sabato 26 ottobre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 23. Così parlò Erich von Tomaten

Gli eventi si succedettero in fretta.
La prima riunione del governo Badoglio si era tenuta il 28 luglio, ed aveva deliberato lo scioglimento del partito fascista, la soppressione del Gran Consiglio e dei tribunali politici, e l'interdizione di costituire qualsiasi nuovo partito politico per tutta la durata della guerra; si preannunciavano, tuttavia, nuove elezioni generali a quattro mesi dalla cessazione del conflitto.
Le leggi razziali continuavano a rimanere in vigore. 
Lo stesso giorno, Badoglio inviava una lettera a Hitler, ribadendo che, per l'Italia, la guerra continuava nello stesso spirito dell'alleanza con la Germania.
Però nessuno ci credeva.
La famiglia Ricci-Orsini riceveva le notizie in anticipo, grazie ai contatti romani dei vari cognati: il giudice De Gubernatis. l'avvocato Baroni e l'ispettore Tartaglia.
Per questo Ettore Ricci, ogni volta che tornava da Forlì, dopo aver fatto quello che lui chiamava "il giro delle sette chiese", ovvero di tutti i parenti che aveva infiltrato nelle istituzioni, riuniva la famiglia Orsini (senza i Ricci, che erano ancora fascistissimi, e dunque non avrebbero apprezzato la sua posizione neutrale) per fare il resoconto della situazione.
Ai primi di agosto le soffiate dei vari cognati stavano delineando un quadro allarmante:
<<A Roma ormai considerano la guerra come perduta. Badoglio sta sondando il terreno per capire se ci sia la possibilità di cambiare cavallo il corsa. Pare di sì, ma gli Alleati vogliono una "resa senza condizioni" e comunque all'inizio controllerebbero solo l'estremo sud, il che significa che tutto il resto diventerà, almeno per qualche anno, un protettorato del Reich. 
I tedeschi ci considerano dei traditori e non avranno molti riguardi.
Dobbiamo prepararci al peggio>>
La contessa Emilia, con in mano una lunga sigaretta col bocchino, e nell'altra un bicchiere di cognac, cercò di darsi un contegno:
<<Che cosa ci consigliate di fare, dunque?>>
Per la prima volta Ettore sentì che la suocera lo aveva finalmente accettato come nuovo capofamiglia, relegando il povero Conte ad una reliquia vivente di un passato ormai dissolto.
<<I miei fratelli hanno buoni rapporti con gli ufficiali della Wehrmacht e questa, oltre che essere una protezione, è anche una fonte di informazioni. Secondo Oreste e Roderico, esiste un piano, detto Achse, che prevede un dispiegamento di forze tedesche in massa verso sud e un blitz per liberare Mussolini e fondare una repubblica fascista nel centro-nord contro il Regno amico degli americani. 
Ma la repubblica fascista, come tutte le forze dell'Asse, non potrà comunque durare a lungo: le forze degli Alleati sono superiori e risaliranno la penisola.
Fintanto che il fronte sarà a sud, potremo limitare i danni, ma quando, inevitabilmente, il fronte passerà da qui, allora dovremo far valere le amicizie cattoliche del cognato Baroni, che ci potrebbe trovare dei luoghi sicuri. Ho altri piani in mente, ma si tratta solo di idee vaghe, per cui preferisco non parlarne>>
Diana intuì che quei piani riguardassero i contatti con eventuali gruppi antifascisti e dunque si trattava di un argomento che era bene tenere segreto.
Ettore era sempre stato un maestro nel tenere il piede in due scarpe, ma col tempo aveva affinato la sua arte, così come il suo modo di agire e di parlare.
<<Allora non ci resta che aspettare e vedere se i tuoi fratelli hanno ragione>> concluse il Conte Achille.
I fatti diedero ragione ad Ettore: due giorni dopo Hitler inviò in Italia il feldmaresciallo Rommel, che prese il comando di un nuovo Gruppo d'armate e trasferì il suo quartier generale a Bologna il 14 agosto.
Nelle tre settimane successive entrarono in Italia settentrionale altre otto divisioni tedesche tra cui due divisioni corazzate, mentre una divisione di paracadutisti atterrò a Pratica di Mare, a sud di Roma.
<<Presto avremo compagnia>> annunciò Ettore <<E' probabile che un ufficiale della Wehrmacht e qualche suo collaboratore saranno nostri ospiti. Li ha invitati Roderico per ingraziarseli, ed era l'unico modo per evitare che ci sbattessero fuori e trasformassero Villa Orsini in una caserma. Per il momento questo rischio è evitato, ma come ho già detto, è soltanto una soluzione temporanea>>
Non parlò degli altri piani segreti che aveva in mente, ma gli Orsini sapevano che i suoi contatti con la Curia da una parte e con gruppi antifascisti dall'altra stavano proseguendo.
Nel frattempo le trattative fra i diplomatici italiani e i rappresentanti alleati prima a Lisbona e poi in Sicilia si protrassero con difficoltà: temendo una violenta reazione tedesca, il maresciallo Badoglio chiese un massiccio intervento anglo-americano contemporaneamente all'annuncio dell'armistizio, e si studiarono piani per impiegare una divisione di paracadutisti americana nell'area di Roma. Il 3 settembre, a Cassibile, in Sicilia, il generale Giuseppe Castellano firmò l'armistizio e Badoglio chiese alcuni giorni agli Alleati per preparare l'annuncio, mentre la Famiglia Reale "preparava le valigie".
La sera dell'8 settembre 1943, il generale Eisenhower diede comunicazione ufficiale della resa italiana e la radio italiana interruppe le trasmissioni per annunciare un discorso di Badoglio.
Ancora una volta, la famiglia Ricci-Orsini si trovò riunita nella sala della radio, in attesa dell'ennesima piroetta del Gran Maresciallo, che si espresse ancora una volta nel suo stile criptico.
«Il governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza»
Dunque la guerra continuava ancora, ma questa volta contro i Tedeschi.
Pur essendo preparati a questa comunicazione, i membri della famiglia Ricci-Orsini ne rimasero comunque profondamente turbati, e non solo per quella che in seguito sarebbe stata definita dagli storici come <<la morte della Patria>>, ma anche e soprattutto al pensiero di tutti i militari italiani che si trovavano in missioni congiunte con i tedeschi e che avrebbero dovuto scegliere se disobbedire al governo (rischiando in seguito la corte marziale) o disobbedire a Hitler, rischiando la morte immediata o l'internamento nei lager.
Del resto la risposta di Hitler fu pari soltanto alla sua collera: venne immediatamente attivato il piano Achse e le truppe della Wehrmacht presero il sopravvento in tutti i teatri bellici dove erano presenti unità italiane, sfruttando soprattutto la disorganizzazione e la confusione presenti tra le truppe e gli alti comandi del Regio Esercito che, privi di direttive precise e tempestive, in gran parte si disgregarono.
In Italia settentrionale il feldmaresciallo Rommel occupò le città più importanti e catturò la massa delle divisioni italiane che opposero scarsa resistenza; a Roma dopo alcuni duri combattimenti e confuse trattative il feldmaresciallo Kesselring prese possesso della città; nei Balcani i tedeschi occuparono tutto il territorio e schiacciarono brutalmente i tentativi di resistenza locali, con oltre 600 000 soldati italiani deportati in Germania.
Molti approfittarono di quel clima di anarchia per un regolamento di conti.
Badoglio, il Re e i loro collaboratori preferirono abbandonare subito Roma e, dopo aver raggiunto Pescara, si trasferirono a Brindisi dove ricostituirono una struttura di governo nel territorio sfuggito all'occupazione tedesca. 
Nel frattempo, il 12 settembre 1943, un reparto di paracadutisti tedeschi aveva liberato Mussolini dalla prigione nel Gran Sasso. 
Fortemente sollecitato da Hitler e pur provato e disilluso, il Duce accettò di prendere la direzione del nuovo stato fascista, la Repubblica Sociale Italiana, che venne costituita il 23 settembre nell'Italia centro-settentrionale per collaborare con l'occupante tedesco.
E poiché gli eventi decisi dalle alte sfere si riverberano e trovano attuazione o resistenza nel microcosmo della gente comune, tutto ciò che era accaduto in quei due mesi ebbe conseguenze ben precise nella Contea di Casemurate, dove il 24 settembre il tenente Helmut Mueller e alcuni suoi attendenti ottennero vitto e alloggio a Villa Orsini dietro invito di Roderico Ricci, nuovo segretario locale del partito fascista repubblicano, nonché fratello maggiore di Ettore.

Per quanto Mueller conoscesse qualche parola di italiano, la comunicazione fu affidata ad un interprete d'eccezione, il professor Erich Von Tomaten, dell'Università di Jena, arruolatosi volontario nelle SS, nonostante l'età avanzata e la salute incerta, per contribuire alla "germanizzazione dei subumani".
Nonostante il Professore si ritenesse un puro esempio di "razza ariana", il suo aspetto fisico non trasmetteva agli altri tutta la "purezza" del suo germanesimo interiore.
Era basso, calvo, tarchiato, di pelle olivastra e pelosa. La sua fronte ricordava quella di un uomo di Neanderthal, e anche il resto del viso, ad essere sinceri, non si discostava molto da quello di un ominide primitivo. Le sopracciglia cespugliose, il naso schiacciato, gli occhi infossati color fango, i baffi grigi vagamente ingialliti dal fumo dei sigari (unico vizio che si concedeva, oltre agli alcolici e alla frequentazione dei bordelli), lo facevano sembrare un mostruoso Nibelungo direttamente prelevato dalle sponde del Reno, mentre tentava di insidiare un'Ondina.
Indossava perennemente un logoro e rattoppato vestito a giacca marrone, che aveva visto tempi migliori. Del resto, non aveva bisogno di uniformi, medaglie o mostrine per ostentare il suo potere:
gli era sufficiente portare al dito l'SS-Ehrenring, l' "anello con la testa di morto", la massima onoreficenza che Heinrich Himmler in persona concedeva ai suoi più stimati collaboratori, quei pochi che avevano accesso al castello di Wewelsburg, dove i vertici delle SS venivano iniziati ai
misteri della società segreta Ahnenerbe, la sezione SS per gli studi dell' "eredità ancestrale" e dell'ariosofia.

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In virtù di questa appartenenza, Von Tomaten si considerava una sorta di missionario per la conversione delle aristocrazie indoeuropee alla causa dell'arianesimo, e fu per questo che prese immediatamente l'iniziativa di germanizzare il Conte Orsini.
Gli fece cenno di seguirlo nel Salotto Liberty, dopo aver cacciato in malo modo le donne.
<<Lei Graf Von Orsini dato troppo potere a femmine. Questo è segno di decadenza e causa di crollo di Italia, ja!>>
Il Conte, per quanto logorato da quella situazione e dalle infinite preoccupazioni per il futuro, non poté fare a meno di trovare comico quel personaggio assurdo che sembrava voler tenere una lezione universitaria nel suo salotto.
<<Eppure deve ammettere, Professore, che persino un uomo di cultura come il dottor Goebbels  tiene in gran considerazione i punti di vista di sua moglie>>
Von Tomaten si accigliò e digrignò i denti giallastri:
<<Ach, come lei osa paragonare Frau Goebbels con vostre massaie bigotte?>>
<<Temo di non aver capito, Professore>>
Von Tomaten divenne paonazzo e i suoi baffi si arruffarono:
<<Io tante volte sostenuto che in Germania il Cristianesimo non passa!>> e accompagnò tale affermazione con un sonoro pugno sul preziosissimo tavolinetto Luigi XV dove in tempi migliori venivano appoggiate le tazze da tè della contessa Emilia.
<<Davvero? Non mi pare che il nazionalsocialismo abbia mai affermato una simile tesi>>
Il Professore accennò un sorriso beffardo, accompagnato però da un ringhio simile a quello di un mastino:
<<Scheisse! Lei non capire nulla di Nationalsozialismus! Nostra università di Jena scoperto e spiegato che Cristo era ariano venuto a distruggere religione e regno giudaico. Tutto il resto è pura invenzione di vostri papisti che presto assaggeranno in Roma il rigore dell'ordine teutonico>>
Il Conte iniziava a divertirsi:
<<Lei dice che siamo papisti, ma qui in Romagna, dopo vari secoli di dominazione pontificia, siamo tutto tranne quello, mi creda>>
Von Tomaten masticò il sigaro, con aria scettica, poi sentenziò:
<<Forse perché qui tutti comunisti stalinisti, ja?>>
<<No, a dire il vero mio genero e i suoi fratelli sono fascisti ed io sono un liberale>>
Il Professore allora sogghignò, e fu qualcosa di orribile a vedersi:
<<Ah ah, ecco che io coglie lei in fallo, Graf von Orsini! Lei confessa essere liberale! Ma in Germania il liberalismo non passa! L'illuminismo non passa! La rivoluzione francese e russa non passa! Napoleone non passa! Stalin non passa! In Grande Germania niente passa!>>
E di nuovo percosse con violenza il tavolinetto Luigi XV, lasciando un segno che da quel giorno in avanti venne chiamato "Il Pugno del Professor Pomodoro".
Il Conte osò un'osservazione:
<<Su Stalin non sarei così sicuro...>>
Von Tomaten sputò il sigaro per terra:
<<Lei non capire nemmeno grande strategia bellica tedesca! Tutta azione adesso è solo astuto diversivo per poi colpire a sorpresa e distruggere orda asiatica con grande mossa tenaglia di nostra Panzer Division!>>
<<Ah, ecco... >>
Von Tomaten annuì compiaciuto, come al termine di una delle sue memorabili lezioni presso l'ateneo di Jena.
<<Sehr Gut! Io visto giusto nel scegliere lei, Grav von Orsini, come mio allievo. Forse in suo sangue scorre quello di antichissimo antenato indo-germanico. Persino antichi patrizi Latini essere indo-germanici, anche se rozzi pecorai. 
Se lei segue miei insegnamenti, può salvare famiglia e persino rafforzarla con grande innesto di puro sangue teutonico.
Sento che da questa collaborazione nasce grande progetto di nuovo Reichskommissariat Italien-Ostgothien, in memoria di grande re tedesco che voi chiamare Teodorico, ma in mia lingua è Dietrich von Verona zu Ravenna>>

