un misto tra un covo di vipere e un nido di vespe. Per cui occorre prudenza.
Tuo padre non vuole credermi, ma io so per certo che la famiglia Braghiri è disposta a tutto pur di rovinarci>>
Silvia conosceva le ipotesi di sua madre riguardo al ruolo di Michele Braghiri nella morte di zia Isabella, di zio Arturo e del nobile Federico Traversari, l'amante di Diana.
E suo figlio Massimo era quasi peggio del padre.
<<Non so più come comportarmi con Massimo. Gli ho fatto capire in tutti i modi che non sono interessata a lui, ma è come se parlassi a un muro. E' ossessionato da me...>>
La contessa vedova Emilia, che era alla seconda bottiglia di Cabernet-Sauvignon, sbottò:
<<Non da te, ma dal tuo cognome! Lui gira per casa e vede i ritratti di tutti i Conti Orsini di Casemurate, di tutti i Papi e i Principi che appartengono al nostro casato e naturalmente...>>
Di nuovo Diana intervenne per fermare il delirio etilico dell'anziana madre:
<<Non esageriamo, in fondo Silvia è una Orsini solo per metà. Per l'altra metà è una Ricci, e i Ricci, nonostante i loro soldi, non sono principi di nessun luogo>>
Silvia rise e sollevò la sua tazza di tè:
<<E allora brindiamo a Silvia Ricci-Orsini, Principessa di Nessun Luogo>>
Sua nonna Emilia si unì al brindisi, scolandosi altro vino.
Diana avrebbe voluto sorridere, ma la sua mente era tormentata dai fantasmi del passato e dalle paure del futuro.
<<Perdonatemi se non condivido la vostra spensieratezza, ma ci sono cose che non posso dimenticare, neanche se bevessi come mia madre o se fossi giovane e libera come mia figlia.
Nei lunghi e sconfinati inverni che ho trascorso chiusa nella mia camera da letto, sono arrivata alla conclusione che sarebbe stato meglio non nascere, e in ogni caso non sposarsi e non fare figli, ma dal momento che il passato non si può cambiare, ho cercato di concentrarmi sul futuro, affinché non si ripetano certi eventi oscuri su cui per paura io stessa ho evitato di far luce.
Forse ho danzato per troppo tempo con i miei fantasmi, lassù nella stanza dai muri di pietra, ma non posso fare a meno di temere che il passato ritorni e ci chieda il suo tributo>>
Silvia comprendeva la sofferenza di sua madre, le coercizioni a cui era stata sottoposta, gli anni della guerra, i lutti, i tradimenti, gli scandali.
<<Io sono consapevole che nel passato della nostra famiglia niente è come sembra.
C'ero anch'io quando trovarono il corpo di zia Isabella, e quando ci dissero dell'incidente di zio Arturo, e anche quando morì Federico Traversari.
Ero piccola, ma mi ricordo tutto, perché i bambini e gli adolescenti hanno buona memoria.
Però ho sempre cercato di non pensarci troppo, perché non volevo essere travolta da questo peso. So che la verità, se mai ce ne fosse una, è sepolta dietro ad infiniti veli, ma non mi sono posta domande su ciò che è veramente accaduto.
Le mie domande sono altre.
Fino a che punto i nostri ricordi ci definiscono?
Fino a che punto noi siamo il risultato delle circostanze della nostra nascita e della nostra crescita?
Forse un fiore è responsabile del proprio colore?>>
Gli occhi grandi e belli di Diana, che in un tempo lontano avevano fatto innamorate tanti giovani sgraditi a suo padre, sembravano guardare lontano, in un altro tempo, forse in un'altra dimensione.
<<Mi sono posta anch'io le stesse domande, e dal punto di vista teorico credo che il libero arbitrio non esista. Questo però non deve essere una scusa per rifuggire dalle proprie responsabilità.
Io mi sento responsabile per compromessi che ho accettato, per i ricatti a cui ho ceduto, per i silenzi e le omissioni con cui ho coperto la colpevolezza di altre persone.
Quando è morto mio padre e gli sono succeduta come guida di questa Contea, mi ero ripromessa di cambiare.
Avevo guardato i ritratti degli antenati e avevo pensato che sarei stata degna della loro eredità, perché: "I giganti sono come montagne: si parlano attraverso i secoli".
Ero convinta di poter essere persino meglio di loro.
Mi ero detta: "Questo è un regno di rettitudine, oppure non è niente".
E infatti non rimane più niente.
Etiam periere ruinae>>
Silvia si sentì gelare:
<<Non è tutto perduto, mamma. Ci sono io al tuo fianco, e io non mi arrendo, e non mi arrenderò mai>>
Diana sapeva che sua figlia avrebbe risposto in quel modo.
Era proprio quella determinazione ciò che la esponeva maggiormente al pericolo:
<<Ammiro il tuo coraggio, ma ti invito a non fidarti di nessuno, tranne me e le tue sorelle, perché, come hai ammesso tu stessa, da queste parti niente è come sembra.
Ricordatelo bene, Silvia.
Niente è come sembra!>>
venerdì 21 febbraio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 52. I colleghi dell'Istituto Tecnico
Grande fu lo sconcerto del clan Ricci-Orsini quando Silvia rifiutò fermamente qualunque forma di raccomandazione, sia in sede di concorso, superato peraltro brillantemente, sia in sede di assegnazione della cattedra di ruolo.
E così, mentre il Sommo Poeta donnaiolo Adriano Trombatore declamava le sue orazioni al Liceo Classico, Silvia accettò di buon grado la cattedra di italiano, storia e geografia all'Istituto Tecnico Industriale Statale.
Tale scelta si rivelò inaspettatamente felice, perché all'ITIS di Forlì conobbe, tra i suoi colleghi, sia il futuro marito, sia la maggior parte degli amici più cari e dei frequentatori del salotto a cui avrebbe dato vita in seguito, dopo il matrimonio.
Iniziamo dai colleghi di sezione, nel biennio.
C'erano, in primo luogo, Anna ed Elisabetta De Gubernatis (ancora precarie e pertanto non raccomandabili dalla Signorina De Toschi) : la prima, che come sappiamo aveva sposato il Sommo Poeta, insegnava lettere in altre classi della stessa sezione, mentre la seconda era docente di inglese e faceva una corte spietata a Massimo Braghiri, docente di matematica, il quale continuava a corteggiare Silvia, invano.
La collega di scienze naturali era la Professoressa Maria Pia Teodati De Bonchamp, una ninfomane ipocondriaca fissata con l'igiene intima e lo studio dei germi al microscopio.
Il collega di disegno era l'architetto Amedeo Leandri noto per il suo carattere irascibile e per la tendenza a scagliare fuori dalla finestra fogli e quaderni degli studenti che non gli andavano a genio.
La collega di fisica era la Professoressa Dea Vermiglioni, il cui segno particolare era un enorme neo sferico e violaceo che le copriva quasi tutto il naso: tale oltraggio da parte della natura veniva compensato nella mente della Vermiglioni con una compulsiva tendenza al pettegolezzo velenoso.
Il collega di ginnastica era il Professor Gilberto Minchioni, detto il Tenente Colombo, per la sua abitudine a portare in ogni stagione e con ogni tempo e temperatura, un impermeabile stropicciato color vomito.
La collega di diritto ed economia era la Professoressa Edda Rachele Gatti, figlia di un ex-dirigente fascista di Predappio Alta, ed ella stessa fervente sostenitrice del Movimento Sociale.
Non poteva mancare il collega di religione, il rubicondo Don Adamo Colleoni, un prete dai forti istinti carnali, le cui barzellette oscene mettevano in imbarazzo l'intero istituto, per non parlare della Curia.
Non meno importanti erano i colleghi del triennio.
Italiano e storia negli ultimi tre anni erano affidati alla Professoressa Letizia Ramolini, quasi omonima della madre di Napoleone, ma, a differenza di quest'ultima, zitella impenitente dalla voce nasale e dal fisico somigliante a un armadio.
La cattedra di fisica nel triennio era tenuta dalla Professoressa Renata Maria Crocifissa Binetti Delle Vedove, di cui si vociferava che portasse una jella tremenda e implacabile.
Ma il più importante di tutti, destinato a diventare il miglior amico di Silvia, era il Professor Piero Giovannelli, brillante matematico, sostenitore del geocentrismo, grande conoscitore di cinema, fine umorista e narratore, ma soprattutto principale organizzatore delle iniziative mondane della città e delle gite all'estero.
La sua vèrve era in grado di conquistare tutti: basti dire che persino Ettore Ricci, padre di Silvia, lo vedeva di buon occhio, apprezzandone la tagliente ironia.
Per quanto Giovannelli e la Gatti fossero ufficiosamente fidanzati, non si sposarono mai, né mai convissero, forse per ragione delle opposte visioni politiche, che li portavano a liti furibonde, placate soltanto dalla devozione amorevole di lei e dal bisogno che lui aveva di una donna con la patente di guida che gli facesse da autista, essendo lui volutamente sprovvisto di automobile, ritenuta una spesa frivola e indegna di un vero sapiente.
Va altresì ricordato che tutti i suddetti docenti erano stati, a loro tempo, studenti pubblici o privati della Signorina De Toschi, compreso Piero Giovannelli, che nutriva nei confronti della Grande Mademoiselle un odio viscerale.
In conclusione, bisogna nominare anche i principali membri del personale amministrativo, tecnico e dirigente, ognuno dei quali era destinato a ricoprire in seguito un proprio ruolo nel salotto di Silvia Ricci-Orsini e della sua famiglia.
Ricorderemo quindi: il bidello Obino Colleoni (fratello di don Adamo, e narratore di barzellette altrettanto sconce), il tecnico di laboratorio Guido Selvaggi (che portava sempre la stessa maglia unta e bisunta e che svolgeva anche le attività parallele di falegname e amministratore di condominio), la segretaria Alice Fobrecht Van Der Bach, una bionda di origine olandese, il vicepreside Priamo Marchesi, dirigente democristiano, il Preside Prof. Everardo Rocca Rossiglioni, presidente del Rotary Club, la vicepreside Professoressa Rosa Pia Baccarelli, moglie di un importante notabile democristiano e direttore di banca, e la Provveditrice agli Studi, la temutissima Cordelia Sergenti Borgonzoni.
Ma la vera svolta ci fu quando Massimo Braghiri perse il posto a causa dello scarso punteggio, venendo definitivamente trasferito alle scuole medie, e la sua cattedra fu assegnata a una nostra vecchia conoscenza, ossia Francesco Monterovere, il futuro marito di Silvia.
E così, mentre il Sommo Poeta donnaiolo Adriano Trombatore declamava le sue orazioni al Liceo Classico, Silvia accettò di buon grado la cattedra di italiano, storia e geografia all'Istituto Tecnico Industriale Statale.
Tale scelta si rivelò inaspettatamente felice, perché all'ITIS di Forlì conobbe, tra i suoi colleghi, sia il futuro marito, sia la maggior parte degli amici più cari e dei frequentatori del salotto a cui avrebbe dato vita in seguito, dopo il matrimonio.
Iniziamo dai colleghi di sezione, nel biennio.
C'erano, in primo luogo, Anna ed Elisabetta De Gubernatis (ancora precarie e pertanto non raccomandabili dalla Signorina De Toschi) : la prima, che come sappiamo aveva sposato il Sommo Poeta, insegnava lettere in altre classi della stessa sezione, mentre la seconda era docente di inglese e faceva una corte spietata a Massimo Braghiri, docente di matematica, il quale continuava a corteggiare Silvia, invano.
