domenica 21 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 6. Come nasce una dinastia


Il conte Achille Orsini di Casmurate era un grande intenditore di araldica e di storia delle dinastie o in generale delle più importanti famiglie aristocratiche.
Pur appartenendo a un ramo minore e decaduto della grande stirpe degli Orsini, continuava a cullarsi nel sogno di ridare vigore alla sua famiglia attraverso l'innesto di nuova linfa (e nuovo denaro), da parte di un'altra famiglia in ascesa.
Egli era convinto che per fare una dinastia ci volesse il concorso più famiglie, alleate tra loro per mezzo di vincoli saldi, primo tra tutti quello del matrimonio.
Erano matrimoni combinati, il che non escludeva che i coniugi potessero imparare a volersi bene, come era accaduto a lui stesso e a sua moglie Emilia, o addirittura, sebbene fosse un evento più raro e a volte persino pericoloso, innamorarsi l'uno dell'altra, come Filippo I e Giovanna di Castiglia.
 In caso contrario, rimanevano comunque legati da forti interessi comuni, sia riguardo ai figli che riguardo al patrimonio. A pensarci bene, tra matrimonio e patrimonio, c'è solo la lettera iniziale di differenza.
<<Il romanticismo>> come diceva Wallis Simpson <<è tutta un'altra questione>>, e infatti nella letteratura cortese e cavalleresca gli amanti non sono mai sposati tra loro e spesso commettono adulterio, pagandone tragicamente le conseguenze.
Soltanto a partire da Jane Austen e dalle sorelle Bronte si incominciò a mettere in discussione il matrimonio combinato e a condannarlo come usanza barbara.
Diana Orsini aveva letto quei romanzi, prendendoli in prestito dalla biblioteca del Liceo, perché di certo non li avrebbe trovati in quella di suo padre.
Quando il conte Achille se n'era accorto, le aveva inflitto una lunga e severa ramanzina:
<<Questi sciocchi romanzi adolescenziali ci vorrebbero far credere che oggi ci si sposi per amore, ma a costo di apparire cinico, ritengo che tali amori esistano soltanto nei romanzi.
La realtà è ancora e sarà sempre la stessa, basti pensare all'orda di bellimbusti cacciatori di dote che ingannano le ragazzine ingenue come te. Ed è inutile che assumi quell'aria da donna vissuta: tu non sai niente del mondo. Non sai che la maggior parte delle donne è ossessionata dall'idea di sposare un uomo benestante, per poter condurre una vita decorosa. Ed è sbagliato che tu le consideri alle stregua di sgualdrine, dal momento che molte di loro diventano ottime madri di famiglia e danno lustro sia al casato di provenienza che a quello a cui appartengono per matrimonio.
E questo è tanto più vero per le donne aristocratiche, specie quelle che hanno salvato la loro stirpe dalla rovina e l'hanno elevata al rango di una dinastia. Potrei citare infiniti esempi di alleanza tra una famiglia nobile e una ricca che hanno dato vita a un clan potente.
A volte erano entrambe famiglie nobili, ma appartenevano a schieramenti politici diversi, pensiamo per esempio alla dinastia Giulio-Claudia: i Cesari erano patrizi divenuti "populares", un termine che al giorno d'oggi potrebbe essere tradotto con "populista", mentre i Claudii erano "optimates", cioè rappresentanti dell'elite senatoriale e dell'oligarchia latifondista.
La loro alleanza, tramite il matrimonio di Augusto e Livia, consolidò la nascita dell'istituzione imperiale. Ma poi fu commesso un errore: i matrimoni tra consanguinei, che portarono alla pazzia o alla demenza gli ultimi esponenti di quella "gens", estintasi nel sangue e nel disonore.
Simile fu l'ascesa e il declino degli Asburgo, dinastia austriaca, come ci ricorda il motto: "Bella gerant alii, tu felix Austria nube" (Che gli altri combattano le guerre: tu, felice Austria, sposati!).
La dinastia si affermò come potenza imperiale e mondiale tramite alcuni matrimoni passati alla storia: quello tra Massimiliano, all'epoca arciduca d'Austria, e Maria di Borgogna, la ricchissima erede delle Fiandre, e dopo l'ascesa di Massimiliano al trono imperiale e la prematura morte di Maria, le nozze tra il loro erede Filippo e l'infanta Giovanna di Castiglia e Aragona. La precoce morte del primo e la conseguente grave crisi depressiva della seconda, non impedì loro, nei brevi anni del loro intenso matrimonio, di concepire sei figli, due maschi e tre femmine, che regnarono su tutta l'Europa e il mondo intero: basti pensare al primogenito, Carlo V, nel cui impero il sole non tramontava, e Ferdinando I, suo successore al trono imperiale, che annesse, tramite le nozze con Anna di Boemia e di Ungheria, le due corone che, insieme a quella austriaca, crearono il nerbo del colosso asburgico.
Tutto questo per dire che, se anche l'idea del matrimonio combinato ti indigna, figlia mia, devi comunque ammettere che ha dei precedenti troppo illustri per poter essere ignorata da una fanciulla aristocratica in età da marito e in questo io sono pienamente d'accordo con la tua futura suocera, la gentile e colta maestra Clara Ricci, che gode della stima di tutti gli abitanti della nostra Contea>>
<<Tutti tranne una>> concludeva testardamente la contessina Diana, riferendosi ovviamente a se stessa <<Dietro a quell'aspetto bonario c'è tutta la freddezza calcolatrice di un vecchio avvocato>>
Poteva anche essere vero, ma questo, agli occhi del conte Achille, non cambiava le cose di una virgola.
Se c'era una persona adatta a condurre a buon fine l'alleanza matrimoniale tra i Ricci e gli Orsini, quella era la maestra Clara.
La trattativa era delicata e richiedeva la massima diplomazia e attenzione ai dettagli.
Per questo il vecchio Giorgio Ricci, astuto come una volpe, preferì che fosse sua moglie a condurre le danze.
A lui era sufficiente tener ben stretti i cordoni della borsa.
Vale la pena soffermarsi un momento sul modo in cui il vecchio Ricci era riuscito a portare la sua famiglia all'agiatezza.
Ultimo di un imprecisato numero di fratelli, "Zuarz" era cresciuto quasi come un animale selvatico.
Già il suo aspetto fisico era piuttosto belluino.
Basso, tarchiato, irsuto come un cinghiale, aveva occhi infuocati e penetranti, capelli ispidi come setole, una perenne barba di tre giorni, da carcerato, e un'aria cupa e vagamente minacciosa.
Fuggito di casa all'età di tredici anni, aveva lavorato come "garzone" in varie tenute di campagna, senza dare confidenza a nessuno.
A differenza degli altri della sua età, non spendeva tutto il suo magro salario in osterie e bordelli: i suoi appetiti erano ben altri.
L'essere nato per ultimo, l'essere basso e brutto, così come l'essersi sentito sempre da ragazzo, in famiglia e in paese, l'ultima ruota del carro, o, come diceva coloritamente suo padre Primo, in dialetto romagnolo, "l'utma scureza ad Biribesc , avevano procurato in lui una reazione ben precisa, e cioè quella di ribaltare il suo destino diventando il primo, sempre, ovunque, in ogni modo, anche a costo di dover barare e aggirare la legge pur di ottenere tutto quello, e non era poco, che egli desiderava dalla vita.
Bisognava correre qualche rischio, imparare a bluffare, specie nelle trattative di compravendita, dove riusciva sempre a ottenere il prezzo che voleva, anche a costo di negoziare in eterno.
Era come un grosso gatto sornione che giocava col topo prendendolo per sfinimento.
Poteva stare giorni interi a contrattare il prezzo della vendita di un pollo.
I padroni se ne accorgevano e gli affidavano sempre più spesso l'incarico di comprare e vendere sementi, bestiame, raccolti, prodotti caseari e artigianali, non faceva differenza: lui riusciva sempre a ottenere un prezzo conveniente.
In cambio di queste mediazioni, Giorgio Ricci si faceva pagare una percentuale.
Alla fine riuscì a raggranellare un certo gruzzolo che gli permise di comprare una piccola casa colonica con un pezzo di terra attorno, che gli serviva come pretesto per fingere di fronte al mondo intero di essere soltanto un piccolo coltivatore diretto.
In realtà la sua professione era quella di sensale, o come diremmo oggi, di mediatore.
Non appena ebbe raggranellato un altro gruzzolo, inizio a praticare la vera attività a cui aveva sempre aspirato, e cioè quella di prestatore di denaro.
Come tutti coloro che entrano in questo genere di affari, anche Giorgio Ricci cercò subito di
ingraziarsi le autorità locali, mostrandosi sempre generoso e collaborativo.
Si mostrò incredibilmente magnanimo anche nei confronti dei familiari che prima lo avevano snobbato e che invece si videro concedere un trattamento di favore e persino validi consigli su come far fruttare il denaro.
Non si rendevano conto che lui li stava preparando a diventare i suoi prestanome nelle questioni meno limpide.
A quel punto si concesse il trasferimento in un'abitazione più rispettabile, ma ancora mancava un elemento per sancire il suo successo.
Per lui, che aveva fatto a malapena la terza elementare, l'ascesa sociale si ebbe anche nello sposare una donna istruita e di famiglia borghese.
Dopo attente valutazioni, trovò la persona che faceva per lui.
Clara Vallicelli era all'epoca una giovane maestra elementare e poteva persino vantare un'amicizia con la signorina Mariuccia De Toschi, figlia di Violetta Orsini, una cugina del conte Achille, e di un alto ufficiale di Pistoia.
Si erano conosciute al collegio del Sacro Cuore.
La signorina De Toschi aveva poi continuato a studiare all'università, lettere classiche, a Bologna, ma era rimasta in rapporti estremamente amichevoli con Clara, un elemento che ebbe conseguenze decisive su molte decisioni future del clan Ricci-Orsini.
Siccome la famiglia Vallicelli vedeva in Giorgio Ricci un astro nascente, e considerava la maestrina Clara come una vergine a rischio di zitellaggio, aveva accettato senza esitazioni la proposta di matrimonio di "Zuarz".
Alla fine si trattò di un matrimonio fortunato, nel senso che Giorgio Ricci ottenne quello che aveva sempre voluto, e cioè, anche grazie all'interessamento della signorina De Toschi in persona, di essere ammesso alla corte degli Orsini, e la maestra Clara ottenne finanziamenti per pubblicare numerosi saggi storici, tra cui le già citate "Cronache casemuratensi", che la resero una vera e propria autorità sulle vicende della Romagna centrale nel Medioevo.
Rimaneva un ultimo, decisivo passo da compiere, per poter guardare negli occhi il Conte Achille da pari a pari.
"Zuarz" divenne il finanziatore di tutte le stravaganti iniziative del nobile Orsini  in costosissime e disastrose attività di editoria dilettantistica, sperimentazioni architettoniche e di giardinaggio, operazioni di Borsa, attività ricreative e alti pozzi senza fondo.
Nel giro di pochi anni, la famiglia Ricci era riuscita a conquistare, per ipoteca, il feudo Orsini dal suo interno, fino ad arrivare a nominare come fattore e amministratore agricolo un proprio uomo, Michele Braghiri, e persino a imporre sua moglie Ida come nuova governante della Villa.
A quel punto il contadino arricchito e il nobiluomo decaduto si resero conto che una fusione delle loro famiglie avrebbe potuto non solo risolvere molti problemi, ma dar vita ad un interessante esperimento di riconquista e di espansione della Contea di Casemurate.

