Se nella realtà esistesse un equivalente della Contea degli Hobbit,
sarebbe senza dubbio la Contea di Casemurate, in Romagna, avente
come centro il paese che le dà il nome, un nome strano, ma molto appropriato, se si considera il tacito, ma radicato desiderio, da
parte dei suoi residenti, di non essere disturbati dal resto
del genere umano..
La storia di questo discreto angolo di mondo affonda le sue radici nel
Medioevo.
Secondo le non troppo affidabili Cronache casemuratensi della
maestra elementare Clara Marinelli, coniugata Ricci (unica docente della scuola locale),
pubblicate nel 1933 con tanto di prefazione di Sua Signoria, l'illustrissimo don Achille Orsini
Balducci, XVII Conte di Casemurate, l'etimologia del luogo sarebbe da attribuirsi al fatto che il villaggio e il torrione centrale, fin dalla loro fondazione, nel Duecento, erano stati cinti di mura così solide da reggere a qualunque
calamità, tranne le riforme urbanistiche di fine Ottocento, che portarono all'abbattimento di quasi tutte le cinte murarie presenti in Italia.
L'unico dato relativamente certo consisteva nel fatto che la fortezza e il
villaggio di Casemurate erano sorti presso l'incrocio tra due strade di una
certa importanza, e cioè la Cervese, che collegava, e collega
tutt'ora la città di Forlì con la cittadina costiera
di Cervia, e il Dismano (antica Via Decumana) che collegava e ancor
oggi collega Ravenna e Cesena.
Quelle due strade dividono tuttora la Contea di Casemurate in quattro parti,
come i Decumani della Contea di Tolkien,
Pare anche assodato che i confini dell'antico feudo casemuratense fossero molto
più estesi di quelli dell'attuale frazione, e pertanto il territorio della
Contea tradizionale poteva essere all'incirca simile a un cerchio
avente come centro l'incrocio tra la Cervese e il Dismano, e un diametro di circa dieci chilometri.
Per quanto, negli anni '30 del Novecento, le terre di Casemurate fossero
suddivise in varie proprietà più o meno grandi, le Cronache
casemuratensi ci ricordano che per molti secoli la signoria
territoriale fu nelle mani di due sole potenti famiglie, i conti Orsini
Balducci, le cui fortune andarono poi decadendo nei secoli e i marchesi Spreti di Serachieda,
che invece ebbero grande fortuna.
Le Cronache asseriscono inoltre che la fondazione di Casemurate si debba far risalire alla precisa data del 21 aprile 1278,
quando Bertoldo Orsini, nipote di papa Niccolo III (quello con cui Dante
ebbe un furente alterco in un Canto dell'Inferno, dopo averlo scambiato per
Bonifacio VIII), della potente famiglia romana degli Orsini, fu
nominato Conte di Romagna e affidò al fratello minore Bernardo il
compito di presidiare la bassa pianura al centro del quadrilatero compreso tra Ravenna, Forli, Cesena e
Cervia.
Fu così che, sempre secondo le Cronache della Maestra
Ricci, nel 1278, Bernardo Orsini costruì una fortezza all'incrocio
della Cervese e del Dismano dove c'era un piccolo, anonimo villaggio, e la
cinse di mura, dandole appunto il nome di Case Murate, che solo in seguito divenne un'unica parola.
Il documento probante tale atto di fondazione, secondo la scrupolosa
indagine della Maestra Ricci, risultava conservato nell'archivio privato
del Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, che si proclamava
diretto discendente del fondatore Bernardo, basandosi sempre su documenti
gelosamente custoditi nel suddetto archivio, talmente segreto che, escludendo
il Conte e la Maestra, non era mai stato visto da anima viva.
Questa segretezza aveva suscitato le ironie dei feudatari confinanti, sulle cui nobilissime origini vi erano prove evidenti. Stiamo parlando di casati insigni, come quello dei già citati marchesi Spreti di Serachieda, patrizi ravennati, o gli illustri signori della viticoltura, i conti Zanetti Protonotari Campi, per non parlare dei Paulucci de' Calboli, che per secoli avevano conteso agli Ordelaffi la signoria di Forlìì.
Gli Orsini Balducci avevano comunque provveduto a rinvigorire il proprio sangue blu con una politica matrimoniale che avrebbe fatto invidia all'imperatore Massimiliano I d'Asburgo ("bella gerant alii, tu felix Austria Nube"). Il matrimonio più prestigioso era stato proprio quello del conte Achille Orsini con la contessina Emilia Paulucci de' Calboli, la quale, pur non portando neanche un centesimo di dote, aveva innalzato i signori di Casemurate nell' "Almanacco di Gotha" della nobiltà romagnola.
