martedì 6 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 12. Diana Orsini e la Signorina De Toschi

Diana Orsini non poteva ignorare una convocazione ufficiale da parte della signorina De Toschi, i cui innumerevoli agganci nell'Alta Società erano necessari per far fronte alla situazione di crisi finanziaria in cui si trovava la sua famiglia.
L'invito si estendeva anche alla madre, la contessa Emilia.
Vennero ricevute, come sempre, dalla cameriera Assuntina, la madre del parroco, nella stanzetta degli ospiti, nel gelido seminterrato del Villino De Toschi.
Nessuno, tranne il personale di servizio, era mai stato ammesso ai piani superiori.
Gli appartamenti privati della professoressa Mariuccia De Toschi erano, come si è detto, un Sancta Sanctorum inaccessibile da parte dei comuni mortali, escluso, naturalmente, il Babbo... il Generale.
Dopo il classico quarto d'ora accademico, la De Toschi comparve in tutta la sua massiccia imponenza, con il faccione obeso pesantemente truccato, gli occhi da batrace fuori dalle orbite, l'immancabile sigaretta nella mano destra e l'altrettanto immancabile fazzoletto da naso nella mano sinistra. 
L'espressione del suo viso era sdegnata e nel contempo teatralmente affranta.
Sia Diana che la contessa Emilia si alzarono in piedi, come se fosse entrato il Papa.
La signorina De Toschi ne fu compiaciuta.
«Avete fatto bèene a rivolgervi a mée» disse col solito accento toscano fasullo.
La contessa Emilia, colma di gratitudine, le baciò la mano, quella del fazzoletto umido:
«Vi ringrazio per averci ricevute, so che il vostro tempo è così prezioso. Ma per noi era un'emergenza: e quando la situazione si fa critica, il mio primo pensiero è sempre: “non c’è che la Signorina!” Lei è l’unica che ha l’autorità morale, culturale»
La signorina De Toschi si schermì agitando il fazzoletto come un aspersorio, ma lasciando trapelare un certo compiacimento e una malcelata aria d’importanza.
«Per mée Diana è come una figlia…» e guardò con occhio possessivo la ragazza «e i Conti Orsini so’ i parenti della mi’ povera mamma» (e qui sospirò, indicando con il fazzoletto bagnato una vecchia foto della compianta Violetta Orsini, coniugata De Toschi).
La contessa Emilia si unì al sospiro e aggiunse:
 «Che Dio benedica la sua anima, e che possa intercedere per noi, in questa valle di lacrime>> commentò la contessa Emilia, e poi tornò al punto <<Il fatto è che Diana si è intestardita: non vuole più vedere il signor Ricci e nemmeno sentirne parlare>>
Mariuccia De Toschi spalancò i grandi occhi da rospo: 
«Cosa? Ma stiamo scherzando?» e fulminò Diana con lo sguardo divenuto paonazzo.
Temendo che la Signorina potesse fare una scenata senza conoscere i dettagli, la contessa Emilia intervenne: «Purtroppo, non è affatto uno scherzo. Se Diana continuerà a rifiutare la proposta di matrimonio da parte di Ettore Ricci, il padre di lui farà valere le ipoteche sul Feudo e sulla Villa, e ci sbatterà fuori di casa»
La signorina De Toschi scosse ripetutamente il testone, mentre le gote e il doppio mento tremolavano e la sigaretta che teneva nella mano destra faceva cadere tutta la polvere sul tavolino di mogano.
Poi, con aria solenne, esclamò:
«Nooo! Nooo! Dio liberi da certe idee! Il buon nome degli Orsini non dovrà mai essere macchiato da uno scandalo del gèenere! Io non potrei mai permetterlo, ne va anche della mia reputazione… Gli Orsini ridotti sul lastrico? Non sia mai detto!
Ricordatevi che in questi momenti di difficoltà io ci sono sèempre!»
Diana fraintese il discorso:
<<Intende dire che ci concederà un prestito?>>
Il volto della De Toschi da paonazzo divenne viola.
Un'idea del genere non le era passata nemmeno per l'anticamera del cervello.
Il solo pensiero che qualcuno potesse anche vagamente immaginare di disporre sia pure di un solo centesimo del suo immenso patrimonio, accumulato tramite eredità, emolumenti paterni, lezioni private fino a notte fonda, ma soprattutto per mezzo di un'inflessibile applicazione dell'arte della spilorceria e dello scrocco, le provocò quasi un colpo apoplettico.
Ci volle qualche secondo per riprendersi dallo shock.
Infine, sfoderò lo sguardo melodrammatico delle grandi occasioni e si preparò a recitare uno dei suoi cavalli di battaglia.
Gli occhi le lacrimavano, le dita tremavano, il naso si inumidiva, l'espressione del suo volto assunse un'aria derelitta di compiaciuta autocommiserazione:
<<Ah, bambina cara, mi piacerebbe tanto, ma purtroppo io so' povera. 
Eh, sì... so' povera, ma avvezza a viver nel pulito. 
Ora spiegami perché insisti nello spezzare il cuore a quel povero ragazzo, che tra l'altro è così ben piantato che se solo fossi un po' più giovane e il mi’ babbo fosse d’accordo… me lo sposerei io!>>
Diana, conoscendo i gusti dozzinali della De Toschi, non ne aveva dubbi.
«Io non lo amo»
La signorina Mariuccia rimase per un attimo indecisa se ridere o indignarsi, poi alla fine scoppiò in una risata la cui eco fu avvertita a tre isolati di distanza.
Rise a tal punto che poi fu colta da un attacco di tosse, che si risolse in un epico sputo nel fazzoletto.
«Eh, cara mia!» sbottò mentre piegava in quattro il fazzoletto imbrattato «mica si può pretendere che arrivi il principe azzurro a prendersi i debiti degli altri!
E poi cosa ne sai tu dell'amore? Ami forse qualcun altro? Dillo! Sai che a mmméee puoi dire tutto!»
Diana scosse il capo:
<<Non c'è nessun altro. Ma un giorno potrebbe esserci>>
Un'altra risata della De Toschi la travolse, ma per fortuna non degenerò nella tosse catarrosa precedente:
«Un giorno? Ma tu sei in età da marito adesso! Se lasci passare questo periodo, non ti vorrà più nessuno!» 
<<Meglio soli che male accompagnati>>
La Signorina si oscurò in volto e si preparò a recitare un altro pezzo forte del suo repertorio teatrale:
<<Tu non sai niente neanche della solitudine! Dell'andare a dormire in un letto freddo, del sentire la mancanza di un abbraccio, del trascinarsi nella vecchiaia senza fremiti, senza palpiti, senza neanche un momento di tenerezza umana>>
Commossa dalla sua stessa interpretazione d'arte drammatica, si soffiò violentemente il naso, sempre più costipato.
Poi si ricompose e con voce più salda riprese:
<<E comunque, mia cara, qui non si tratta di una questione d'amore, o di romanticismo, ma di matrimonio, il che è tutta un'altra cosa>>
A Diana sarebbe piaciuto chiedere a quella vecchia zitella cosa ne sapesse lei, del matrimonio, ma non era nel suo stile colpire con colpi bassi.
La De Toschi continuava a pontificare:
<<Il matrimonio è un sacramento, ma è anche un contratto. Non a caso il sostantivo femminile matrimonio va di pari passo con quello maschile di patrimonio E' il fondamento della nostra civiltà, come dice sempre il Babbo. Non a caso gli antichi Romani consideravano inscindibili i due concetti>>
E poi sferrò il colpo finale:
<<Del resto, senza un adeguato patrimonio, dovrai mettere da parte le tue abitudini da ragazza viziata, il tuo atteggiamento di superiorità, il tuo tenere a distanza le persone...>>>
Diana la fissò negli occhi, perché questa volta era stata punta sul vivo:
«Non è per presunzione che tengo a distanza la gente. 
E' che non voglio affezionarmi, perché non voglio soffrire. Chi si affeziona si pone fin da subito in una condizione di inferiorità. Chi si affeziona è ricattabile. 
L'attaccamento genera la paura di perdere ciò a cui siamo affezionati. 
La paura di perdere ciò che si ama genera la rabbia. La rabbia genera il rancore e la guerra.
Io non voglio seguire questo cammino. Lo hanno seguito i miei avi, ma io non lo seguirò. 
Ci sono molti modi di intendere la nobiltà... e questo modo mi ripugna!» 
La De Toschi aspirò profondamente dalla sigaretta.
In quel discorso aveva visto una deliberata offesa al Generale De Toschi, il che era peggio che bestemmiare Dio in persona.
Il silenzio era totale. L'aria greve di fumo.
Puntò il dito e il fazzoletto contro di lei e sfoderò il suo ennesimo monologo ad effetto:
<<Tu! Tu della rea progenie degli oppressor discesa... non è così? 
Non l'hai forse appreso in questa stessa stanza il Coro dell'Adelchi? 
In un certo senso è anche colpa mia se ti sei messa in testa certe idee strampalate. 
Ma se da qui è venuta la malattia, da qui verrà la guarigione!
Tu non sei Ermengarda, non ci saranno per te i tepidi lavacri d'Aquisgrano...
Tu non sei nessuno! Hai capito? 
Nessuno! 
Ricordatelo bene, perché è questo ciò che il mondo ti dirà, se continuerai a intestardirti.
Sai, io non riesco proprio ad immaginare come saresti se fossi povera.
Una come te, schizzinosa come te, non ce la vedo a vivere in un tugurio, e non solo téee, ma anche i tuoi genitori, i tuoi fratelli, le tue sorelle... 
E tutto per un capriccio insensato!»
Espirò una nube di fumo che, come nebbia, rese ancora più minacciosi i contorni del suo volto.
Diana guardò fuori dalla finestra, nel cortiletto ghiaioso e arido del Villino De Toschi, dove nemmeno la gramigna riusciva a crescere.
Cercò di prendere tempo:
<<Se fosse per me, sceglierei la libertà, a qualsiasi costo. Ma sento di non poter condannare le mie sorelle a questa stessa sorte. Sono ancora troppo giovani. Non capirebbero.
Però voglio che anche loro si rendano conto di com'è fatto Ettore.
Per questo concederò ad Ettore Ricci una seconda possibilità: se vorrà passare in visita a Villa Orsini, tutta la famiglia lo riceverà e cercherà di conoscerlo meglio>>
Un sorriso sornione si dipinse sul volto da ippopotamo della signorina De Toschi, che fece un cenno alla contessa Orsini, come per dire: "Vede... la mia autorità morale, culturale..."
Poi esplose in un'esclamazione:
<<Bèeeene, bèeeeeeene!!!>>
E si alzò, considerando terminata l'Udienza.
La Contessa le baciò la mano, che teneva ancora, tra le dita, il fazzoletto pieno di virus e di microbi.
Diana fu costretta a baciarle la gota dipinta di terra di Siena pesante e screpolata, su una peluria giallastra.
L'odore del fondotinta misto a quello del fumo e del fazzoletto le fece venire la nausea.
O forse era tutta quella situazione.
O la vergogna di aver ceduto a un ricatto per paura della povertà.