La collega di scienze naturali era la Professoressa Maria Pia Teodati De Bonchamp, una ninfomane ipocondriaca fissata con l'igiene intima e lo studio dei germi al microscopio.
Il collega di disegno era l'architetto Amedeo Leandri noto per il suo carattere irascibile e per la tendenza a scagliare fuori dalla finestra fogli e quaderni degli studenti che non gli andavano a genio.
La collega di fisica era la Professoressa Dea Vermiglioni, il cui segno particolare era un enorme neo sferico e violaceo che le copriva quasi tutto il naso: tale oltraggio da parte della natura veniva compensato nella mente della Vermiglioni con una compulsiva tendenza al pettegolezzo velenoso.
Il collega di ginnastica era il Professor Gilberto Minchioni, detto il Tenente Colombo, per la sua abitudine a portare in ogni stagione e con ogni tempo e temperatura, un impermeabile stropicciato color vomito.
La collega di diritto ed economia era la Professoressa Edda Rachele Gatti, figlia di un ex-dirigente fascista di Predappio Alta, ed ella stessa fervente sostenitrice del Movimento Sociale.
Non poteva mancare il collega di religione, il rubicondo Don Adamo Colleoni, un prete dai forti istinti carnali, le cui barzellette oscene mettevano in imbarazzo l'intero istituto, per non parlare della Curia.
Non meno importanti erano i colleghi del triennio.
Italiano e storia negli ultimi tre anni erano affidati alla Professoressa Letizia Ramolini, quasi omonima della madre di Napoleone, ma, a differenza di quest'ultima, zitella impenitente dalla voce nasale e dal fisico somigliante a un armadio.
La cattedra di fisica nel triennio era tenuta dalla Professoressa Renata Maria Crocifissa Binetti Delle Vedove, di cui si vociferava che portasse una jella tremenda e implacabile.
Ma il più importante di tutti, destinato a diventare il miglior amico di Silvia, era il Professor Piero Giovannelli, brillante matematico, sostenitore del geocentrismo, grande conoscitore di cinema, fine umorista e narratore, ma soprattutto principale organizzatore delle iniziative mondane della città e delle gite all'estero.
La sua vèrve era in grado di conquistare tutti: basti dire che persino Ettore Ricci, padre di Silvia, lo vedeva di buon occhio, apprezzandone la tagliente ironia.
Per quanto Giovannelli e la Gatti fossero ufficiosamente fidanzati, non si sposarono mai, né mai convissero, forse per ragione delle opposte visioni politiche, che li portavano a liti furibonde, placate soltanto dalla devozione amorevole di lei e dal bisogno che lui aveva di una donna con la patente di guida che gli facesse da autista, essendo lui volutamente sprovvisto di automobile, ritenuta una spesa frivola e indegna di un vero sapiente.
Va altresì ricordato che tutti i suddetti docenti erano stati, a loro tempo, studenti pubblici o privati della Signorina De Toschi, compreso Piero Giovannelli, che nutriva nei confronti della Grande Mademoiselle un odio viscerale.
In conclusione, bisogna nominare anche i principali membri del personale amministrativo, tecnico e dirigente, ognuno dei quali era destinato a ricoprire in seguito un proprio ruolo nel salotto di Silvia Ricci-Orsini e della sua famiglia.
Ricorderemo quindi: il bidello Obino Colleoni (fratello di don Adamo, e narratore di barzellette altrettanto sconce), il tecnico di laboratorio Guido Selvaggi (che portava sempre la stessa maglia unta e bisunta e che svolgeva anche le attività parallele di falegname e amministratore di condominio), la segretaria Alice Fobrecht Van Der Bach, una bionda di origine olandese, il vicepreside Priamo Marchesi, dirigente democristiano, il Preside Prof. Everardo Rocca Rossiglioni, presidente del Rotary Club, la vicepreside Professoressa Rosa Pia Baccarelli, moglie di un importante notabile democristiano e direttore di banca, e la Provveditrice agli Studi, la temutissima Cordelia Sergenti Borgonzoni.
Ma la vera svolta ci fu quando Massimo Braghiri perse il posto a causa dello scarso punteggio, venendo definitivamente trasferito alle scuole medie, e la sua cattedra fu assegnata a una nostra vecchia conoscenza, ossia Francesco Monterovere, il futuro marito di Silvia.
domenica 16 febbraio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 51. Francesco Monterovere conosce l'Antagonista
Nel 1968, mentre il mondo studentesco era scosso dalla Contestazione, Francesco Monterovere aveva vinto il concorso nazionale per l'insegnamento ("sono arrivato sesto in tutta Italia" era solito ripetere, con una certa spavalderia) e di conseguenza aveva ottenuto la sua prima cattedra di ruolo, come si dice in gergo, all'Istituto Tecnico Industriale Statale di Forlì, lo stesso a cui era stato destinato Massimo Braghiri, che invece non aveva superato l'esame di stato, ma soltanto quello provinciale di abilitazione, cosa che gli precludeva una carriera nei Licei.
Da questo dettaglio di non poco conto sarebbe sorta una rivalità destinata a crescere negli anni, fino a diventare una vera e propria faida tra la famiglia Monterovere e la famiglia Braghiri.
Ma ancora i tempi della guerra aperta erano lontani.
L'incontro tra i due futuri rivali in tutto (amore, lavoro, prestigio e quant'altro), era già avvenuto all'università di Bologna, ma Francesco Monterovere non se lo ricordava nemmeno.
Come a volte succede agli uomini molto alti, Francesco aveva la testa tra le nuvole ed era talmente distratto e distante dal contesto che non aveva mai fatto caso a Massimo, basso di statura, olivastro di carnagione e livido d'invidia.
Fu solo quando diventarono colleghi che si ebbe una vera e propria presentazione, che costituì, anche se loro all'epoca non potevano saperlo, il primo punto di tangenza tra due universi totalmente diversi, e cioè quello "montano", "magico/boscoso", "celtico/druidico" e "longobardo" dei Monterovere, e quello "basso padano", "agrario", "gallo-italico", "aristocratico/papista" e "romano/bizantino" dei Ricci-Orsini e di tutte le famiglie che gravitavano intorno al loro centro, la Contea di Casemurate.
Fin dalla loro prima presentazione ufficiale, Francesco e Massimo svilupparono una profonda e reciproca antipatia.
La stretta di mano di Massimo fu stritolante e troppo prolungata.
A questa seguì una raffica di domande che conteneva già in sé altrettante risposte provocatorie:
<<Monterovere? Non sei di queste parti, vero? Vieni dai monti, giusto?>>
Seccato, Francesco borbottò una risposta vaga:
<<I miei nonni erano di Querciagrossa di Pavullo, nel modenese>>
Massimo sorrise:
<<Ah, ecco! Infatti il dialetto modenese ha una cadenza molto marcata, una specie di cantilena...>>
Francesco, sempre più irritato, intervenne:
<<Ma io sono nato e cresciuto a Faenza, per tua informazione!>>
Massimo sorrise con una certa condiscendenza:
<<Ah, qui da noi si dice "botta di faentino", quando uno dà di matto! Oppure "fare senza, come quelli di Faenza". Anche lì si mangiano le parole, hanno uno strano dialetto, con tutte le vocali sbagliate...>>
Francesco, di temperamento irascibile, stava già desiderando di prendere a pugni quel cafone:
<<Credevo che tu insegnassi matematica, non glottologia>>
Massimo si erse in tutto il suo metro e sessanta:
<<Insegno matematica, ma ho mille hobbies sia culturali che sportivi. Mi intendo di preistoria, storia locale, dialettologia, lingue straniere, storia dell'arte e collezionismo, inoltre sono appassionato di tennis, nuoto, barca a vela, motocicletta e automobilismo>>
Francesco parve divertito:
<<E cosa ti fa pensare che tutto questo mi interessi anche solo lontanamente?>>
Massimo divenne verde per la bile:
<<Ritengo che la socializzazione tra colleghi si basi su una presentazione che non sia superficiale. Per cui sarei curioso di sapere quali sono i tuoi hobbies culturali e sportivi>>
Di fronte a tanta bizzarra pedanteria, Francesco era tentato di mandare al diavolo l'interlocutore, e avrebbe fatto sicuramente meglio, ma alla fine prevalse quel senso innato di quieto vivere che aveva ereditato da sua madre:
<<Mah, a livello culturale mi piace la musica classica, in particolare l'opera lirica. Ho anche una seconda laurea in fisica, per cui mi interessa la scienza, la storia della scienza, la filosofia della scienza e la filosofia in senso lato, in particolare la logica e la metafisica. Mi piace molto il cinema, specie quello surrealista, Fellini in particolare. Vado a teatro, leggo romanzi gialli e di fantascienza, ma anche testi più impegnativi: Borges per esempio, e Proust, soprattutto, il mio autore preferito. Non sono sportivo, mi sembra tempo perso. Sono un intellettuale puro>>
E qui Massimo trovò subito il punto debole del suo futuro avversario:
<<Ah, male! Lo sport è essenziale per la salute fisica e psicologica. Io lo insegnerò ai miei figli, prima di tutto, al di sopra di tutto. Tu invece darai un pessimo esempio ai tuoi, che cresceranno in una specie di castello in aria, senza contatto con la realtà...>>
Francesco era sbalordito dalla faccia tosta di quel piccoletto:
<<Ci conosciamo da nemmeno cinque minuti e mi stai dando già lezioni su come si crescono i figli. Be', mi dispiace deluderti, ma per il momento questo discorso non mi interessa. Preferisco divertirmi un po', prima di mettere la testa a posto>>
Massimo scattò subito:
<<Male, malissimo! Fare i figli tardi è un errore colossale. Io per fortuna devo solo scegliere tra numerose spasimanti. Se ritarderò un minimo, sarà solo perché dovrò scegliere la più adatta per me>>
E qui Francesco ebbe gioco facile per trovare una risposta destinata a provocargli l'odio perenne di tutta la famiglia Braghiri:
<<Be', non dovrebbe essere così difficile, Massimo. Visto che pensi già a cosa sarà meglio per i tuoi figli, è necessario che tu, tra tutte le tue innumerevoli spasimanti, sceglierai per forza la più alta>>
La faccia di Massimo assunse un color verde oliva tendente al giallo zafferano:
<<Non necessariamente! Per esempio, la mia famiglia frequenta quella dei Conti Orsini di Casemurate, la famiglia più antica e più nobile di tutta la Romagna. Discendono da Bertoldo Orsini, che fu Conte di Romagna dal 1278, per volontà di suo zio, papa Niccolò III...>>
<<Ah, sì, quello che Dante mette all'Inferno per simonia...>>
<<Questo non c'entra nulla. Stavo dicendo che in pratica io sono intimo di Silvia Ricci-Orsini, l'erede dell'attuale Contessa Orsini di Casemurate>>
Francesco trovava sempre più ridicolo quel personaggetto supponente e millantatore:
<<A Roma direbbero: me cojoni!>>
<<Si vede che tu non conosci la storia, caro Francesco... e osi definirti un intellettuale!>>
<<Se sapessi tutto, allora forse insegnerei alla Sorbona di Parigi, discettando dei massimi sistemi, e non delle contesse di qualche sconosciuto paesino della bassa pianura romagnola abitato da pigmei con manie di grandezza>>
Quella parola, "pigmeo", politicamente scorretta già a quei tempi, fu un altro dei motivi dell'odio di Massimo Braghiri nei confronti di Francesco Monterovere.