giovedì 11 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 5. Dalle Alpi all'Oceano Indiano

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Nei racconti a sfondo epico che Romano Monterovere, nei rari momenti in cui era in vena di confidenze, elargiva ad amici e parenti riguardo alla sua gloriosa partecipazione alla Guerra d'Abissinia, destinata ad estendere l'Impero d'Italia "dalle Alpi all'Oceano Indiano", c'erano, ad essere sinceri, molte lacune e ancor più contraddizioni, tanto che non risultò affatto facile cercare di farsi anche solo una vaga idea di quel che fosse realmente accaduto.

Secondo la maggior parte delle versioni, Romano Monterovere giunse al porto di Asmara, in Eritrea, nel novembre del 1935, dopo un lungo viaggio per mare su una nave del Regio Esercito di cui non è dato sapere il nome.
Tra il mal di mare e la calura equatoriale opprimente, l'approdo sul suolo eritreo non fu dei più esaltanti.
Faceva talmente caldo che, la sera stessa dello sbarco, decise di farsi un bel bagno nelle acque del Mar Rosso, dove rischiò di essere divorato dagli squali, o, come diceva lui, dai "pescecani".
Evitò per un pelo tale sorte grazie agli avvertimenti di un gruppo di eritrei che si erano messi ad urlare e ad indicare una direzione dove in  primo momento Romano non vide nulla, ma ad un secondo sguardo distinse alcune pericolose e inconfondibili pinne verticali.

Fattosi in questo modo la nomea di "sprovveduto", fu assegnato alle retrovie con funzione di guidatore di camion per vettovaglie e viveri.
La collocazione era quasi esente da rischi, ma c'era un piccolo dettaglio che poteva renderla pericolosa, soprattutto per gli altri: il guidatore non aveva la patente.
Cercò di farlo presente ai superiori, ma nessuno sembrava avere tempo per "simili inezie".
Al terzo etiope investito, l'ufficiale di riferimento, nel tentativo di insabbiare nel deserto dell'Abissinia, insieme ai cadaveri, anche lo scandalo, lo spedì in "licenza premio" ad Alula, nella punta estrema della Somalia, dove il Golfo di Aden confondeva le sue acque nell'Oceano Indiano.
Lì avrebbe dovuto, in segreto, imparato a guidare i camion, se ne avesse trovato qualcuno.
L'impatto iniziale fu traumatico: Alula era un piccolo villaggio di casupole tra il deserto e il mare, con un porticciolo naturale mezzo insabbiato, una piccola comunità di pescatori, una moschea, e una minuscola base italiana con altri reietti spediti lì a riflettere sui loro errori.

Eppure, sorprendentemente, quelli furono i giorni più belli della sua vita, e ne avrebbe portato con sé il ricordo come di una sorta di esperienza mistica e nello stesso tempo voluttuosa.
<<Non avete idea della meraviglia del colore dell'Oceano nei pressi del Golfo di Aden>> raccontava con aria rapita, e i suoi occhi azzurri sembravano riempirsi del colore stesso dell'Oceanp, e le loro iridi pulsavano di una vitalità da lungo tempo perduta, che emergeva soltanto nella rimembranza di quel remoto passato.
<<C'era anche un'oasi, dietro al villaggio. Era un piccolo paradiso, lontano dai mali del mondo e della guerra>>
Probabilmente i suoi occhi ricordavano anche il viso di una fanciulla con cui doveva aver avuto un'avventura. Non ne parlava mai, ma c'erano alcune fotografie, da lui nascoste in un bauletto insieme ad altri souvenir, e ritrovate soltanto dopo la sua morte, quando non poteva più rispondere a domande che, per un uomo riservato come lui, sarebbero state insopportabilmente imbarazzanti.