E con questo se ne andò bruscamente senza salutare, con gli occhi sbarrati in direzione di un futuro che esisteva soltanto nella sua mente.
Ci sarebbe stato da ridere, se non si fosse stati nel mezzo di una tragedia.
Al conte Orsini non era piaciuto affatto l'accenno all'innesto di sangue tedesco nella sua famiglia, e questo non perché ce l'avesse in astratto con gli abitanti della Germania, bensì piuttosto perché temeva gli sguardi libidinosi che il tenente Mueller rivolgeva a sua figlia Isabella.


lunedì 14 ottobre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 22. I Goti nella Contea

Nonostante gli sforzi per tenere suo marito il più possibile lontano dalla propria camera da letto privata, Diana Orsini rimase incinta per la terza volta nel luglio del 1943.
Non era il momento migliore per una gravidanza e tanto meno lo sarebbe stato, nove mesi dopo, per una nascita, ma Ettore Ricci voleva a tutti i costi un figlio maschio e non c'era modo per convincerlo a rimandare ulteriormente la "questione dell'erede".
Diana guardava i poveri resti del suo giardino e i campi solcati e anneriti dalle bombe.
Era un miracolo che ancora la malandata Villa Orsini si reggesse in piedi.
<<C'è qualche speranza per noi? Per la nostra famiglia, la nostra Contea di Casemurate, la nostra Italia?>> chiese Diana a suo padre.
Il Conte era invecchiato e come accartocciato su se stesso:
<<Non c'è mai stata molta speranza, solo quella di uno sciocco>>
Diana si guardò intorno e poi gli sussurrò all'orecchio:
<<Spero che i fratelli di Ettore non ti abbiano sentito, e nemmeno quella strega di Ida Braghiri. Andrebbero subito a denunciarti>>
Il conte Achille rise:
<<Denunciarmi a chi? Stamattina a Forlì non c'era anima viva. Pensa che il povero De Gubernatis vagava come un fantasma davanti al Palazzo di Giustizia e quando mi ha visto mi ha chiesto se non fosse il caso di fuggire da qualche parte, come hanno fatto i De Toschi>>
<<E tu cosa gli hai risposto?>>
<<Fuggire dove? Abbiamo solo nemici intorno, ormai. Gli Alleati sono già sbarcati in Sicilia, e i loro aerei controllano i nostri cieli. Ma i Tedeschi non resteranno a guardare. Domani si riunisce il Gran Consiglio... e allora sapremo di che morte dovremo morire>>
Il giorno successivo, il 25 luglio, trascorse in una situazione di attesa.
I bombardamenti si erano fermati, la radio mandava canzonette melense, la contessa Orsini aveva messo ad arieggiare i suoi abiti estivi in stile floreale, la governante giocava a carte con Adriana Ricci, la sorella di Ettore, il quale scherzava fin troppo confidenzialmente con la giovane e bellissima cognata Isabella Orsini.
La cosa stava diventando imbarazzante, ma in quel clima di anarchia sembrava che tutte le regole del vivere civile fossero sospese e che nulla sarebbe tornato più come prima.
E su questo non c'erano dubbi.
Verso sera si sparse la voce che il Duce fosse stato messo in minoranza durante la riunione del Gran Consiglio, (pareva che persino il conte Ciano avesse votato contro di lui) e si fosse recato a Villa Savoia per consultarsi con il Re.
All'ora di cena, finalmente, la radio interruppe le canzoni e annunciò che il Re aveva accettato le dimissioni di Mussolini e aveva scelto Badoglio come nuovo capo del governo. Si consigliava inoltre agli ascoltatori di attendere la tarda serata per ascoltare il comunicato del nuovo primo ministro.
Non si era fatto alcun cenno né alla sorte di Mussolini e del Partito Fascista, né alle conseguenze del cambio di governo sulle strategie militari e il conflitto in corso.
Nella sala da pranzo si sentivano volare le mosche.
Roderico Ricci e sua sorella Adriana si alzarono subito da tavola per andare a casa di "Zuarz", il vecchio patriarca della famiglia Ricci.
Il Conte non appariva particolarmente sorpreso, mentre la Contessa ordinò alla signora Braghiri di portarle un Nero d'Avola del 1861, che conservava per le grandi occasioni.
<<Se proprio volete corrodervi lo stomaco>> sbottò la governante col suo solito tono burbero.
<<Mi sa che è il vostro stomaco ad essere più acido, signora Ida>>
Diana guardava Ettore: aspettava la sua reazione, perché lui era imprevedibile.
E infatti, con aria gioviale, dichiarò: <<Allora stasera facciamo tutti le ore piccole per ascoltare Badoglio. Rimani anche tu con noi, Isabella?>>
<<Ma, io non ho capito : la guerra è finita o no?>>
Era quello che si chiedevano tutti.
<<Magari!>> dichiarò Ettore <<io ho l'impressione che il peggio debba ancora venire>>
<<Non ti fidi del maresciallo Badoglio?>> chiese Isabella ingenuamente
<<Badoglio conta meno del due di coppe... sono proprio curioso di sentire cosa s'inventerà stasera per tenere buoni sia gli Americani che i Tedeschi>> rispose Ettore.
Per una volta, suo suocero il Conte fu d'accordo:
<<Ci troviamo tra l'incudine e il martello. I Tedeschi stanno aumentando da mesi la loro presenza militare nel nostro territorio, ma al sud gli Americani avanzano. 
Forse Badoglio e il Re hanno già fatto la loro scelta, ma non ce la diranno prima di essersi messi al sicuro>>
Si trattava di una profezia fin troppo facile, e infatti, all'ora stabilita, la voce di Badoglio, alla radio, sillabò uno dei discorsi più ambigui della storia d'Italia, concludendo con parole che spensero ogni speranza di pace:
«La guerra continua e l'Italia resta fedele alla parola data... chiunque turbi l'ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito»
Quelle parole gelarono il sangue nelle vene dei presenti.
Che senso aveva cambiare governo se poi alla fine si continuava a fare quel che si faceva prima?
Nessuno, a Villa Orsini e in tutta la Contea di Casemurate, pareva intenzionato a "turbare l'ordine pubblico", anche se tutti si chiedevano chi fossero, nella pratica, i tutori di questo ordine.
<<Io domani vado in città a trovare Ginevra. Suo marito avrà ricevuto istruzioni da Roma>> disse il Conte.
Ettore approvò e poi, come se fosse stato colto da un'ispirazione geniale, avanzò una proposta:
<<Forse sarebbe prudente che anche Diana e le bambine venissero con voi. Sarebbero più protette, a casa De Gubernatis>>
Ma non disse nulla riguardo agli altri, specialmente Isabella, come se non volesse separarsi da lei.
Diana lasciò da parte ciò che non era stato detto esplicitamente, ma contestò comunque il suggerimento del marito:
<<Protette da cosa? I bombardamenti li fanno anche in città>>
<<Il pericolo maggiore, d'ora in avanti, verrà da terra>>
<<Sai forse qualcosa che noi non sappiamo?>>
<<Io so quel che mi ha fatto capire Edoardo Baroni, il marito di mia sorella Caterina. 
E' il legale della Curia, ha contatti importanti in Vaticano. Due giorni fa mi disse di stare in campana perché secondo lui il Re e Badoglio stavano tramando qualcosa. 
E aveva ragione! E a mio parere stanno ancora tramando...
Alla radio dicono che l'Italia mantiene la parola data, ma in segreto stanno trattando la resa con gli Americani. Il problema è che i Tedeschi non lo permetteranno mai: da mesi la Wehrmacht sta ammassando truppe al centro-sud per bloccare l'avanzata anglo-americana. 
Ci scommetto la testa che si stanno già preparando ad assumere direttamente il comando militare in Italia, comprese le nostre campagne>>
<<E allora nessun luogo sarà più sicuro! Perché dovremmo pensare che Villa Orsini sia in pericolo più delle case dei nostri parenti?>>
<<Perché questa residenza può ospitare una guarnigione militare. I Tedeschi da qui controllerebbero tutta la Romagna centrale, e non avrebbero alcun riguardo per i residenti>>
<<E i tuoi fratelli fascisti, contano ancora qualcosa?>>
<<Non lo so, alcuni dicono che Mussolini sia stato arrestato... staremo a vedere, ma in una situazione come questa è meglio rimanere neutrali>>
Diana annuì:
<<In ogni caso, io e le bambine resteremo qui, almeno fintanto che la situazione non sarà più chiara>>
Isabella aggiunse:
<<Io resterò qui comunque. Ginevra è diventata insopportabile e le sue figlie gemelle sono più pestifere di uno sciame di locuste>>
Il Conte sospirò:
<<I Tedeschi saranno peggio di uno sciame di locuste. Non è la prima volta che un popolo germanico conquista queste terre. Visigoti, Ostrogoti, Longobardi... i Goti in particolare fecero di queste zone il centro del loro regno, quando Teodorico tenne la sua corte a Ravenna.
 Questa Contea è stata una terra gotica, e forse i Tedeschi non l'hanno dimenticato.
Ho sentito dire che esiste un piano chiamato "Operazione Alarich", in memoria di Alarico dei Visigoti, che saccheggiò Roma nel 410.
Ma i Visigoti se ne andarono, mentre gli Ostrogoti restarono a Ravenna per quasi un secolo.
Diventeremo il Reichskommissariat Ostgothien o qualcosa di simile. E temo che ci considereranno una "razza inferiore", e se anche ci permetteranno di vivere, diventeremo loro schiavi>>
Isabella impallidì:
<<Se è vero quel che dici, come faremo a salvarci?>>
Il Conte guardò con commozione le figlie e le nipoti:
<<Non lo so. Faremo tutto il possibile, mobiliteremo tutte le nostre risorse e conoscenze. E non sono poche.
Ma non confidate troppo nella speranza. Ha abbandonato queste terre>>

venerdì 4 ottobre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 21. Via col vento