Nessuno dei due però si era reso conto che, già in quella prima conversazione, era stato fatto il nome di Silvia Ricci-Orsini, la donna destinata ad essere contesa tra loro negli anni a venire.
Massimo, che voleva aver sempre l'ultima parola in ogni discussione, concluse sprezzante:
<<Dovrai imparare ad avere più rispetto nei confronti del clan Ricci-Orsini, perché i loro parenti controllano tutte le posizioni chiave del potere, qui a Forlì. Ti auguro di non incorrere mai nell'ira di Ettore Ricci, il marito della Contessa, perché tutti quelli che hanno osato sfidarlo hanno fatto una brutta fine>>
Francesco parve confuso:
<<Parli di questo Ettore come se fosse un boss mafioso. Comunque, non vedo perché dovrei averci a che fare. E poi cosa intendi per "brutta fine"? Lo hanno sfidato e hanno fallito?>>
Massimo lo fissò con sguardo da faina:
<<Lo hanno sfidato e sono morti>>
Da questo dettaglio di non poco conto sarebbe sorta una rivalità destinata a crescere negli anni, fino a diventare una vera e propria faida tra la famiglia Monterovere e la famiglia Braghiri.
Ma ancora i tempi della guerra aperta erano lontani.
L'incontro tra i due futuri rivali in tutto (amore, lavoro, prestigio e quant'altro), era già avvenuto all'università di Bologna, ma Francesco Monterovere non se lo ricordava nemmeno.
Come a volte succede agli uomini molto alti, Francesco aveva la testa tra le nuvole ed era talmente distratto e distante dal contesto che non aveva mai fatto caso a Massimo, basso di statura, olivastro di carnagione e livido d'invidia.
Fu solo quando diventarono colleghi che si ebbe una vera e propria presentazione, che costituì, anche se loro all'epoca non potevano saperlo, il primo punto di tangenza tra due universi totalmente diversi, e cioè quello "montano", "magico/boscoso", "celtico/druidico" e "longobardo" dei Monterovere, e quello "basso padano", "agrario", "gallo-italico", "aristocratico/papista" e "romano/bizantino" dei Ricci-Orsini e di tutte le famiglie che gravitavano intorno al loro centro, la Contea di Casemurate.
Fin dalla loro prima presentazione ufficiale, Francesco e Massimo svilupparono una profonda e reciproca antipatia.
La stretta di mano di Massimo fu stritolante e troppo prolungata.
A questa seguì una raffica di domande che conteneva già in sé altrettante risposte provocatorie:
<<Monterovere? Non sei di queste parti, vero? Vieni dai monti, giusto?>>
Seccato, Francesco borbottò una risposta vaga:
<<I miei nonni erano di Querciagrossa di Pavullo, nel modenese>>
Massimo sorrise:
<<Ah, ecco! Infatti il dialetto modenese ha una cadenza molto marcata, una specie di cantilena...>>
Francesco, sempre più irritato, intervenne:
<<Ma io sono nato e cresciuto a Faenza, per tua informazione!>>
Massimo sorrise con una certa condiscendenza:
<<Ah, qui da noi si dice "botta di faentino", quando uno dà di matto! Oppure "fare senza, come quelli di Faenza". Anche lì si mangiano le parole, hanno uno strano dialetto, con tutte le vocali sbagliate...>>
Francesco, di temperamento irascibile, stava già desiderando di prendere a pugni quel cafone:
<<Credevo che tu insegnassi matematica, non glottologia>>
Massimo si erse in tutto il suo metro e sessanta:
<<Insegno matematica, ma ho mille hobbies sia culturali che sportivi. Mi intendo di preistoria, storia locale, dialettologia, lingue straniere, storia dell'arte e collezionismo, inoltre sono appassionato di tennis, nuoto, barca a vela, motocicletta e automobilismo>>
Francesco parve divertito:
<<E cosa ti fa pensare che tutto questo mi interessi anche solo lontanamente?>>
Massimo divenne verde per la bile:
<<Ritengo che la socializzazione tra colleghi si basi su una presentazione che non sia superficiale. Per cui sarei curioso di sapere quali sono i tuoi hobbies culturali e sportivi>>
Di fronte a tanta bizzarra pedanteria, Francesco era tentato di mandare al diavolo l'interlocutore, e avrebbe fatto sicuramente meglio, ma alla fine prevalse quel senso innato di quieto vivere che aveva ereditato da sua madre:
<<Mah, a livello culturale mi piace la musica classica, in particolare l'opera lirica. Ho anche una seconda laurea in fisica, per cui mi interessa la scienza, la storia della scienza, la filosofia della scienza e la filosofia in senso lato, in particolare la logica e la metafisica. Mi piace molto il cinema, specie quello surrealista, Fellini in particolare. Vado a teatro, leggo romanzi gialli e di fantascienza, ma anche testi più impegnativi: Borges per esempio, e Proust, soprattutto, il mio autore preferito. Non sono sportivo, mi sembra tempo perso. Sono un intellettuale puro>>
E qui Massimo trovò subito il punto debole del suo futuro avversario:
<<Ah, male! Lo sport è essenziale per la salute fisica e psicologica. Io lo insegnerò ai miei figli, prima di tutto, al di sopra di tutto. Tu invece darai un pessimo esempio ai tuoi, che cresceranno in una specie di castello in aria, senza contatto con la realtà...>>
Francesco era sbalordito dalla faccia tosta di quel piccoletto:
<<Ci conosciamo da nemmeno cinque minuti e mi stai dando già lezioni su come si crescono i figli. Be', mi dispiace deluderti, ma per il momento questo discorso non mi interessa. Preferisco divertirmi un po', prima di mettere la testa a posto>>
Massimo scattò subito:
<<Male, malissimo! Fare i figli tardi è un errore colossale. Io per fortuna devo solo scegliere tra numerose spasimanti. Se ritarderò un minimo, sarà solo perché dovrò scegliere la più adatta per me>>
E qui Francesco ebbe gioco facile per trovare una risposta destinata a provocargli l'odio perenne di tutta la famiglia Braghiri:
<<Be', non dovrebbe essere così difficile, Massimo. Visto che pensi già a cosa sarà meglio per i tuoi figli, è necessario che tu, tra tutte le tue innumerevoli spasimanti, sceglierai per forza la più alta>>
La faccia di Massimo assunse un color verde oliva tendente al giallo zafferano:
<<Non necessariamente! Per esempio, la mia famiglia frequenta quella dei Conti Orsini di Casemurate, la famiglia più antica e più nobile di tutta la Romagna. Discendono da Bertoldo Orsini, che fu Conte di Romagna dal 1278, per volontà di suo zio, papa Niccolò III...>>
<<Ah, sì, quello che Dante mette all'Inferno per simonia...>>
<<Questo non c'entra nulla. Stavo dicendo che in pratica io sono intimo di Silvia Ricci-Orsini, l'erede dell'attuale Contessa Orsini di Casemurate>>
Francesco trovava sempre più ridicolo quel personaggetto supponente e millantatore:
<<A Roma direbbero: me cojoni!>>
<<Si vede che tu non conosci la storia, caro Francesco... e osi definirti un intellettuale!>>
<<Se sapessi tutto, allora forse insegnerei alla Sorbona di Parigi, discettando dei massimi sistemi, e non delle contesse di qualche sconosciuto paesino della bassa pianura romagnola abitato da pigmei con manie di grandezza>>
Quella parola, "pigmeo", politicamente scorretta già a quei tempi, fu un altro dei motivi dell'odio di Massimo Braghiri nei confronti di Francesco Monterovere.
Nessuno dei due però si era reso conto che, già in quella prima conversazione, era stato fatto il nome di Silvia Ricci-Orsini, la donna destinata ad essere contesa tra loro negli anni a venire.
Massimo, che voleva aver sempre l'ultima parola in ogni discussione, concluse sprezzante:
<<Dovrai imparare ad avere più rispetto nei confronti del clan Ricci-Orsini, perché i loro parenti controllano tutte le posizioni chiave del potere, qui a Forlì. Ti auguro di non incorrere mai nell'ira di Ettore Ricci, il marito della Contessa, perché tutti quelli che hanno osato sfidarlo hanno fatto una brutta fine>>
Francesco parve confuso:
<<Parli di questo Ettore come se fosse un boss mafioso. Comunque, non vedo perché dovrei averci a che fare. E poi cosa intendi per "brutta fine"? Lo hanno sfidato e hanno fallito?>>
Massimo lo fissò con sguardo da faina:
<<Lo hanno sfidato e sono morti>>
giovedì 13 febbraio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 50. Un gioco più grande di noi
Da molti anni ormai Ettore Ricci aveva preso possesso dello studio del suo defunto suocero, Achille Orsini, venticinquesimo Conte di Casemurate, facendone la propria "sala del trono".
Diana Orsini, moglie di Ettore e ventiseiesima Contessa di Casemurate, non aveva messo più piede in quella stanza da così tanti anni che, quando finalmente si decise a ritornarvi, si meravigliò di trovarla quasi immutata.
<<Ettore. credo che sia venuto il momento di tornare a parlarci>> esordì Diana, dopo essere entrata nel suo studio.
Lui inarcò le sopracciglia:
<<Ah sì? Non mi rivolgi la parola da quindici anni, e poi improvvisamente arrivi qui, come se niente fosse, e pretendi che io sia disposto a fare conversazione... >>
Lei si sedette sulla poltrona di fronte a lui, fissandolo con determinazione:
<<Si tratta di una questione importante, che non può essere rimandata. Ti chiedo solo di ascoltarmi>>
Ettore sospirò, piegando il giornale sulla pagina delle quotazioni azionarie:
<<Sentiamo!>>
Diana annuì lievemente, in segno di ringraziamento:
<<Io sono convinta che quello che è successo ad Anna non sia una mera casualità>>
Lui alzò gli occhi al cielo:
<<Non vorrai ricominciare con le tue teorie del complotto, spero?>>
Lei mantenne un tono serio:
<<Ettore, fino ad ora ho scelto di fingere di non vedere, di non capire, di non sapere, perché credevo che fosse l'unico modo per evitare che la nostra famiglia si disgregasse.