Quando infine riuscì a ottenere la patente di guida, mezza Etiopia era già stata conquistata.
Ma le imprese del milite Monterovere erano appena iniziate.
Abbandonata la calura delle zone costiere, fu mandato negli altipiani delle aree interne.
La sua prima prodezza fu quella di portare vettovaglie e munizioni alla 24esima divisione fanteria "Gran Sasso", di stanza ad Adua sotto il comando del generale Adalberto di Savoia-Genova, unanimemente considerato da tutti, a partire dai soldati semplici per arrivare al Re in persona, un "emerito idiota".
A questo punto della narrazione, con un sorriso complice agli ascoltatori, Romano Monterovere si toccava il lobo dell'orecchio destro, per indicare che il generale Savoia-Genova aveva anche fama di essere omosessuale. Seguivano alcune storielle piccanti sull'argomento.
All'epoca il linguaggio politicamente corretto era non solo molto distante nel tempo a venire, ma addirittura inimmaginabile, specie in chi era vissuto, anche in maniera critica, nell'Italia fascista.

Tornando serio, Romano descriveva poi la totale disorganizzazione dell'esercito, aggiungendo con il suo consueto e caustico pessimismo, che ogni tentativo di rendere efficiente qualunque elemento dell'apparato statale italiano era non solo impossibile, ma totalmente inutile, come ben presto lo stesso Duce avrebbe avuto modo di sperimentare a spese sue e di tutto il popolo italiano.

Già in Abissinia le cose si stavano mettendo male e il Comandante Superiore De Bono fu sostituito dal Maresciallo Badoglio, l'uomo dei momenti disperati, grande amico del Re, il quale non voleva farsi sfuggire a nessun costo la corona imperiale del Negus.
Quando la divisione "Gran Sasso" prese parte, insieme a tutto il II corpo d'armata, alla Battaglia dello Sciré, Romano Monterovere venne nuovamente destinato alla retroguardia, questa volta con risultati più apprezzabili.

<<Non dimentichiamo>> era solito far notare Romano nelle sue memorie di guerra <<che la retroguardia è costituita da truppe esperte, in grado di mantenere una forte coesione e un ottimo morale, per evitare una rotta drammatica>>
Fortunatamente per lui, quello fu uno dei rari casi in cui non si presentò tale evenienza.

Il 29 febbraio 1936 l'intero II Corpo d'Armata marciava su Axum,  il IV Corpo si muoveva come programmato per attaccare il fianco sinistro dello schieramento etiope.
Il 2 marzo, l'avanzata del II Corpo riprese ma venne bloccata dalla retroguardia del ras Immirù: fu un attacco inaspettato, ma breve in quanto la mattina dopo, quando l'artiglieria e l'aeronautica italiane erano pronte per agire, gli Etiopi avevano già abbandonato il campo di battaglia, coprendo la ritirata strategica delle truppe del Negus.

Di tutto questo Romano Monterovere non vide praticamente nulla.
Ma il suo "onore" di guerriero trovò un riscatto poco dopo, quando il suo camion fu incaricato di portare munizioni presso "i guadi del fiume Telcazzè" (e guai se qualcuno osava ridacchiare per quel nome singolarmente esotico).
Il 3 e 4 marzo 1936, mentre la II Armata si stava faticosamente aprendo la strada per Selaclacà, seguita dalla retroguardia e dal milite Monterovere, le truppe di Ras Immirù giunsero improvvisamente sulle rive del fiume, dove però questa volta gli Italiani, stranamente, non si fecero prendere alla sprovvista. 
Le truppe dei guerrieri etiopi trovarono ad attenderle 126 cacciabombardieri che in due giorni sganciano senza sosta e senza pietà 636 quintali di esplosivo, bombe incendiarie ed iprite, oltre a 25.000 proiettili di mitragliatrice.
Questa fu la vendetta di Badoglio, ma un giorno l'Italia avrebbe pagato caro il prezzo del sangue di un paese che difendeva la propria indipendenza.

La distruzione dell'armata del Ras Immirù, seguita da quella delle armate dei Ras Mulughietà e Cassa, permise a Badoglio di concentrare la propria attenzione sull'avanzata verso la capitale.  Con l'eccezione delle poche guardie al diretto comando del negus Hailé Selassié, imperatore d'Etiopia, non vi erano altre forze etiopi che si opponessero agli italiani nell'area.

Romano Monterovere, per quanto fosse decisamente, seppur segretamente, antifascista, provò comunque un senso di ebbrezza nel momento in cui, il 5 maggio 1936, il suo camion entrò ad Addis Abeba, mentre dagli altoparlanti le radio proclamavano la nascita dell'Impero.

Era il secondo impero romano, ma come succede a molti "sequel" non fu all'altezza delle aspettative.
Certo, i piani di Mussolini e di Vittorio Emanuele III, il re Imperatore, erano ambiziosi, mirando all'egemonia del Mediterraneo centro-orientale e al collegamento via terra della colonia libica con quella etiopica. Un sogno destinato a diventare un incubo.

Ma in quei giorni di maggio del 1936 si respirava un'aria di potenza che contagiava anche i più mansueti, e questa ebbrezza. nel caso di Romano Monterovere, era probabilmente corroborata dalla presa d'atto che, a guerra finita, lui era ancora vivo, senza un graffio e pieno di ricordi che gli sarebbero bastati per sentirsi, durante tutto il resto della sua lunga vita, un uomo di mondo, come avrebbe detto Totò facendo valere i suoi anni di servizio militare a Cuneo.

Quando Romano fece ritorno a casa, i suoi familiari si accorsero che era cambiato: c'era qualcosa di diverso in lui, ma come sempre non riuscivano a scoprire esattamente cosa.
Lui conservò il segreto per tutta la vita, ed ogni volta che la sua mente tornava all'oasi di Alula, nei suoi occhi brillava il colore dell'Oceano e la mancanza, struggente, di un paradiso perduto per sempre.

lunedì 1 luglio 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 4. Noblesse oblige

Nel 1936, all'età di 21 anni, la contessina Diana Orsini Balducci di Casemurate non era ancora ufficialmente fidanzata.
E questo era strano, perché oltre che nobile era anche bella: aveva grandi occhi neri e penetranti, che conferivano notevole intensità e fascino al suo sguardo, così come il profilo leggermente e aristocraticamente aquilino e i lunghi capelli neri pettinati come quelli di Vivien Leigh in Via col vento, che risaltavano maggiormente sulla pelle chiara. 
Abbastanza alta, magra, aveva un portamento aggraziato, armonioso, che ben si addiceva ai modi  gentili e un garbati e ad una personalità che presentava numerosi pregi, come il buon gusto, la capacità di conversare in maniera interessante, seppur con una certa riservatezza che permetteva soltanto in un secondo momento di conoscere anche l'intelligenza e la tenacia che caratterizzavano la sua personalità.

Non mancavano tuttavia i difetti come l'ironia un po' troppo corrosiva, la permalosità, la tendenza a non perdonare facilmente un torto subito, e i cambiamenti di umore troppo repentini, specie quando le emozioni oscillavano tra una malinconia esistenziale e una rabbia contro tutte le ingiustizie del mondo e della vita.
Erano questi i sintomi di una tara ereditaria dei Conti di Casemurate, una patologia che oggi potremmo definire disturbo bipolare, anche se nella contessina Diana, tutto questo veniva mascherato da un altro disturbo di cui pure soffriva, e cioè una terribile emicrania, che avrebbe poi trasmesso ad alcuni dei suoi discendenti.

Aveva ricevuto un'educazione di prim'ordine, con tanto di diploma di liceo classico, (e quindi conoscenza di greco, latino e francese), di canto, di danza, di equitazione
 e altre simili attività aristocratiche di elevata inutilità sociale, che si univano a quelle tradizionali di una signorina di quei tempi: sartoria, giardinaggio, erboristeria e cucina.