Vite quasi parallele. Capitolo 11 Chi viene e chi va


Pochi giorni dopo la nascita del primogenito di Romano Monterovere e Giulia Lanni, nell'ottobre 1938, le condizioni di salute della madre di Giulia si aggravarono.
La signora Elisa Lanni soffriva infatti di un'insufficienza cardiaca e dissezione aortica.
All'epoca non si poteva intervenire chirurgicamente, pertanto la situazione poteva precipitare da un momento all'altro.
Giulia sapeva che a sua madre restavano solo pochi giorni di vita: le portò il bambino appena nato, a cui era stato dato il nome di Francesco, in onore dell'ingegner Lanni.
Enrico Monterovere non aveva nascosto il suo disappunto e pretese che il prossimo figlio si sarebbe dovuto chiamare Enrico, o Enrichetta nel caso, per lui malaugurato, che fosse nata una femmina, come poi, per l'appunto, avvenne.
Nonostante l'estrema debolezza, la signora Elisa accarezzò il piccolo nipote.
Poi, con grande fatica, a voce bassa e roca, disse:
<<Una vita incomincia e una vita finisce. Una vita per un'altra vita. E' una ruota che gira. Ora tocca a te, piccolo mio>>
Essendo una donna istruita e interessata ai grandi temi della vita e della morte, volle prendere congedo con parole che rispecchiavano il suo pensiero.
Così, rivolgendosi alla figlia, al marito e al genero, sussurrò:
<<Come disse un antico saggio: è tempo di andarsene, io a morire e voi a vivere. Quale sia la sorte migliore, nessuno lo sa. Pertanto non piangete per coloro per i quali è giunta l'ora. Riservate le lacrime per i vivi, perché ci sono cose ben peggiori della morte>>
Quel discorso l'aveva stancata.
Chiuse gli occhi e si assopì.
Poco dopo entrò in un sonno sempre più profondo, e gli unici suoni che emetteva furono i terribili rantoli che soltanto chi ha accudito un moribondo può riconoscere come segnale della fine.
Giulia rimase a vegliare la madre fino a che non si spense, il mattino dopo.
Non poteva sapere che un giorno anche lei, prematuramente, sarebbe andata incontro alla stessa sorte, per la stessa malattia.
Né poteva sapere che si trattava di una malattia ereditaria, che si trasmetteva con elevata probabilità dai genitori ai figli.
E mai avrebbe immaginato che anche il figlio che teneva in braccio, un giorno, si sarebbe ammalato allo stesso modo, ma a differenza della madre e della nonna, si sarebbe salvato più volte, grazie alle nuove cure e agli interventi chirurgici, riemergendo dalle anestesie felice per essere ancora in vita e poter vedere il futuro.
A differenza di suo padre e nonostante le difficoltà a cui andò incontro, Francesco era un amante della vita, forse perché riusciva a rimuovere facilmente i brutti ricordi.
Giulia si trovava a metà strada tra la concezione radicalmente pessimista della madre e del marito, e quella possibilista e curiosa del figlio.
Ripensò spesso alle ultime parole di sua madre.
Le ponderò con attenzione nella sua mente, serbandole nel suo cuore, ma non le condivise del tutto, perché sperava per suo figlio e i gli altri figli e nipoti che sarebbero arrivati col tempo, potessero vivere in tempi migliori, e avere più opportunità, e forse, chissà, magari anche un destino importante.
In fondo i Monterovere avevano, nonostante suo marito volesse negarlo, una strana vocazione per le avventure e le epopee dinastiche.
Pensò ai discorsi di suo suocero sul castello di Monterovere Boica, vicino al villaggio di Querciagrossa: secondo il vecchio Enrico, la sua famiglia discendeva da un ramo decaduto degli antichi castellani, di origine longobarda e prima ancora celtica.
E a questo discorso si mescolavano le leggende del bisnonno Ferdinando disarcionato all'Orma del Diavolo, l'apparizione degli elfi dei boschi, le peregrinazioni raminghe di Enrico, la sabbia del deserto portata da Romano, dopo la guerra d'Africa, con gli occhi ancora pieni del colore dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Verso dove faceva rotta una simile Odissea?
Qual era la Terra Promessa verso cui si dirigeva la nuova generazione della famiglia Monterovere?
E infine, dove avrebbe fatto naufragio questa nave?
Perché prima o poi, nella vita, si fa sempre naufragio.

venerdì 2 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 10. La Signorina De Toschi

Dopo il catastrofico primo incontro tra Ettore Ricci e Diana Orsini presso il famoso Salotto Liberty, entrambe le famiglie si riunirono per fare il punto della situazione.
Diana aveva giurato e spergiurato che mai e poi mai si sarebbe fidanzata, e tantomeno sposata, con quel "rozzo e strambo personaggio". Piuttosto si sarebbe fatta monaca di clausura.
La governante, Ida Braghiri, aveva subito riferito queste parole al padre di Ettore, di cui era la "quinta colonna" all'interno della Villa Orsini.
Quando i due patriarchi si trovarono faccia a faccia, il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci si dichiarò offeso, e dopo una serie di imprecazioni irriferibili, asserì, con grande scandalo del Conte Attilio, di essere felice che suo figlio Ettore non fosse un damerino effeminato come i figli dei nobili e aggiunse che non era affatto "strambo", semmai lo erano gli Orsini, che avevano sperperato il loro patrimonio in cose assurde e moralmente discutibili.
Dopo questo affronto, il Conte si era tolto il guanto bianco e stava per sfidarlo a duello, quando le rispettive consorti intervennero per evitare il peggio.
E così la diplomazia si rimise all'opera.
Clara Ricci ed Emilia Orsini, preso atto della gravità della situazione, e del fatto che comunque quel matrimonio "s'aveva da fare", si trovarono d'accordo su un punto fondamentale, e cioè che esisteva un'unica persona in grado di far cambiare idea alla giovane Diana.
Questo pensiero venne espresso da entrambe all'unisono:
<<In questi casi non c'è che la Signorina>>
Questa affermazione, dai vaghi echi manzoniani (si pensi alla Monaca di Monza), trovò concordi anche i mariti, che nutrivano per la suddetta Signorina  una sorta di venerazione simile a quella che gli antichi Romani tributavano a Giunone Pronuba.
Occorre dunque conoscere bene questo carismatico personaggio.
Ospite fissa agli eventi mondani dell’Alta Società, la signorina Mariuccia De Toschi era un’attempata nubile di buona famiglia e, per parte di padre, di ostentate origini toscane (anche se tutti sapevano che era nata e cresciuta a Forlì), unica figlia ed erede del glorioso generale Ardito De Toschi e della compianta nobildonna Violetta Orsini di Casemurate, cugina del Conte Attilio.
Di Violetta Orsini quasi nulla si sapeva, essendo morta di tisi poco dopo aver dato alla luce la figlia Mariuccia. Del resto la stessa Violetta aveva sempre sostenuto che una donna onesta di buona famiglia compare solo tre volte nei giornali: quando nasce, quando si sposa e quando muore.
E così fu.
Del generale De Toschi, invece, erano note tutte le gesta, decantate dalla moltitudine di attendenti succedutisi al suo servizio, per poi elevarsi verso luminose carriere nei più svariati ambiti dell’Alta Società.
Ardito De Toschi, nato a Pistoia nel 1865, era stato in gioventù allievo ufficiale all’Accademia di Modena, poi tenente ai tempi di Crispi nella Guerra di Eritrea e Somalia, capitano nella guerra di Libia, colonnello durante la Grande Guerra '15-18, Cavaliere di Vittorio Veneto (medaglia d’oro, secondo le leggende più accreditate). Generale di brigata nella Guerra d'Etiopia, era all'epoca comandante del contingente italiano nella guerra civile spagnola a fianco dei sostenitori di Francisco Franco (“il babbo salverà la Spagna dai comunisti” soleva rammentare sua figlia) e aveva da poco ottenuto il grado di generale di corpo d'armata.
Tra una guerra e l'altra, il Generale aveva acquistato una palazzina, subito denominata Villino De Toschi, a Forlì, la città più vicina al Feudo che portava il cognome della sua defunta moglie.
E proprio a Forlì sua figlia Mariuccia aveva studiato e ottenuto l’incarico di docente di Latino e Greco presso il Liceo Classico, anche se in seguito avrebbe negato l'evidenza, dando a intendere di avere compiuto tutti i suoi studi in Toscana, risciacquando così "in Arno" quello che lei giudicava il volgare dialetto gallico dei Romagnoli.
Ostentava infatti un eloquio esageratamente toscano che avrebbe stupito persino il Sommo Dante.
E tuttavia c'erano molti testimoni del fatto che la Signorina aveva studiato prima a Forlì e poi a Bologna, alloggiando presso il Collegio delle Sorelle del Sacro Cuore.
Nessuno però avrebbe mai osato contraddirla, per non incorrere nelle ire del suo anziano, potente e militaresco genitore.

Riguardo proprio al potere del Generale De Toschi (basato più sulle conoscenze personali che sulla politica), a Forlì circola ancora questo simpatico aneddoto.
Dopo la laurea in Lettere Classiche a Bologna nel 1913, la signorina Mariuccia aveva sostenuto a Roma il concorso per la docenza superiore: in tale occasione, agli orali, ella sarebbe stata accompagnata “dal babbo” in alta uniforme e decorazioni civili e militari, che con aria cupa e vagamente minacciosa avrebbe così apostrofato (con spiccato accento toscano) la commissione d’esame: «Chodesta è la mi’ unicha figliola! Che Dio la benedicha! Trattatemela bene o chonoscerete la lealtà degl’atthendhenti del scenerale De Toschi!»
Inutile dire che la “cara figliola” passò l’esame col massimo dei voti e ottenne subito la docenza e la cattedra a due passi da casa sua.
Alcuni dei suoi primi studenti giuravano che la Signorina, all’inizio della carriera fosse bellissima: si elogiavano le sue lunghe trecce bionde acconciate sul capo, gli occhi color acquamarina, e il fisico perfetto.
Non tutti però erano dello stesso parere e, pur guardandosi bene dallo sfatare quel mito in pubblico, confessavano che già allora la Signorina tendeva alla pinguedine, ed i suoi occhi sporgenti, per quanto vagamente azzurrognoli, non ricordavano di certo il mare o l'oceano.
Il passare del tempo non migliorò la situazione, che anzi risentì del micidiale appetito e del feroce tabagismo dell'eccellente Signorina.

Negli Anni Trenta, quando Diana Orsini incominciò ad andare a ripetizione di Latino e Greco da lei, (non che ne avesse bisogno, ma la Signorina ci teneva molto, volendo rinsaldare i rapporti col Conte Attilio) la trovò obesa, massiccia come un ippopotamo, gonfia, catarrosa e afflitta da raffreddori perenni, aggravati dalla bronchite cronica da fumo (“con una mano teneva la sigaretta e con l’altra il fazzoletto da naso”).