Ma adesso non posso più far finta di niente>>
Ettore la fissò con aria esasperata:
<<Ma si può sapere di cosa stai parlando?>>
Gli occhi neri di Diana sostennero lo sguardo del marito:
<<Di Silvia. Era lei il bersaglio di Adriano. Anna è stato solo un ripiego>>
Ettore sorrise:
<<Nostra figlia sa difendersi benissimo da sola, e ce ne ha dato prova, per cui non vedo la ragione di preoccuparsi>>
Diana scosse il capo:
<<Ancora una volta ti ostini a non voler vedere quello che succede sotto il tuo naso>>
Lui sbuffò, sempre più spazientito:
<<Ah, ecco, alla fine si torna sempre a questo punto. Io non capisco nulla, invece tu sei il grande genio che risolve i misteri>>
Lei aveva previsto questa reazione e cercò di arrivare gradualmente al punto:
<<Non è questione di intelligenza, ma di volontà. Ogni volta che ho tentato di metterti in guardia da certe persone di cui ti fidi troppo, tu hai reagito dandomi della pazza, perché non avevo le prove. Ma stavolta è diverso. In tutto questo tempo ho osservato attentamente i fatti, e ho capito persino più di quanto fosse necessario capire. Sarebbe stato più facile vivere di ipotesi, ma per noi è il momento di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile>>
Ettore si spazientì:
<<Basta parlare per enigmi, Diana! A quali fatti ti riferisci?>>
Lei percepì un fondo di curiosità, dietro all'atteggiamento scettico del coniuge:
<<Michele si era messo in testa l'idea che Silvia si sarebbe fidanzata con suo figlio, che lui considera letteralmente il "massimo">>
Ettore sorrise:
<<E' una sua debolezza, lo riconosco. Ma gli ho risposto per rime!>>
Diana si irritò per la mancanza di tatto del marito:
<<Sarebbe bastato fargli notare che Silvia non era interessata a Massimo. Tu invece hai trattato Michele come un servo e lo hai offeso. "Sei il mio miglior servitore, Michele, ma un uomo non può dare in sposa la propria erede al figlio di un servitore!". Lo hai umiliato...>>
Lui mantenne un'aria divertita:
<<Non dirmi che adesso Michele Braghiri ti sta simpatico!>>
Lei scosse il capo con decisione:
<<Tu sai come la penso sul suo conto. E' un uomo pericoloso, soprattutto quando si sente offeso. E stavolta hai offeso anche Massimo, che a mio parere è ancor più pericoloso di suo padre>>
Ettore scrollò le spalle:
<<Oh, avanti, Diana, non essere ridicola. Michele non ha nulla da guadagnarci a mettersi contro di me. E Massimo è solo un ragazzo!>>
Diana gli puntò un indice contro:
<<Un ragazzo? Ma se ha ventiquattro anni! E' laureato in matematica, sta preparando il concorso per l'insegnamento. Io non ho potuto studiare, ma, a differenza tua, non sottovaluto i laureati, specie quelli con 110 e lode>>
<<E come avrebbe fatto a causare lo scandalo di Anna e Adriano?>>
<<Ma è ovvio! Chi ci ha portato in casa il Sommo Poeta? La Signorina De Toschi... la stessa che ha un'adorazione particolare per Massimo e altrettanti motivi per provare invidia e rancore nei nostri confronti, e in particolare nei confronti di nostra figlia>>
Ettore non si scompose:
<<Le tue manie di persecuzione si sono aggravate. Tu hai bisogno di andare da un medico... uno bravo, come si suol dire>>
Lei sorrise:
<<E allora dimmi chi è stato a uccidere mia sorella e mio fratello, e a far fuori Federico. L'ispettore e il giudice hanno insabbiato tutto, per fare un favore a te. E in tutti questi anni non ti sei mai chiesto niente, non hai mai voluto fare chiarezza, non ti sei mai interessato di nulla, come se tutto questo non ti riguardasse>>
Ettore si incupì:
<<Ma cosa potevo fare? Sollevare un polverone che ci avrebbe screditato agli occhi di tutto il mondo? Se fosse stato reso pubblico che si era trattato di omicidio, tutti avrebbero puntato il dito contro di me, come tu stai facendo ora.
Certo, io ho tratto, seppur indirettamente, un vantaggio da quelle morti, ma non sono il mandante. Forse qualche mio collaboratore ha voluto agire da solo, nell'ombra.
Dubito che sia Michele, è troppo pavido per questo tipo di cose.
Ma una cosa è certa: io sono innocente.
La mia unica colpa è di essermi illuso nei tuoi confronti.
Credevo che noi due, insieme, avremmo potuto vincere>>
Colpita da quelle parole che mettevano in luce tutta l'amarezza per ciò che il loro matrimonio non era stato, Diana non ebbe il coraggio di ricordargli che la loro unione era avvenuta in circostanze infauste.
<<Possiamo ancora vincere, anzi dobbiamo vincere, per la nostra famiglia. Le nostre figlie, i nostri nipoti e tutti coloro che verranno. E' per questo che ti sto consigliando di prendere sul serio i miei avvertimenti. Sono in tanti che vorrebbero vedere la nostra famiglia nel fango, per poi impedirle di rialzarsi...>>
Ettore la fermò, sollevando una mano:
<<Non c'è mai stato un "noi". Quando tu parli della famiglia, pensi ancora agli Orsini di Casemurate. Io sono stato soltanto un principe consorte>>
Diana scosse il capo:
<<Ma cosa stai dicendo? E' tutto di tua proprietà. Sei il padrone indiscusso da trent'anni!>>
Lui divenne ancora più cupo:
<<Tutti mi guardano come un usurpatore, una calamità temporanea da sopportare prima che tutto torni di nuovo nelle mani dei gentiluomini. Per questo avrei voluto il figlio maschio. Lui almeno avrebbe continuato la mia stirpe e il mio cognome. E invece tutto sarà diviso tra le nostre figlie e andrà a ingrandire i feudi dei loro mariti. E di me non resterà traccia, mentre tutti ricorderanno per sempre il nome degli Orsini, che governarono queste terre dal 1278, quando i Papi della loro nobile stirpe li mandarono qui per la prima volta. Vedi che conosco la storia? Ho imparato molte cose, in questi anni, mentre tu te ne stavi rinchiusa nella tua stanza a leggere romanzi inutili>>
Sarebbe stato inutile spiegargli che leggere era l'unica attività umana che, dal punto di vista di Diana, poteva inseguire l'infinito oltre i limiti angusti nei quali era costretta a vivere.
Ettore non poteva capirlo, ed era inutile rimproverarlo per questo: aveva altre doti.
Ma riguardo alla questione della famiglia Braghiri, Diana non voleva darsi per vinta:
<<Massimo e Michele vanno allontanati, prima che possano combinare altri danni>>
Ettore stava esaurendo la sua riserva di pazienza:
<<E cosa mai potrebbero fare, senza rischiare di essere scoperti?>>
Diana ci aveva pensato a lungo:
<<Potrebbero trovare qualcosa per ricattarti. Michele sa fin troppe cose sui tuoi affari. Potrebbe aver architettato un piano per far ricadere su di te le proprie colpe>>
Questa osservazione riuscì a far breccia su Ettore:
<<Potrebbe, ma anche se fosse, io non potrei certo obbligare Silvia a sposare Massimo. I tempi stanno cambiando>>
Diana annuì:
<<Oh sì, stanno decisamente cambiando. Ma non è questo il punto. I Braghiri vogliono vendicarsi: a loro importa rovinarti, e di conseguenza rovinare anche me e Silvia, che viviamo ancora qui a Villa Orsini>>
Lui non si scompose:
<<Il giudice De Gubernatis, nostro cognato, controlla le indagini preliminari su tutta la Contea di Casemurate di Forlì, e nessuno potrà smuoverlo da quell'incarico, fintanto che godrà della protezione dell'altro nostro cognato, il senatore Baroni, che è anche membro laico del CSM>>
Diana scosse il capo:
<<Il potere dei cognati non durerà in eterno. Siamo rimasti intrappolati in un gioco più grande di noi>>
Ettore accennò un sorriso di compiacimento:
<<Mi fa piacere che tu parli al plurale. Perché anche il tuo silenzio ti rende mia complice e credo che tu lo sappia>>
Lei gli rivolse uno sguardo infuriato:
<<Sei un vigliacco!>>
<<Oh, avanti, Diana, non essere melodrammatica!
E' tutto sotto controllo: la nostra rete di clientele durerà abbastanza per darmi il tempo di mettere tutto in ordine agli occhi della legge.
E comunque devi tenere conto di un altro fatto assolutamente indiscutibile: se cadessimo noi, cadrebbero anche i nostri eventuali nemici.
Massimo potrà anche rendersi autonomo da noi, ma i suoi genitori non troverebbero un lavoro così ben remunerato e prestigioso come quello che hanno qui.
Se il Feudo Orsini dovesse cadere in rovina, trascinerebbe con sé anche loro nel fango.
Non dobbiamo allontanarli, ma vincolarli ancora più strettamente>>
Diana si rese conto che quell'osservazione aveva un senso, ma non le piacquero per niente le implicazioni che ne derivavano:
<<E cosa vorresti fare, allora?>>
Ettore sorrise:
<<Sei proprio sicura che Silvia non sia interessata a Massimo?>>
<<Sicurissima! Ma cosa ti salta in mente? Prima dici che i tempi sono cambiati, e poi vorresti condannare Silvia alla stessa infelicità a cui io sono stata costretta?>>
Lui si incupì:
<<Alla fine si ritorna sempre a questo punto. Ma questa volta, dato che sei stata tu a incominciare il discorso, devi lasciarmi il diritto di replicare in tutta sincerità!>>
Lei sospirò:
<<La sincerità non implica necessariamente la verità di ciò di cui si parla. Ma comunque, se proprio insisti, dimmi pure...>>
Lui si mise una mano tra gli occhi, come per nascondere un dolore profondo, nascosto per un tempo lunghissimo.
<<Tu sei sempre stata accecata dal pregiudizio nei miei confronti, perché io non appartenevo al tuo ceto sociale...>>
<<Ma non dire sciocchezze!>>
<<... e dal fatto che non rispondevo ai tuoi canoni di perfezione estetica...>>
<<Io non sono una donna superficiale e lo sai benissimo!>>
<<... e dalla rozzezza e ignoranza che io mostravo da giovane>>
<<A questo hai posto rimedio grazie ai miei consigli, a riprova del fatto che ti ritenevo intelligente e pronto ad apprendere>>
<<Parli come mia madre, ma almeno lei ha sempre creduto in me. Tu invece mi hai sopportato soltanto per il bene superiore della famiglia, per tutelare "l'onore degli Orsini".
Ma quel cognome si estinguerà con te, mentre il mio denaro durerà per almeno altre due generazioni, e i nostri nipoti ringrazieranno me!>>
Diana scattò in piedi:
<<E il mio sacrificio? Credi che non lo terranno in considerazione? Le nostre stesse figlie guardano a me come una martire. Tanto più lo faranno i nostri nipoti, quando capiranno che cosa ho dovuto sopportare per colpa tua.
Sono venuta qui con le migliori intenzioni, ma sono stata un'ingenua.
Però ti avverto: non coinvolgere Silvia nelle tue trame! Lei è l'unica che può liberarsi dalla ragnatela che ci hai tessuto intorno, e io la difenderò con le unghie e con i denti, finché avrò vita. Ti ho avvertito>>
Ettore parve sorpreso:
<<Se pensi che io possa minacciare di diseredarla, voglio tranquillizzarti. Avrà la sua parte.
Io sono un grande uomo d'affari e nessuno resterà a bocca asciutta>>
Diana, ormai sulla porta, sorrise amaramente:
<<Oh, non ne dubito. Si può essere un grande uomo d'affari anche essendo un pessimo marito e un cattivo padre>>
Diana Orsini, moglie di Ettore e ventiseiesima Contessa di Casemurate, non aveva messo più piede in quella stanza da così tanti anni che, quando finalmente si decise a ritornarvi, si meravigliò di trovarla quasi immutata.
<<Ettore. credo che sia venuto il momento di tornare a parlarci>> esordì Diana, dopo essere entrata nel suo studio.