Tre anni prima aveva ufficialmente adempiuto al primo grande rito iniziatico delle ragazze "di buona famiglia", ossia il Debutto in Società.
Nella Contea di Casemurate il luogo deputato a questo evento memorabile non avveniva più, da tempo, in una proprietà degli Orsini, dal momento che la loro precedente e ben più antica abitazione era stata acquistata ballo dai facoltosi marchesi Spreti di Serachieda, insigne dinastia ravennate che vantava discendenze persino dagli Esarchi bizantini.


Gli Orsini e gli Spreti erano comunque legati da rapporti di parentela, in quanto, qualche secolo prima, una Lucrezia Spreti aveva sposato un conte Orsini, e dunque il nobile sangue degli Esarchi era entrato nelle vene dei discendenti di Orsino Fabio Massimo, mitico fondatore della famiglia Orsini e discendente dell'antichissima e patrizia gens dei Fabi Massimi dell'antica Roma.


Ma quei tempi erano passati ed ora gli Spreti erano indubbiamente i più ricchi e i più elevati come status sociale.
Il prestigio di Villa Spreti, dotata persino di un'alta torre merlata risalente al XV secolo e detta "Torre di Casemurate", era tale da far sì che la strada di fronte a quel notevole maniero, sorto vicino alla chiesa parrocchiale, avesse preso il nome di Via Spreti, e così è chiamata ancor oggi.

L'appendice "di Serachieda", derivava invece da un torrentello che scorreva proprio accanto alla Torre.

Inoltre, per dirla tutta, mentre Villa Spreti era una residenza di villeggiatura, la Villa Orsini era l'ultima residenza rimasta alla famiglia dei Conti di Casemurate,  e per giunta era gravata da imbarazzanti ipoteche dovute ad una serie di questioni di cui parleremo tra poco.


A causa di tali ristrettezze Villa Orsini versava in condizioni decisamente peggiori di Villa Spreti, sebbene quest'ultima fosse molto più antica.
Villa Orsini era stata costruita soltanto agli inizi del '900, seguendo i criteri dello stile liberty, che trovavano il loro massimo trionfo in quello che non a caso era stato battezzato come il Salotto Liberty,
dove la contessa Emilia riceveva alle 5 pomeridiane, per un tè,  tutte le dame altolocate della zona.
Queste visite tuttavia era tuttavia andate scemando, man mano che le fortune economiche degli Orsini si erano a tal punto aggravate da minacciare la proprietà stessa non solo della casa, ma anche delle terre rimanenti che costituivano il cosiddetto Feudo Orsini, che negli anni d'oro, secoli prima, comprendeva quasi l'intera Contea.

L'unica speranza per salvare la dinastia dalla rovina consisteva nel combinare matrimoni adeguati per i figli.
Il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate e sua moglie Emilia Paolucci de' Calboli avevano avuto sei figli.
Eugenio (1913-1916) morto precocemente di meningite.
Diana nata nel 1915, la cui lunga vita sarà ampiamente narrata in questo romanzo.
Annalisa (1917- 1919) morta precocemente di febbre spagnola.
Ginevra, nata nel 1921, pallida, magra, rossa di capelli, lentigginosa, ma di carattere gentile, destinata a sposare il magistrato Giuseppe Papisco, da cui avrà numerosi discendenti, alcuni dei quali ricopriranno un certo ruolo in questa nostra storia. Ma proseguiamo con gli ultimi due figli.
Isabella, nata nel 1924, prometteva di diventare persino più attraente di Diana.
Arturo, nato nel 1926, erede formale della Contea, era un grande appassionato di motociclismo e automobilismo.


Dal momento che Diana, all'epoca, era l'unica figlia in età da marito, tutte le trattative segrete per i matrimoni combinati erano concentrati su di lei.
L'unica soluzione per evitare la catastrofe era fare in modo di imparentarsi, tramite matrimonio, con qualche famiglia ricca.
Purtroppo, considerando l'enormità dei debiti che gravavano sulla famiglia dei Conti di Casemurate, e il rischio probabile di una completa rovina, seguita dal disonore sociale, spaventavano anche i più ricchi borghesi della zona.
Rimaneva comunque un consistente numero di corteggiatori che il Conte sprezzantemente giudicava di rango inferiore e "squattrinati", come se lui fosse meno squattrinato di loro.


Tuttavia non proprio tutti i corteggiatori di Diana erano senza soldi: uno i quattrini ce li aveva, ma le origini agresti della sua famiglia, nonché la nomea di prestatori di denaro a tassi usurari,  erano state considerate, almeno in un primo momento, troppo sconvenienti.


Questo corteggiatore, come si era anticipato in precedenza, era il ruspante Ettore Ricci, figlio dell'ancor più ruspante Giorgio, detto Zùarz, nel locale dialetto gallo-romanzo.


La famiglia Ricci, nota in quel dialetto celtico come "Ca' ad Zùarz", era la principale creditrice della famiglia Orsini Balducci di Casemurate, detta "la Ca' de Count", con un tono nel quale rimaneva ben poco dell'antica reverenza, mentre dominava un senso di ironia che portava lo stesso Giorgio Ricci a parlare del suo debitore come di "un Count scunté".

Certo, agli occhi del Conte Achille,  i Ricci rimanevano comunque "dei villani e degli zotici", ma quest'argomentazione passava in secondo piano di fronte alla considerazione che proprio i suddetti zotici si trovavano in possesso delle ipoteche  di cui si è detto.


Invano il Conte Orsini si era rivolto ai parenti di sua moglie
Per troppo tempo avevano prestato, a fondo perduto, molti danari ai cognati di campagna, e non avevano nessuna intenzione di rinnovare un legame che in fondo non li riguardava più di tanto, appartenendo la contessa Emilia, per nascita, soltanto a un ramo collaterale e meno importante dei Calboli.

Ogni volta che il Conte Achille si trovava a meditare su quell'argomento, non poteva fare a meno di condannare la leggerezza con cui in gioventù, tra investimenti sbagliati, spese folli, vizi inconfessabili e altre dissipatezze aveva dato il colpo di grazia ad una famiglia già in declino, che ormai si stava trasformando in un crollo totale.

In qualità di creditori ipotecari, i Ricci stringevano lentamente, ma inesorabilmente il cappio intorno al collo lungo e pallido del Conte Orsini, il quale tentava di tener buoni quei "bifolchi" ricevendo spesso l'unica componente presentabile di quel clan, ossia la Maestra Clara Marinelli Ricci, moglie del capofamiglia e, come già si era accennato, autrice delle Cronache casemuratensi.


L'apporto della maestra Clara e della sua famiglia d'origine, i borghesi Marinelli, aveva contribuito a almeno un po' a dirozzare le rudi maniere contadine dei Ricci, per non parlare del loro temperamento sanguigno, irascibile e assai poco propenso alle sottigliezze del galateo.


E tuttavia, raggiunta finalmente una certa agiatezza, il vecchio Giorgio Ricci si atteggiava ormai a riverito possidente.
Tra i suoi numerosi figli, Ettore era di sicuro il più intraprendente, e aveva fama di instancabile lavoratore. In lui l'indole bizzarra, focosa e irascibile dei Ricci, era compensata da una simpatia derivante da un talento istrionico e dalla capacità di avere sempre la battuta pronta.


Fisicamente non era un gran che: basso, irsuto, dai lineamenti duri,
contrastava in maniera evidente con la bellezza di Diana Orsini.
Ma, come diceva Zsa Zsa Gabor: "Un uomo ricco è sempre bello".
Peccato che Diana Orsini non la pensasse affatto allo stesso modo.