Eppure i dubbi sulla ricostruzione storica asserita dalle Cronache casemuratensi continuavano a persistere.
In effetti, a voler essere del tutto sinceri, non rimanevano tracce
archeologiche né delle mura, né del castello, della qual cosa
le Cronache colpevolizzavano, testuali parole, "l'iconoclastia
positivista e modernista delle pubbliche istituzioni del Regno d'Italia, nonché la barbarie distruttiva dell'avanguardia
futurista e dell'architettura razionalista littoria", parole che sembravano piuttosto improbabili
nell'ambito del lessico famigliare della Maestra Ricci, mentre esprimevano in
pieno l'eloquio infuocato, nonché le idee ardite, del Conte Orsini.
L'unico motivo per cui il contenuto delle Cronache non fu
messo in discussione dalla censura fascista potrebbe essere attribuito al numero
piuttosto ristretto delle copie stampate, tenendo conto anche delle ristrettezze
nelle quali la famiglia dei Conti di Casemurate era venuta a
trovarsi.
Se però la sorte degli Orsini pareva inesorabilmente orientata verso la
bancarotta, al contrario la condizione finanziaria della famiglia
Ricci, di cui la maestra Clara faceva parte, era del tutto florida, tanto che
suo marito Giorgio, agiato agricoltore e fervente fascista, stava ampliando i propri
possedimenti e accumulando diritti d'ipoteca sulle stesse
terre del Conte.
E di certo la fortuna dei Ricci a Casemurate era anche legata al fatto
che Giorgio Ricci era stato uno dei primi aderenti al Fascismo, potendo vantare un'amicizia personale e di antica data col Duce in persona,
suo coetaneo e forlivese come lui.
Giorgio Ricci e Clara Vallicelli avevano avuto molti figli dai nomi
altisonanti suggeriti da un parroco fin troppo colto tra cui Oreste, Roderico, Caterina, Carolina, Maria Teresa, Liliana, ma soprattutto Ettore, che aveva ereditato dal padre il bernoccolo per gli affari e
dalla madre la sconfinata ammirazione mista ad invidia nei confronti degli Orsini.
Da tempo Ettore Ricci aveva messo gli occhi addosso alla figlia
primogenita del Conte, la bella e raffinata contessina Diana, che tuttavia non pareva ricambiare tali attenzioni.
Se ci è concessa qualche similitudine letteraria, Ettore Ricci era come il Mastro-Don Gesualdo della situazione, mentre Diana Orsini sembrava uscita da un romanzo
di Jane Austin o Margaret Mitchell.
Date queste premesse, era già chiaro fin dall'inizio che le cose,
per entrambi e le rispettive famiglie, per non parlare dell'intera Contea di
Casemurate, avrebbero preso molto presto una brutta piega.
Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
domenica 23 giugno 2019
giovedì 20 giugno 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 1. L'Orma del Diavolo
La
sventura si abbatté per la prima volta sulla famiglia Monterovere in
una gelida notte di febbraio del 1928, quando l'ottuagenario patriarca
Ferdinando, di ritorno da una delle sue folli cavalcate in mezzo ai boschi
dell'Appennino modenese, fu improvvisamente disarcionato dal suo destriero nei
pressi di una località che la gente del luogo chiamava, premurandosi di fare i
dovuti scongiuri, l'Orma del Diavolo.
Tale nome era legato ad un'antica superstizione.
I vecchi raccontavano che proprio in quel punto, attualmente situato tra il borgo di Querciagrossa e il castello di Monterovere, nelle vicinanze di Pavullo, migliaia di anni prima, esisteva un'enorme quercia, centro del culto pagano dei Druidi, praticato da alcune tribù dei Galli Boi e dei celto-liguri Friniati, sopravvissute alla conquista romana della Gallia Cisalpina e ritiratesi nella zona appenninica retrostante alla via Emilia.
Secondo il non troppo affidabile testo "I Celto-liguri del Frignano", edito a proprie spese da Luigi Andrea Melegnati, erudito preside di una scuola media di Pavullo, in quelle zone dell'alto modenese, una tribù di Galli Boi si sarebbe fusa con ciò che restava degli antichissimi Friniati, popolazione celto-ligure pre-romana, e i due popoli, pur adeguandosi ad una romanizzazione di facciata, avrebbero coltivato in segreto le tradizioni ancestrali, che gli Iniziati chiamavano con reverente solennità "l'Antica Via".