Per quanto fosse estremamente timorata di Dio e fervente cattolica, la Signorina non si faceva mancare nessuno dei sette peccati capitali.
Per compiacere nel contempo la gola e l'avarizia, si faceva invitare a cena ogni sera a scrocco da una delle infinite famiglie di amici, parenti, ex studenti ed ex attendenti del "Babbo".
Che fosse una forchetta da competizione era cosa arcinota: in particolare era ghiotta di salumi e insaccati, e tra i regali più graditi che potesse ricevere vi erano prosciutti, mortadelle, cotechini, zamponi e salsicce, o, come diceva lei, alla toscana: “salcicce”.
Diana l’aveva imparato a sue spese.
Una volta infatti, pensando di farle cosa gradita, le aveva regalato per Natale alcuni libri di cultura letteraria e classica. La signorina Mariuccia, gelida e quasi offesa, non aveva neppure scartato i pacchi. Il Natale successivo alcuni giurarono di avere ricevuto gli stessi pacchi in regalo dalla signorina.
Per Pasqua, Diana le aveva regalato una spilla: questa volta la Signorina aveva mostrato un qualche segno di apprezzamento, ma subito prevalse la superstizione, e l'eccellente Mariuccia, quasi in lacrime, dichiarò che, onde evitare che il regalo portasse sfortuna, c’erano solo due soluzioni: o lei stessa avrebbe dovuto dare 5 centesimi a Diana, oppure avrebbe dovuto farsi pungere dalla spilla.
Preferì farsi pungere.
Diana, che aveva capito l’antifona, il Natale successivo le regalò un cesto pieno di salumi e formaggi, e la signorina la baciò e l’abbracciò più volte, piangendo a dirotto per la gioia.

A scuola era il terrore dei suoi allievi, a meno che non fossero di famiglia altolocata, mentre con quelli che venivano a lezione privata soleva mostrarsi materna, specialmente se erano figli di medici, avvocati, notai, dentisti, ma anche, non si sapeva mai, di idraulici, elettricisti, muratori e altri professionisti di comprovata utilità.
Teneva le ripetizioni tutto il pomeriggio in uno stanzino freddissimo e scomodo, a piano terra del Villino De Toschi.
Nessuno, tranne i domestici, ebbe mai accesso al piano nobile, il “sancta sanctorum”, dove in seguito l’anziano generale-padre avrebbe trascorso la sua dignitosa vecchiaia.
Alle 5 in punto del pomeriggio la governante, signora Gelsomina, madre del parroco, le portava il tè e le sigarette.

Ogni mattina la signorina Mariuccia e la signora Gelsomina si recavano a messa alle 6, con la carrozza di proprietà dei Conti Orsini, mandata apposta quotidianamente dalla loro Villa di Casemurate, poiché la Signorina, pur essendo benestante, non intendeva scialacquare denaro in mezzi di trasporto 
Dopo la Santa Messa, le due pie donne si recavano al cimitero, a portare fiori sulla tomba della defunta Violetta Orsini, madre della Signorina.
Poi, con l’anima monda dai peccati, l'eccellente Mariuccia si recava al lavoro, al Liceo Classico a terrorizzare i malcapitati studenti con spietate interrogazioni sulla consecutio temporum o sulla coniugazione dell'aoristo greco.
Se prendeva in antipatia uno studente, per lui era finita. Tartassato, rimandato, bocciato, costretto a cambiare istituto, quasi sempre lo sventurato finiva per abbandonare gli studi.
Se al contrario prendeva uno studente in simpatia, costui si diplomava a pieni voti, e gli si apriva un avvenire florido, sostenuto dai vari “attendenti del babbo” infiltrati in ogni angolo dell’Alta Società.
In verità la signorina De Toschi, pur essendo in grande amicizia con i vecchi notabili liberali (ai quali faceva capire strizzando l’occhiolino che era ancora dalla loro parte). e pur ricordando ai cattolici e ai monarchici di giurato eterna fedeltà solo e soltanto al Papa e al Re (come aveva confidato ad un imprecisato numero di “attendenti del babbo”), ostentava pubblicamente il gagliardetto fascista.

Ma non era tanto il voto politico a costituire il grande mistero della signorina De Toschi, quanto la sua vita sentimentale.
Su questa materia si favoleggiavano le più disparate leggende.
Innanzi tutto era assodato che la Signorina aveva una speciale attrazione per gli uomini giovani e robusti, in genere lavoratori manuali, meglio se poco istruiti.
Ai tempi dell’università aveva preso una sbandata per un aitante giovanotto, che ella presentò al padre prima come studente di ingegneria, poi come geometra di successo, infine, quando la nuda verità non poteva essere più nascosta, come "libero" muratore iscritto alla Massoneria e infine come manovale a cottimo.
Di costui non si seppe più niente, anche se molti dicono che una sera fu preso a bastonate da alcuni individui non identificati.

Il secondo grande amore della Signorina fu, manco a dirlo, un altro muratore, che era vedovo di una collega con gli stessi gusti “ruspanti”, che era stata, per anni, la sua migliore amica.
Costei si chiamava Liliana e il marito Priamo o Priapo…non è dato sapere con esattezza, comunque si diceva che fosse un nome ben rappresentativo del personaggio e alcuni si spingevano persino a ipotizzare che all'origine di tutto vi fosse non tanto un errore di qualche impiegato dell'anagrafe, quanto piuttosto lo scherzo di un prete burlone, rimasto impressionato dagli attributi del neonato da battezzare.
Fintanto che Liliana era in vita, invitava a pranzi luculliani la vorace signorina De Toschi, la quale, non paga di ingozzarsi di tortellini e piadine al salame, si mangiava con gli occhi pure il carissimo Priapo.
Accadde poi che la signora Liliana morisse di una leucemia fulminante.
Da quel momento la signorina De Toschi fu in prima fila a consolare l’inconsolabile vedovo.
Dopo alcuni mesi la si vide indossare la pelliccia che era stata della signora Liliana, e poi la collana di turchese, sempre della defunta, e gli orecchini di corallo, e il collier d’oro bianco e via dicendo.
Quando ormai l’intera eredità della compianta Liliana fu trasferita nel Villino De Toschi, escluso il vedovo, la grande storia d’amore si affievolì, sia perché “il Babbo non voleva”, sia, secondo altri, perché le doti priapiche del suddetto Priapo non soddisfacevano abbastanza l'insaziabile ninfomania della stagionata Signorina.
A quel punto Mariuccia De Toschi, che mai si sarebbe accontentata di sublimare nelle lettere classiche o nella devozione religiosa i suoi consistenti appetiti, mise gli occhi addosso al marito di un'altra sua amica di vecchia data, conosciuta negli anni del collegio al Sacro Cuore.
Questa amica altri non era che la maestra Clara Vallicelli, coniugata Ricci.

Come già detto, suo marito Giorgio detto "Zuarz", il cui irsutismo ipertricotico denotava una debordante presenza di testosterone nel suo organismo, aveva leggendarie doti priapiche, testimoniate da un numero imprecisato di figli bastardi.
La virilità di Zuarz era oggetto di rispettosa venerazione. Persino suo figlio Ettore ricordava di averlo visto nudo una volta che faceva il bagno in una tinozza nella penombra del tugurio adibito a lavanderia. Per quanto buio fosse l'ambiente, avrebbe giurato sulla sua stessa testa che i testicoli del vecchio padre fossero grossi come uova di piccione. Per decenza si taceva della lunghezza del membro.

La signorina De Toschi non dimenticava le ore di sollazzo che Giorgio Ricci le aveva regalato, ed era sempre pronta a ricambiare il favore.

Per questo fu deciso che a parlarle sarebbe stata la maestra Clara, che pur avendo sempre portato le corna con grandissima dignità, fingendo di non sapere nulla, poteva comunque, implicitamente s'intende, minacciare di rivelare lo scandalo.
La scaltra signora Ricci spiegò alla venerabile Signorina De Toschi quanto fosse doloroso, per la sua famiglia, l'ostinato rifiuto di Diana Orsini nell'accettare il corteggiamento di Ettore Ricci.
Nel parlare di questo, accennò anche ai debiti del Conte verso il vecchio Zuarz.
Mariuccia De Toschi, che conosceva già la storia nei minimi particolari e voleva a tutti i costi che una fetta del patrimonio degli Orsini toccasse anche a lei, non aspettava altro per poter far valere ancora una volta la propria autorità.
Annuì vigorosamente, facendo tremolare tutta la pappagorgia, poi espirò una nube di fumo di tabacco, sollevò un indice verso il cielo e disse: <<Ci penso io!>>

giovedì 1 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 9. Com'era verde la mia valle