Non si trattava solo di un capriccio: la contessina era consapevole che la personalità di Ettore Ricci e la propria erano agli antipodi.
Naturalmente nessuno si era minimamente preoccupato di informare per tempo Diana del fatto che, nonostante la sua opposizione, le trattative per un eventuale matrimonio con Ettore stavano proseguendo in maniera febbrile e concitata.


Le uniche allusioni a tal proposito provenivano dall'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, una certa Ida Braghiri, moglie del fattore degli Orsini, che era già segretamente a libro paga della famiglia Ricci.
La signora Ida non faceva altro che tessere le lodi di Ettore Ricci.
Diana, che non era una stupida, capì quello che c'era da capire.
<<Non lo sposerò mai!>> dichiarò apertamente ai genitori <<Non potete costringermi>>
La Contessa Emilia assunse un'espressione affranta: <<Senti, la vita reale non è come un romanzo di Jane Austen, dove alla fine la ragazza bella e intelligente sposa l'uomo bello e ricco di cui è pazzamente innamorata. No, qui siamo nel mondo reale e...>>

Diana interruppe la madre:
<<Lo so benissimo! Ma credevo che il mondo, dai tempi di Jane Austen, fosse migliorato! Sono passati più di cent'anni e ne abbiamo fatti di passi in avanti...>>
<<Verso il basso!>> concluse la madre <<Cent'anni fa la nostra famiglia era ricchissima, ora non più, per cui, se tu non sposerai Ettore, finiremo tutti sul lastrico>>
<<Vorrà dire che lavoreremo, io ho il diploma magistrale>> sottolineò Diana <<e dunque posso insegnare e voi troverete qualcosa di adatto...>>
Questa volta fu il Conte in persona a intervenire: 

<<Piuttosto mi sparo un colpo di rivoltella! La nobiltà ha i suoi obblighi, e tra questi c'è il matrimonio combinato. Ma il lavoro... no, meglio la morte. Nessuno potrà mai dire di avere il Conte Orsini sul libro paga! 
Ma tu, figlia mia, potresti finire per avermi sulla coscienza. Hai avuto un'educazione di prima classe. Sei cresciuta nei privilegi. E' tempo che tu faccia il tuo dovere>>
La Contessa Emilia approvò:
<<Tuo padre ha ragioneIn fin dei conti, noblesse oblige>>
Diana scosse il capo con tutte le sue forze:
<<Mai! Avete capito? Mai e poi mai!>>
Le ultime parole famose...

martedì 25 giugno 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 3. Dagli Appennini alla Bassa

Quando Enrico Monterovere e sua moglie Eleonora Bonaccorsi decisero di lasciare ciò che restava delle loro terre nell'avita Contea di Querciagrossa, alle pendici  dell'Appennino modenese, per trasferirsi da qualche parte nella Bassa pianura padana, il primo dei loro nove figli aveva già trent'anni e l'ultimo ne aveva solo due.
Ci soffermeremo più avanti sui singoli componenti di quella numerosa prole, dal momento che ciascuno di tali rampolli avrà un suo ruolo, nel bene e nel male, in questo nostro racconto.
In un primo momento decisero tutti di seguire il padre, cambiando residenza più volte, passando da un affitto all'altro, a seconda del lavoro, sempre saltuario, svolto da Enrico e da qualcuno dei figli più grandi.
Ad essere sinceri, Enrico Monterovere non era quel che si direbbe un infaticabile lavoratore e nessuno, nemmeno sua moglie, era in grado di dire con esattezza di cosa si occupasse, almeno fino al 1935, quando arrivò la grande svolta nella sua vita, la Chiamata dal Sinai, ossia l'assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, presso la ridente stazione di Bagnavallo, in provincia di Ravenna.
Certo, per gente nata negli Appennini, trasferirsi nella Bassa ravennate era un po' come sprofondare nelle sabbie mobili, ma un posto nelle Ferrovie valeva questo ed altro.
Restava comunque piuttosto nebulosa la natura dell'incarico di Enrico Monterovere presso la Stazione dei treni.
Nessuno lo aveva mai visto con una divisa o una paletta rossa e verde in mano.
Qualche malalingua, però, insinuava di averlo scorto con secchi d'acqua, stracci e scopone.
Ma si trattava di malelingue, certamente ostili al fatto che un montanaro venuto da chissà dove fosse stato assunto, chissà per quale ragione, presso un'istituzione riverita e forte quale le Ferrovie dello Stato.
In ogni caso, né la moglie, né i figli decisero di indagare ulteriormente sulle mansioni del capofamiglia. In fondo un salario alla fine del mese arrivava, e per quanto non fosse gran che, valeva pur sempre il detto: pecunia non olet.
Quando finalmente ebbero raggiunto la cifra sufficiente per acquistare una nuova residenza, seguirono il consiglio del primogenito Ferdinando, che a differenza del padre, aveva ereditato il carattere intraprendente e coraggioso dell'omonimo nonno, disarcionato all'Orma del Diavolo.
Ferdinando, che da ragazzo aveva lavorato nelle numerose cave di ghiaia intorno a Pavullo del Frignano, sulle rive del Panaro, convinse il resto della famiglia ad acquistare un podere adiacente ad una vecchia cava tra Bagnacavallo e il vicino borgo di Lugo, sulla cui etimologia celtica o romana esiste una diatriba alla quale dedicheremo in seguito qualche riflessione.
Il prezzo risultò conveniente, ma le condizioni della proprietà non erano particolarmente incoraggianti.
La casa a due piani sembrava stare in piedi per miracolo. 
Il piano terra era alquanto umido, e la muffa un po' troppo resistente, il seminterrato tendeva ad allagarsi ad ogni temporale, mentre nelle stanze da letto al secondo piano avevano fatto il nido i piccioni.
Rendere abitabile quel tugurio non fu un'impresa da poco, ma in fondo i Monterovere non erano forse stati temprati dai rigori degli inverni appenninici?
Questo era quanto Enrico ripeteva le rare volte in cui rincasava sobrio.
Le altre volte era meglio non rivolgergli parola.
In particolar modo era meglio non ipotizzare in sua presenza un qualche collegamento tra l'umidità della residenza e la tubercolosi di cui avevano incominciato a soffrire alcuni dei suoi figli.
Come si è detto, Enrico ed Eleonora ne avevano avuti nove, di cui sei maschi e tre femmine.
Ferdinando si era già messo al lavoro per rendere operativa la cava di ghiaia.
Era un uomo alto, massiccio e robusto, con un paio di baffi alla Gino Cervi che imponevano un certo rispetto.
Di tutt'altra pasta era il secondogenito Alfredo, il quale, non avendo alcuna voglia di aiutare il fratello, né di dedicarsi a qualche forma di apprendistato o di studio, decise di emigrare in America, facendosi vivo, di quando in quando, per lettera, al fine di richiedere ai genitori e ai fratelli un sostegno economico.
In seguito i suoi nipoti italiano avrebbero ironizzato sul fatto di essere gli unici che, invece di ricevere soldi dallo "zio d'America", erano costretti a spedirglieli.
Va detto comunque a sua difesa che egli ebbe modo di rendersi utile quando fece avere, a metà degli anni '40, i primi campioni di penicillina, che salvarono la vita ad alcuni dei suoi fratelli.
Troppo tardi tuttavia per salvare Renata, Maria e Giovanni, dal momento che l'aria di Bagnacavallo non era esattamente quella del sanatorio di Davos.
L'unica sorella che si salvò fu la la terzogenita Anita, donna volitiva e caparbia, d'aspetto vagamente simile a Marlene Dietrich, era riuscita ad ottenere il diploma per l'insegnamento magistrale e poi, giovanissima, una cattedra a Fiume, quando era ancora una città italiana.
Presteremo tuttavia una particolare attenzione al fratello quartogenito, Romano, i cui discendenti, come vedremo, avranno a che fare molto intimamente con le altre famiglie seguite in questo nostro racconto.
Le mansioni di Romano, nella cava di ghiaia, variavano in continuazione, forse perché non ce n'era nessuna che lo appassionasse o nella quale riuscisse a distinguersi. Era una sorta di factotum, ma non nell'accezione letterale del termine. Una delle sue battute preferite era: "il lavoro nobilita l'uomo e lo rende simile alle bestie". In ogni caso, come era già accaduto a suo padre, nessuno riuscì mai a stabilire con certezza di cosa si occupasse concretamente.
Era un uomo taciturno, abitudinario, con certi tratti ossessivo-compulsivi che emersero soltanto in seguito.
Una prima, ma significativa svolta nella sua vita avvenne nel 1935 quando colse l'occasione per distinguersi arruolandosi come  volontario nella Guerra d'Abissinia, anche se il metodo di arruolamento risultò più che altro simile ad una retata di polizia con successiva deportazione al porto eritreo di Asmara.
Rimanevano ancora sul groppone dei Enrico ed Eleonora altri due figli, che all'epoca erano ancora adolescenti.
Il primo, che si chiamava Umberto, era destinato a continuare gli studi fino al conseguimento della laurea in Legge.
Sarebbe divenuto il responsabile dei contratti e dei contenziosi dell'azienda di famiglia.
L'ultimo figlio, Edoardo, che non sapeva fare assolutamente niente, fu destinato, come era ovvio, alla carriera politica e dopo la guerra divenne un militante del Partito Comunista Italiano e fece carriera nel partito e nelle istituzioni.
La signora Eleonora aveva inoltre una sua sorella, di nome Valentina, che sposò il facoltoso commerciante Gualtiero Bassi-Pallai.
Costui fu convinto da Ferdinando ad investire una cospicua quantità di denaro nell'attività di famiglia, che aveva preso il nome di Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Tutto sommato, dopo tanti anni di tribolazioni, il peggio sembrava essere passato, o almeno questa era l'impressione della famiglia Monterovere poco prima che, nel 1940, la radio annunciasse che "un'ora fatale, segnata dal destino, batte nei cieli della nostra Patria.
L'ora delle decisioni irrevocabili."