Nell'aprile del 1941 nacque la seconda figlia di Ettore Ricci e Diana Orsini e fu registrata all'anagrafe come Silvia Ricci-Orsini, in virtù della regia concessione riguardo al doppio cognome dei figli di madre aristocratica.
Ma questo aveva poca importanza agli occhi di Ettore, la cui costernazione per il fatto che la neonata fosse una femmina si era presto tramutata in rabbia contro il mondo intero, come se tutto l'universo avesse cospirato per impedire la nascita del tanto atteso erede maschio, che nei suoi progetti a lunga scadenza avrebbe dovuto schiacciare ogni eventuale pretesa di primato nella Contea di Casemurate da parte del fratello di sua moglie, il giovane e viziato Arturo Orsini, figlio prediletto del conte Achille.
Quando Diana aveva chiesto al marito se avesse delle preferenze per il nome, lui aveva risposto:
<<E' una femmina! Chiamala come ti pare!>>
E in quel momento, poiché la visione del mondo di Diana era molto vicina al pessimismo leopardiano, le parve naturale chiamare sua figlia col nome di una delle figure femminili che avevano ispirato il poeta di Recanati.
L'unica consolazione, per Ettore, fu che anche uno dei suoi cognati più in vista, l'irreprensibile giudice De Gubernatis, aveva avuto dalla moglie Ginevra Orsini addirittura due figlie in una sola volta, due gemelle eterozigote, che erano state chiamate Anna ed Elisabetta.
Più fortuna, nell'ottica maschilista imperante a Casemurate in quegli anni, aveva avuto l'ambizioso Michele Braghiri, amministratore del Feudo Orsini, la cui moglie Ida, dopo aver sfornato una femmina, di nome Floriana, al primo parto, aveva dato alla luce il bramato erede maschio, il quale, naturalmente, era stato chiamato Massimo, poiché da lui ci si attendeva il meglio del meglio.
E come se non bastasse, la signora Ida, temutissima e autoritaria governante di Villa Orsini, era poi rimasta nuovamente incinta.
Diana, invece, aveva chiesto al marito almeno un anno di tregua, per potersi riprendere da quelle che oggi chiamiamo "depressioni post partum".
Per calmare Ettore, suo suocero, il conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, gli aveva prospettato i vantaggi di avere delle figlie femmine, con le quali avrebbe potuto stringere alleanze matrimoniali con qualche rampollo delle famiglie che possedevano i feudi confinanti, ossia i marchesi Spreti di Serachieda e i conti Zanetti Protonotari Campi. Questo discorso placò temporaneamente le ire di Ettore, ma non piacque affatto ai coniugi Braghiri, che si erano proposti come obiettivo primario un legame matrimoniale tra il loro perfetto Massimo e una delle sorelle Ricci-Orsini.
Ma a parte le questioni familiari, c'erano preoccupazioni maggiori che tenevano occupata la mente di Ettore.
Le difficoltà dell'esercito italiano si erano rivelate persino maggiori di quello che aveva previsto il conte Achille, nel suo atteggiamento che la famiglia Ricci aveva bollato come "disfattista".
Ettore cercava di mantenere un atteggiamento moderatamente filo-governativo, ma dentro di sé aveva già intuito che le cose non stavano andando affatto secondo i piani del Duce.
Glielo suggeriva il suo istinto di sopravvivenza, che percepiva da molto lontano "l'odore del sangue".
Nel suo intimo sapeva che suo suocero aveva ragione e incominciava a rendersi conto che persino la Contea di Casemurate non era più da considerarsi un luogo sicuro.
I fratelli di Ettore ostentavano un fascismo intransigente e fideistico, per quanto, nella famosa triade del "credere, obbedire e combattere", si fermavano al secondo punto, avendo ottenuto, grazie alle conoscenze della Signorina De Toschi, l'esenzione dal servizio militare a causa dei "piedi piatti".
Ma non tutti i parenti di Ettore erano fascisti: c'era infatti un suo zio materno, tale Remigio Vallicelli, considerato la pecora nera della famiglia, che si faceva beffe della retorica patriottarda e militarista portata avanti dal regime.
L'umiliazione delle truppe italiane nella Campagna di Grecia, che aveva costretto la Germania a intervenire direttamente nei Balcani per evitare la disfatta, aveva infranto il mito dell'invincibilità dell'Italia fascista, ed era stato un brusco risveglio per chi, in buona fede, aveva creduto ai proclami e alle parate militari.
Lo stesso Hitler era incredulo e furioso a causa dell'evidente inadeguatezza dell'alleato a cui in un primo tempo aveva affidato le sorti dell'area mediterranea.
Il Duce, per evitare che il disfattismo prendesse piede in Italia, aveva incaricato i gerarchi di risollevare il morale delle masse con un'adeguata propaganda.
Fu così che, nella Contea di Casemurate, arrivò il gerarca Baroncini in persona, segretario federale del Partito nella provincia di Forlì, che tenne un'appassionata orazione, scritta a quattro mani col Generale De Toschi, sull'imminente rinascita dell'Impero Romano e sul valore dei "militi italici di contro all'oste avversa". 
Esortò quindi tutti quanti al coraggio, citando il dannunziano "Memento audere semper", <<perché è nel vivere pericolosamente che si attualizza il nostro spirito, come ci ricorda Gentile. E poiché, come ha scritto lo stesso Duce, il Fascismo doveva essere azione e fu azione, allora è evidente che l'onore del milite fascista consiste nella ricerca della pugna>> e qui ci fu qualche risolino subito smorzato dalle occhiatacce della milizia <<nello sprezzo del pericolo e nella dedizione totale ai gloriosi destini della Patria>>.
Al termine del discorso, Baroncini, commosso, attese l'applauso della folla, che fu però inferiore alle aspettative, non fosse altro che per il linguaggio arcaizzante dell'oratore e la sua tendenza mistico-filosofica al vaniloquio.
Fu in quegli istanti di imbarazzato silenzio che il vecchio zio Remigio alzò la mano con un aria sorniona e un sorriso sbilenco stampato sul volto e dichiarò, in perfetto dialetto romagnolo, una frase destinata ad essere ricordata per molti decenni a venire, e tramandata di generazione in generazione:
<<Evviva Baroncini, che cun un'arenga us fa magné una smana!!>>
L'idea che Baroncini, con una sola aringa, potesse far mangiare i casemuratensi per un'intera settimana, era quasi più credibile del coraggio dei militi della Contea, che tutto avrebbero desiderato tranne il "vivere pericolosamente".
Il gerarca, sbigottito e sdegnato, non perse tempo:
<<Chi è stato? Chi ha parlato! Al confine! Al confine!!!>>
Fu a quel punto che, nello stupore generale, Ettore Ricci trovò il coraggio di difendere lo zio e sussurrò alle orecchie del Federale:
<<Perdonate, Eccellenza, mio zio Remigio soffre di demenza senile, nessuno lo prende sul serio. Non è il caso di sprecare risorse mandandolo al confino>>
<<Per essere un demente, fa battute fin troppo spiritose>>
<<E' comunque il fratello della maestra Clara, amica personale di donna Rachele. Mia madre farà in modo che d'ora in avanti tenga la bocca chiusa>>
Baroncini sbuffò:
<<Sarà meglio, se no alla prossima parola fuori posto, finisce dritto dritto in manicomio, parola mia. E ringraziate il fatto che, al contrario di voi, signor Ricci, che pensate solo a far soldi,  i vostri genitori e i vostri fratelli sono tutti ferventi fascisti e patrioti esemplari>>
Esemplari a parole, pensò Ettore, ma si sono imboscati tutti, come del resto lo stesso Federale Baroncini, che vale meno dell'aringa citata dallo zio.
Quando le acque si furono calmate, lo zio Remigio andò a ringraziare il nipote:
<<Ettore, tu vali più di tutti i tuoi altri parenti messi insieme. Un giorno anche gli Orsini capiranno che sei un uomo buono e impareranno a rispettarti sul serio>>
Ettore, compiaciuto e in vena di confidenze, appoggiò una mano sulla spalla dello zio:
<<Un uomo buono io? Non lo so. Nel Bene non ci ho mai creduto, ma quando mi è possibile cerco di praticare la bontà>>
Ebbe l'occasione di dimostrarlo qualche mese dopo, quando i bombardamenti aerei degli alleati anglo-americani incominciarono a colpire in maniera massiccia e capillare prima le città, poi le campagne.
Ettore fece costruire un rifugio molto ampio, nei campi adiacenti a Villa Orsini, e ogni volta che suonava l'allarme, fece in modo di accogliere gran parte dei compaesani.
Nell'anno successivo, il 1942, il numero dei bombardamenti aumentò in intensità e violenza.
Mentre la reazione di Ettore era sempre pragmatica, quella di Diana era prevalentemente emotiva.
All'inizio le era sembrato che tutta quella situazione fosse irreale, come se fossero fuochi d'artificio
Spesso si ritrovava a correre con una figlia per mano e l'altra in braccio, mentre il cielo diventava rosso per le esplosioni delle bombe, e quando finalmente arrivava al rifugio, l'anomalia di quella situazione le faceva deragliare il pensiero verso le guerre di cui aveva letto e studiato, e le sembrava di essere dentro un romanzo, in particolare "Via col vento".
L'analogia derivava da alcuni punti in comune tra la vicenda di Rossella O'Hara e quella di Diana Orsini: l'appartenenza a una famiglia di latifondisti caduti in disgrazia, l'aver sposato un uomo ricco per salvare la propria famiglia dalla miseria e soprattutto lo scoppio di una guerra che era destinata a spazzare via il tipo di società nella quale entrambe erano cresciute, nel bene e nel male.
Ma la guerra che stava travolgendo il mondo di Diana Orsini era molto più devastante, nella sua potenzialità distruttiva, della Guerra Civile Americana.
I bombardamenti ne erano la prova evidente, indiscutibile.
Inoltre si stava facendo strada, nella famiglia Ricci-Orsini, l'idea che il peggio dovesse ancora venire.
Per quanto il governo cercasse di censurare le notizie scomode, alla fine comunque le voci circolavano. La "gloriosa sconfitta" di El-Alamein, ("mancò il valore, non la fortuna"), tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre del 1942, in concomitanza con l'impantanarsi dell'avanzata tedesca in Unione Sovietica, fece sorgere i primi dubbi anche tra i più ottimisti.
Il 1943 iniziò in un clima di grande sconforto. Non era più possibile nascondere le voci che provenivano dalla Russia, dove il contingente italiano stava soccombendo al Generale Inverno che già aveva sconfitto Napoleone più di un secolo prima.
Dopo la sconfitta nell'assedio di Stalingrado, in febbraio, la ritirata si era resa inevitabile.
Si confabulava sottovoce, nel buio dei rifugi antiaerei, sull'eventualità della sconfitta e sulle sue conseguenze per l'Italia.
Nessuno osava dirlo pubblicamente, ma la sensazione era quella di una catastrofe imminente.
A conferma di questo, avvenne un fatto a dir poco clamoroso: il generale De Toschi e sua figlia erano partiti di nascosto per destinazione ignota.
A quel punto fu chiaro a tutti che la nave stava affondando.

martedì 24 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 20. Arriva la bufera.