Lui inarcò le sopracciglia:
<<Ah sì? Non mi rivolgi la parola da quindici anni, e poi improvvisamente arrivi qui, come se niente fosse, e pretendi che io sia disposto a fare conversazione... >>
Lei si sedette sulla poltrona di fronte a lui, fissandolo con determinazione:
<<Si tratta di una questione importante, che non può essere rimandata. Ti chiedo solo di ascoltarmi>>
Ettore sospirò, piegando il giornale sulla pagina delle quotazioni azionarie:
<<Sentiamo!>>
Diana annuì lievemente, in segno di ringraziamento:
<<Io sono convinta che quello che è successo ad Anna non sia una mera casualità>>
Lui alzò gli occhi al cielo:
<<Non vorrai ricominciare con le tue teorie del complotto, spero?>>
Lei mantenne un tono serio:
<<Ettore, fino ad ora ho scelto di fingere di non vedere, di non capire, di non sapere, perché credevo che fosse l'unico modo per evitare che la nostra famiglia si disgregasse.
Ma adesso non posso più far finta di niente>>
Ettore la fissò con aria esasperata:
<<Ma si può sapere di cosa stai parlando?>>
Gli occhi neri di Diana sostennero lo sguardo del marito:
<<Di Silvia. Era lei il bersaglio di Adriano. Anna è stato solo un ripiego>>
Ettore sorrise:
<<Nostra figlia sa difendersi benissimo da sola, e ce ne ha dato prova, per cui non vedo la ragione di preoccuparsi>>
Diana scosse il capo:
<<Ancora una volta ti ostini a non voler vedere quello che succede sotto il tuo naso>>
Lui sbuffò, sempre più spazientito:
<<Ah, ecco, alla fine si torna sempre a questo punto. Io non capisco nulla, invece tu sei il grande genio che risolve i misteri>>
Lei aveva previsto questa reazione e cercò di arrivare gradualmente al punto:
<<Non è questione di intelligenza, ma di volontà. Ogni volta che ho tentato di metterti in guardia da certe persone di cui ti fidi troppo, tu hai reagito dandomi della pazza, perché non avevo le prove. Ma stavolta è diverso. In tutto questo tempo ho osservato attentamente i fatti, e ho capito persino più di quanto fosse necessario capire. Sarebbe stato più facile vivere di ipotesi, ma per noi è il momento di scegliere tra ciò che è giusto e ciò che è facile>>
Ettore si spazientì:
<<Basta parlare per enigmi, Diana! A quali fatti ti riferisci?>>
Lei percepì un fondo di curiosità, dietro all'atteggiamento scettico del coniuge:
<<Michele si era messo in testa l'idea che Silvia si sarebbe fidanzata con suo figlio, che lui considera letteralmente il "massimo">>
Ettore sorrise:
<<E' una sua debolezza, lo riconosco. Ma gli ho risposto per rime!>>
Diana si irritò per la mancanza di tatto del marito:
<<Sarebbe bastato fargli notare che Silvia non era interessata a Massimo. Tu invece hai trattato Michele come un servo e lo hai offeso. "Sei il mio miglior servitore, Michele, ma un uomo non può dare in sposa la propria erede al figlio di un servitore!". Lo hai umiliato...>>
Lui mantenne un'aria divertita:
<<Non dirmi che adesso Michele Braghiri ti sta simpatico!>>
Lei scosse il capo con decisione:
<<Tu sai come la penso sul suo conto. E' un uomo pericoloso, soprattutto quando si sente offeso. E stavolta hai offeso anche Massimo, che a mio parere è ancor più pericoloso di suo padre>>
Ettore scrollò le spalle:
<<Oh, avanti, Diana, non essere ridicola. Michele non ha nulla da guadagnarci a mettersi contro di me. E Massimo è solo un ragazzo!>>
Diana gli puntò un indice contro:
<<Un ragazzo? Ma se ha ventiquattro anni! E' laureato in matematica, sta preparando il concorso per l'insegnamento. Io non ho potuto studiare, ma, a differenza tua, non sottovaluto i laureati, specie quelli con 110 e lode>>
<<E come avrebbe fatto a causare lo scandalo di Anna e Adriano?>>
<<Ma è ovvio! Chi ci ha portato in casa il Sommo Poeta? La Signorina De Toschi... la stessa che ha un'adorazione particolare per Massimo e altrettanti motivi per provare invidia e rancore nei nostri confronti, e in particolare nei confronti di nostra figlia>>
Ettore non si scompose:
<<Le tue manie di persecuzione si sono aggravate. Tu hai bisogno di andare da un medico... uno bravo, come si suol dire>>
Lei sorrise:
<<E allora dimmi chi è stato a uccidere mia sorella e mio fratello, e a far fuori Federico. L'ispettore e il giudice hanno insabbiato tutto, per fare un favore a te. E in tutti questi anni non ti sei mai chiesto niente, non hai mai voluto fare chiarezza, non ti sei mai interessato di nulla, come se tutto questo non ti riguardasse>>
Ettore si incupì:
<<Ma cosa potevo fare? Sollevare un polverone che ci avrebbe screditato agli occhi di tutto il mondo? Se fosse stato reso pubblico che si era trattato di omicidio, tutti avrebbero puntato il dito contro di me, come tu stai facendo ora.
Certo, io ho tratto, seppur indirettamente, un vantaggio da quelle morti, ma non sono il mandante. Forse qualche mio collaboratore ha voluto agire da solo, nell'ombra.
Dubito che sia Michele, è troppo pavido per questo tipo di cose.
Ma una cosa è certa: io sono innocente.
La mia unica colpa è di essermi illuso nei tuoi confronti.
Credevo che noi due, insieme, avremmo potuto vincere>>
Colpita da quelle parole che mettevano in luce tutta l'amarezza per ciò che il loro matrimonio non era stato, Diana non ebbe il coraggio di ricordargli che la loro unione era avvenuta in circostanze infauste.
<<Possiamo ancora vincere, anzi dobbiamo vincere, per la nostra famiglia. Le nostre figlie, i nostri nipoti e tutti coloro che verranno. E' per questo che ti sto consigliando di prendere sul serio i miei avvertimenti. Sono in tanti che vorrebbero vedere la nostra famiglia nel fango, per poi impedirle di rialzarsi...>>
Ettore la fermò, sollevando una mano:
<<Non c'è mai stato un "noi". Quando tu parli della famiglia, pensi ancora agli Orsini di Casemurate. Io sono stato soltanto un principe consorte>>
Diana scosse il capo:
<<Ma cosa stai dicendo? E' tutto di tua proprietà. Sei il padrone indiscusso da trent'anni!>>
Lui divenne ancora più cupo:
<<Tutti mi guardano come un usurpatore, una calamità temporanea da sopportare prima che tutto torni di nuovo nelle mani dei gentiluomini. Per questo avrei voluto il figlio maschio. Lui almeno avrebbe continuato la mia stirpe e il mio cognome. E invece tutto sarà diviso tra le nostre figlie e andrà a ingrandire i feudi dei loro mariti. E di me non resterà traccia, mentre tutti ricorderanno per sempre il nome degli Orsini, che governarono queste terre dal 1278, quando i Papi della loro nobile stirpe li mandarono qui per la prima volta. Vedi che conosco la storia? Ho imparato molte cose, in questi anni, mentre tu te ne stavi rinchiusa nella tua stanza a leggere romanzi inutili>>
Sarebbe stato inutile spiegargli che leggere era l'unica attività umana che, dal punto di vista di Diana, poteva inseguire l'infinito oltre i limiti angusti nei quali era costretta a vivere.
Ettore non poteva capirlo, ed era inutile rimproverarlo per questo: aveva altre doti.
Ma riguardo alla questione della famiglia Braghiri, Diana non voleva darsi per vinta:
<<Massimo e Michele vanno allontanati, prima che possano combinare altri danni>>
Ettore stava esaurendo la sua riserva di pazienza:
<<E cosa mai potrebbero fare, senza rischiare di essere scoperti?>>
Diana ci aveva pensato a lungo:
<<Potrebbero trovare qualcosa per ricattarti. Michele sa fin troppe cose sui tuoi affari. Potrebbe aver architettato un piano per far ricadere su di te le proprie colpe>>
Questa osservazione riuscì a far breccia su Ettore:
<<Potrebbe, ma anche se fosse, io non potrei certo obbligare Silvia a sposare Massimo. I tempi stanno cambiando>>
Diana annuì:
<<Oh sì, stanno decisamente cambiando. Ma non è questo il punto. I Braghiri vogliono vendicarsi: a loro importa rovinarti, e di conseguenza rovinare anche me e Silvia, che viviamo ancora qui a Villa Orsini>>
Lui non si scompose:
<<Il giudice De Gubernatis, nostro cognato, controlla le indagini preliminari su tutta la Contea di Casemurate di Forlì, e nessuno potrà smuoverlo da quell'incarico, fintanto che godrà della protezione dell'altro nostro cognato, il senatore Baroni, che è anche membro laico del CSM>>
Diana scosse il capo:
<<Il potere dei cognati non durerà in eterno. Siamo rimasti intrappolati in un gioco più grande di noi>>
Ettore accennò un sorriso di compiacimento:
<<Mi fa piacere che tu parli al plurale. Perché anche il tuo silenzio ti rende mia complice e credo che tu lo sappia>>
Lei gli rivolse uno sguardo infuriato:
<<Sei un vigliacco!>>
<<Oh, avanti, Diana, non essere melodrammatica!
E' tutto sotto controllo: la nostra rete di clientele durerà abbastanza per darmi il tempo di mettere tutto in ordine agli occhi della legge.
E comunque devi tenere conto di un altro fatto assolutamente indiscutibile: se cadessimo noi, cadrebbero anche i nostri eventuali nemici.
Massimo potrà anche rendersi autonomo da noi, ma i suoi genitori non troverebbero un lavoro così ben remunerato e prestigioso come quello che hanno qui.
Se il Feudo Orsini dovesse cadere in rovina, trascinerebbe con sé anche loro nel fango.
Non conviene a nessuno di loro accusarmi: sarebbe come se si tagliassero la mano destra con la sinistra.
E dunque credo che l'unico modo per controllare le azioni di Michele e Massimo sia proprio tenerli legati a noi e al nostro destino. Non dobbiamo allontanarli, ma vincolarli ancora più strettamente>>
Diana si rese conto che quell'osservazione aveva un senso, ma non le piacquero per niente le implicazioni che ne derivavano:
<<E cosa vorresti fare, allora?>>
Ettore sorrise:
<<Sei proprio sicura che Silvia non sia interessata a Massimo?>>
<<Sicurissima! Ma cosa ti salta in mente? Prima dici che i tempi sono cambiati, e poi vorresti condannare Silvia alla stessa infelicità a cui io sono stata costretta?>>
Lui si incupì:
<<Alla fine si ritorna sempre a questo punto. Ma questa volta, dato che sei stata tu a incominciare il discorso, devi lasciarmi il diritto di replicare in tutta sincerità!>>
Lei sospirò:
<<La sincerità non implica necessariamente la verità di ciò di cui si parla. Ma comunque, se proprio insisti, dimmi pure...>>
Lui si mise una mano tra gli occhi, come per nascondere un dolore profondo, nascosto per un tempo lunghissimo.
<<Tu sei sempre stata accecata dal pregiudizio nei miei confronti, perché io non appartenevo al tuo ceto sociale...>>
<<Ma non dire sciocchezze!>>
<<... e dal fatto che non rispondevo ai tuoi canoni di perfezione estetica...>>
<<Io non sono una donna superficiale e lo sai benissimo!>>
<<... e dalla rozzezza e ignoranza che io mostravo da giovane>>
<<A questo hai posto rimedio grazie ai miei consigli, a riprova del fatto che ti ritenevo intelligente e pronto ad apprendere>>
<<Parli come mia madre, ma almeno lei ha sempre creduto in me. Tu invece mi hai sopportato soltanto per il bene superiore della famiglia, per tutelare "l'onore degli Orsini".