domenica 23 giugno 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 2. La Contea di Casemurate

Se nella realtà esistesse un equivalente della Contea degli Hobbit, sarebbe senza dubbio la Contea di Casemurate, in Romagna, avente come centro il paese che le dà il nome, un nome strano, ma molto appropriato, se si considera il tacito, ma radicato desiderio, da parte dei suoi residenti, di non essere disturbati dal resto del genere umano..
La storia di questo discreto angolo di mondo affonda le sue radici nel Medioevo.
Secondo le non troppo affidabili Cronache casemuratensi della maestra elementare Clara Marinelli, coniugata Ricci (unica docente della scuola locale), pubblicate nel 1933 con tanto di prefazione di Sua Signoria, l'illustrissimo don Achille Orsini Balducci, XVII Conte di Casemurate, l'etimologia del luogo sarebbe da attribuirsi al fatto che il villaggio e il torrione centrale, fin dalla loro fondazione, nel Duecento, erano stati cinti di mura così solide da reggere a qualunque calamità, tranne le riforme urbanistiche di fine Ottocento, che portarono all'abbattimento di quasi tutte le cinte murarie presenti in Italia.


L'unico dato relativamente certo consisteva nel fatto che la fortezza e il villaggio di Casemurate erano sorti presso l'incrocio tra due strade di una certa importanza, e cioè la Cervese, che collegava, e collega tutt'ora la città di Forlì con la cittadina costiera di Cervia, e il Dismano (antica Via Decumana) che collegava e ancor oggi collega Ravenna e Cesena
Quelle due strade dividono tuttora la Contea di Casemurate in quattro parti, come i Decumani della Contea di Tolkien,
Pare anche assodato che i confini dell'antico feudo casemuratense fossero molto più estesi di quelli dell'attuale frazione, e pertanto il territorio della Contea tradizionale poteva essere all'incirca simile a un cerchio avente come centro l'incrocio tra la Cervese e il Dismano, e un diametro di circa dieci chilometri.
Per quanto, negli anni '30 del Novecento, le terre di Casemurate fossero suddivise in varie proprietà più o meno grandi, le Cronache casemuratensi ci ricordano che per molti secoli la signoria territoriale fu nelle mani di due sole potenti famiglie, i conti Orsini Balducci, le cui fortune andarono poi decadendo nei secoli e i marchesi Spreti di Serachieda, che invece ebbero grande fortuna.

Le Cronache asseriscono inoltre che la fondazione di Casemurate si debba far risalire alla precisa data del 21 aprile 1278, quando Bertoldo Orsini, nipote di papa Niccolo III (
quello con cui Dante ebbe un furente alterco in un Canto dell'Inferno, dopo averlo scambiato per Bonifacio VIII), della potente famiglia romana degli Orsini, fu nominato Conte di Romagna e affidò al fratello minore Bernardo il compito di presidiare la bassa pianura al centro del quadrilatero compreso tra Ravenna, Forli, Cesena e Cervia.


Fu così che, sempre secondo le Cronache  della Maestra Ricci, nel 1278, Bernardo Orsini costruì una fortezza all'incrocio della Cervese e del Dismano dove c'era un piccolo, anonimo villaggio, e la cinse di mura, dandole appunto il nome di Case Murate, che solo in seguito divenne un'unica parola.


Il documento probante tale atto di fondazione, secondo la scrupolosa indagine della Maestra Ricci, risultava conservato nell'archivio privato del Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, che si proclamava diretto discendente del fondatore Bernardo, basandosi sempre su documenti gelosamente custoditi nel suddetto archivio, talmente segreto che, escludendo il Conte e la Maestra, non era mai stato visto da anima viva.


Questa segretezza aveva suscitato le ironie dei feudatari confinanti, sulle cui nobilissime origini vi erano prove evidenti. Stiamo parlando di casati insigni, come quello dei già citati marchesi Spreti di Serachieda, patrizi ravennati, o gli illustri signori della viticoltura, i conti Zanetti Protonotari Campi, per non parlare dei Paulucci de' Calboli, che per secoli avevano conteso agli Ordelaffi la signoria di Forlìì.

Gli Orsini Balducci avevano comunque provveduto a rinvigorire il proprio sangue blu con una politica matrimoniale che avrebbe fatto invidia all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo ("bella gerant alii, tu felix Austria Nube"). Il matrimonio più prestigioso era stato proprio quello del conte Achille Orsini con la contessina Emilia Paulucci de' Calboli, la quale, pur non portando neanche un centesimo di dote, aveva innalzato i signori di Casemurate nell' "Almanacco di Gotha" della nobiltà romagnola.

Eppure i dubbi sulla ricostruzione storica asserita dalle Cronache casemuratensi continuavano a persistere.
In effetti, a voler essere del tutto sinceri, non rimanevano tracce archeologiche né delle mura, né del castellodella qual cosa le Cronache colpevolizzavano, testuali parole, "l'iconoclastia positivista e modernista delle pubbliche istituzioni del Regno d'Italia, nonché la barbarie distruttiva dell'avanguardia futurista e dell'architettura razionalista littoria", parole che sembravano piuttosto improbabili nell'ambito del lessico famigliare della Maestra Ricci, mentre esprimevano in pieno l'eloquio infuocato, nonché le idee ardite, del Conte Orsini.


L'unico motivo per cui il contenuto delle Cronache non fu messo in discussione dalla censura fascista potrebbe essere attribuito al numero piuttosto ristretto delle copie stampate, tenendo conto anche delle ristrettezze nelle quali la famiglia dei Conti di Casemurate era venuta a trovarsi.