Quando l'Italia entrò in guerra, il 10 giugno 1940, Diana Orsini era di nuovo incinta, e questa gravidanza era stata accolta con grande entusiasmo da suo marito, Ettore Ricci, assolutamente convinto che senza alcun dubbio, questa volta, sarebbe nato un maschio.
Diana era invece molto provata dalle nausee, dalle continue e sempre più forti emicranie, in concomitanza con quello che all'epoca veniva definito "un lieve esaurimento nervoso", che si trascinava però da troppo tempo. Era iniziato subito dopo il primo parto e da allora aveva sofferto di insonnia, debolezza, apatia e umore malinconico.
Mentre ascoltava alla radio, col resto della famiglia, il discorso del Duce, ebbe una reazione paradossale, che a volte si manifesta nei disperati, e che si può sintetizzare con la formula del "mal comune mezzo gaudio", perché se l'apocalisse generale incombe, il proprio fallimento esistenziale appare meno angoscioso, e se la fine è prossima, allora finirà anche la sofferenza.
Era un discorso assurdo e cinico, e una parte di Diana, quella razionale, se ne rendeva conto, eppure non c'era modo di nascondere a se stessa le emozioni che provava in quel momento, che le ricordava il brivido eccitante di un temporale estivo che poneva fine ad una calura insopportabile.
E così, mentre gli uomini già discutevano sulla necessità di rivolgersi alla signorina De Toschi per evitare di essere chiamati alle armi, e le donne si chiedevano quali regali avrebbero dovuto fare alla suddetta Signorina in cambio delle sue cortesie, Diana mantenne un contegno distaccato.
Sedeva in silenzio nel divano del Salotto Liberty, tra i suoi genitori.
La piccola Margherita era stata appena portata a dormire di sopra dalla governante Ida Braghiri, la cui temporanea assenza permetteva agli Orsini di comunicare, seppur sottovoce, senza il timore di essere spiati.
Il Conte Achille, che negli ultimi mesi, intuendo le contraddizioni e i punti deboli dei discorsi e delle fanfaronate da miles gloriosus del vecchio De Toschi, che si vantava di essere amico personale del generale Rommel e del maresciallo Badoglio, si era reso conto che l'Italia non era affatto pronta ad affrontare un conflitto di quella portata, sussurrò, come parlando a se stesso: <<Sarà un'ecatombe>>
Diana, che era stata l'unica ad averlo udito, era dello stesso parere, ma la sua risposta, bisbigliata sottovoce, risultò allarmante agli orecchi del Conte.
<<Molti perderanno la vita. Persone che amano la vita, che preferirebbero rimanere nelle loro case, con le loro famiglie, in pace. Ma per me la vita vale poco. Se fossi un maschio mi arruolerei per farmi ammazzare in un'azione eroica, e porre fine gloriosamente a un'esistenza insopportabile. Dico sul serio... sarebbe un'ottima soluzione...>>
Mentre da fuori si sentivano le voci della gente accorsa per le strade, il Conte Orsini divenne improvvisamente consapevole dell'entità del male che aveva fatto a sua figlia, costringendola a sposare un uomo del tutto incompatibile con lei.
<<Non credere che la morte si fermerà al confine del Regno, e tanto meno a quello della nostra Contea. Ho come il presentimento che varcherà queste stesse mura, e allora credimi se ti dirò che anche tu avrai paura di morire>>
Diana soppesò quella risposa:
<<Temo le violenze, le ferite, il dolore... questo sì. Ma non la morte>>
Il Conte sospirò:
<<Ma non pensi ai tuoi figli?>>
Diana annuì:
<<Ci penso sempre. Penso al giorno in cui dovrò chiedergli scusa per averli fatti nascere in un mondo come questo. Ed ora penso alla vita che ho in grembo, e al fatto che verrà al mondo nel mezzo di una guerra. A questa creatura dovrò chiedere scusa due volte, perché nascerà nel dolore, e i suoi primi ricordi saranno quelli di un mondo feroce, in una guerra senza speranza>>
Suo padre rimase senza parole, perché vedeva calare un'ombra sulla sua discendenza, ed era l'ombra della fine di una lunga estate.
Fino a quel momento era stato fermamente convinto, anche nei momenti più disperati, che le cose fossero fatte per durare, nella sua Contea, e che ci sarebbe stato sempre un Orsini a Villa Orsini.
Ma all'improvviso quella certezza granitica andò in frantumi come un fragile cristallo.
La dichiarazione di guerra, prima, e le parole assurde di sua figlia, dopo, avevano operato in lui come una sorta di esorcismo, liberandolo da una specie di maleficio che per decenni gli aveva impedito di vedere ciò che accadeva realmente intorno a lui.
Osservò i suoi familiari e fu come se li vedesse per la prima volta.
Vedeva l'alcolismo di sua moglie, la fatuità ingenua di suo figlio Arturo che era l'unico a desiderare di essere arruolato per poter compiere imprese eroiche, il sentimentalismo di Isabella, seduta nel divano a confidare segreti amorosi alla sorella Ginevra, anche lei incinta e divorata dalla gelosia ossessiva nei confronti del marito, il giudice De Gubernatis, e infine la fragilità di Diana, che quasi certamente si sarebbe trasmessa alla prole, e nella sua mente un pensiero sovrastò tutti gli altri, mettendo da parte persino i destini della Patria.
"E' la fine della dinastia" pensò "Entro due generazioni, tre al massimo, saremo estinti. E il sacrificio di Diana sarà stato inutile".
Rivolse la propria attenzione al genero, curioso di vedere come se la sarebbe cavata, ora che le cose si facevano dure, l'uomo che di fatto lo aveva spodestato, lasciandogli soltanto l'apparenza di ciò che un tempo era stato suo.
Ettore Ricci, in piedi, tra suo fratello, suo cognato e le sue sorelle stava riflettendo, con la stessa espressione da volpe che gli si disegnava in viso tutte le volte che c'era un grosso affare in ballo e anche solo una vaga possibilità di guadagnarci qualcosa.
La pensava, su questo punto, allo stesso modo di un personaggio di cui non avrebbe condiviso quasi niente, e cioè Mao Tze-tung, uno dei cui motti era "c'è grande confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente".
Eccellente per guadagnare e conquistare potere e prestigio: "il caos è una scala" per gli arrampicatori sociali.
Aveva mille idee per sfruttare quella situazione a proprio vantaggio, e in quel momento appariva persino più alto e più minaccioso.
Diana lo guardava e sembrava leggergli nel pensiero.
Si chiese se Ettore si sarebbe mai sentito sazio di ricchezza, potere e prestigio, oppure se avrebbe inseguito questa sua ossessione fino ad autodistruggersi.
Lei sapeva che il sogno di suo marito era fondare una dinastia eterna, che avesse avuto il suo centro in quella Villa che era per lui come il simbolo del successo.
Diana invece temeva il contrario: quella Villa intorno a cui voleva creare un regno millenario avrebbe finito per consumare presto sia lui che i suoi discendenti, per una ragione nota a chi, come lei, conosceva la mitologia classica:"A volte gli dei, per punirci della nostra tracotanza, fanno sì che i nostri sogni si realizzino, e poi ci tolgono tutto sul più bello, per ricordarci che anche la persona più forte è comunque sempre e soltanto un mortale"
Il suo sguardo poi tornò di nuovo su suo padre, il Conte scontato, e per la prima volta lo mise a confronto con Ettore, il contadino rifatto. Due uomini opposti, che si disprezzavano a vicenda e le cui vite si erano incrociate per uno strano gioco del caso.
E lei che stava tra loro, nel punto di intersezione delle loro vite, portando dentro di sé una nuova vita che avrebbe dovuto fare i conti per sempre con questi antenati così inconciliabili tra loro, destinati a prolungare il conflitto tra opposte personalità anche nei loro discendenti.
"La guerra è fuori e dentro di me. E' ovunque, è insita nella vita stessa. Nessuno si può chiamare fuori. Nessuno è al sicuro. Mai".
La voce di sua madre la distolse da quei pensieri:
<<Proprio adesso che avevamo risolto i nostri problemi! Adesso chi avrà più voglia di venire ai miei ricevimenti? Anche solo per rispetto alla memoria di mio fratello...
Ma dico io? La Grande Guerra non doveva essere l'ultima? Quella che poneva fine a tutte le altre?
E invece siamo da capo. E non si sa quanto durerà.
Ditemi voi come si può sopportare una cosa del genere?>>
Diana rispose con voce leggermente derisoria:
<<Ma il problema è la guerra o sono i ricevimenti che non potrai fare?>>
La contessa Emilia guardò la figlia come se si chiedesse se fosse davvero sangue del suo sangue:
<<Il problema è che dovremo cambiare vita. E io non so come si fa>>
Diana rispose con voce atona:
<<Si fa... si fa e basta>>
La Contessa le lanciò un'occhiata di rimprovero:
<<Tu credi di sapere tutto, vero?>>
Diana strinse le spalle:
<<So che si può sopravvivere, anche solo per inerzia, persino quando si fa di tutto per autodistruggersi>>
E con un cenno del viso indicò la bottiglia di Cabernet-Sauvignon mezza vuota.
La madre sospirò:
<<Ognuno porta la croce a modo suo. Ma la verità è che tu non hai perdonato me e tuo padre per la questione del matrimonio. E' per questo che sei diventata così cinica>>
La figlia scosse il capo:
<<No, ti sbagli. Io vi ho perdonati. E' me stessa che non riesco a perdonare. Mi è sempre mancato il coraggio per essere coerente con le mie parole e con i miei pensieri. Se fossi stata coerente e coraggiosa mi sarei uccisa prima del mio matrimonio. Ma io quel coraggio non ce l'ho. Ho paura del dolore, dell'atto in sé... ma stai tranquilla, chi parla di queste cose non le fa. Bisogna stare attenti a chi ci pensa in silenzio>>
Isabella aveva ascoltato quelle ultime parole, e si rabbuiò.
In quel momento, per puro caso, si rabbuiò anche il cielo, e i colori del Salotto Liberty divennero all'improvviso cupi e lividi.
Tutti guardarono fuori dalla finestra, scorgendo, tra i rami degli alberi del giardino, nubi nere portate da un forte vento di tramontana, e rabbrividirono, forse non solo per il freddo improvviso.
La tempesta era arrivata all'improvviso, e già pareva a Diana meno gradevole dei temporali estivi a lei tanto cari. Tutte le sue letture bibliche si risvegliarono in un istante, e mentre fuori tuonava, la sua mente era percorsa da pensieri oracolari intrisi di simbolismo, a metà strada tra la cupio dissolvi e un involontario e fragile segnale di speranza:
"Si apriranno le cateratte del cielo. Una dura pioggia cadrà. Grandine e alluvione. Fino a che non verrà l'Angelo Sterminatore e si aprirà il Settimo Sigillo, e suoneranno le Trombe del Giudizio, e sapremo chi saranno i sommersi e i salvati, la semina dell'avvenire"



giovedì 19 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 19. Il clan Ricci-Orsini e le sue ramificazioni