Ma quel cognome si estinguerà con te, mentre il mio denaro durerà per almeno altre due generazioni, e i nostri nipoti ringrazieranno me!>>
Diana scattò in piedi:
<<E il mio sacrificio? Credi che non lo terranno in considerazione? Le nostre stesse figlie guardano a me come una martire. Tanto più lo faranno i nostri nipoti, quando capiranno che cosa ho dovuto sopportare per colpa tua.
Sono venuta qui con le migliori intenzioni, ma sono stata un'ingenua.
Però ti avverto: non coinvolgere Silvia nelle tue trame! Lei è l'unica che può liberarsi dalla ragnatela che ci hai tessuto intorno, e io la difenderò con le unghie e con i denti, finché avrò vita. Ti ho avvertito>>
Ettore parve sorpreso:
<<Se pensi che io possa minacciare di diseredarla, voglio tranquillizzarti. Avrà la sua parte.
Io sono un grande uomo d'affari e nessuno resterà a bocca asciutta>>
Diana, ormai sulla porta, sorrise amaramente:
<<Oh, non ne dubito. Si può essere un grande uomo d'affari anche essendo un pessimo marito e un cattivo padre>>
sabato 1 febbraio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 49. Il Sommo Poeta e l'eterogenesi dei fini.
Adriano Trombatore proveniva da una famiglia che egli stesso definiva "piccolo-borghese", con un misto di disprezzo e falsa modestia.
Il genitori erano insegnanti elementari, ("due maestrini da Libro Cuore", diceva lui, con un sorriso di condiscendenza), e idolatravano, non ricambiati, quel figlio che aveva dimostrato fin da bambino "eccezionali doti letterarie, e non solo", come avrebbe certificato la Signorina De Toschi in persona, sua docente di latino e greco al Liceo Classico.
La stima che l'onnipotente e ninfomane Grande Mademoiselle dimostrava nei confronti del giovane Trombatore era corroborata da un elemento che entrambi condividevano, ossia una spiccata tendenza allo scrocco ai danni della famiglia Ricci-Orsini, di cui la De Toschi si sentiva la guida morale.
La Signorina aveva lasciato intendere al suo allievo prediletto che, una volta diplomatosi, lei gli avrebbe aperto la strada verso il "bel mondo", "l'alta società", la "crème de la crème", a patto, naturalmente, che lui le concedesse qualche notte di infuocata passione amorosa.
Adriano Trombatore, che a detta di molti aveva una certa predisposizione al priapismo, oltre ad essere dotato di uno stomaco molto robusto, seppe soddisfare con successo le considerevoli brame della "Grande Mademoiselle".
Fu per questo che la Signorina, dietro suggerimento del perfido Massimo Braghiri, lo scelse come candidato ideale per insidiare la virtù di Silvia Ricci-Orsini e lo introdusse come ospite fisso ai ricevimenti dell'anziana Contessa Vedova Emilia a Villa Orsini.
La Grande Mademoiselle non aveva però tenuto conto che i gusti di Silvia erano opposti ai suoi, in fatto di uomini.
Quelle che, nell'ottica della De Toschi, erano qualità, dal punto di vista di Silvia erano difetti.
Adriano Trmbatore era piuttosto massiccio, con sguardo vagamente porcino e libinoso. Fumatore accanito, ottima forchetta, nonché bevitore da competizione (lui e la Contessa Madre Emilia facevano a gara a chi si scolava più Rosso di Borgogna nell'arco di un'ora), Adriano Trombatore non era proprio bellissimo, nemmeno nell'accezione più anticonvenzionale del termine, anzi, si può dire che fosse decisamente brutto, eppure aveva uno straordinario successo con le donne.
Era un seduttore, uno di quegli uomini con una personalità così sicura di sé, e in più con "doti nascoste" di leggendaria e sproporzionata eccezionalità da fargli guadagnare la fama di novello Casanova.
E non era tutto.
Trombatore aveva altre considerevoli frecce al proprio arco: una voce da baritono, suadente e lapidaria con cui decantava i versi poetici da lui stesso composti; una cultura letteraria strategicamente organizzata in modo da far credere che conoscesse tutto Dante a memoria; un uso sapiente del silenzio e del corruccio, come se, in ogni istante della sua vita, egli meditasse sui misteri dell'universo, sopportandone il peso.
La sua conversazione era brillante, anche se non si capiva mai quando stesse parlando sul serio o quando volesse fare dell'ironia, tanto che molte persone scoprivano soltanto a distanza di giorni che gli elogi a loro rivolti dal Sommo Poeta erano in realtà delle spietate stroncature.
Le sue pose dannunziane unite al gusto dei vini pregiati gli avevano assicurato la benevolenza della Contessa Vedova, la quale lo invitava con sempre maggiore frequenza ai propri eventi mondani.
Ma queste gentilezze furono mal ricompensate.
Trombatore rimase sconvolto dal fasto della Villa, dal lusso spropositato in cui vivevano i componenti del clan Ricci-Orsini, e per lui fu amore a prima vista: amore per quel mondo, per quel fasto, e solo in un secondo tempo, e incidentalmente, per le donne che ne facevano parte.
Del resto le più belle e interessanti gli erano state precluse fin dall'inizio.
Margherita e Isabella Ricci-Orsini erano entrambe coniugate.
Rimaneva Silvia, come già previsto dai piani di Massimo Braghiri.
Ma, con grande disappunto e delusione del giovane Braghiri e della Signorina, i piani andarono molto diversamente da quanto previsto, producendo addirittura un effetto collaterale i cui danni permanenti avrebbero tormentato la vita del Sommo per tutti i decenni a venire.
Silvia infatti non era minimamente interessata ad Adriano Trmbatore, il quale, dopo aver ripetutamente e inutilmente tentato di corteggiarla a suon di versi d'amore scopiazzati dal Petrarca, ci provò con le gemelle De Gubernatis, figlie di Ginevra Orsini.
Tornò alla carica con "Chiare, fresche e dolci acque" con una delle due, a caso.
Elisabetta De Gubernatis non abboccò: lei aveva occhi solo per Massimo Braghiri, anche se quest'ultimo la considerava soltanto un ripiego.
Il Trombatore, sconcertato da quella serie di fallimenti, decise, non foss'altro che per dare sollievo al proprio ego ferito, di puntare tutto sull'altra gemella, Anna De Gubernatis, alla quale recitò alcuni notissimi versi di Dante, che considerava un suo pari : "Tanto gentile e tanto onesta pare..."
Questa volta, disgraziatamente, ebbe successo: Anna De Gubernatis si innamorò di lui e decretò così, nel contempo, la propria rovina e la salvezza di sua cugina Silvia.
Inizialmente il Trombatore e la sua vittima tennero segreta la loro relazione.
Quando ricominciò il semestre, a Bologna, frequentarono insieme le lezioni di Lettere Classiche e prepararono insieme gli esami. Lo studio era però soltanto una copertura: in realtà i due ci davano sotto con altre attività più sollazzevoli.
Era l'ultimo anno di università, e stavano preparavando la tesi.
Entrambi avevano scelto come argomento la poesia d'amore latina: Adriano aveva optato per Catullo, Anna, con un "notevole" sforzo di fantasia, per Tibullo.
Normalmente la giovane De Gubernatis si faceva aiutare dalla cugina Silvia, ma c'erano dei passaggi in cui solo la grande perizia estetica del Sommo Poeta Trombatore poteva dare quel "tocco di classe" che era necessario.
Fu così che, in un pomeriggio fatale, verso la fine del 1966, Anna e Adriano correggevano insieme la tesi di lei e tra un verso e l'altro, tra un caffè e una sigaretta, scivolarono ben presto in una situazione alla Paolo e Francesca.
Lui, che aveva continuato a scrivere poesie e a declamare i suoi versi in pubbliche letture, le leggeva per diletto una lirica di sua creazione, a lei dedicata, che iniziava con l'espressione "Baluginii nei tuoi occhi".
Bastò questo perché lei si infiammare di passione e dimenticasse di usare le solite precauzioni.
Galeotta fu la poesia e chi la scrisse e “quel giorno più non vi lessero avante”.
Un mese dopo Anna non ebbe il ciclo.
Due mesi dopo ebbe la certezza di essere incinta.
Nessuno dei due aveva il coraggio di dirlo alle rispettive famiglie.
Fuggirono dal collegio di Bologna la sera stessa, portandosi dietro i soldi e i gioielli delle compagne di stanza di Anna e cioè la sorella Elisabetta e la cugina Silvia.
Pernottarono in un albergo a Firenze e il giorno dopo partirono per Roma.
Lì vissero per due settimane in un bilocale scalcagnato di Trastevere, abbandonandosi alla passione più sfrenata, poi, finiti i soldi e l’idillio, se ne tornarono a Bologna a coda bassa, coperti d'infamia e di ridicolo.
Le conseguenze furono ovvie ed inevitabili.
Trovarono ad attenderli lo "Stato Maggiore" del clan Ricci-Orsini-Papisco.
C'erano Ettore Ricci, Diana Orsini, il giudice De Gubernatis, sua moglie Ginevra Orsini, la vecchia Contessa Madre Emilia e, naturalmente, la Signorina De Toschi, infuriata per il fatto che quell'idiota del "Sommo Poeta" aveva rovinato la reputazione della ragazza sbagliata, mandando all'aria il piano che aveva ordito con Massimo Braghiri.
Seguì un interrogatorio in stile Gestapo.
Pressata dalle insistenti domande della Signorina, alla fine Anna ammise, in lacrime:
<<C'è un bambino in viaggio>>
Era troppo persino per la De Toschi.
La Signorina Mariuccia, schiumante di rabbia, prese Adriano Trombatore per la collottola:
<<Lurido traditore! Viscido verme! Dopo tutto quello che ho fatto per téeee! Depravato! Disgraziato! Smidollato! Se fosse ancora vivo il mi' babbo, te la farebbe vedere lui!>>
Trombatore era confuso:
<<Ma io ho soltanto...>>
<<Zitto, pezzo d'idiota! E ascoltami bene!>> tuonò la De Toschi, e dopo essersi soffiata il naso e aver aspirato profondamente la sigaretta, dichiarò <<Certo noi avevamo ben altre aspirazioni per la nostra Anna, ma ormai il danno è fatto e si impone un matrimonio riparatore>>
Nella stanza cadde il silenzio.
Ginevra, la madre di Anna, che non pareva entusiasta di avere Trombatore come genero, avanzò timidamente una proposta:
<<E se... come dire... trovassimo un modo per interrompere la..?>>
La De Toschi, cattolica integralista, strabuzzò gli enormi occhi da batrace:
<<Nooooo! Nooooo!>> tuonò scuotendo il testone, con le guance flaccide che tremavano, così come il triplo mento <<Mai! Non permetterò mai una cosa simile! Su di me si potrà dire tutto, ma una sola cosa è assolutamente certa: io so' cattolica!>>
La vecchia Contessa Madre Emilia, che era già al quarto bicchiere di gin-tonic, e nel suo delirio alcolico aveva intuito più di tutti gli altri che era meglio non inimicarsi la De Toschi, approvò:
<<La Signorina ha ragione. In casi come questo, io l'ho sempre detto, non c'è che la Signorina, e la famiglia Orsini si è sempre attenuta ai suoi consigli e continuerà a farlo>>
Addolcita da quel riconoscimento ufficiale, la Grande Mademoiselle sorrise in un modo che la fece assomigliare all'orripilante Regina di Cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie di Walt Disney, da poco passato a miglior vita ("Da oggi il mondo è più povero", era stato il memorabile commento di Ronald Reagan, all'epoca Governatore della California).