Giulia Lanni e Romano Monterovere iniziarono a frequentarsi, presso la residenza dell'ingegner Lanni a Faenza, a partire dal 1938.
Erano entrambi timidi, taciturni e riservati, come quel genere di persone che attraversano la vita ad occhi bassi, in punta di piedi, per salvaguardare la quiete nella quale si rifugiano al fine di sfuggire ai dolori del mondo.
Questa affinità fu forse uno dei motivi che favorì il nascere di una amicizia che si trasformò in un sentimento e poi in una frequentazione ufficiale.
All'inizio passeggiavano per il centro di Faenza, a braccetto, e Giulia cercava di farlo parlare, per trovare una conferma a ciò che aveva intuito.
Da persona profondamente sensibile, Giulia percepiva in lui un vago malessere che aveva radici lontane nel tempo.
Doveva esserci stato, nell'infanzia di Romano Monterovere, un periodo in cui era stato pienamente felice e innocente, seguito da un momento in cui aveva perduto qualcosa, qualcosa che amava.
<<Ti manca la tua terra d'origine?>>
Lui annuì subito con vigore:
<<Sì, molto, e se fosse stato per me, non avremmo mai lasciato la nostra casa in collina, vicino al bosco. Mio nonno era un boscaiolo, stava sempre tra gli alberi. Si procurava la legna solo dai rami secchi, o dagli alberi che stavano morendo. Non abbatteva mai un albero sano. Mai>>
Giulia era contenta di aver trovato un argomento in grado di farlo parlare, di confidarsi.
Sentiva di essere vicina a scoprire l'evento traumatico che aveva creato una prima crepa nella personalità di Romano.
<<La scelta di tuo nonno fu ammirevole>>
Lui scosse il capo:
<<I nostri compaesani la pensavano diversamente. La legna non era mai abbastanza, o era di qualità scadente, secondo loro. Incominciarono a parlar male di mio nonno e di tutta la nostra famiglia. Dicevano che... ah, ma è una cosa assurda, non è nemmeno il caso di parlarne>>
Giulia invece era molto interessata:
<<Perché no?>>
<<Perché erano delle sciocchezze. Dicevano che mio nonno fosse un pagano, una specie di stregone, che adorava gli alberi, in particolare le querce. Circolavano storie strane su un posto maledetto, dove i Galli adoravano un'antica quercia, che secondo alcuni ha dato il nome al paese dove abitavamo: il villaggio di Querciagrossa.
Superstizioni ridicole! Ma sono servite a concentrare su mio nonno l'odio dei paesani. 
Io credo...>>
Poi si fermò: aveva gli occhi lucidi.
Lei non voleva farlo soffrire, ma forse sfogarsi, aprirsi, confidarsi, poteva alleviare il peso di quel ricordo:
<<Sai che puoi contare sulla mia discrezione e comprensione. Sento che hai sofferto e forse è venuto il momento di affrontare quel ricordo>>
Lui annuì:
<<Ufficialmente mio nonno è morto cadendo da cavallo. Trovarono il cavallo azzoppato e agonizzante e il corpo di mio nonno, già stecchito. 
Io credo che non sia stato un incidente. Per me qualcuno ha fatto imbizzarrire il cavallo. Mio nonno stava tornando a casa lungo un sentiero di collina, in mezzo al bosco. Era sera, era buio e lui era vecchio. E' stato facile farlo cadere. Insomma io credo che l'abbiano ammazzato.
E poi, non paghi di quello che avevano fatto, hanno incominciato a dire che il cavallo si era imbizzarrito perché aveva visto i folletti dei boschi, proprio vicino alla zona dove c'era l'antica quercia, abbattuta tanti secoli fa. Dicevano che era un luogo maledetto... i più superstiziosi lo chiamavano l'Orma del Diavolo.
Mio padre e i miei fratelli erano terrorizzati, ed è per questo che siamo andati via. 
Ma a me manca tutto di quel luogo, e mi manca mio nonno. Lui era un uomo speciale, un vero uomo. Non ne verranno più di uomini come lui, nella mia famiglia.
Io no di certo... mi sento fuori posto, a volte mi sembra di essere come un albero che è stato trapiantato in una terra sbagliata>>
Giulia era scossa da quel racconto, ma contenta che lui si fosse confidato, perché questo le aveva permesso di capire come mai Romano, che esteriormente sembrava essere forte, interiormente poteva non esserlo affatto:
<<Forse quest'albero trapiantato ha bisogno di un sostegno, che gli permetta di rimanere dritto e irrobustirsi>>
Lui annuì:
<<Sì... è così... >>
Giulia gli strinse la mano e lui colse in quel gesto una promessa, e strinse a sua volta.
Poi però aggiunse:
 <<Per onestà devo dire una cosa: non è facile convivere con me>>
Giulia aveva capito anche questo.:
<<Mi insegnerai come fare>>
<<Ci proverò>>
Lei capì che la situazione era ancora più complessa di quanto immaginava.
<<Tu hai imparato? Intendo dire, a convivere con te stesso...>>
Gli occhi di lui si persero in una nube di pensieri, mentre rispondeva a bassa voce:
<<Non lo so>>
<<Ti aiuterò io>> disse Giulia
Si sposarono pochi mesi dopo.
Fintanto che Giulia ebbe vita, mantenne la sua promessa.

domenica 28 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 8. Ettore Ricci è ricevuto a Villa Orsini

Un'unica argomentazione aveva convinto Diana Orsini a incontrare Ettore Ricci, e cioè quella che non si può rifiutare il corteggiamento di qualcuno che non si è mai nemmeno incontrato di persona.
Era stata l'abile governante Ida Braghiri a ripetere questa frase in continuazione, fino a che Diana, alla fine, aveva dovuto convenire che un rifiuto aprioristico era una indifendibile forma di pregiudizio.
Quando finalmente Diana comunicò al padre la sua disponibilità ad invitare Ettore per un tè, naturalmente alla presenza di tutta la famiglia, il Conte Achille espresse il suo giubilo con un devoto <<Deo gratias>> a cui seguì l'immancabile metafora storico-mitologica: <<Finalmente sono cadute le mura di Gerico>>
Diana si premurò di gettare subito acqua sul fuoco: <<E' solo una breccia, padre, e molto sottile. Non fatevi illusioni>>
Ma il Conte era troppo felice per replicare e, dopo aver ricoperto di lodi e mance la governante Ida Braghiri, la spedì a casa Ricci per concordare l'incontro il prima possibile.
Il vecchio Zuarz suggerì di agire subito: <<Bisogna battere il ferro finché è caldo>>
Sua moglie Clara era meno sicura, rendendosi conto che il suo Ettore non era ancora stato adeguatamente istruito sul galateo da osservare in certi salotti aristocratici.
A dire il vero, nemmeno lei stessa aveva le idee del tutto chiare riguardo a certi dettagli, specialmente l'abbigliamento da tenere, e così, per la paura che l'aspetto di suo figlio risultasse troppo dimesso, finì per strafare.
Ettore Ricci si presentò a Villa Orsini, come convenuto, all'ora del tè.
Indossava un abito scuro gessato a tre pezzi, camicia bianca con gemelli di cristallo, cravatta di seta color platino, come se fosse a un matrimonio, fiore all'occhiello, sempre bianco, fazzoletto a pochette nel taschino, ancora bianco, orologio d'oro a cipolla con catenella legata al panciotto, anello di diaspro al mignolo, tuba erroneamente listata a lutto, scarpe nere laccate, ghette bianche.
In una parola: sembrava Al Capone.
Identico.
Aveva persino un enorme sigaro in bocca, acceso all'ultimo momento, per calmare i nervi.
Oltre tutto la ricercatezza del vestire strideva con il carattere schietto e i modi ruvidi che contraddistinguevano i membri della famiglia Ricci.
Quando la governante, gli aprì la porta, lui subito tirò fuori qualche banconota spiegazzata e gliela infilò in tasca come se fosse una mancia per la cameriera del ristorante o la donnina allegra del bordello.
Appena fu ammesso nel Salotto Liberty, lo squadrò con lo sguardo dell'acquirente che valuta la convenienza del suo investimento.
Avremo modo in seguito di descrivere nei particolari questa sala dove si svolgeranno molti incontri cruciali e si prenderanno gravi decisioni, ma per il momento ci basti sapere che, come suggerisce il nome, era arredato in un delicato stile floreale Art Nuveau, come si usava nella Belle Epoque parigina o nell'età edoardiana londinese.
Gli occhi infuocati del prode Ettore bramavano di possedere ogni cosa all'interno di quella stanza.
Quando il Conte Achille Orsini gli porse la mano bianca, dalle dita affusolate, Ettore Ricci la stritolò in una morsa d'acciaio.
Poi, dimenticando ogni raccomandazione della maestra Clara, gli diede una pacca sulla spalla come se si trattasse di un compagno di bevute all'osteria e disse:
<<Come va, vecchio mio?>>
Senza attendere risposta si avvicinò alla Contessa consorte Emilia e le baciò la mano premendo le labbra un po' troppo a lungo, per poi dichiarare:
<<Cara Contessa, ma lo sa che lei è proprio una bella donna? No, dico sul serio! Non li dimostra mica i suoi cinquant'anni!>>
E infatti la Contessa ne aveva quarantasette, ma non le importava: avrebbe digerito qualunque gaffe pur di far sparire le ipoteche sulla Villa e sul Feudo.
Ettore non attese risposta nemmeno questa volta.
Il suo sguardo si appuntò sull'oggetto del desiderio: Diana Orsini Balducci di Casemurate.
E qui si impappinò:
<<Ahhhh.... Contessina... io... io sono sbalordito... sì, sbalordito dalla vostra evenienza... no come si dice... la vostra... oh Cristo santo... non mi viene la parola...>>
<<Avvenenza?>> suggerì Diana.
<<Sì, quella lì... mi ero preparato un bel discorsetto, ma sapete com'è, l'emozione...>>
Diana cercò di essere gentile e comprensiva:
<<Non si preoccupi, signor Ricci, si accomodi pure>>
Ettore individuò una poltrona che faceva al caso suo e ci si sedette a peso morto, lasciandosi sfuggire un leggerissimo, ma inconfondibile peto.
Seguì un attimo di silenzio assoluto.
Gli Orsini non sapevano cosa dire, cosa fare, dove guardare...
Fortunatamente, a distrarre i presenti dall'imbarazzo, comparve la governante Ida con la teiera.
Ettore Ricci si fece versare una tazza abbondante con latte e tre cucchiaini di zucchero, e poi si avventò sui pasticcini, tenendo comunque acceso il sigaro, e facendo cadere la cenere dappertutto sul fragile tavolinetto proveniente da Parigi.
Con la bocca piena, tornò a rivolgersi a Diana:
<<Stavo dicendo che siete bellissima. Proprio un bel bocconcino, sì sì... del resto, come si suol dire, tale madre, tale figlia, eh? Dico bene?>> e strizzò l'occhio alla Contessa Emilia, che si era versata di nascosto un primo calice di Cabernet-Sauvignon.
Diana osservava Ettore come si farebbe con uno strano animale selvatico mai visto prima sulla faccia della terra, ma continuò a mantenere un contegno impeccabile:
<<Signor Ricci, la vostra gentilezza mi lascia senza parole>>
Lui sorbì il tè in maniera rumorosa e poi, dopo aver schioccato la lingua più volte, ed emesso un profondo sospiro di piacere e appagamento, bofonchiò:
<<Siete senza parole, ma non importa, mia cara, ci sono io che parlo per due, anche per tre! Per esempio, lo sa perché i miei mi hanno chiamato Ettore?>>
<<Perché era uno degli eroi dell'Iliade>>
<<No, noi non siamo parenti con l'Iride, è una Ricci povera che non conta un... insomma, niente... mi hanno chiamato Ettore come il mio povero zio che è morto sparato>>
<<Gli hanno sparato, e perché?>>
<<Ah, cosa vuole, è sempre così, una questione di gnocca... solo che era la gnocca sbagliata e i suoi fratelli lo hanno sparato>>
E addentò un altro pasticcino, sempre tenendo il sigaro acceso.
<<Forse sareste più comodo se appoggiaste il sigaro sul portacenere>>
Lui aggrottò le sopracciglia irsute e osservò il sigaro, a bocca aperta:
<<Oh, non preoccupatevi, mia bella Diana, io so fare numeri di magia come un presti... prestidi... oh, porca vacca! Oggi non mi vengono le parole!>>
Diana non riuscì a trattenersi dal sorridere:
<<Prestigiatore?>>
Lui si illuminò:
<<Proprio quello! Eh, si vede subito che noi due ci intendiamo alla perfezione!>>
Diana in realtà cercava, con tutte le proprie forze, di non scoppiare a ridere.
Non ricordava di aver mai visto niente di più grottesco in vita sua.
<<Perdonatemi se sorrido, signor Ricci, ma la vostra verve è davvero singolare>>
Anche lui incominciò a ridere, con la bocca piena.
<<Ah ah, con me ci si diverte! Sicuro come la merd... ehm, come l'oro, volevo dire.
Ma voi, signor Conte, perché fate quella faccia da funerale, siete pallido come un morto! 
E voi, signora Contessa, date da bere un po' di quel vinello a vostro marito! Perché come si dice: "vinassa vinassa e fiaschi de vin"... dico bene?>>
La Contessa Emilia, il cui alcolismo era uno dei tabù più impronunciabili a Villa Orsini, si sentì come quando viene nominata la corda in casa dell'impiccato.
Diana si sentì in dovere di far notare che non si trattava di un vinello qualsiasi:
<<E' un Cabernet-Sauvignon del 1862, un'ottima annata>>
<<Cacchio! Io però preferisco la Cagnina>>
Ci fu un attimo di assoluto silenzio.
Poi Ettore ruttò.
A quel punto Diana perse il controllo e si piegò in due in dal ridere.
Lui si rese conto di aver esagerato, ma il rimedio fu peggiore del male:
<<Oh, pardon! Ma io dico che un vero uomo si deve comportare da uomo! 
Io non mi fiderei di quei damerini con la puzza sotto al naso. L'uomo deve avere la puzza sotto le ascelle, come un onesto lavoratore, dico bene?>>
Diana cercò di ricomporsi:
<<E voi che lavoro fate, signor Ricci?>>
Ettore rimase a bocca aperta per un po', tanto che i Conti Orsini temettero che avrebbe eruttato una seconda volta, ma non fu così.
<<Mah, grosso modo... gli affari di famiglia... non ho mica paura di sporcarmi le mani, sa?
Se c'è da ammazzare il porco, io non mi tiro mica indietro. Perché poi, non bisogna mica dar retta a quel che dice la gente. Ho fatto anch'io la mia gavetta, sa... da bambino, quando mio padre non era ancora ricco sfondo, io tutte le mattine andavo a munger le vacche! 
A spalare la mer... eh, volevo dire il letame. Perché poi il letame non puzza mica come la pollina... voglio dire, puzza di meno...>>
La governante Ida, in posizione defilata, gli lanciava messaggi inequivocabili, come se si potesse ancora rimediare a quella catastrofe.
Lui cercò di darsi un contegno:
<<Chiedo scusa, a volte mi lascio trasportare dall'entusiasmo. Il fatto è che, di fronte a una bella fi... figliola, io perdo il controllo, porco Giuda! Lo capite anche voi, insomma, è una croce!>>
Diana non era sicura di aver capito:
<<Una?>>
Lui si fece serio e sbottò:
<<Una croce!>> Poi si commosse <<Sì, mia cara Diana, io da quando vi ho vista per la prima volta, sono diventato come un brodo di giuggiole. 
Lo capite anche voi... vedete come sono ridotto, porco cane... non mangio più, non dormo più, non trombo più... 
Io, io... Contessina, lasciate che vi esprima i miei sentimenti con una canzone... sapete, ho una certa dote di cantante, in osteria me lo riconoscono tutti... io vi faccio la mia dichiarazione con una canzonetta che ho sentito alla radio>> poi si portò la mano al cuore e intonò <<"Tuuuuuuuuu che m'hai preso il coooooooooor">>
E a quel punto partì il secondo rutto.
Diana incominciò a ridere in maniera quasi isterica.
La Contessa Emilia fissava il pavimento.
Il Conte Achille era immobile, una statua di sale.
La governante fece cenno a Ricci, toccandosi l'orologio.
Lui capì:
<<Oh, ma ridendo e scherzando si è fatto tardi>>
Nessuno replicò.
Lui si alzò, si stiracchiò, riprese in mano quel che restava del sigaro, si scrollò le briciole di dosso, fece un mezzo inchino
<<Be', ci vediamo domani alla solita ora! E buonanotte ai suonatori!>>
Con questa frase memorabile lasciò il Salotto Liberty.
Prima di uscire, tirò fuori alcune monete d'argento e le infilò nella tasca della governante, insistendo, con aria da benefattore.