Nel luglio del 1939 nacque la figlia primogenita di Ettore Ricci e Diana Orsini, e fu chiamata Margherita, ma il dato più interessante fu il cognome, dal momento che, come era usanza tra le famiglie nobili quando una loro figlia sposava un borghese, il cognome della prole, dietro permesso del Sovrano e degli organi da lui delegati, poteva unire quello nobile della madre a quello non nobile del padre.
Fu così che Margherita portò il cognome Ricci-Orsini, per gentile concessione di Sua Maestà Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e d'Albania e Imperatore d'Etiopia.
Per Ettore Ricci fu una vittoria a metà, nel senso che per varie ragioni si era fatto strada nel suo cuore un notevole disappunto.
In primo luogo avrebbe desiderato un maschio, e non era arrivato.
In secondo luogo, pur essendo il padrone del Feudo, vedeva che gli onori della "buona società" forlivese e ravennate andavano soltanto agli Orsini "purosangue", in special modo a suo cognato Arturo, che era l'erede del titolo di suo padre, il Conte di Casemurate.
Certo, Achille Orsini era un "Conte scontato", non essendo più proprietario della maggior parte delle sue terre, ma conservava ancora, grazie al contratto matrimoniale di Diana, la proprietà della Villa e una rendita vitalizia. In aggiunta aveva ottenuto per suo figlio Arturo un ruolo di azionista nella fabbrica di macchine agricole del vecchio Giorgio Ricci.
Se poi Arturo avesse fatto un buon matrimonio, allora il suo astro nascente avrebbe completamente cancellato la luce di Ettore Ricci, e questo era intollerabile.
C'era poi da tenere in considerazione un'ultima variabile, la figlia più giovane del Conte, Isabella, che era considerata la "perla" della famiglia, e non a torto.
Isabella Orsini, in effetti, era una delle giovani donne più belle che si fossero mai viste da quelle parti, a memoria d'uomo.
Alta, slanciata, con fisico snello da odalisca, viso ovale, occhi intensi, labbra piene, lineamenti regolari e dolci, sorriso irresistibile.
E questa sua eccessiva bellezza fu una delle cause della sua rovina.
Mentre la gravidanza e l'infelicità offuscavano la bellezza di Diana, quella di sua sorella minore cresceva ogni giorno di più, e non passò inosservata agli altri uomini che abitavano la Villa Orsini, tra cui Roderico Ricci e Michele Braghiri, che non le toglieva gli occhi di osso, e persino lo stesso Ettore.
Parte dell'amore che aveva provato per Diana incominciò a convogliarsi verso Isabella, tanto da renderlo sgarbato nei confronti di ogni corteggiatore che si faceva avanti per ricevere anche un solo sorriso da parte della più giovane degli Orsini.
La famiglia Ricci era altrettanto sgarbata con i corteggiatori di Isabella, ma per altre ragioni: se l'ultimogenita degli Orsini avesse sposato un uomo ricchissimo, tale da mettere definitivamente in ombra Ettore Ricci, rendendo superfluo il suo denaro, era assai concreto il rischio che tutti i Ricci venissero allontanati a vantaggio di un'altra famiglia più presentabile.
Per questo i Ricci perseguivano con tenacia una strategia matrimoniale che potesse aumentarne ulteriormente il loro patrimonio, il prestigio e, soprattutto, il potere.
Iniziò quindi la controffensiva delle sorelle di Ettore, per controbilanciare il potere delle cognate.
Certo, le sorelle Orsini erano belle e nobili, ma le sorelle Ricci erano ricche e astute.
Carolina si sposò col latifondista Leopoldo Gagni, Conte di Montescudo, che poteva essere suo nonno come età, il che andava benissimo, perché il vecchio non aveva figli e sarebbe stato facile convincerlo a far testamento alla giovane moglie-infermiera che si era scelto come angelo del focolare (e in fondo anche come angelo della morte, perché il Gagni era malato, e voleva qualcuno che lo accompagnasse dolcemente verso il riposo eterno). Se volessimo fare un raffronto poetico, il conte Gagni, pigro e pavido, non era certo il tipo a cui pensava Dylan Thomas, quando, pur essendo cagionevole di salute e destinato a una morte precoce, scriveva i famosi versi: "Non andartene docile in questa buona notte ... infuria, infuria contro il morire della luce". No, per il Conte di Montescudo sarebbe stato più consono l'incipit profetico di una delle ultime e più famose poesie di Cesare Pavese: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Per Pavese, che già meditava il suicidio, erano quelli di Constance Dowling, insensibile all'amore del poeta. Per Leopoldo Gagni di Montescudo erano gli occhi molto più interessati di Carolina Ricci, che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di impadronirsi delle terre e dei titoli del moribondo marito.
Delle altre tre sorelle, Caterina era già sposata con l'avvocato Edoardo Baroni, che era il legale della Curia forlivese per le questioni amministrative, ed aveva ottimi agganci in tutto il mondo cattolico, che anche in epoca fascista, e sotto il pontificato del neo-eletto Pio XII, conservata in Italia un potere immenso.
Rimanevano Maria Teresa e Adriana, entrambe acide e lunatiche, ma molto diverse fisicamente.
Maria Teresa aveva una faccia tonda e un corpo robusto, come suo padre, il tarchiato e anziano patriarca "Zuarz" Ricci, ma tali tratti erano vagamente riscattati dai capelli biondi e dagli occhi azzurri di sua madre, la maestra Clara.
Adriana, l'ultimogenita, era il contrario: bruna e pelosa come il padre e magrissima e puntuta come la madre.
L'unico punto in comune di entrambe era il modo di fare grossolano e ruvido, fino al punto di fare battute sconce e ricorrere frequentemente al turpiloquio e ad imprecazioni da caserma.
I genitori, consapevoli di tutto questo, non fosse altro perché Maria Teresa ed Adriana litigavano violentemente ogni giorno, arrivando ad insultarsi in modo inenarrabile, fino a giungere alle mani e alle vie di fatto, si erano quasi rassegnati a tenersele entrambe sul groppone.
Alla fine però riuscirono a trovare un marito valido, secondo il loro punto di vista, a Maria Teresa.
Si trattava di un certo Onofrio Tartaglia, un omaccione gradasso che in gioventù era stato uno scagnozzo di Giorgio Ricci e poi un membro delle squadre fasciste e nella Milizia per buona parte degli Anni Venti. 
Tartaglia era stato soprannominato da tutti "Compagnia bella" (in dialetto romagnolo "cumpagnì beala") a causa del frequente uso di quell'intercalare e, ironicamente, per il fatto che la sua compagnia fosse tutt'altro che bella.
Ma il vecchio "Zuarz", che vedeva lontano, gli aveva fatto ottenere un invito ad una cena a Villa Orsini, in cui era naturalmente presente anche la Signorina De Toschi, cugina del Conte.
La signorina Mariuccia non nascose il proprio interesse nei confronti di quel maschio così brutale, che era proprio il tipo umano da cui era maggiormente attratta.
Anche in questo caso, bastarono alcune notti di fuoco al Villino De Toschi per permettere ad Onofrio Tartaglia di entrare nella Polizia di Stato e di raggiungere in breve tempo il grado di Ispettore alla Questura di Forlì.
Per la famiglia Ricci si trattava di un colpo da maestro, perché avere un poliziotto come lui dalla propria parte era necessario per consolidare il potere assoluto del proprio clan nella Contea di Casemurate.
Tartaglia, uomo dai gusti dozzinali, si sentì onorato di poter sposare Maria Teresa Ricci, giunonica ed altrettanto dozzinale.
Al loro matrimonio, sempre nel 1939, tutti si chiedevano quali creature abominevoli sarebbero nate da quell'unione. Possiamo solo anticipare che uno dei loro numerossimi  e stravaganti figli avrebbe avuto un nome che era tutto un programma, ovverosia "Arido", destinato ad avere un suo ruolo nell'epopea popolare casemuratense.
L'unica sorella di Ettore che rimase zitella fu Adriana: i suoi occhi erano spiritati e infuocati, la sua passione per la politica (più a destra del Fascismo) e la sua segreta professione di usuraia finirono per intimidire anche i più impavidi avanzi di galera che intendessero entrare nelle alte sfere del clan Ricci-Orsini.
Nessun pretendente si era fatto avanti.
Fu così che rimase a Villa Orsini, dove tutti la temevano, tranne la governante Ida Braghiri, che era peggio di lei sotto ogni punto di vista, e si rodeva il fegato nel vedere come i Ricci-Orsini fossero si fossero insinuati in tutti i meandri della società locale e non solo.
Ma, come le ricordava suo marito Michele, tutto questo faceva parte del piano: un giorno i loro figli si sarebbero uniti a qualche esponente dei Ricci-Orsini ed avrebbero avuto la propria parte, dopodiché loro avrebbero potuto mettere in atto la parte più segreta del diabolico progetto sviluppato anni prima.
A complicare tutto, però, giunse, inaspettata e sottovalutata, nel settembre 1939, la notizia quasi incredibile che l'Inghilterra e la Francia avevano dichiarato guerra alla Germania come punizione per aver invaso la Polonia, violando gli accordi diplomatici dell'anno precedente.
La bufera stava arrivando, ma nessuno ancora si rendeva conto fino a che punto avrebbe sconvolto le loro vite e i loro progetti.

martedì 17 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 18. Il giudice De Gubernatis

A quasi un anno dal matrimonio di Ettore Ricci con la primogenita del Conte di Casemurate, il Salotto Liberty di Villa Orsini era tornato ai fasti di un tempo.
E nonostante tutti sapessero che Ettore era ormai il vero padrone del Feudo Orsini, i suoi nobili suoceri continuavano a recitare la parte dei castellani feudatari , in perfetto stile ancien régime.
Il sacrificio di Diana era servito a riportare i genitori e i fratelli al centro della cosiddetta e sedicente "buona società".
Era l'aprile del 1939, ma nella Contea di Casemurate sembrava che il tempo si fosse fermato e che ad agitare le acque in Europa, invece di Hitler, ci fosse ancora Napoleone.
La politica e tutte le vicende della "grande storia", erano come echi lontani di vicende che interessavano solo qualche sfaccendato che si attardasse nelle osterie o nelle sale dei barbieri, specialmente "da Lindo", che oltre a tagliare i capelli per pochi centesimi, offriva anche il caffè a tutti gli avventori.
Le tradizioni persistevano, la modernità stentava a penetrare in quel "discreto angolo di mondo", che conduceva una vita placida e sonnacchiosa, in un eterno presente di piccole quotidianità.
Persino la gente che si reputava colta, come la Contessa Emilia Orsini, sosteneva che la vita agreste casemuratense fosse "in un certo qual modo simile a quella delle campagne inglesi ai tempi di Jane Austin, durante il periodo Regency".
C'era una certa dose di autocompiacimento ed esagerazione, in quelle frasi, ma per quel che riguardava l'ossessione del far fare alle figlie un buon matrimonio, l'atmosfera che si respirava era piuttosto simile a quella di "Orgoglio e pregiudizio".
Diana poteva anche concordare, su quel punto, ma, al contrario della madre, non amava particolarmente i romanzi della Austin, e in particolare trovava ipocrita il loro lieto fine dove l'amore e la convenienza riuscivano a trionfare contemporaneamente. Era un'illusione e non a caso Jane Austin non trovò mai l'uomo dei suoi sogni.
Diana preferiva identificarsi in personaggi molto diversi, come Catherine Earnshaw di "Cime tempestose", Rossella O'Haraoppure lady Chatterley, protagonista dello scandaloso (per l'epoca) romanzo di D.H. Lawrence. In tutti questi personaggi c'era una costante: la volontà di evadere da un matrimonio senza amore e di inseguire avventure e amori impossibili.
Ma tutto questo, per Diana Orsini, poteva esistere soltanto nei libri e l'unica cosa che le rendeva sopportabile il matrimonio con Ettore era il fatto che non aveva avuto occasione di innamorarsi di qualcun altro.
Era rimasta incinta dopo soli due mesi, e la gravidanza, giunta quasi immediata, non aveva risvegliato in lei alcun istinto materno, anzi, c'era un pensiero fisso che la tormentava, ossia che mettere al mondo un figlio, pur conoscendo quanto fosse ingiusta e a volte crudele la vita, fosse un sopruso, e che, come diceva Edipo, "non nascere è il più grande dei doni".
Ma le sorelle di Diana la pensavano diversamente.
La secondogenita, Ginevra, assomigliava alla madre, da cui aveva preso i capelli rossi, gli occhi azzurri e la pelle lentigginosa. Era tranquilla e docile, e parlava con una voce flautata che la rendeva ancora più eterea.
Un giovane magistrato, Guglielmo De Gubernatis, la corteggiava con grande devozione. 
Uomo raffinato, colto, paziente e diplomatico, il giudice De Gubernatis, era divenuto, da alcuni mesi, un assiduo frequentatore di Villa Orsini e del Salotto Liberty.
Nato a Catanzaro nel 1906, si era diplomato al Liceo Classico con ottima valutazione, ed era stato esonerato dal servizio militare a causa di una rinite allergica.
Si era poi laureato in Giurisprudenza all’Università di Reggio Calabria, dove aveva conseguito il Dottorato di Ricerca, anche grazie all’iscrizione ai Guf , Giovani Universitari Fascisti.
A tal proposito va anticipato il fatto che anni dopo, a regime caduto, giustificò quell'adesione dichiarando di essere stato un infiltrato da parte del partito socialista, anche se non presentò mai alcuna prova a sostegno di tale affermazione.
La sua tesi di Dottorato sul “Diritto nella Roma di Augusto” fu molto apprezzata non solo negli ambienti accademici, ma anche presso le gerarchie fasciste.
Queste credenziali gli permisero di ottenere la cattedra di Ricercatore confermato di Diritto Romano all’Università di Bologna, nel 1933. Qui ebbe modo di conseguire l’Avvocatura, nel 1934.
Nello stesso anno entrò a far parte, grazie alla segnalazione di un barone universitario, del prestigioso studio legale Asinelli-Raffarani, che assisteva in quel periodo gli interessi della famiglia Orsini Balducci di Casemurate in una controversia contro la marchesa Cordelia Battoni Ghepardi, riguardo ai costi di ristrutturazione di un palazzo in Via Belle Arti che la nobildonna aveva acquistato dai Conti Orsini una ventina d’anni prima. 
Di fatto la marchesa si era rifiutata di pagare la maggior parte della somma convenuta, puntando tutto su un cavillo inserito ad arte nel rogito notarile.
La causa si era protratta per le lunghe, considerato che la marchesa Battoni Ghepardi aveva a sua volta fatto causa alla ditta appaltatrice del restauro, all’architetto che aveva presieduto i lavori, all’agente mediatore del contratto, al portiere, al giardiniere, e persino a una famiglia di inquilini che abitavano da generazioni in una specie di sottoscala del palazzo.
Poiché si trattava di una grossa gatta da pelare che in studio nessuno voleva, la causa fu affidata all'ultimo arrivato, Guglielmo De Gubernatis, che così divenne legale della famiglia Orsini.
In verità come avvocato non si distinse gran che, e infatti la causa fu clamorosamente persa, contribuendo in tal modo alla rovina economica degli Orsini.
E tuttavia il suo fascino di uomo colto e grande affabulatore, la sua figura azzimata, con tanto di baffetti e brillantina, gli valsero le simpatie della Contessa Emilia, che lo spronò a intraprendere la carriera di magistrato.
De Gubernatis, pur avendo molti titoli ed essendo ben introdotto nell'alta società e nel partito fascista, temeva di non riuscire in quel grande intento, a causa della mancanza di referenze ad altissimo livello.
La Contessa Emilia, ascoltate queste sue perplessità, aveva dichiarato con grande sicurezza, sollevando l'indice della mano destra:
 <<In questi casi non c'è che la Signorina>>
<<Chi?>> aveva chiesto l'avvocato.
<<Ma come chi? La Signorina De Toschi, figlia dell'eroico Generale Ardito De Toschi e della compianta Violetta Orsini, cugina di mio marito>>
<<E come potrebbe aiutarmi questa... ehm... Signorina?>>
La Contessa aveva sorriso con sussiego e compiaciuta benevolenza:
<<Gli ex-attendenti di suo padre hanno fatto carriera in tutti i meandri della Pubblica Amministrazione. Se c'è un concorso da superare, c'è sempre un attendente del Generale De Toschi pronto a metterci una buona parola. Mi creda, l'esito positivo è certo>>
De Gubernatis era ancora perplesso:
<<Ma come potrei riuscire ad ottenere un"buona parola" da parte della Signorina?>>
La Contessa Emilia sorrise:
<<Be'... io le procurerò un invito al Villino De Toschi. Il resto dipenderà da lei.
Vede, avvocato, la Signorina si sente molto sola... ha bisogno d'affetto, di calore umano, lei mi capisce... Il tutto naturalmente senza impegno, nel senso che ormai non è più in età da marito da molto tempo, e non c'è pericolo di conseguenze>>
De Gubernatis, che era uomo di mondo, aveva capito, ma gli rimaneva ancora un dubbio:
<<Se posso permettermi una domanda in confidenza...>>
<<La prego, chieda pure>>
<<Ehm, com'è... fisicamente, questa Signorina?>>
<<Dunque, ad essere sinceri è un po' in carne... e poi l'età, gli effetti della menopausa... però Santo Cielo, Parigi val bene una Messa!>>
E così l'avvocato De Gubernatis, dopo un primo incontro in cui l'insaziabile Signorina lo onorò di un certo interesse nei suoi confronti, trascorse poi alcune notti di fuoco presso il Villino De Toschi.
Fu sufficiente.
Nel 1938 il promettente avvocato vinse il concorso di ammissione alla magistratura e, sempre grazie a una buona parola di un ex-attendente del Generale De Toschi, ottenne persino il suo primo incarico nel Tribunale di Forlì, per poter stare vicino alla famiglia Orsini.
Nel 1938 partecipò al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
Il vecchio Giorgio Ricci se lo fece subito amico, con una serie di regali ed elargizioni che permisero al giudice di comprare una palazzina nel centro di Forlì.
Ettore Ricci a sua volta ritenne che fosse fondamentale avere un giudice dalla propria parte, e in questo si rivelò lungimirante.
Nel giugno 1939 si fidanzò ufficialmente con Ginevra Orsini, entrando a pieno titolo nella famiglia.