Se però la sorte degli Orsini pareva inesorabilmente orientata verso la bancarotta, al contrario la condizione finanziaria della famiglia Ricci, di cui la maestra Clara faceva parte, era del tutto florida, tanto che suo marito Giorgio, agiato agricoltore e fervente fascista, stava ampliando i propri possedimenti e accumulando diritti d'ipoteca sulle stesse terre del Conte.


E di certo la fortuna dei Ricci a Casemurate era anche legata al fatto che Giorgio Ricci era stato uno dei primi aderenti al Fascismo, potendo vantare un'amicizia personale e di antica data col Duce in persona, suo coetaneo e forlivese come lui.

Giorgio Ricci e Clara Vallicelli avevano avuto molti figli dai nomi altisonanti suggeriti da un parroco fin troppo colto tra cui Oreste, Roderico, Caterina, Carolina, Maria Teresa, Liliana, ma soprattutto Ettore, che aveva ereditato dal padre il bernoccolo per gli affari e dalla madre la sconfinata ammirazione mista ad invidia nei confronti degli Orsini.


Da tempo Ettore Ricci aveva messo gli occhi addosso alla figlia primogenita del Conte, la bella e raffinata contessina Diana, che tuttavia non pareva ricambiare tali attenzioni.


Se ci è concessa qualche similitudine letteraria, Ettore Ricci era come il Mastro-Don Gesualdo della situazione, mentre Diana Orsini sembrava uscita da un romanzo di Jane Austin o Margaret Mitchell.


Date queste premesse, era già chiaro fin dall'inizio che le cose, per entrambi e le rispettive famiglie, per non parlare dell'intera Contea di Casemurate, avrebbero preso molto presto una brutta piega.

giovedì 20 giugno 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 1. L'Orma del Diavolo



La sventura si abbatté per la prima volta sulla famiglia Monterovere  in una gelida notte di febbraio del 1928, quando l'ottuagenario patriarca Ferdinando, di ritorno da una delle sue folli cavalcate in mezzo ai boschi dell'Appennino modenese, fu improvvisamente disarcionato dal suo destriero nei pressi di una località che la gente del luogo chiamava, premurandosi di fare i dovuti scongiuri, l'Orma del Diavolo.
Tale nome era legato ad un'antica superstizione.
I vecchi raccontavano che proprio in quel punto, attualmente situato tra il borgo di Querciagrossa e il castello di Monterovere, nelle vicinanze di Pavullo, migliaia di anni prima, esisteva un'enorme quercia, centro del culto pagano dei Druidi, praticato da alcune tribù dei Galli Boi e dei celto-liguri Friniati, sopravvissute alla conquista romana della Gallia Cisalpina e ritiratesi nella zona appenninica retrostante alla via Emilia.
Secondo il non troppo affidabile testo "I Celto-liguri del Frignano", edito a proprie spese da Luigi Andrea Melegnati, erudito preside di una scuola media di Pavullo, in quelle zone dell'alto modenese, una tribù di Galli Boi si sarebbe fusa con ciò che restava degli antichissimi Friniati, popolazione celto-ligure pre-romana, e i due popoli, pur adeguandosi ad una romanizzazione di facciata, avrebbero coltivato in segreto le tradizioni ancestrali, che gli Iniziati chiamavano con reverente solennità "l'Antica Via".

Sempre secondo il testo del Melegnati, quella stessa quercia sarebbe stata poi abbattuta per ordine dell'imperatore Teodosio I, nell'Anno Domini 389, in seguito alle devote, ma insistenti sollecitazioni di sant'Ambrogio, all’epoca vescovo di Milano.

Poco dopo l'abbattimento dell'antica quercia celtica, incominciarono ad essere avvistati, in quel luogo già considerato un centro di stregoneria, alcuni fenomeni inspiegabili che presto vennero identificati come spiritelli notturni, folletti, elfi o fate del Piccolo Popolo di cui erano piene le leggende della tradizione celtica che, nonostante la colonizzazione romana e la predicazione cristiana, sopravvivevano radicate nell'immaginario collettivo delle piccole comunità dell'entroterra.

E forse parte di quell'antico sangue celtico scorreva persino nelle vene di Ferdinando Monterovere, guardacaccia della selva di Querciagrossa, che si proclamava discendente del feldmaresciallo Raimondo Monterovere, conte di Querciagrossa e condottiero degli eserciti austro-ungarici nella loro prima guerra contro i Turchi Ottomani.
Il castello dei Monterovere era ancora lì, in cima alla collina, ma la famiglia era ormai decaduta e, come avrebbe detto il professor Tolkien, "da lungo tempo orbata di signoria e comando".
Si manteneva vivo, tuttavia, un certo spirito aristocratico e sdegnoso, che attribuiva ai Monterovere, forse anche a causa dell'alta statura e dell'indole burbera e poco socievole, una certa aria di severo disprezzo nei confronti del mondo intero.
Ciò metteva in soggezione gli altri abitanti di Querciagrossa, che provavano una sorta di timore reverenziale nei confronti di "don Ferdinando", quando pattugliava a cavallo la foresta e il villaggio, spingendosi fino alla collina e alle mura del castello che un tempo era appartenuto ai suoi antenati,
Tuttavia il vecchio Ferdinando non era poi così severo come lo descriveva, e anzi con i suoi numerosi figli e nipoti era estremamente gentile, e amava trascorrere le serate accanto al focolare, raccontando ai bambini le antiche leggende celtiche, fino a che la brace non si spegneva e i piccoli già erano tra le braccia di Morfeo.
Pur amando molto queste leggende, non aveva mai dato troppo credito alle voci riguardanti l'Orma del Diavolo e riteneva che gli unici veri pericoli, in una foresta, fossero i briganti, i lupi, gli orsi e i cinghiali.
Mai e poi mai si sarebbe lasciato convincere da certe superstizioni inventate dalle vecchie comari bigotte per mettere in cattiva luce i pagani.

E tuttavia quando nel tardo pomeriggio del 28 febbraio 1928, quando ritrovarono il suo cadavere vicino al corpo senza vita del cavallo azzoppato, nessuno riscontrò tracce di violenza da parte di briganti, lupi, orsi o cinghiali.
Certo, la spiegazione più razionale sarebbe stata che un uomo anziano come lui, di oltre ottant'anni, poteva essere caduto da cavallo per aver perso il controllo delle redini, o per un malore.
Oppure poteva essere stato lo stesso cavallo, anch'esso non più giovanissimo, ad essere stramazzato a terra, portandosi dietro all'altro mondo il suo padrone, ammesso che esista un altro mondo per i cavalli, per non parlare degli umani.
Il problema era però che il cavallo, nonostante l'età, si era sicuramente impennato, lasciato sul sentiero impronte sospettosamente profonde, come se avesse visto qualcosa di terrificante.
La vicenda suscitò profondo scalpore tra gli abitanti del paese e rafforzò la loro convinzione sulla natura maledetta di quel luogo e di quel bosco.
Diverse furono le reazioni dei figli del defunto Ferdinando.
Il primogenito, Enrico, prese una drastica decisione e scese a valle, nella Bassa Padana, insieme alla moglie Eleonora e ai nove figli ch'ella gli aveva dato, e sfidando le nebbie,  i rigori degli interminabili inverni e l'afa soffocante delle estenuanti estati tra mosche e zanzare, si stabilì nelle paludose campagne tra Ravenna e Faenza.
Il secondogenito, Domenico, si arroccò nelle "wuthering highs" del Monte Cimone, tra Sestola e Fanano.
Il terzogenito, Bartolomeo, partì per le Americhe.
Difficile dire chi fece la scelta peggiore.