venerdì 26 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 7. Il Reduce e il Profeta delle Acque

Conclusa la guerra d'Abissinia, il milite Romano Monterovere si imbarcò per far ritorno in Italia, ma una parte del suo cuore rimase là, nel Corno d'Africa.
Già nel viaggio di ritorno, incominciò in lui quel processo, lento ma inesorabile, di incupimento e distacco dalle contingenze che lo circondavano.
Paradossalmente, in guerra, la paura di morire, lo aveva fatto sentire vivo. 
Quando questa paura era venuta meno, allo stesso modo la sua vitalità aveva perso slancio-
Il ritorno alla normalità, all'opaca trafila delle cose, lo faceva sentire più morto dei suoi commilitoni caduti.
Si era portato dietro alcuni souvenir: elefanti d'ebano con zanne in avorio, da donare a sua madre e a sua sorella, statuette che i critici d'arte avrebbero definito "primitiviste", un piccolo sacchetto con la sabbia del deserto, che molto tempo dopo sarebbe arrivato nelle mani di un suo discendente, l'unico tra i suoi nipoti in grado di attribuire valore a un simile oggetto. E infine la fotografia della ragazza somala di Alula con cui aveva avuto una storia.
Fino all'ultimo aveva coltivato l'idea di ritornare da lei in quel villaggio sull'Oceano, in quell'oasi paradisiaca, lasciandosi tutto il resto alle spalle.
Bisognava avere coraggio per fare quella scelta, ma il coraggio era una dote che Romano Monterovere non aveva mai posseduto.
 La sua avversione al rischio divenne proverbiale e la trasmise allo stesso nipote a cui aveva lasciato la sabbia del deserto.
Seppellì dunque parte del suo cuore nell'arida terra africana e tornò nell'umida, nebbiosa e afosa Bassa Padana, dalla sua famiglia.
Arrivò a casa dei suoi, in quel luogo dal nome ridicolo che era ed è Bagnacavallo, in divisa militare da caporal maggiore, ma con lo sguardo di chi aveva visto troppe cose.
Nelle sue iridi azzurre c'erano ancora i riflessi dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Sarebbero rimasti lì per sempre, conferendogli quell'espressione distante, remota, indifferente, che molti scambiarono poi per freddezza.
Nella Bassa ravennate ritrovò soltanto le torbiere e i canali dell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Nel 1937 l'Azienda dei suoi fratelli era in pieno sviluppo, anche grazie all'entusiasmo suscitato dalla bonifica delle Paludi Pontine, che aveva favorito gli investitori a convogliare risorse nel settore e a potenziare i consorzi provinciali secondo le nuove norme approvate nel '33.
Non appena i fratelli Monterovere avevano incominciato a percepire anche solo lontanamente l'odore dei soldi, le cose erano cambiate.
Il reduce Romano si sentì quasi uno straniero in patria, nel vedere come si era trasformata la sua famiglia.
Il patriarca Enrico aveva lasciato il lavoro alle Ferrovie e, con la sua quota di ricavi aveva finalmente iniziato a condurre la sua vita ideale: colazione alla Caffetteria locale, con tanto di lettura dei giornali, e di segnali in codice con i suoi amici antifascisti da bar; passeggiata lungo il viale del centro, pranzo in trattoria ampiamente innaffiato da vini novelli la cui scarsa qualità suscitava sempre la sua aperta disapprovazione; un altro caffè, seguito dall'ammazzacaffè, provocante una botta di sonno che costringeva i camerieri a gettarlo fuori a viva forza, non senza le sue indignate proteste; una siesta nelle panchine del parchetto della bocciofila, dove poi trascorreva gran parte del pomeriggio con i suoi compagni di merende. Verso sera, anticipando di quasi un secolo le mode, si concedeva vari aperitivi, passando da una bettola all'altra, fino ad arrivare, col naso rosso e gli occhi spiritati, al focolare domestico, dove lo attendeva una lauta cena preparata dalla devota consorte Eleonora. Si sedeva a capotavola e, tra un boccone l'altro, rimbeccava i figli, ricordando loro ignoti sacrifici fatti per "tirarli su", e spronandoli a lavorare più duramente, concludendo il discorso con la frase di rito: "Ah, se non ci fossi io a mandare avanti la baracca, non so mica come andrebbe a finire".

I figli lo lasciavano dire, perché in fondo lo vedevano solo a cena e per il resto era come se non esistesse, per quanto il suo ritratto fotografico, cupo e minaccioso, li fissasse con sdegno e muto rimprovero dai muri del salotto.
In realtà i giovani Monterovere se la cavavano benissimo da soli.
Ferdinando, uomo massiccio e gioviale, era il direttore e il principale investitore
Era sempre in prima fila nei cantieri e il suo entusiasmo per la creazione di cave, canali di scolo o di irrigazione era pari soltanto al vorace appetito con cui divorava i pasti a velocità impressionante.
Umberto, magro, timido e tisico, teneva la contabilità e si occupava delle questioni legali.
Edoardo, il più giovane, faceva da commesso, ma aveva la brutta abitudine di prendersi delle pause che duravano ore intere, lasciando un cartello con scritto: "Torno subito".
Alla fine, intravedendo per lui un futuro politico, i fratelli lo destinarono alle pubbliche relazioni: in pratica chiacchierava tutto il giorno.
Mancava qualcuno che facesse il commesso stabile nella sede dell'Azienda.
Manco a dirlo quel ruolo noioso e monotono toccò al reduce Romano, il quale lo accettò con noncuranza, limitandosi a commentare che, dopo aver combattuto in Africa, e aver visto quello che aveva visto, un posto di lavoro valeva l'altro.
Quando arrivarono le prime commissioni importanti, non era più possibile limitarsi a chiamare il geometra, che peraltro sembrava saperne meno di loro.
Fu deciso di accogliere come socio e direttore progettuale, un ingegnere di Faenza, Francesco Lanni, un dotto visionario che sognava di rendere navigabili i torrentelli perennemente in secca,della Bassa Romagnola.
Tra lui e Ferdinando Monterovere ci fu un'intesa immediata.
Entrambi entusiasti, presentarono i loro progetti al resto della famiglia dopo un pranzo luculliano.
Sfidando lo scetticismo aprioristico del vecchio Enrico e la prudenza ostinata di Umberto e Romano, Francesco Lanni, alto e signorile, espose i suoi ambiziosi propositi, mostrando progetti di idrovore, ampi canali che passavano sotto o sopra i fiumi a seconda delle esigenze di navigabilità, collegamenti tra tale rete idrica e un insieme di laghi artificiali e porti sontuosi nel basso ravennate.
E se qualcuno osava chiedere se tali tecnologie fossero concretamente realizzabili, l'ingegner Lanni lanciava un'occhiataccia e con severo cipiglio rispondeva con assoluta sicurezza:
<<Lo saranno presto>>
Questa risposta ricorrente gli valse il soprannome di Profeta delle Acque.
Alla fine del discorso, l'ingegnere si trovò di fronte al silenzio sbigottito e scettico della maggior parte dei Monterovere.
A rompere il ghiaccio fu la matriarca Eleonora, che si premurò di chiedere come stava la signora Lanni.
La moglie dell'ingegnere era afflitta da terribili emicranie, oltre ad una serie di problemi cardiovascolari che la costringevano a stare quasi sempre in casa, a letto e al buio.
In mancanza della signora Elisa, l'ingegnere era sempre accompagnato dalla figlia Giulia, una ragazza molto timida, riservata, dai capelli neri raccolti a chignon, occhi scuri sognanti, un sorriso gentile, vagamente malinconico.
Si diceva che amasse la lettura, specie di romanzi d'amore.
Aveva una reputazione irreprensibile. Il suo unico vizio era il fumo.
Mentre i Monterovere e l'ingegner Lanni discutevano di progetti e affari, i suoi grandi occhi neri incontrarono gli occhi azzurri del reduce della guerra d'Africa e scorsero, in quegli occhi, l'Oceano Indiano e il Golfo di Aden, e una nostalgia divorante di qualcosa che forse non era mai esistito.