La sua voce della Signorina tornò ipocritamente carezzevole:
<<Dobbiamo trovare un'adeguata sistemazione per questi due ragazzi. In fondo manca poco alla laurea. E' bene che si sposino il prima possibile>>
A quel punto, tutti gli occhi si rivolsero in direzione della capofamiglia.
Diana Orsini, pur nutrendo un istintivo disprezzo per il "Sommo Poeta" Trombatore, non poté fare a meno di notare che Anna lo amava.
Si rivolse dunque alla nipote per averne conferma:
<<Sei d'accordo, Anna? Pensaci bene, prima di rispondere>>
Ma la giovane De Gubernatis non ci pensò neanche mezzo secondo:
<<Sì, voglio sposare Adriano>>
Diana allora fissò sua sorella Ginevra e il giudice De Gubernatis, i quali, loro malgrado, chinarono il capo in segno di assenso.
Poi posò lo sguardo, con aria severissima, sul Trombatore, il quale aveva la faccia di chi ha appena ascoltato un verdetto di condanna a morte.
<<Adriano>> disse infine Diana <<noi ti accogliamo in questa famiglia, il che comporta molti obblighi. Se li rispetterai, ne sarai ricompensato, ma se farai soffrire la figlia di mia sorella, la mia collera ricadrà su di te, come se avessi fatto soffrire una delle mie stesse figlie>>
C'era qualcosa di tristemente profetico nelle parole della Contessa di Casemurate, e certamente non ci voleva il dono della precognizione per capire che la debolezza del "Sommo Poeta" nei riguardo del gentil sesso non sarebbe stata certo cancellata dal "sacro vincolo del matrimonio".
Rimaneva da ascoltare il parere di colui che, pur essendo il reale padrone di tutto e il marito di Diana, veniva ancora inconsciamente considerato come un trovatello ammesso per un atto di carità al nobile desco degli Orsini, ossia Ettore Ricci, per il quale i matrimoni servivano solo ad accrescere il suo potere e a tutelare i suoi affari.
Evidentemente il mondo poetico-letterario non rientrava tra quelli con cui Ettore sentiva il bisogno di stringere legami, pertanto, pur non ritenendo necessario opporre un veto a quelle nozze, grugnì qualcosa riguardo a "quel covo di comunisti " che era la famiglia Trombatore e sul fatto che lui personalmente non voleva averci nulla a che fare.
Ma in fondo nemmeno lui voleva un ennesimo scandalo, non fosse altro che per evitare che la gente tornasse a parlare dei precedenti, e ben più gravi, che non avevano certo giovato alla sua stessa reputazione.
E così la decisione fu presa, e uno dei più fallimentari matrimoni del secolo ebbe inizio.
Diana, che pure era stata severa nei confronti di Adriano, non poté comunque fare a meno di provare una certa compassione nei suoi confronti.
Il Sommo Poeta, infatti, aveva immaginato per sé una vita ben diversa, come i poeti maledetti parigini, un'esistenza fatta di genio e sregolatezza, di Bohème a Montparnasse, di viaggi alla Hemingway, di contestazione, di oratoria politica, ma soprattutto di Bacco, Tabacco e Venere fino all'ultimo respiro.
Si ritrovava invece incastrato in una situazione che, giorno dopo giorno, avrebbe assunto sempre di più, ai suoi occhi, i contorni di un incubo.
Tornato a Forlì dopo la laurea e in attesa di un posto da insegnante procuratogli per raccomandazione dalla Signorina De Toschi, visse per un po' di tempo facendo lezioni private di letteratura italiana agli studenti privati di latino e greco della stessa De Toschi.
Nel frattempo gli Orsini trovarono un appartamento adatto alle sue esigenze, con tanto di biblioteca e studio dove comporre le proprie creazioni.
Nella primavera del 1967, il Sommo Poeta ed Anna De Gubernatis si sposarono, come imponeva la tradizione della famiglia di lei (o per meglio dire "della madre di lei") nella Chiesa di Casemurate, alla presenza di Ettore Ricci e Diana Orsini, che, pur non parlandosi, guidavano con il pugno di ferro in guanto di velluto ciò che restava della Dinastia.
Il figlio dei novelli coniugi Trombatore nacque pochi mesi dopo (troppo pochi per l'opinione pubblica) e gli fu dato il nome di Matteo.
Quel matrimonio aveva sancito il ritorno della Signorina De Toschi al suo ruolo di "vertice morale e spirituale del clan Ricci-Orsini", e la Grande Mademoiselle volle trasformare questa sua vittoria in autentico trionfo. Fu così che, raggiunto il limite massimo dell'età pensionabile, fece in modo, tramite una consolidata ragnatela di conoscenze, che il suo successore alla cattedra di Italiano, Latino e Greco al Liceo Classico di Forlì fosse proprio il Sommo Poeta.
Certo, per Adriano Trombatore il Liceo di Forlì non era la Sorbona di Parigi, né tantomeno la Boheme che aveva sognato, ma in fin dei conti, come aveva detto Giulio Cesare, era comunque meglio essere i primi in un villaggio che i secondi a Roma.
Chi ne usciva totalmente scornato e ancora più rabbioso era invece Massimo Braghiri, che non aveva ottenuto lo scopo di scalfire la reputazione di Silvia Ricci-Orsini e aveva perso anche la preziosa alleanza della De Toschi, la quale, prima di liquidarlo, gli consigliò di non disdegnare troppo a lungo le attenzioni della gemella di Anna, ossia Elisabetta De Gubernatis.
L'eterogenesi dei fini aveva fatto sì che tutte le sottigliezze della strategia di Massimo, invece di favorire il suo sogno di fidanzarsi con Silvia, aveva aumentato notevolmente le probabilità di dover ripiegare su Elisabetta, avendo oltre tutto come cognato lo stesso individuo che avrebbe dovuto recar disonore al "buon nome dei Ricci-Orsini".
A consolarlo ci pensò sua madre, la governante Ida Braghiri, i cui propositi di vendetta e rivalsa non erano mai stati più saldi. Prese le mani del suo adorato figlio e gli disse che comunque l'opinione della gente riguardo ai loro datori di lavoro non era affatto migliorata, anzi:
<<I Ricci-Orsini? La loro storia si riassume in cinque parole: "uno scandalo dietro l'altro">>
Il genitori erano insegnanti elementari, ("due maestrini da Libro Cuore", diceva lui, con un sorriso di condiscendenza), e idolatravano, non ricambiati, quel figlio che aveva dimostrato fin da bambino "eccezionali doti letterarie, e non solo", come avrebbe certificato la Signorina De Toschi in persona, sua docente di latino e greco al Liceo Classico.
La stima che l'onnipotente e ninfomane Grande Mademoiselle dimostrava nei confronti del giovane Trombatore era corroborata da un elemento che entrambi condividevano, ossia una spiccata tendenza allo scrocco ai danni della famiglia Ricci-Orsini, di cui la De Toschi si sentiva la guida morale.
La Signorina aveva lasciato intendere al suo allievo prediletto che, una volta diplomatosi, lei gli avrebbe aperto la strada verso il "bel mondo", "l'alta società", la "crème de la crème", a patto, naturalmente, che lui le concedesse qualche notte di infuocata passione amorosa.
Adriano Trombatore, che a detta di molti aveva una certa predisposizione al priapismo, oltre ad essere dotato di uno stomaco molto robusto, seppe soddisfare con successo le considerevoli brame della "Grande Mademoiselle".
Fu per questo che la Signorina, dietro suggerimento del perfido Massimo Braghiri, lo scelse come candidato ideale per insidiare la virtù di Silvia Ricci-Orsini e lo introdusse come ospite fisso ai ricevimenti dell'anziana Contessa Vedova Emilia a Villa Orsini.
La Grande Mademoiselle non aveva però tenuto conto che i gusti di Silvia erano opposti ai suoi, in fatto di uomini.
Quelle che, nell'ottica della De Toschi, erano qualità, dal punto di vista di Silvia erano difetti.
Adriano Trmbatore era piuttosto massiccio, con sguardo vagamente porcino e libinoso. Fumatore accanito, ottima forchetta, nonché bevitore da competizione (lui e la Contessa Madre Emilia facevano a gara a chi si scolava più Rosso di Borgogna nell'arco di un'ora), Adriano Trombatore non era proprio bellissimo, nemmeno nell'accezione più anticonvenzionale del termine, anzi, si può dire che fosse decisamente brutto, eppure aveva uno straordinario successo con le donne.
Era un seduttore, uno di quegli uomini con una personalità così sicura di sé, e in più con "doti nascoste" di leggendaria e sproporzionata eccezionalità da fargli guadagnare la fama di novello Casanova.
E non era tutto.
Trombatore aveva altre considerevoli frecce al proprio arco: una voce da baritono, suadente e lapidaria con cui decantava i versi poetici da lui stesso composti; una cultura letteraria strategicamente organizzata in modo da far credere che conoscesse tutto Dante a memoria; un uso sapiente del silenzio e del corruccio, come se, in ogni istante della sua vita, egli meditasse sui misteri dell'universo, sopportandone il peso.
La sua conversazione era brillante, anche se non si capiva mai quando stesse parlando sul serio o quando volesse fare dell'ironia, tanto che molte persone scoprivano soltanto a distanza di giorni che gli elogi a loro rivolti dal Sommo Poeta erano in realtà delle spietate stroncature.
Le sue pose dannunziane unite al gusto dei vini pregiati gli avevano assicurato la benevolenza della Contessa Vedova, la quale lo invitava con sempre maggiore frequenza ai propri eventi mondani.
Ma queste gentilezze furono mal ricompensate.
Trombatore rimase sconvolto dal fasto della Villa, dal lusso spropositato in cui vivevano i componenti del clan Ricci-Orsini, e per lui fu amore a prima vista: amore per quel mondo, per quel fasto, e solo in un secondo tempo, e incidentalmente, per le donne che ne facevano parte.
Del resto le più belle e interessanti gli erano state precluse fin dall'inizio.
Margherita e Isabella Ricci-Orsini erano entrambe coniugate.
Rimaneva Silvia, come già previsto dai piani di Massimo Braghiri.
Ma, con grande disappunto e delusione del giovane Braghiri e della Signorina, i piani andarono molto diversamente da quanto previsto, producendo addirittura un effetto collaterale i cui danni permanenti avrebbero tormentato la vita del Sommo per tutti i decenni a venire.
Silvia infatti non era minimamente interessata ad Adriano Trmbatore, il quale, dopo aver ripetutamente e inutilmente tentato di corteggiarla a suon di versi d'amore scopiazzati dal Petrarca, ci provò con le gemelle De Gubernatis, figlie di Ginevra Orsini.
Tornò alla carica con "Chiare, fresche e dolci acque" con una delle due, a caso.
Elisabetta De Gubernatis non abboccò: lei aveva occhi solo per Massimo Braghiri, anche se quest'ultimo la considerava soltanto un ripiego.
Il Trombatore, sconcertato da quella serie di fallimenti, decise, non foss'altro che per dare sollievo al proprio ego ferito, di puntare tutto sull'altra gemella, Anna De Gubernatis, alla quale recitò alcuni notissimi versi di Dante, che considerava un suo pari : "Tanto gentile e tanto onesta pare..."