giovedì 12 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 17. Lo Scavezzacollo, ossia l'infanzia rimossa di Francesco Monterovere

Molte speranze erano state riposte da Romano Monterovere e da sua moglie Giulia Lanni nel loro primogenito Francesco.
Queste speranze, fondate sul fatto che il bambino mostrava ottime doti intellettive, si libravano in alto, come aquiloni, che però il destino incominciò a prendere a sassate, quando nell'indole del piccolo Francesco, incominciò ad emergere un aspetto irrequieto e ribelle, che gli valse il soprannome di Scavezzacollo e che suscitò le ire del padre e le delusioni della madre.
Tutto ciò che sappiamo sull'argomento deriva principalmente dai racconti dei fratelli minori di Francesco, e cioè Enrichetta e Lorenzo, testimonianze che vanno presi con la dovuta cautela, considerando la tenera età dei testimoni ai tempi in cui gli eventi ebbero luogo.
L'unica cosa su cui tutti e tre i fratelli concordano, riguardo a quel periodo, sono le severissime punizioni, anche corporali, da parte del padre, Romano, affettuosamente chiamato "Babo" con una "b" sola. L'ex caporalmaggiore della Guerra d'Abissinia non riusciva ad accettare l'idea che il suo primogenito rifiutasse di obbedirgli e, più in generale, fosse estremamente diverso da lui.
Questo provocava a Romano esplosioni d'ira che, seppur molto presenti nell'indole dei Monterovere, fino a quel momento erano state latenti in lui, uomo apparentemente silenzioso e distaccato. La sua nevrosi ossessivo-compulsiva si aggravò e il suo equilibrio psico-fisico ne risentì a tal punto che i suoi capelli divennero precocemente bianchi, fino a quando subentrò la calvizie e la pelle di quel viso un tempo prestante si solcò di profonde rughe.
Non che tutta la colpa fosse del figlio, anzi è probabile che, specie negli anni dal '40 al '45, durante la guerra, la nevrosi di Romano avrebbe trovato comunque delle ragioni esterne tali da scatenare le sue ire e accelerare il suo precoce invecchiamento.
Ad ogni modo, volendo psicanalizzare il tutto in termini rigorosamente freudiani, ben presto la rigida educazione e le traumatizzanti punizioni inflitte da Romano al figlio a suon di tozze, fu introiettata nella mente di Francesco sotto forma di un occhiuto e spietato Super-Io, pronto a censurare tutto ciò che avrebbe provocato il biasimo paterno. Il successivo conflitto tra Io e Super-Io, sempre secondo la topica e la dinamica freudiana, avrebbe innescato il meccanismo della rimozione e quindi dell'amnesia.
Per completezza, occorre dire che l'amnesia non è l'unica conseguenza della rimozione, dal momento  che i contenuti rimossi non scompaiono, ma sono trasferiti in un ipotetico e inconoscibile settore della mente, l'Inconscio, secondo la prima topica, e l'Es, in base alle seconda.
Dall'inconscio, tali contenuti rimossi, essendo energia psichica, generano reazioni che si manifestano poi sotto forma di elementi bizzarri come i famosi "lapsus", o certi tipi di "tic" del linguaggio o dell'espressione, e ancora somatizzazioni di vario genere (dall'agire maldestro fino ai casi che un tempo venivano classificati nell'ambito dell'isteria), lievi disturbi cognitivi (dislessia e discalculia, ossia difficoltà a far di conto), distrazioni, amnesie, oppure ancora, nei casi più seri, in forme di nevrosi di tipo ansioso, ossessivo o depressivo o psicosi di tipo paranoide.
Con questo non vogliamo assolutamente aderire in toto ad una teoria che gli stessi psicologi considerano ormai datata, e dunque, sarebbe del tutto inappropriato affermare che Francesco Monterovere avesse sviluppato, anche solo in parte e in forma lieve, alcune di queste manifestazioni.
Più corretto è dire che della prima infanzia gli rimasero soltanto pochissimi ricordi, ridotti a brevi flash, tra cui, per esempio, il fatto che lo Scavezzacollo, per punizione di aver spaventato e rincorso dei pulcini, fosse stato infine chiuso nella stia, ogni volta che i pulcini stessi venivano liberati.
Teniamo conto che molti di questi eventi si verificarono in concomitanza con la Seconda Guerra Mondiale, specie nel periodo in cui incominciarono i bombardamenti anglo-americani ed ebbe luogo l'invasione tedesca, con tutti i traumi che simili tragedie portano con sé.
Degli anni della guerra non aveva ricordi diretti, tranne uno, ossia il fatto di trovarsi sotto il letto insieme ad un personaggio non ben identificato, durante un bombardamento.
Per il resto si limitava a riportare ciò che i suoi genitori gli avevano raccontato.
Erano stati anni catastrofici per tutti, ma in modo particolare per la famiglia Monterovere, che vide la sventura abbattersi su di sé per la seconda volta, se si tiene conto che la prima risaliva alla notte fatale in cui l'antenato Ferdinando perse la vita presso l'Orma del Diavolo, nella Selva di Querciagrossa, sotto il colle in cui sorgeva il castello di Monterovere Boica.
Romano, pur essendo caporalmaggiore, non venne richiamato in guerra, poiché riconosciuto invalido civile a causa di un non ben identificato incidente sul lavoro, che gli aveva danneggiato una gamba e lo aveva costretto a un periodo di immobilità.
Dei suoi fratelli, furono scelti per il Fronte i due più giovani e cioè Tommaso ed Edoardo, destinati il primo alla Libia e il secondo alla Francia (pochi sanno che esistette, per un brevissimo periodo, nel 1940, un fronte francese).
Tommaso non giunse mai in Libia: la nave in cui viaggiava, poco al largo della Sicilia, fu silurata da un bombardamento aereo inglese e non ci furono superstiti, né corpi recuperati, né tombe su cui piangere.
Edoardo giunse in Francia giusto in tempo per l'armistizio e fu collocato nella caserma di Mentone.
Quando gli arrivò la chiamata per il fronte russo, intuendo che se fosse partito non sarebbe mai tornato indietro, disertò e si diede alla macchia nelle terre della Repubblica di Vichy, dove visse per alcuni anni come clandestino, ritornando poi in patria a guerra finita, senza un soldo, ma carico di avventure (vere o presente tali) che avrebbe poi raccontato infinite volte a figli, nipoti e pronipoti vari.
Ferdinando, Umberto e Romano rimasero i soli a mandare avanti l'Azienda, che incontrava le prime difficoltà, poiché in tempo di guerra le cave di ghiaia e i canali di scolo erano l'ultima preoccupazione.
Ma il tracollo avvenne quando, come è noto, dopo l'8 settembre del 1943, quando l'Italia si spaccò in due: la Repubblica Sociale filo-tedesca al nord e il Regno d'Italia filo inglese e americano al Sud.
I bombardamenti anglo-americani si intensificarono.
Gran parte dei cantieri dell'Azienda, che già aveva subito gravi danni economici per la mancanza di commesse, andarono completamente distrutti.
Romano e famiglia dovettero abbandonare la loro residenza faentina e tornare in campagna nel casolare di Enrico ed Eleonora, nei pressi di un rifugio dal nome non incoraggiante di "Tombarona".
Durante un bombardamento a tappeto particolarmente efferato, Romano Monterovere si vide scoppiare una bomba a breve distanza, riportando danni all'udito che in seguito l'aggravamento dell'invalidità civile.
Lui, la moglie e il piccolo Francesco riuscirono a mettersi in salvo in un rifugio nei pressi del casolare di campagna dove il vecchio nonno Enrico e sua moglie Eleonora si erano ritirati.
Rimasero nelle campagne per molto tempo e il ricordo dell'episodio dei pulcini va collocato certamente in quel periodo, come anche la nascita dei fratelli di Francesco, e cioè Enrichetta nel 1943 e Lorenzo nel 1945.
A tutti costoro si aggiunse verso la fine del conflitto mondiale anche il ritorno la zia Anita, che era stata maestra a Fiume per vent'anni e che per un soffio era scampata alle foibe.
Se a tutto questo si aggiunge il fatto che i risparmi investiti dalla famiglia Lanni e dai Monterovere in titoli pubblici non valevano più nulla, la situazione finanziaria di tutti loro, nel '45, era talmente disastrosa che persino mettere insieme il pranzo con la cena era diventato sempre più arduo.
Una sera d'autunno, zoppicando e con le orecchie che gli fischiavano, Romano arrivò a casa con un prosciutto per metà andato a male e pieno di vermi, trovato nei pressi di un cassonetto.
Quel famigerato prosciutto andato a male, ripulito dal marcio e dai vermi, costituì uno dei pasti più cospicui della famiglia nel '45 e divenne il simbolo del punto più drammatico della povertà che dovettero sopportare.
Quando, molti anni dopo, l'Azienda si riprese e la famiglia tornò al benessere, nessuno di loro, nemmeno Francesco, dimenticò mai quel prosciutto pieno di vermi, e il volto trionfante di Romano, che l'aveva trovato rovistando nei cassonetti.

venerdì 6 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 16. La prima notte di nozze e la pendola sul muro