domenica 21 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 6. Come nasce una dinastia


Il conte Achille Orsini di Casmurate era un grande intenditore di araldica e di storia delle dinastie o in generale delle più importanti famiglie aristocratiche.
Pur appartenendo a un ramo minore e decaduto della grande stirpe degli Orsini, continuava a cullarsi nel sogno di ridare vigore alla sua famiglia attraverso l'innesto di nuova linfa (e nuovo denaro), da parte di un'altra famiglia in ascesa.
Egli era convinto che per fare una dinastia ci volesse il concorso più famiglie, alleate tra loro per mezzo di vincoli saldi, primo tra tutti quello del matrimonio.
Erano matrimoni combinati, il che non escludeva che i coniugi potessero imparare a volersi bene, come era accaduto a lui stesso e a sua moglie Emilia, o addirittura, sebbene fosse un evento più raro e a volte persino pericoloso, innamorarsi l'uno dell'altra, come Filippo I e Giovanna di Castiglia.
 In caso contrario, rimanevano comunque legati da forti interessi comuni, sia riguardo ai figli che riguardo al patrimonio. A pensarci bene, tra matrimonio e patrimonio, c'è solo la lettera iniziale di differenza.
<<Il romanticismo>> come diceva Wallis Simpson <<è tutta un'altra questione>>, e infatti nella letteratura cortese e cavalleresca gli amanti non sono mai sposati tra loro e spesso commettono adulterio, pagandone tragicamente le conseguenze.
Soltanto a partire da Jane Austen e dalle sorelle Bronte si incominciò a mettere in discussione il matrimonio combinato e a condannarlo come usanza barbara.
Diana Orsini aveva letto quei romanzi, prendendoli in prestito dalla biblioteca del Liceo, perché di certo non li avrebbe trovati in quella di suo padre.
Quando il conte Achille se n'era accorto, le aveva inflitto una lunga e severa ramanzina:
<<Questi sciocchi romanzi adolescenziali ci vorrebbero far credere che oggi ci si sposi per amore, ma a costo di apparire cinico, ritengo che tali amori esistano soltanto nei romanzi.
La realtà è ancora e sarà sempre la stessa, basti pensare all'orda di bellimbusti cacciatori di dote che ingannano le ragazzine ingenue come te. Ed è inutile che assumi quell'aria da donna vissuta: tu non sai niente del mondo. Non sai che la maggior parte delle donne è ossessionata dall'idea di sposare un uomo benestante, per poter condurre una vita decorosa. Ed è sbagliato che tu le consideri alle stregua di sgualdrine, dal momento che molte di loro diventano ottime madri di famiglia e danno lustro sia al casato di provenienza che a quello a cui appartengono per matrimonio.
E questo è tanto più vero per le donne aristocratiche, specie quelle che hanno salvato la loro stirpe dalla rovina e l'hanno elevata al rango di una dinastia. Potrei citare infiniti esempi di alleanza tra una famiglia nobile e una ricca che hanno dato vita a un clan potente.
A volte erano entrambe famiglie nobili, ma appartenevano a schieramenti politici diversi, pensiamo per esempio alla dinastia Giulio-Claudia: i Cesari erano patrizi divenuti "populares", un termine che al giorno d'oggi potrebbe essere tradotto con "populista", mentre i Claudii erano "optimates", cioè rappresentanti dell'elite senatoriale e dell'oligarchia latifondista.
La loro alleanza, tramite il matrimonio di Augusto e Livia, consolidò la nascita dell'istituzione imperiale. Ma poi fu commesso un errore: i matrimoni tra consanguinei, che portarono alla pazzia o alla demenza gli ultimi esponenti di quella "gens", estintasi nel sangue e nel disonore.
Simile fu l'ascesa e il declino degli Asburgo, dinastia austriaca, come ci ricorda il motto: "Bella gerant alii, tu felix Austria nube" (Che gli altri combattano le guerre: tu, felice Austria, sposati!).
La dinastia si affermò come potenza imperiale e mondiale tramite alcuni matrimoni passati alla storia: quello tra Massimiliano, all'epoca arciduca d'Austria, e Maria di Borgogna, la ricchissima erede delle Fiandre, e dopo l'ascesa di Massimiliano al trono imperiale e la prematura morte di Maria, le nozze tra il loro erede Filippo e l'infanta Giovanna di Castiglia e Aragona. La precoce morte del primo e la conseguente grave crisi depressiva della seconda, non impedì loro, nei brevi anni del loro intenso matrimonio, di concepire sei figli, due maschi e tre femmine, che regnarono su tutta l'Europa e il mondo intero: basti pensare al primogenito, Carlo V, nel cui impero il sole non tramontava, e Ferdinando I, suo successore al trono imperiale, che annesse, tramite le nozze con Anna di Boemia e di Ungheria, le due corone che, insieme a quella austriaca, crearono il nerbo del colosso asburgico.
Tutto questo per dire che, se anche l'idea del matrimonio combinato ti indigna, figlia mia, devi comunque ammettere che ha dei precedenti troppo illustri per poter essere ignorata da una fanciulla aristocratica in età da marito e in questo io sono pienamente d'accordo con la tua futura suocera, la gentile e colta maestra Clara Ricci, che gode della stima di tutti gli abitanti della nostra Contea>>
<<Tutti tranne una>> concludeva testardamente la contessina Diana, riferendosi ovviamente a se stessa <<Dietro a quell'aspetto bonario c'è tutta la freddezza calcolatrice di un vecchio avvocato>>
Poteva anche essere vero, ma questo, agli occhi del conte Achille, non cambiava le cose di una virgola.
Se c'era una persona adatta a condurre a buon fine l'alleanza matrimoniale tra i Ricci e gli Orsini, quella era la maestra Clara.
La trattativa era delicata e richiedeva la massima diplomazia e attenzione ai dettagli.
Per questo il vecchio Giorgio Ricci, astuto come una volpe, preferì che fosse sua moglie a condurre le danze.
A lui era sufficiente tener ben stretti i cordoni della borsa.
Vale la pena soffermarsi un momento sul modo in cui il vecchio Ricci era riuscito a portare la sua famiglia all'agiatezza.
Ultimo di un imprecisato numero di fratelli, "Zuarz" era cresciuto quasi come un animale selvatico.
Già il suo aspetto fisico era piuttosto belluino.
Basso, tarchiato, irsuto come un cinghiale, aveva occhi infuocati e penetranti, capelli ispidi come setole, una perenne barba di tre giorni, da carcerato, e un'aria cupa e vagamente minacciosa.
Fuggito di casa all'età di tredici anni, aveva lavorato come "garzone" in varie tenute di campagna, senza dare confidenza a nessuno.
A differenza degli altri della sua età, non spendeva tutto il suo magro salario in osterie e bordelli: i suoi appetiti erano ben altri.
L'essere nato per ultimo, l'essere basso e brutto, così come l'essersi sentito sempre da ragazzo, in famiglia e in paese, l'ultima ruota del carro, o, come diceva coloritamente suo padre Primo, in dialetto romagnolo, "l'utma scureza ad Biribesc , avevano procurato in lui una reazione ben precisa, e cioè quella di ribaltare il suo destino diventando il primo, sempre, ovunque, in ogni modo, anche a costo di dover barare e aggirare la legge pur di ottenere tutto quello, e non era poco, che egli desiderava dalla vita.
Bisognava correre qualche rischio, imparare a bluffare, specie nelle trattative di compravendita, dove riusciva sempre a ottenere il prezzo che voleva, anche a costo di negoziare in eterno.
Era come un grosso gatto sornione che giocava col topo prendendolo per sfinimento.
Poteva stare giorni interi a contrattare il prezzo della vendita di un pollo.
I padroni se ne accorgevano e gli affidavano sempre più spesso l'incarico di comprare e vendere sementi, bestiame, raccolti, prodotti caseari e artigianali, non faceva differenza: lui riusciva sempre a ottenere un prezzo conveniente.
In cambio di queste mediazioni, Giorgio Ricci si faceva pagare una percentuale.
Alla fine riuscì a raggranellare un certo gruzzolo che gli permise di comprare una piccola casa colonica con un pezzo di terra attorno, che gli serviva come pretesto per fingere di fronte al mondo intero di essere soltanto un piccolo coltivatore diretto.
In realtà la sua professione era quella di sensale, o come diremmo oggi, di mediatore.
Non appena ebbe raggranellato un altro gruzzolo, inizio a praticare la vera attività a cui aveva sempre aspirato, e cioè quella di prestatore di denaro.
Come tutti coloro che entrano in questo genere di affari, anche Giorgio Ricci cercò subito di
ingraziarsi le autorità locali, mostrandosi sempre generoso e collaborativo.
Si mostrò incredibilmente magnanimo anche nei confronti dei familiari che prima lo avevano snobbato e che invece si videro concedere un trattamento di favore e persino validi consigli su come far fruttare il denaro.
Non si rendevano conto che lui li stava preparando a diventare i suoi prestanome nelle questioni meno limpide.
A quel punto si concesse il trasferimento in un'abitazione più rispettabile, ma ancora mancava un elemento per sancire il suo successo.
Per lui, che aveva fatto a malapena la terza elementare, l'ascesa sociale si ebbe anche nello sposare una donna istruita e di famiglia borghese.
Dopo attente valutazioni, trovò la persona che faceva per lui.
Clara Vallicelli era all'epoca una giovane maestra elementare e poteva persino vantare un'amicizia con la signorina Mariuccia De Toschi, figlia di Violetta Orsini, una cugina del conte Achille, e di un alto ufficiale di Pistoia.
Si erano conosciute al collegio del Sacro Cuore.
La signorina De Toschi aveva poi continuato a studiare all'università, lettere classiche, a Bologna, ma era rimasta in rapporti estremamente amichevoli con Clara, un elemento che ebbe conseguenze decisive su molte decisioni future del clan Ricci-Orsini.
Siccome la famiglia Vallicelli vedeva in Giorgio Ricci un astro nascente, e considerava la maestrina Clara come una vergine a rischio di zitellaggio, aveva accettato senza esitazioni la proposta di matrimonio di "Zuarz".
Alla fine si trattò di un matrimonio fortunato, nel senso che Giorgio Ricci ottenne quello che aveva sempre voluto, e cioè, anche grazie all'interessamento della signorina De Toschi in persona, di essere ammesso alla corte degli Orsini, e la maestra Clara ottenne finanziamenti per pubblicare numerosi saggi storici, tra cui le già citate "Cronache casemuratensi", che la resero una vera e propria autorità sulle vicende della Romagna centrale nel Medioevo.
Rimaneva un ultimo, decisivo passo da compiere, per poter guardare negli occhi il Conte Achille da pari a pari.
"Zuarz" divenne il finanziatore di tutte le stravaganti iniziative del nobile Orsini  in costosissime e disastrose attività di editoria dilettantistica, sperimentazioni architettoniche e di giardinaggio, operazioni di Borsa, attività ricreative e alti pozzi senza fondo.
Nel giro di pochi anni, la famiglia Ricci era riuscita a conquistare, per ipoteca, il feudo Orsini dal suo interno, fino ad arrivare a nominare come fattore e amministratore agricolo un proprio uomo, Michele Braghiri, e persino a imporre sua moglie Ida come nuova governante della Villa.
A quel punto il contadino arricchito e il nobiluomo decaduto si resero conto che una fusione delle loro famiglie avrebbe potuto non solo risolvere molti problemi, ma dar vita ad un interessante esperimento di riconquista e di espansione della Contea di Casemurate.

giovedì 11 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 5. Dalle Alpi all'Oceano Indiano

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Nei racconti a sfondo epico che Romano Monterovere, nei rari momenti in cui era in vena di confidenze, elargiva ad amici e parenti riguardo alla sua gloriosa partecipazione alla Guerra d'Abissinia, destinata ad estendere l'Impero d'Italia "dalle Alpi all'Oceano Indiano", c'erano, ad essere sinceri, molte lacune e ancor più contraddizioni, tanto che non risultò affatto facile cercare di farsi anche solo una vaga idea di quel che fosse realmente accaduto.