Questa volta, disgraziatamente, ebbe successo: Anna De Gubernatis si innamorò di lui e decretò così, nel contempo, la propria rovina e la salvezza di sua cugina Silvia.
Inizialmente il Trombatore e la sua vittima tennero segreta la loro relazione.
Quando ricominciò il semestre, a Bologna, frequentarono insieme le lezioni di Lettere Classiche e prepararono insieme gli esami. Lo studio era però soltanto una copertura: in realtà i due ci davano sotto con altre attività più sollazzevoli.
Era l'ultimo anno di università, e stavano preparavando la tesi.
Entrambi avevano scelto come argomento la poesia d'amore latina: Adriano aveva optato per Catullo, Anna, con un "notevole" sforzo di fantasia, per Tibullo.
Normalmente la giovane De Gubernatis si faceva aiutare dalla cugina Silvia, ma c'erano dei passaggi in cui solo la grande perizia estetica del Sommo Poeta Trombatore poteva dare quel "tocco di classe" che era necessario.
Fu così che, in un pomeriggio fatale, verso la fine del 1966, Anna e Adriano correggevano insieme la tesi di lei e tra un verso e l'altro, tra un caffè e una sigaretta, scivolarono ben presto in una situazione alla Paolo e Francesca.
Lui, che aveva continuato a scrivere poesie e a declamare i suoi versi in pubbliche letture, le leggeva per diletto una lirica di sua creazione, a lei dedicata, che iniziava con l'espressione "Baluginii nei tuoi occhi".
Bastò questo perché lei si infiammare di passione e dimenticasse di usare le solite precauzioni.
Galeotta fu la poesia e chi la scrisse e “quel giorno più non vi lessero avante”.
Un mese dopo Anna non ebbe il ciclo.
Due mesi dopo ebbe la certezza di essere incinta.
Nessuno dei due aveva il coraggio di dirlo alle rispettive famiglie.
Fuggirono dal collegio di Bologna la sera stessa, portandosi dietro i soldi e i gioielli delle compagne di stanza di Anna e cioè la sorella Elisabetta e la cugina Silvia.
Pernottarono in un albergo a Firenze e il giorno dopo partirono per Roma.
Lì vissero per due settimane in un bilocale scalcagnato di Trastevere, abbandonandosi alla passione più sfrenata, poi, finiti i soldi e l’idillio, se ne tornarono a Bologna a coda bassa, coperti d'infamia e di ridicolo.
Le conseguenze furono ovvie ed inevitabili.
Trovarono ad attenderli lo "Stato Maggiore" del clan Ricci-Orsini-Papisco.
C'erano Ettore Ricci, Diana Orsini, il giudice De Gubernatis, sua moglie Ginevra Orsini, la vecchia Contessa Madre Emilia e, naturalmente, la Signorina De Toschi, infuriata per il fatto che quell'idiota del "Sommo Poeta" aveva rovinato la reputazione della ragazza sbagliata, mandando all'aria il piano che aveva ordito con Massimo Braghiri.
Seguì un interrogatorio in stile Gestapo.
Pressata dalle insistenti domande della Signorina, alla fine Anna ammise, in lacrime:
<<C'è un bambino in viaggio>>
Era troppo persino per la De Toschi.
La Signorina Mariuccia, schiumante di rabbia, prese Adriano Trombatore per la collottola:
<<Lurido traditore! Viscido verme! Dopo tutto quello che ho fatto per téeee! Depravato! Disgraziato! Smidollato! Se fosse ancora vivo il mi' babbo, te la farebbe vedere lui!>>
Trombatore era confuso:
<<Ma io ho soltanto...>>
<<Zitto, pezzo d'idiota! E ascoltami bene!>> tuonò la De Toschi, e dopo essersi soffiata il naso e aver aspirato profondamente la sigaretta, dichiarò <<Certo noi avevamo ben altre aspirazioni per la nostra Anna, ma ormai il danno è fatto e si impone un matrimonio riparatore>>
Nella stanza cadde il silenzio.
Ginevra, la madre di Anna, che non pareva entusiasta di avere Trombatore come genero, avanzò timidamente una proposta:
<<E se... come dire... trovassimo un modo per interrompere la..?>>
La De Toschi, cattolica integralista, strabuzzò gli enormi occhi da batrace:
<<Nooooo! Nooooo!>> tuonò scuotendo il testone, con le guance flaccide che tremavano, così come il triplo mento <<Mai! Non permetterò mai una cosa simile! Su di me si potrà dire tutto, ma una sola cosa è assolutamente certa: io so' cattolica!>>
La vecchia Contessa Madre Emilia, che era già al quarto bicchiere di gin-tonic, e nel suo delirio alcolico aveva intuito più di tutti gli altri che era meglio non inimicarsi la De Toschi, approvò:
<<La Signorina ha ragione. In casi come questo, io l'ho sempre detto, non c'è che la Signorina, e la famiglia Orsini si è sempre attenuta ai suoi consigli e continuerà a farlo>>
Addolcita da quel riconoscimento ufficiale, la Grande Mademoiselle sorrise in un modo che la fece assomigliare all'orripilante Regina di Cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie di Walt Disney, da poco passato a miglior vita ("Da oggi il mondo è più povero", era stato il memorabile commento di Ronald Reagan, all'epoca Governatore della California).
La sua voce della Signorina tornò ipocritamente carezzevole:
<<Dobbiamo trovare un'adeguata sistemazione per questi due ragazzi. In fondo manca poco alla laurea. E' bene che si sposino il prima possibile>>
A quel punto, tutti gli occhi si rivolsero in direzione della capofamiglia.
Diana Orsini, pur nutrendo un istintivo disprezzo per il "Sommo Poeta" Trombatore, non poté fare a meno di notare che Anna lo amava.
Si rivolse dunque alla nipote per averne conferma:
<<Sei d'accordo, Anna? Pensaci bene, prima di rispondere>>
Ma la giovane De Gubernatis non ci pensò neanche mezzo secondo:
<<Sì, voglio sposare Adriano>>
Diana allora fissò sua sorella Ginevra e il giudice De Gubernatis, i quali, loro malgrado, chinarono il capo in segno di assenso.
Poi posò lo sguardo, con aria severissima, sul Trombatore, il quale aveva la faccia di chi ha appena ascoltato un verdetto di condanna a morte.
<<Adriano>> disse infine Diana <<noi ti accogliamo in questa famiglia, il che comporta molti obblighi. Se li rispetterai, ne sarai ricompensato, ma se farai soffrire la figlia di mia sorella, la mia collera ricadrà su di te, come se avessi fatto soffrire una delle mie stesse figlie>>
C'era qualcosa di tristemente profetico nelle parole della Contessa di Casemurate, e certamente non ci voleva il dono della precognizione per capire che la debolezza del "Sommo Poeta" nei riguardo del gentil sesso non sarebbe stata certo cancellata dal "sacro vincolo del matrimonio".
Rimaneva da ascoltare il parere di colui che, pur essendo il reale padrone di tutto e il marito di Diana, veniva ancora inconsciamente considerato come un trovatello ammesso per un atto di carità al nobile desco degli Orsini, ossia Ettore Ricci, per il quale i matrimoni servivano solo ad accrescere il suo potere e a tutelare i suoi affari.
Evidentemente il mondo poetico-letterario non rientrava tra quelli con cui Ettore sentiva il bisogno di stringere legami, pertanto, pur non ritenendo necessario opporre un veto a quelle nozze, grugnì qualcosa riguardo a "quel covo di comunisti " che era la famiglia Trombatore e sul fatto che lui personalmente non voleva averci nulla a che fare.
Ma in fondo nemmeno lui voleva un ennesimo scandalo, non fosse altro che per evitare che la gente tornasse a parlare dei precedenti, e ben più gravi, che non avevano certo giovato alla sua stessa reputazione.
E così la decisione fu presa, e uno dei più fallimentari matrimoni del secolo ebbe inizio.
Diana, che pure era stata severa nei confronti di Adriano, non poté comunque fare a meno di provare una certa compassione nei suoi confronti.
Il Sommo Poeta, infatti, aveva immaginato per sé una vita ben diversa, come i poeti maledetti parigini, un'esistenza fatta di genio e sregolatezza, di Bohème a Montparnasse, di viaggi alla Hemingway, di contestazione, di oratoria politica, ma soprattutto di Bacco, Tabacco e Venere fino all'ultimo respiro.
Si ritrovava invece incastrato in una situazione che, giorno dopo giorno, avrebbe assunto sempre di più, ai suoi occhi, i contorni di un incubo.
Tornato a Forlì dopo la laurea e in attesa di un posto da insegnante procuratogli per raccomandazione dalla Signorina De Toschi, visse per un po' di tempo facendo lezioni private di letteratura italiana agli studenti privati di latino e greco della stessa De Toschi.
Nel frattempo gli Orsini trovarono un appartamento adatto alle sue esigenze, con tanto di biblioteca e studio dove comporre le proprie creazioni.
Nella primavera del 1967, il Sommo Poeta ed Anna De Gubernatis si sposarono, come imponeva la tradizione della famiglia di lei (o per meglio dire "della madre di lei") nella Chiesa di Casemurate, alla presenza di Ettore Ricci e Diana Orsini, che, pur non parlandosi, guidavano con il pugno di ferro in guanto di velluto ciò che restava della Dinastia.
Il figlio dei novelli coniugi Trombatore nacque pochi mesi dopo (troppo pochi per l'opinione pubblica) e gli fu dato il nome di Matteo.
Quel matrimonio aveva sancito il ritorno della Signorina De Toschi al suo ruolo di "vertice morale e spirituale del clan Ricci-Orsini", e la Grande Mademoiselle volle trasformare questa sua vittoria in autentico trionfo. Fu così che, raggiunto il limite massimo dell'età pensionabile, fece in modo, tramite una consolidata ragnatela di conoscenze, che il suo successore alla cattedra di Italiano, Latino e Greco al Liceo Classico di Forlì fosse proprio il Sommo Poeta.
Certo, per Adriano Trombatore il Liceo di Forlì non era la Sorbona di Parigi, né tantomeno la Boheme che aveva sognato, ma in fin dei conti, come aveva detto Giulio Cesare, era comunque meglio essere i primi in un villaggio che i secondi a Roma.
Chi ne usciva totalmente scornato e ancora più rabbioso era invece Massimo Braghiri, che non aveva ottenuto lo scopo di scalfire la reputazione di Silvia Ricci-Orsini e aveva perso anche la preziosa alleanza della De Toschi, la quale, prima di liquidarlo, gli consigliò di non disdegnare troppo a lungo le attenzioni della gemella di Anna, ossia Elisabetta De Gubernatis.
L'eterogenesi dei fini aveva fatto sì che tutte le sottigliezze della strategia di Massimo, invece di favorire il suo sogno di fidanzarsi con Silvia, aveva aumentato notevolmente le probabilità di dover ripiegare su Elisabetta, avendo oltre tutto come cognato lo stesso individuo che avrebbe dovuto recar disonore al "buon nome dei Ricci-Orsini".
A consolarlo ci pensò sua madre, la governante Ida Braghiri, i cui propositi di vendetta e rivalsa non erano mai stati più saldi. Prese le mani del suo adorato figlio e gli disse che comunque l'opinione della gente riguardo ai loro datori di lavoro non era affatto migliorata, anzi:
<<I Ricci-Orsini? La loro storia si riassume in cinque parole: "uno scandalo dietro l'altro">>
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