Non ci fu viaggio di nozze per Ettore Ricci e Diana Orsini.
Quest'insolita decisione fu motivata dicendo che era giusto che gli sposi si conoscessero meglio, prima di poter affrontare insieme un'esperienza impegnativa come un viaggio, al fine di trovare un loro equilibrio nella convivenza quotidiana.
Il vero motivo, però, era il precedente familiare della catastrofica luna di miele di Roderico Ricci, uno dei fratelli maggiori di Ettore, che era stato mollato dalla moglie proprio durante il fatale viaggio di nozze a Gabicce Mare, provocando uno scandalo (e una valanga di pettegolezzi e ilarità) di cui ancora non si erano spenti gli echi.
Nulla si sapeva della sorte della moglie fuggiasca di Roderico, se non che, interrogata dalla polizia per abbandono del tetto coniugale, si era difesa dicendo a gran voce che "un cane rabbioso" sarebbe apparso un moderato in confronto a suo marito.
A tutto questo si deve aggiungere il fatto che Ettore era troppo impaziente di installarsi una volta per tutte a Villa Orsini, e per poterlo fare senza troppi seccatori intorno, decise che il viaggio l'avrebbero fatto i familiari di sua moglie.
Fu così che il conte Achille, la contessa Emilia e i loro figli minori Arturo, Ginevra e Isabella, ebbero in dono un soggiorno di due settimane in un hotel di lusso a Montecatini Terme, più due casse di Dom Pérignon per la contessa, al fine di vincere le sue perplessità facendo leva sulla passione alcolica.
Tutta questa macchinazione fu solo un primissimo assaggio di ciò che quel matrimonio sarebbe stato, ossia, secondo l'espressione più eufemistica, una continua fonte di colpi di scena, e secondo quella più esagerata "uno scandalo dietro l'altro".
Ogni volta che il menage matrimoniale di Ettore e Diana mostrava una stravaganza o una deviazione dalle norme, gli uomini di mondo ridevano sotto i baffi, ma i moralisti e le signore timorate di Dio esprimevano il loro biasimo per quella che era, a detta loro, "un'indecenza".
La famiglia Orsini non se ne curava, seguendo la regola della Famiglia Reale Inglese: "never explain, never complain": mai dare spiegazioni e mai lamentarsi.
La famiglia Ricci, che invece, più italianamente, seguiva senza saperlo la regola napoletana del "chiagne e fotti", non si accorgeva nemmeno della propria eccentricità: l'unica cosa che contava, in quel momento, era assumere il pieno controllo del Feudo Orsini e dare vita ad un clan che unisse le risorse finanziarie dei Ricci con i beni immobili e il prestigio dei Conti di Casemurate.
E tuttavia, per assicurarsi che neanche il Papa potesse annullare quel matrimonio, era necessario che fosse consumato in presenza, seppur dietro la porta, di testimoni, seguendo i rituali barbari della "messa a letto".
Diana non manifestò obiezioni: si trovava in una condizione simile a quella di un condannato a morte a cui viene chiesto se preferisce il rogo o lo squartamento.
Chiese solo che come testimoni fossero scelte delle donne che già conosceva e di cui almeno una fosse fedelissima alla famiglia Orsini.
Alla fine la scelta ricadde, naturalmente, sulla Signorina De Toschi, come garante della famiglia Orsini e sulla governante Ida Braghiri come fedelissima della famiglia Ricci.
Per gli sposi erano state approntate addirittura tre camere da letto.
La prima era, ovviamente, quella nuziale, col grande talamo a baldacchino, con tende rosse, sete dorate e mobilio in stile Rococò, da fare invidia alla stanza da letto di Maria Antonietta a Versailles.
La seconda era la camera di Diana, che era stata ristrutturata come dono di nozze, e che l'avrebbe ospitata per la grande maggioranza del tempo, durante la sua lunga vita: la seta verde del letto, delle imbottiture degli sgabelli, delle decorazioni della carta da parati color giada, dominava su tutto, tanto che si parlò con grande rispetto della "stanza di seta cruda".
Le persiane erano sempre semichiuse a coppo, il giusto necessario per cambiare l'aria, ma non di più, dal momento che Diana soffriva di terribili emicranie che la costringevano a letto intere giornate.
La terza stanza, molto ampia e luminosa, era quella personale di Ettore, il quale, oltre a dormirci con sonno pesante accompagnato da russamenti simili al suono di un trattore, era solito depositarvi tutto ciò che "provvisoriamente" non sapeva dove mettere. E poiché non c'è nulla di più definitivo del provvisorio, gli oggetti depositati incominciarono a formare un ammasso disordinato di carabattole così malconce che persino la governante si rifiutava di metterci mano. Fu così che la camera di Ettore venne ribattezzata dai domestici, dai familiari e infine da tutti i conoscenti, col nome non del tutto edificante di "magazzino".
Su questo punto nacque poi la leggenda metropolitana secondo cui i conti Orsini di Casemurate erano così spietati da costringere il povero genero Ettore a dormire in un lercio magazzino.
Lo stesso Ettore, che detestava i suoceri, non volle mai smentire quella voce, limitandosi a stringere le spalle, come se per lui, uomo che veniva dalla gavetta, le comodità non fossero affatto necessarie, e che avrebbe dormito persino su un pagliericcio nella stalla, pur di non prendere i vizi decadenti dell'aristocrazia.
In realtà l'unica cosa decadente era la Villa stessa.
<<Questa casa è vecchia>> aveva commentato Ettore salendo per la prima volta le scale.
<<E' antica>> lo corresse lei <<E' stata costruita in età vittoriana>>
<<Sotto Vittorio Emanuele II?>>
<<No, ai tempi della regina Vittoria>>
<<Ah, quella vecchia grassona! Dicono che se la intendesse con uno stalliere. Non so come avrà fatto quel poveretto>>
Ma a quel punto gli venne l'ansia da prestazione, e sbottò:
<<Fosse per me, butterei giù tutto e costruirei una casa nuova. Ma visto che a voi piacciono le cose vecchie, cercheremo di fare delle ristrutturazioni. Mi costeranno un occhio della testa, ma alla fin fine lo faccio anche per voi, perché la mia famiglia siete voi poveracci! Eh sì, eh sì ...>>
Diana non replicò, perché non erano tanto le parole a darle fastidio, quanto il fatto che la famiglia Ricci non avesse mantenuto del tutto le promesse.
Era stato il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci a spiegare al figlio Ettore come intendeva gestire la questione :
<<Ho tolto le ipoteche dalla Villa, come avevo promesso al Conte, ma per quanto riguarda le ipoteche sul Feudo, lo farò un poco alla volta, perché gli Orsini debbono sempre ricordare chi è che tiene il coltello dalla parte del manico>>
Ettore aveva concordato e, forte di quel seppur metaforico coltello, si era lanciato in una serie di progetti architettonici che avrebbero fatto impallidire papa Urbano VIII.
<<Prima di tutto farò ristrutturare gli appartamenti per gli ospiti. Uno andrà a Michele Braghiri e alla sua famiglia, perché è una vergogna che vivano ancora nella Cameraccia. 
Un altro per mio fratello Roderico e uno per mia sorella Adriana>>
Forse furono quei propositi, riservati a persone che Diana detestava, a dare il colpo di grazia a quel che restava delle buone intenzioni di lei riguardo all'incombente prima notte di nozze.
Fu in quel momento, infatti, che nella sua mente germogliò l'idea di far pagare al marito quella serie di sgarbi e umiliazioni rendendogli pan per focaccia, ma in maniera più sottile, ossia con una sorta di resistenza passiva, rimanendo in silenzio, tenendogli il muso e arrivando persino a fingere di  ignorare la sua presenza, anche nei momenti più intimi.
Fatto sta che la camera nuziale, dopo una controversa prima notte di cui renderemo immediatamente conto, non fu quasi mai frequentata, se non lo stretto necessario per concepire figli, e i coniugi decisero, già dalla seconda notte, di dormire separati, facendo notare ai dubbiosi che quella era la norma nelle famiglie aristocratiche.
Ma a Casemurate circola ancor oggi un'altra versione dei fatti, una specie di leggenda, che si potrebbe definire quasi una barzelletta, se non fosse stata così tragicamente verosimile.
A mettere in giro la storia fu l'ingrato Michele Braghiri, dopo che sua moglie, la governante, ebbe raccontato nei minimi dettagli la sua versione dei fatti riguardo a tutti i rumori provenienti dalla camera degli sposi, in quella famosa prima notte di nozze.
Pare che, all'inizio, le cose procedessero abbastanza normalmente, come testimoniava il ritmico cigolare del letto e il respiro affannoso di Ettore. Certo, non c'era particolare passione, ma ognuno dei due sembrava fare la sua parte.
<<A un certo punto>> raccontò la signora Ida al marito <<mentre lui ci dava sotto da un bel po', ho sentito lei che ha detto: "Quella pendola sul muro è indietro di un'ora"
Deve averlo detto proprio nel momento in cui lui stava per... insomma, ci siamo capiti... perché c'è stato il grugnito di piacere, da verro, del signor Ettore e dopo un silenzio di tomba.
Quella frase della moglie lo ha umiliato proprio nel momento in cui lui finalmente...
Insomma, nessuno pretende che la moglie debba far finta, ma tirare fuori quella storia della pendola!>>
Michele Braghiri, che si vantava di essere un grande amatore, prese le parti di Diana:
<<Be', forse Ettore non è poi così vigoroso come dice di essere. 
E poi quella pendola è appesa proprio nella parete di fronte al letto. 
Ed è bella grossa, anche... >>
La signora Ida scosse il faccione paonazzo:
<<Ma Santo Cielo, era la prima notte! E lei era vergine!>>
<<Sei sicura?>>
<<Ma certo! Ho controllato i lenzuoli. Dovevo pur testimoniare che tutto era stato fatto in regola!>>
Michele annuì, ma poi fu colto da un dubbio:
<<Ma lei non ha fatto nemmeno un urletto quando lui l'ha...>>
<<Macché, niente di niente! Un cadavere stecchito sarebbe stato più vivace!>>
Il signor Braghiri annuì soddisfatto, poi, come se nella sua mente fosse balenata una premonizione, chiese:
<<E adesso la pendola è in orario?>>
La signora Ida sogghignò:
<<No. E' ferma. Si è fermata a quell'ora>>
Quest'ultimo particolare, che nessuno poté mai verificare, poiché solo la governante aveva accesso alla stanza, oltre agli sposi, fu considerato la prova decisiva e suscitò, passando di bocca in bocca, un misto di ilarità e di sgomento, come se in una simile camera nuziale, con tanto di pendola ferma in eterno nel momento della somma umiliazione del marito da parte della moglie, non potesse che essere generata una stirpe di folli.




martedì 27 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 15. Le nozze di Ettore e Diana