Secondo la maggior parte delle versioni, Romano Monterovere giunse al porto di Asmara, in Eritrea, nel novembre del 1935, dopo un lungo viaggio per mare su una nave del Regio Esercito di cui non è dato sapere il nome.
Tra il mal di mare e la calura equatoriale opprimente, l'approdo sul suolo eritreo non fu dei più esaltanti.
Faceva talmente caldo che, la sera stessa dello sbarco, decise di farsi un bel bagno nelle acque del Mar Rosso, dove rischiò di essere divorato dagli squali, o, come diceva lui, dai "pescecani".
Evitò per un pelo tale sorte grazie agli avvertimenti di un gruppo di eritrei che si erano messi ad urlare e ad indicare una direzione dove in  primo momento Romano non vide nulla, ma ad un secondo sguardo distinse alcune pericolose e inconfondibili pinne verticali.

Fattosi in questo modo la nomea di "sprovveduto", fu assegnato alle retrovie con funzione di guidatore di camion per vettovaglie e viveri.
La collocazione era quasi esente da rischi, ma c'era un piccolo dettaglio che poteva renderla pericolosa, soprattutto per gli altri: il guidatore non aveva la patente.
Cercò di farlo presente ai superiori, ma nessuno sembrava avere tempo per "simili inezie".
Al terzo etiope investito, l'ufficiale di riferimento, nel tentativo di insabbiare nel deserto dell'Abissinia, insieme ai cadaveri, anche lo scandalo, lo spedì in "licenza premio" ad Alula, nella punta estrema della Somalia, dove il Golfo di Aden confondeva le sue acque nell'Oceano Indiano.
Lì avrebbe dovuto, in segreto, imparato a guidare i camion, se ne avesse trovato qualcuno.
L'impatto iniziale fu traumatico: Alula era un piccolo villaggio di casupole tra il deserto e il mare, con un porticciolo naturale mezzo insabbiato, una piccola comunità di pescatori, una moschea, e una minuscola base italiana con altri reietti spediti lì a riflettere sui loro errori.

Eppure, sorprendentemente, quelli furono i giorni più belli della sua vita, e ne avrebbe portato con sé il ricordo come di una sorta di esperienza mistica e nello stesso tempo voluttuosa.
<<Non avete idea della meraviglia del colore dell'Oceano nei pressi del Golfo di Aden>> raccontava con aria rapita, e i suoi occhi azzurri sembravano riempirsi del colore stesso dell'Oceanp, e le loro iridi pulsavano di una vitalità da lungo tempo perduta, che emergeva soltanto nella rimembranza di quel remoto passato.
<<C'era anche un'oasi, dietro al villaggio. Era un piccolo paradiso, lontano dai mali del mondo e della guerra>>
Probabilmente i suoi occhi ricordavano anche il viso di una fanciulla con cui doveva aver avuto un'avventura. Non ne parlava mai, ma c'erano alcune fotografie, da lui nascoste in un bauletto insieme ad altri souvenir, e ritrovate soltanto dopo la sua morte, quando non poteva più rispondere a domande che, per un uomo riservato come lui, sarebbero state insopportabilmente imbarazzanti.

Quando infine riuscì a ottenere la patente di guida, mezza Etiopia era già stata conquistata.
Ma le imprese del milite Monterovere erano appena iniziate.
Abbandonata la calura delle zone costiere, fu mandato negli altipiani delle aree interne.
La sua prima prodezza fu quella di portare vettovaglie e munizioni alla 24esima divisione fanteria "Gran Sasso", di stanza ad Adua sotto il comando del generale Adalberto di Savoia-Genova, unanimemente considerato da tutti, a partire dai soldati semplici per arrivare al Re in persona, un "emerito idiota".
A questo punto della narrazione, con un sorriso complice agli ascoltatori, Romano Monterovere si toccava il lobo dell'orecchio destro, per indicare che il generale Savoia-Genova aveva anche fama di essere omosessuale. Seguivano alcune storielle piccanti sull'argomento.
All'epoca il linguaggio politicamente corretto era non solo molto distante nel tempo a venire, ma addirittura inimmaginabile, specie in chi era vissuto, anche in maniera critica, nell'Italia fascista.

Tornando serio, Romano descriveva poi la totale disorganizzazione dell'esercito, aggiungendo con il suo consueto e caustico pessimismo, che ogni tentativo di rendere efficiente qualunque elemento dell'apparato statale italiano era non solo impossibile, ma totalmente inutile, come ben presto lo stesso Duce avrebbe avuto modo di sperimentare a spese sue e di tutto il popolo italiano.

Già in Abissinia le cose si stavano mettendo male e il Comandante Superiore De Bono fu sostituito dal Maresciallo Badoglio, l'uomo dei momenti disperati, grande amico del Re, il quale non voleva farsi sfuggire a nessun costo la corona imperiale del Negus.
Quando la divisione "Gran Sasso" prese parte, insieme a tutto il II corpo d'armata, alla Battaglia dello Sciré, Romano Monterovere venne nuovamente destinato alla retroguardia, questa volta con risultati più apprezzabili.

<<Non dimentichiamo>> era solito far notare Romano nelle sue memorie di guerra <<che la retroguardia è costituita da truppe esperte, in grado di mantenere una forte coesione e un ottimo morale, per evitare una rotta drammatica>>
Fortunatamente per lui, quello fu uno dei rari casi in cui non si presentò tale evenienza.

Il 29 febbraio 1936 l'intero II Corpo d'Armata marciava su Axum,  il IV Corpo si muoveva come programmato per attaccare il fianco sinistro dello schieramento etiope.
Il 2 marzo, l'avanzata del II Corpo riprese ma venne bloccata dalla retroguardia del ras Immirù: fu un attacco inaspettato, ma breve in quanto la mattina dopo, quando l'artiglieria e l'aeronautica italiane erano pronte per agire, gli Etiopi avevano già abbandonato il campo di battaglia, coprendo la ritirata strategica delle truppe del Negus.

Di tutto questo Romano Monterovere non vide praticamente nulla.
Ma il suo "onore" di guerriero trovò un riscatto poco dopo, quando il suo camion fu incaricato di portare munizioni presso "i guadi del fiume Telcazzè" (e guai se qualcuno osava ridacchiare per quel nome singolarmente esotico).
Il 3 e 4 marzo 1936, mentre la II Armata si stava faticosamente aprendo la strada per Selaclacà, seguita dalla retroguardia e dal milite Monterovere, le truppe di Ras Immirù giunsero improvvisamente sulle rive del fiume, dove però questa volta gli Italiani, stranamente, non si fecero prendere alla sprovvista. 
Le truppe dei guerrieri etiopi trovarono ad attenderle 126 cacciabombardieri che in due giorni sganciano senza sosta e senza pietà 636 quintali di esplosivo, bombe incendiarie ed iprite, oltre a 25.000 proiettili di mitragliatrice.
Questa fu la vendetta di Badoglio, ma un giorno l'Italia avrebbe pagato caro il prezzo del sangue di un paese che difendeva la propria indipendenza.

La distruzione dell'armata del Ras Immirù, seguita da quella delle armate dei Ras Mulughietà e Cassa, permise a Badoglio di concentrare la propria attenzione sull'avanzata verso la capitale.  Con l'eccezione delle poche guardie al diretto comando del negus Hailé Selassié, imperatore d'Etiopia, non vi erano altre forze etiopi che si opponessero agli italiani nell'area.

Romano Monterovere, per quanto fosse decisamente, seppur segretamente, antifascista, provò comunque un senso di ebbrezza nel momento in cui, il 5 maggio 1936, il suo camion entrò ad Addis Abeba, mentre dagli altoparlanti le radio proclamavano la nascita dell'Impero.

Era il secondo impero romano, ma come succede a molti "sequel" non fu all'altezza delle aspettative.
Certo, i piani di Mussolini e di Vittorio Emanuele III, il re Imperatore, erano ambiziosi, mirando all'egemonia del Mediterraneo centro-orientale e al collegamento via terra della colonia libica con quella etiopica. Un sogno destinato a diventare un incubo.

Ma in quei giorni di maggio del 1936 si respirava un'aria di potenza che contagiava anche i più mansueti, e questa ebbrezza. nel caso di Romano Monterovere, era probabilmente corroborata dalla presa d'atto che, a guerra finita, lui era ancora vivo, senza un graffio e pieno di ricordi che gli sarebbero bastati per sentirsi, durante tutto il resto della sua lunga vita, un uomo di mondo, come avrebbe detto Totò facendo valere i suoi anni di servizio militare a Cuneo.

Quando Romano fece ritorno a casa, i suoi familiari si accorsero che era cambiato: c'era qualcosa di diverso in lui, ma come sempre non riuscivano a scoprire esattamente cosa.
Lui conservò il segreto per tutta la vita, ed ogni volta che la sua mente tornava all'oasi di Alula, nei suoi occhi brillava il colore dell'Oceano e la mancanza, struggente, di un paradiso perduto per sempre.

lunedì 1 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 4. Noblesse oblige

Nel 1936, all'età di 21 anni, la contessina Diana Orsini Balducci di Casemurate non era ancora ufficialmente fidanzata.
E questo era strano, perché oltre che nobile era anche bella: aveva grandi occhi neri e penetranti, che conferivano notevole intensità e fascino al suo sguardo, così come il profilo leggermente e aristocraticamente aquilino e i lunghi capelli neri pettinati come quelli di Vivien Leigh in Via col vento, che risaltavano maggiormente sulla pelle chiara. 
Abbastanza alta, magra, aveva un portamento aggraziato, armonioso, che ben si addiceva ai modi  gentili e un garbati e ad una personalità che presentava numerosi pregi, come il buon gusto, la capacità di conversare in maniera interessante, seppur con una certa riservatezza che permetteva soltanto in un secondo momento di conoscere anche l'intelligenza e la tenacia che caratterizzavano la sua personalità.