lunedì 10 giugno 2019

Mappa dell'Europa e dell'Italia nel 1300 all'epoca di Dante


Mappa dell'Italia nell'Età Comunale dal Duecento al Trecento. L'Italia dei Comuni e delle Signorie nel Basso Medioevo.



martedì 28 maggio 2019

Tutte le spiegazioni alternative del finale di Game of Thrones e della Canzone del Ghiaccio e del Fuoco

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1) Spiegazione "profetica" o del "fraintendimento della Profezia": la missione del "Principe Promesso", Jon Snow alias Aegon VI Targaryen non era soltanto quella di mettere insieme un esercito che fermasse l'avanzata degli Estranei,  ma anche, e forse soprattutto, quella di provocare la distruzione del Trono di Spade, iconico simbolo del Male, e di porre fine alla dinastia Targaryen, che già nel suo motto "Fuoco e Sangue", ha rappresentato nella maggior parte dei casi la prima, massima e originaria causa delle calamità di Westeros. 
Secondo questa interpretazione, si potrebbe persino adombrare che il ruolo di Jenny di Vecchie Pietre, manipolata dalla veggente albina che formulò la Profezia, fosse proprio la rovina dei Targaryen (anche a costo di un'ecatombe epocale segnata da trent'anni di guerre) e la distruzione del Trono di Spade.

2) Spiegazione "dietrologica" e "complottista" : chi è veramente il re Bran lo Spezzato? Lui stesso dice a tutti coloro che gli chiedono perdono per le violenze passate (in particolare Jaime e Theon), di non essere più Bran Stark, ma qualcosa di diverso. Questo qualcosa viene chiamato "il Corvo dai Tre Occhi", con riferimento alla Sapienza Arcana che deriva dal Terzo Occhio, quello che vede oltre le apparenze, e che conosce il passato, il futuro e la verità).
Di questa entità però sappiamo soltanto che il precedente Corvo dai Tre Occhi era Brynden Rivers "Bloodraven" Targaryen, il più misterioso dei cosiddetti Grandi Bastardi, ossia i figli illegittimi di Aegon IV Targaryen e delle sue amanti. Nel caso specifico Brynden Rivers, soprannominato "Corvo di Sangue" per il suo aspetto sinistro (era orbo, albino e con una grande voglia rosso sangue), era figlio di Melissa Blackwood, delle terre dei fiumi, ed aveva mostrato di possedere doti che gli erano valse la fama di metamorfo (il suo spirito poteva prendere il controllo di un animale, in particolare il corvo) e di esperto di arti oscure.
Maestro dei Sussurri e Primo Cavaliere sotto i regni di Daeron II, suo fratellastro, e dei figli di lui Aerys I e Maekar, suscitò un timore reverenziale nei sette regni, ma soprattutto instillò nei pronipoti Aemon (il vecchio Maestro Aemon del Castello Nero, alla Barriera) ed Aegon V, l'idea di una predestinazione dei Targaryen ad una straordinaria impresa. 
Aegon V, ormai ossessionato dal suo folle progetto di far rivivere le uova di drago mescolando un calderone di altofuoco con il sangue di un suo discendente "puro", nato da successivi incroci tra fratelli (si tratterà di Rhaegar, naturalmente), spedì Bloodraven alla Barriera, seguito volontariamente da Aemon Targaryen, che aveva rinunciato al diritto di successione per dedicarsi alla conoscenza. Divenuto Lord Comandante dei Guardiani della Notte, Bloodraven scomparve in circostanze misteriose e fu ritrovato ancora vivo, e bicentenario, da Bran Stark, la cui mente era da tempo manipolata dallo stesso Bloodraven.
E' chiaro che il corpo del vegliardo ha ormai raggiunto, nonostante tutti i tentativi di prolungare la sua esistenza (compreso quello di entrare in simbiosi con un Albero dei Volti, anche al fine di poter spiare tutti coloro che si confessavano presso i parchi degli Antichi Dei) è ormai al termine.
Di fatto succede allora qualcosa di straordinario: tutti i ricordi di Bloodraven e dei Corvi dai Tre Occhi che lo hanno preceduto trasmigrano nella mente di Bran Stark, che diventa il ricettacolo di una antichissima memoria storica, ma anche di una serie di precedenti personalità, tra le quali la più recente e quindi la più forte è proprio quella di Bloodraven.
E allora sorge spontaneo un dubbio, a mio parere più che legittimo, e cioè: il vincitore del Gioco del Trono è Bran Stark o è Brynden Rivers Bloodraven, cioè un Targaryen, e forse il più potente tra tutti i discendenti della stirpe del Drago?
A far pendere l'ago della bilancia verso la seconda ipotesi è anche il fatto che, per ammissione dello stesso Martin, Brynder Rivers Bloodraven è ispirato ad Elric di Melniboné, protagonista di una delle saghe fantasy che maggiormente hanno influenzato "Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco", specialmente per quanto riguarda la dinastia Targaryen.
Molti si sono spinti più oltre, fino ad ipotizzare un legame tra il Corvo dai Tre Occhi e il Re della Notte, ma questa ipotesi, per quanto suggestiva e ripetuta con insistenza nella fanfiction, non trova alcun riscontro nel comportamento del Corvo stesso. Resta comunque il dubbio riguardante il fatto che la morte del Re della Notte sia stata troppo facile, ma questo aspetto che sfiora il nonsense e l'assurdo può rientrare in una delle successive spiegazioni.
Se un complotto deve esserci, allora, a mio parere, può essere soltanto quello di Brynden Rivers Bloodraven Targaryen, il "vincitore occulto".

3) Spiegazione "buonista" : in un mondo dominato dalla violenza e dalla dissolutezza diventa Re l'unico personaggio che non ha mai sperimentato nessuna delle due pulsioni.

4) Spiegazione "incoraggiante" e "ascetica": in un mondo dove solo la forza fisica e l'astuzia spregiudicata sembrano avere successo, diventa Re un ragazzo reso disabile nel corpo, che ha usato la sua intelligenza non per ottenere beni materiali, ma per raggiungere una forma di consapevolezza superiore.

5) Spiegazione "decostruzionista" e "iconoclasta": gli sceneggiatori hanno acutizzato, con brutale e deliberato uso del "nonsense", l'atteggiamento sadico di George Martin, che, sconvolgendo un millenario patto narrativo, ha mostrato la spietatezza della sorte, facendo morire in modo crudele e drammatico anche i personaggi positivi, compreso uno dei più amati protagonisti dei primi romanzi e della prima serie. In tal modo si è destabilizzato ogni possibile orizzonte di attesa dei lettori e degli spettatori, smentendo sistematicamente le loro teorie e le loro speranze, mostrandone la sostanziale vanità.

6) Spiegazione del "contrappasso dantesco" o del "discorso della montagna": i malvagi subiscono un tormento che ribalta il piacere che traevano dai loro eccessi, divenendone vittime; coloro che hanno persistito, nonostante i ripetuti ammonimenti, in un comportamento eccessivo, ne rimangono travolti e periscono a causa della "reiterazione" del reato o del peccato ; al contrario "gli ultimi saranno i primi".

7) Spiegazione "nichilista" o del "pessimismo cosmico": l'universo è dominato dalla mera casualità, e le storie devono insegnare ai lettori, uditori o spettatori che la vita è ingiusta e priva di senso, e tutti coloro che hanno cercato di ingabbiare la casualità e l'ingiustizia all'interno di uno schema razionale o di una profezia edificante finiscono non solo col fallire, ma anche con l'apparire ridicoli a causa delle loro stesse elucubrazioni, con le quali hanno tentato di dare un senso a ciò che non ha mai avuto senso.