In una ridente domenica di giugno del 1938 ebbe luogo l'ultimo grande evento mondano della Contea di Casemurate prima della Seconda Guerra Mondiale, ossia il matrimonio di Diana Orsini Balducci, primogenita del conte Achille, con Ettore Ricci, suo fidanzato da meno di un anno.
Quelle nozze furono anche l'ultima occasione, in assoluto, nella quale le antiche famiglie aristocratiche e dell'alta società si degnarono di partecipare ad una cerimonia insieme alla gente comune del luogo e se lo fecero, fu soprattutto per mera curiosità, e magari per una segreta speranza di assistere ad episodi imbarazzanti.
Nei mesi precedenti, i promessi sposi si erano visti poche volte, per non rischiare spiacevoli inconvenienti che avrebbero potuto mandare a monte l'alleanza tra il clan dei Ricci e quello degli Orsini.
Erano stati comunque mesi intensi.
La famiglia Ricci, per una volta, non aveva badato a spese e aveva organizzato l'evento cercando di mantenere un equilibrio tra la solennità elegante desiderata dagli Orsini e la sfarzosità un po' pacchiana che mirava a far colpo sulla folla.
Clara Ricci assunse persino uno stuolo di esperti di bon ton incaricati d'impresa quasi disperata di "dirozzare" suo figlio Ettore una volta per tutte.
Nel frattempo, Diana era rimasta in disparte, in silenzio, riducendo al minimo possibile le interazioni sociali, anche con i parenti, per i quali provava un senso di delusione e di estraneità che soltanto il tempo e gli eventi eccezionali e terribili degli anni futuri avrebbero potuto attenuare.
In particolare stava attenta a non lasciarsi sfuggire nessuna protesta in presenza della governante Ida Braghiri, di cui aveva intuito, oltre alla natura maligna e pettegola, anche il ruolo di spia per conto del suo futuro suocero, il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, e tutto il suo clan, di cui Ettore, in fondo, era il membro più onesto e meno compromesso con certi affaristi e politicanti senza scrupoli.
Aveva finito per accettare il ruolo che le era toccato in sorte, ma aveva giurato a se stessa che la famiglia che sarebbe sorta dal suo matrimonio sarebbe stata migliore di quella in cui lei era nata e cresciuta. E per "migliore" intendeva qualcosa di molto diverso rispetto alle cose a cui suo padre e sua madre davano importanza. Lei non avrebbe mai permesso che i suoi figli fossero costretti a sposarsi contro la loro volontà, e avrebbe fatto in modo che si sentissero protetti, e che crescessero imparando il valore del sostegno reciproco, senza che nessuno di loro dovesse sacrificarsi in nome di tutti gli altri.
Certo, per poter riuscire in questo, Diana avrebbe dovuto lottare contro la famiglia del marito, ma sperava ancora che Ettore fosse veramente innamorato di lei, e dunque disposto ad ascoltarla e a rispettarla, soprattutto per quel che riguardava l'educazione dei figli che sarebbero nati.
Per ottenere questo era disposta a salvare le apparenze in pubblico, mantenendo un contegno impeccabile, a partire dalla cerimonia nuziale.
Entrambe le famiglie avevano convenuto sulla necessità di spedire un numero enorme di inviti, per garantire una partecipazione straordinaria all'evento, che ne avrebbe sancito il successo.
E in effetti sia numero dei partecipanti, sia la loro importanza e varietà, furono superiori alle più rosee aspettative.
C'erano i grandi proprietari dei latifondi circostanti, e si trattava di personaggi i cui nobili cognomi erano venerati più degli dei dell'Olimpo nell'Antica Grecia.
Primi tra tutti, i marchesi Spreti di Serachieda avevano persino anticipato l'apertura estiva della loro famosa Villa con tanto di torre, che si trovava nelle vicinanze della chiesa, nel punto esatto dove il torrente Serachieda faceva da confine tra la provincia di Forlì e quella di Ravennna, di modo che Casemurate, già così piccola, risultava pure divisa in due.
E, sia detto per inciso, i casemuratensi di Ravenna si consideravano i più antichi e i più raffinati, facendo risalire le loro origini familiari ai tempi dell'Esarcato bizantino, laddove invece i casemuratensi di Forlì erano considerati come dei barbari discendenti dai Galli Senoni, mandati a lavorare la terra come schiavi dei conquistatori romani.
Ma dall'antica e romana Forum Livii giunsero per quelle nozze famiglie leggendarie, alcune persino citate da Dante, come i Paolucci de' Calboli, che peraltro erano la famiglia natale della contessa madre Emilia, sorella dell'illustre e compianto milite Fulcieri, il cui nome era lo stesso del famoso antenato di dantesca memoria.
Parteciparono anche i conti Zanetti Protonotari Campi, proprietari di antichissimi vigneti da cui la loro azienda produceva vini pregiati di eccellente qualità.
Vennero addirittura i conti Orsi-Mangelli, il cui capofamiglia aveva fondato un famoso setificio.
Grande stupore suscitò la partecipazione dell'anziano conte Leopoldo Gagni di Montescudo, che non usciva di casa da vent'anni e andava a dormire alle sette di sera come i polli. La sua presenza aveva valide motivazioni: essendo vedovo e ormai senza soldi, desiderava risposarsi con una brava ragazza che avesse sostanzialmente due qualità: una buona dote e uno spirito di servizio da crocerossina.
Aveva chiesto consiglio all'unica persona che sapeva tutto di tutti e la cui parola era decisiva in qualsiasi questione: la Signorina De Toschi.
Quest'ultima aveva pensato bene di utilizzare questa unione per accrescere il potere del nascente clan Ricci-Orsini. In men che non si dica, Carolina Ricci, una delle numerose sorelle di Ettore, era stata fidanzata ufficialmente al conte Gagni.
Considerato il prestigio di questi invitati, ad officiare la messa nuziale fu l'allora vescovo di Forlì, Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Giuseppe Maria Caetani, anche lui appartenente a una nobile famiglia romana, per quanto fosse un prelato molto gioviale e alla mano, tanto che i fedeli lo chiamavano affettuosamente "don Pippo" e i maligni Monsignor Panzone.
Sul versante delle autorità politiche, istituzionali, culturali, clericali e militari, la partecipazione fu sollecitata, ovviamente, dalla Signorina De Toschi, autoproclamatasi testimone di nozze della sposa,  e addirittura dal Generale De Toschi in persona, che,  insieme ad un drappello di attendenti e ufficiali in alta uniforme, aveva imposto la presenza del picchetto d'onore, da lui stesso presieduto, con tanto di sfoderamento delle spade all'uscita degli sposi, in deroga a tutte le norme cerimoniali.
L'anziano Generale, fervente monarchico, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine Militare di Savoia e di quello della Corona Italiana, nonché Grande Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, si sentì in dovere di comunicare agli sposi e alle loro famiglie, nonché a gran parte degli aristocratici presenti, che "Sua Maestà il Re, per il tramite di Sua Altezza Reale Maria José, Principessa di Piemonte, rivolge agli sposi e a tutti gli intervenuti le sue più vive felicitazioni".
Mancò poco che questa sbruffonata da miles gloriosus del Generale De Toschi causasse un incidente diplomatico con la milizia fascista, che voleva a sua volta far parte del picchetto d'onore, dal momento che il padre dello sposo, il vecchio Giorgio Ricci, si vantava di essere un amico d'infanzia del Duce, e i suoi figli maggiori, Oreste e Roderico, erano arrivati persino a dare per certa la partecipazione del conte Ciano e consorte, notizia che si rivelò, com'era da prevedersi, del tutto priva di fondamento.
Ma Ettore, che era il meno politicizzato tra i membri della famiglia Ricci, riuscì a convincere il padre e i fratelli a evitare ulteriori spacconate che suscitassero le ironie dei nobili di ben più antico lignaggio e le tensioni con gli stessi conti Orsini di Casemurate, liberali conservatori di vecchio stampo, piuttosto tiepidi di fronte al fascismo.
La gente comune partecipò in massa: i popolani volevano essere testimoni di un evento che sarebbe stato ricordato molto a lungo nei decenni seguenti e che vedeva il trionfo di uno di loro, che per la prima volta entrava a far parte di una famiglia nobile.
Quando videro la sposa incedere verso l'altare al braccio del Conte, suo padre, rimasero stupefatti dall'eleganza sobria dell'abito nuziale e del velo, che, unite al fisico snello e alla pelle diafana, le conferivano quasi l'aspetto di una fata.
Suo fratello Arturo e le sorelle Ginevra e Isabella sapevano bene che dietro a quell'alone sovrannaturale c'era in realtà una grande sofferenza, e di ciò si sentivano in colpa, perché sapevano che, salvando il buon nome e la solvibilità degli Orsini di Casemurate, Diana permetteva a loro di avere ciò che a lei non era stato concesso, e cioè la possibilità di scegliere la persona con cui trascorrere il resto della propria vita.
La contessa Emilia, divorata dall'ansia che potesse succedere qualche disguido dell'ultimo minuto, cercava di smorzare la tensione osservando lo spettacolo offerto dal vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, che osservata la futura nuora con la bocca aperta e mezza sdentata.
Ma il vero spettacolo era offerto dalla Signorina de Toschi: portava un enorme cappello a tesa larga, come quelli delle dame inglesi dell'età edoardiana, tutto inghirlandato di fiori finti e di penne di uccelli, tanto che ci avrebbero potuto nidificare comodamente due coppie di cicogne. Per tener fermo quell'enorme cespuglio piumato, c'era un nastro che passava tra il suo secondo mento e il terzo, al di sotto del quale l'attempata signorina Mariuccia sfoggiava una parure di diamanti che avrebbe fatto invidia a quelle della Corona Britannica. Il resto dell'abito era un'accozzaglia di balze in pizzo e in tulle, inframmezzate da lunghissime collane di perle che le ricadevano fino alla scollatura. Da lì, non essendo possibile far indossare un corpetto a quel corpo così panciuto, partiva un'enorme gonna, con diecimila sottane e un diametro, a terra, di quasi due metri.
A sorvegliare la Signorina, il cui onore era più sacro di quello della sposa, c'era, come si è detto, il Babbo, il grand'uomo, il Generale Ardito De Toschi.
La sua presenza incuteva terrore: era una specie di incrocio tra Bismarck e il Kaiser Guglielmo II, con tanto di baffoni inamidati e arricciati verso l'alto.
Gli occhi erano a tal punto spiritati, e il cipiglio così corrucciato, che il suo solo sguardo era già di per sé una dichiarazione di guerra.
Le decorazioni appuntate sulla sua divisa di generale di corpo d'armata occupavano tutto lo spazio disponibile. Oltre a quelle di cui si è accennato sopra, c'era persino chi giurava di aver scorto la Legion d'Onore, la Croce di Ferro prussiana, il Toson d'Oro di asburgica memoria e addirittura la stella dell'Ordine della Giarrettiera.
Tra le innumerevoli le medaglie al valor militare e civile, spiccavano le mostrine e i galloni del grado di comando, a commemorare con gloria le sue gesta immortali.
La sciabola tintinnava al suo fianco, ogni volta che il vegliardo si alzava e si sedeva, ma non si inginocchiava mai, adducendo come causa una fastidiosa artrosi: in realtà era un uomo talmente orgoglioso che, pur essendo credente, riteneva che lui e Dio potessero guardarsi negli occhi, l'uno di fronte all'altro, da pari a fari.
Non meno orgogliosi erano i parenti dello sposo, a cominciare da sua madre, la maestra Clara Ricci, i cui intrighi erano stati degni di una specie di Guerra delle Due Rose, tanto che, nel porle un cenno di saluto, il conte Achille non poté fare a meno, per un istante, di paragonarla a Margaret Beaufort, la madre di Enrico VII Tudor, nel giorno in cui il re sposava l'erede della dinastia sconfitta, la principessa Elisabetta di York.
Preferì tuttavia non soffermarsi sulla sorte degli altri York sopravvissuti, tutti destinati a cadere, uno dopo l'altro, sotto i colpi di mannaia dei Tudor.
Al passaggio di Diana, ci fu grande silenzio non solo nella navata di destra, dove sedevano i nobili, ma anche in quella di sinistra, dove si trovava la famiglia dello sposo, e tutti i personaggi, di non poco conto, collegati al grande clan dei Ricci.
Ettore si era strategicamente collocato su un gradino più in alto, in modo da rendere meno evidente la propria bassa statura.
Aveva lo sguardo soddisfatto di un re che stava per essere consacrato e legittimato agli occhi di un popolo che per troppo tempo non aveva creduto in lui.
Oreste Ricci, suo fratello maggiore, gli faceva da testimone di nozze.
A differenza di Ettore, che assomigliava più al padre, Oreste aveva i capelli rossicci della madre, che lo adorava a tal punto da fargli avere l'incarico di vicedirettore dell'Azienda Meccanica Ricci, specializzata nella produzione, all'avanguardia per l'epoca, di macchinari agricoli.
Gli altri fratelli e sorelle dello sposo erano come in attesa di spartirsi una torta, e non era soltanto quella nuziale.
Roderico, considerato l'intellettuale di famiglia in quanto diplomato all'istituto tecnico agrario, aveva un carattere talmente insopportabile che, qualche anno prima, la moglie era fuggita dal talamo coniugale dopo soli due giorni di matrimonio. Da allora il suo umore era divenuto talmente collerico che persino un cane ringhioso sarebbe apparso un moderato, in confronto a lui.
Caterina era insieme al marito, l'avvocato Edoardo Baroni, esponente dell'Azione Cattolica con ottime aderenze e relazioni nella Curia forlivese.
Maria Teresa era fidanzata con il vice-ispettore della polizia Onofrio Tartaglia, di ferrea fede fascista.
Carolina osservava vecchio il conte Gagni con una certa apprensione, facendosi forza al pensiero che sarebbe presto diventata una vedova rispettabile ed economicamente indipendente.
Adriana, l'ultimogenita, era stata scelta dalla madre come "bastone per la vecchiaia", e dunque destinata al nubilato, non fosse altro che per il suo aspetto non proprio attraente e per il carattere alquanto burrascoso.
Vicino alla famiglia Ricci, c'erano anche i coniugi Braghiri, entrambi nel contempo divorati dall'ambizione e illividiti dall'invidia.
Vedendo tutta la sfilata di nobili che, come divinità celesti, erano scese dall'alto dei mondi sereni calandosi in quell'atomo opaco del male, i Braghiri, nel cui sangue il male scorreva come un nutrimento, sentivano rinnovarsi nel cuore la bramosia di impadronirsi di tutto, con qualunque mezzo, a qualunque costo.
Tale è la brama del successo, il quale come una droga crea dipendenza e corrompe il corpo e la mente di chi lo insegue, rendendolo disposto a fare qualsiasi cosa pur di conservarlo e accrescerlo.
Ben pochi riuscivano a salvarsi da quel demone, e se ce la facevano era solo perché protetti dall'unica medicina che rendeva felici e immuni dalle ansie, e cioè la stupidità.
Uno stupido di successo è felice perché è stupido, a prescindere dal successo stesso.
Una persona intelligente, al contrario, può diventare un mostro se la droga del successo mette radici troppo profonde nella sua anima.
Diana aveva appreso tutto questo da molto tempo.
Sua madre, nei momenti di sincerità indotti dall'alcool, aveva confessato che era stata la brama di successo a rovinare la loro famiglia, e quando la figlia le chiedeva se sarebbero mai più riusciti ad essere felici, lei aveva riso: "Felici? E che cos'è la felicità, se non il premio di consolazione degli idioti?".
Diana aveva obiettato che quella frase avrebbe potuto offendere tante persone intelligenti che si ritenevano felici.
La contessa Emilia aveva scosso il capo: "Non sono felici, mentono a se stessi, e si offendono perché noi smascheriamo la loro menzogna".
"Dunque conoscere la verità rende infelici?"
"Nei limiti in cui la verità è conoscibile".
Tutte quelle parole tornarono alla mente della sposa, durante quella tediosa cerimonia.
Quando si giunse alla fatidica domanda "Vuoi tu, Diana, prendere il qui presente Ettore come tuo legittimo sposo, per amarlo e onorarlo... "  il silenzio calò nella chiesa.
Se avesse potuto dire la verità, la risposta sarebbe stata negativa.
Ma Diana aveva imparato che, per quanto dire la verità sia generalmente una cosa giusta, ci sono casi in cui può scatenare la fine del mondo, e sarebbe sbagliato provocare la fine del mondo in nome di una cosa giusta.