Non mancavano tuttavia i difetti come l'ironia un po' troppo corrosiva, la permalosità, la tendenza a non perdonare facilmente un torto subito, e i cambiamenti di umore troppo repentini, specie quando le emozioni oscillavano tra una malinconia esistenziale e una rabbia contro tutte le ingiustizie del mondo e della vita.
Erano questi i sintomi di una tara ereditaria dei Conti di Casemurate, una patologia che oggi potremmo definire disturbo bipolare, anche se nella contessina Diana, tutto questo veniva mascherato da un altro disturbo di cui pure soffriva, e cioè una terribile emicrania, che avrebbe poi trasmesso ad alcuni dei suoi discendenti.

Aveva ricevuto un'educazione di prim'ordine, con tanto di diploma di liceo classico, (e quindi conoscenza di greco, latino e francese), di canto, di danza, di equitazione
 e altre simili attività aristocratiche di elevata inutilità sociale, che si univano a quelle tradizionali di una signorina di quei tempi: sartoria, giardinaggio, erboristeria e cucina.

Tre anni prima aveva ufficialmente adempiuto al primo grande rito iniziatico delle ragazze "di buona famiglia", ossia il Debutto in Società.
Nella Contea di Casemurate il luogo deputato a questo evento memorabile non avveniva più, da tempo, in una proprietà degli Orsini, dal momento che la loro precedente e ben più antica abitazione era stata acquistata ballo dai facoltosi marchesi Spreti di Serachieda, insigne dinastia ravennate che vantava discendenze persino dagli Esarchi bizantini.


Gli Orsini e gli Spreti erano comunque legati da rapporti di parentela, in quanto, qualche secolo prima, una Lucrezia Spreti aveva sposato un conte Orsini, e dunque il nobile sangue degli Esarchi era entrato nelle vene dei discendenti di Orsino Fabio Massimo, mitico fondatore della famiglia Orsini e discendente dell'antichissima e patrizia gens dei Fabi Massimi dell'antica Roma.


Ma quei tempi erano passati ed ora gli Spreti erano indubbiamente i più ricchi e i più elevati come status sociale.
Il prestigio di Villa Spreti, dotata persino di un'alta torre merlata risalente al XV secolo e detta "Torre di Casemurate", era tale da far sì che la strada di fronte a quel notevole maniero, sorto vicino alla chiesa parrocchiale, avesse preso il nome di Via Spreti, e così è chiamata ancor oggi.

L'appendice "di Serachieda", derivava invece da un torrentello che scorreva proprio accanto alla Torre.

Inoltre, per dirla tutta, mentre Villa Spreti era una residenza di villeggiatura, la Villa Orsini era l'ultima residenza rimasta alla famiglia dei Conti di Casemurate,  e per giunta era gravata da imbarazzanti ipoteche dovute ad una serie di questioni di cui parleremo tra poco.


A causa di tali ristrettezze Villa Orsini versava in condizioni decisamente peggiori di Villa Spreti, sebbene quest'ultima fosse molto più antica.
Villa Orsini era stata costruita soltanto agli inizi del '900, seguendo i criteri dello stile liberty, che trovavano il loro massimo trionfo in quello che non a caso era stato battezzato come il Salotto Liberty,
dove la contessa Emilia riceveva alle 5 pomeridiane, per un tè,  tutte le dame altolocate della zona.
Queste visite tuttavia era tuttavia andate scemando, man mano che le fortune economiche degli Orsini si erano a tal punto aggravate da minacciare la proprietà stessa non solo della casa, ma anche delle terre rimanenti che costituivano il cosiddetto Feudo Orsini, che negli anni d'oro, secoli prima, comprendeva quasi l'intera Contea.

L'unica speranza per salvare la dinastia dalla rovina consisteva nel combinare matrimoni adeguati per i figli.
Il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate e sua moglie Emilia Paolucci de' Calboli avevano avuto sei figli.
Eugenio (1913-1916) morto precocemente di meningite.
Diana nata nel 1915, la cui lunga vita sarà ampiamente narrata in questo romanzo.
Annalisa (1917- 1919) morta precocemente di febbre spagnola.
Ginevra, nata nel 1921, pallida, magra, rossa di capelli, lentigginosa, ma di carattere gentile, destinata a sposare il magistrato Giuseppe Papisco, da cui avrà numerosi discendenti, alcuni dei quali ricopriranno un certo ruolo in questa nostra storia. Ma proseguiamo con gli ultimi due figli.
Isabella, nata nel 1924, prometteva di diventare persino più attraente di Diana.
Arturo, nato nel 1926, erede formale della Contea, era un grande appassionato di motociclismo e automobilismo.


Dal momento che Diana, all'epoca, era l'unica figlia in età da marito, tutte le trattative segrete per i matrimoni combinati erano concentrati su di lei.
L'unica soluzione per evitare la catastrofe era fare in modo di imparentarsi, tramite matrimonio, con qualche famiglia ricca.
Purtroppo, considerando l'enormità dei debiti che gravavano sulla famiglia dei Conti di Casemurate, e il rischio probabile di una completa rovina, seguita dal disonore sociale, spaventavano anche i più ricchi borghesi della zona.
Rimaneva comunque un consistente numero di corteggiatori che il Conte sprezzantemente giudicava di rango inferiore e "squattrinati", come se lui fosse meno squattrinato di loro.


Tuttavia non proprio tutti i corteggiatori di Diana erano senza soldi: uno i quattrini ce li aveva, ma le origini agresti della sua famiglia, nonché la nomea di prestatori di denaro a tassi usurari,  erano state considerate, almeno in un primo momento, troppo sconvenienti.


Questo corteggiatore, come si era anticipato in precedenza, era il ruspante Ettore Ricci, figlio dell'ancor più ruspante Giorgio, detto Zùarz, nel locale dialetto gallo-romanzo.


La famiglia Ricci, nota in quel dialetto celtico come "Ca' ad Zùarz", era la principale creditrice della famiglia Orsini Balducci di Casemurate, detta "la Ca' de Count", con un tono nel quale rimaneva ben poco dell'antica reverenza, mentre dominava un senso di ironia che portava lo stesso Giorgio Ricci a parlare del suo debitore come di "un Count scunté".

Certo, agli occhi del Conte Achille,  i Ricci rimanevano comunque "dei villani e degli zotici", ma quest'argomentazione passava in secondo piano di fronte alla considerazione che proprio i suddetti zotici si trovavano in possesso delle ipoteche  di cui si è detto.


Invano il Conte Orsini si era rivolto ai parenti di sua moglie
Per troppo tempo avevano prestato, a fondo perduto, molti danari ai cognati di campagna, e non avevano nessuna intenzione di rinnovare un legame che in fondo non li riguardava più di tanto, appartenendo la contessa Emilia, per nascita, soltanto a un ramo collaterale e meno importante dei Calboli.

Ogni volta che il Conte Achille si trovava a meditare su quell'argomento, non poteva fare a meno di condannare la leggerezza con cui in gioventù, tra investimenti sbagliati, spese folli, vizi inconfessabili e altre dissipatezze aveva dato il colpo di grazia ad una famiglia già in declino, che ormai si stava trasformando in un crollo totale.

In qualità di creditori ipotecari, i Ricci stringevano lentamente, ma inesorabilmente il cappio intorno al collo lungo e pallido del Conte Orsini, il quale tentava di tener buoni quei "bifolchi" ricevendo spesso l'unica componente presentabile di quel clan, ossia la Maestra Clara Marinelli Ricci, moglie del capofamiglia e, come già si era accennato, autrice delle Cronache casemuratensi.


L'apporto della maestra Clara e della sua famiglia d'origine, i borghesi Marinelli, aveva contribuito a almeno un po' a dirozzare le rudi maniere contadine dei Ricci, per non parlare del loro temperamento sanguigno, irascibile e assai poco propenso alle sottigliezze del galateo.


E tuttavia, raggiunta finalmente una certa agiatezza, il vecchio Giorgio Ricci si atteggiava ormai a riverito possidente.
Tra i suoi numerosi figli, Ettore era di sicuro il più intraprendente, e aveva fama di instancabile lavoratore. In lui l'indole bizzarra, focosa e irascibile dei Ricci, era compensata da una simpatia derivante da un talento istrionico e dalla capacità di avere sempre la battuta pronta.


Fisicamente non era un gran che: basso, irsuto, dai lineamenti duri,
contrastava in maniera evidente con la bellezza di Diana Orsini.
Ma, come diceva Zsa Zsa Gabor: "Un uomo ricco è sempre bello".
Peccato che Diana Orsini non la pensasse affatto allo stesso modo.

Non si trattava solo di un capriccio: la contessina era consapevole che la personalità di Ettore Ricci e la propria erano agli antipodi.
Naturalmente nessuno si era minimamente preoccupato di informare per tempo Diana del fatto che, nonostante la sua opposizione, le trattative per un eventuale matrimonio con Ettore stavano proseguendo in maniera febbrile e concitata.


Le uniche allusioni a tal proposito provenivano dall'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, una certa Ida Braghiri, moglie del fattore degli Orsini, che era già segretamente a libro paga della famiglia Ricci.
La signora Ida non faceva altro che tessere le lodi di Ettore Ricci.
Diana, che non era una stupida, capì quello che c'era da capire.
<<Non lo sposerò mai!>> dichiarò apertamente ai genitori <<Non potete costringermi>>
La Contessa Emilia assunse un'espressione affranta: <<Senti, la vita reale non è come un romanzo di Jane Austen, dove alla fine la ragazza bella e intelligente sposa l'uomo bello e ricco di cui è pazzamente innamorata. No, qui siamo nel mondo reale e...>>

Diana interruppe la madre:
<<Lo so benissimo! Ma credevo che il mondo, dai tempi di Jane Austen, fosse migliorato! Sono passati più di cent'anni e ne abbiamo fatti di passi in avanti...>>
<<Verso il basso!>> concluse la madre <<Cent'anni fa la nostra famiglia era ricchissima, ora non più, per cui, se tu non sposerai Ettore, finiremo tutti sul lastrico>>
<<Vorrà dire che lavoreremo, io ho il diploma magistrale>> sottolineò Diana <<e dunque posso insegnare e voi troverete qualcosa di adatto...>>
Questa volta fu il Conte in persona a intervenire: 

<<Piuttosto mi sparo un colpo di rivoltella! La nobiltà ha i suoi obblighi, e tra questi c'è il matrimonio combinato. Ma il lavoro... no, meglio la morte. Nessuno potrà mai dire di avere il Conte Orsini sul libro paga! 
Ma tu, figlia mia, potresti finire per avermi sulla coscienza. Hai avuto un'educazione di prima classe. Sei cresciuta nei privilegi. E' tempo che tu faccia il tuo dovere>>
La Contessa Emilia approvò:
<<Tuo padre ha ragioneIn fin dei conti, noblesse oblige>>
Diana scosse il capo con tutte le sue forze:
<<Mai! Avete capito? Mai e poi mai!>>
Le ultime parole famose...