Sempre secondo il testo del Melegnati, quella stessa quercia sarebbe stata poi abbattuta per ordine dell'imperatore Teodosio I, nell'Anno Domini 389, in seguito alle devote, ma insistenti sollecitazioni di sant'Ambrogio, all’epoca vescovo di Milano.
Poco dopo l'abbattimento dell'antica quercia celtica, incominciarono ad essere avvistati, in quel luogo già considerato un centro di stregoneria, alcuni fenomeni inspiegabili che presto vennero identificati come spiritelli notturni, folletti, elfi o fate del Piccolo Popolo di cui erano piene le leggende della tradizione celtica che, nonostante la colonizzazione romana e la predicazione cristiana, sopravvivevano radicate nell'immaginario collettivo delle piccole comunità dell'entroterra.
E forse parte di quell'antico sangue celtico scorreva persino nelle vene di Ferdinando Monterovere, guardacaccia della selva di Querciagrossa, che si proclamava discendente del feldmaresciallo Raimondo Monterovere, conte di Querciagrossa e condottiero degli eserciti austro-ungarici nella loro prima guerra contro i Turchi Ottomani.
Il castello dei Monterovere era ancora lì, in cima alla collina, ma la famiglia era ormai decaduta e, come avrebbe detto il professor Tolkien, "da lungo tempo orbata di signoria e comando".
Si manteneva vivo, tuttavia, un certo spirito aristocratico e sdegnoso, che attribuiva ai Monterovere, forse anche a causa dell'alta statura e dell'indole burbera e poco socievole, una certa aria di severo disprezzo nei confronti del mondo intero.
Ciò metteva in soggezione gli altri abitanti di Querciagrossa, che provavano una sorta di timore reverenziale nei confronti di "don Ferdinando", quando pattugliava a cavallo la foresta e il villaggio, spingendosi fino alla collina e alle mura del castello che un tempo era appartenuto ai suoi antenati,
Tuttavia il vecchio Ferdinando non era poi così severo come lo descriveva, e anzi con i suoi numerosi figli e nipoti era estremamente gentile, e amava trascorrere le serate accanto al focolare, raccontando ai bambini le antiche leggende celtiche, fino a che la brace non si spegneva e i piccoli già erano tra le braccia di Morfeo.
Pur amando molto queste leggende, non aveva mai dato troppo credito alle voci riguardanti l'Orma del Diavolo e riteneva che gli unici veri pericoli, in una foresta, fossero i briganti, i lupi, gli orsi e i cinghiali.
Mai e poi mai si sarebbe lasciato convincere da certe superstizioni inventate dalle vecchie comari bigotte per mettere in cattiva luce i pagani.
Tale nome era legato ad un'antica superstizione.
I vecchi raccontavano che proprio in quel punto, attualmente situato tra il borgo di Querciagrossa e il castello di Monterovere, nelle vicinanze di Pavullo, migliaia di anni prima, esisteva un'enorme quercia, centro del culto pagano dei Druidi, praticato da alcune tribù dei Galli Boi e dei celto-liguri Friniati, sopravvissute alla conquista romana della Gallia Cisalpina e ritiratesi nella zona appenninica retrostante alla via Emilia.
Secondo il non troppo affidabile testo "I Celto-liguri del Frignano", edito a proprie spese da Luigi Andrea Melegnati, erudito preside di una scuola media di Pavullo, in quelle zone dell'alto modenese, una tribù di Galli Boi si sarebbe fusa con ciò che restava degli antichissimi Friniati, popolazione celto-ligure pre-romana, e i due popoli, pur adeguandosi ad una romanizzazione di facciata, avrebbero coltivato in segreto le tradizioni ancestrali, che gli Iniziati chiamavano con reverente solennità "l'Antica Via".
Sempre secondo il testo del Melegnati, quella stessa quercia sarebbe stata poi abbattuta per ordine dell'imperatore Teodosio I, nell'Anno Domini 389, in seguito alle devote, ma insistenti sollecitazioni di sant'Ambrogio, all’epoca vescovo di Milano.
Poco dopo l'abbattimento dell'antica quercia celtica, incominciarono ad essere avvistati, in quel luogo già considerato un centro di stregoneria, alcuni fenomeni inspiegabili che presto vennero identificati come spiritelli notturni, folletti, elfi o fate del Piccolo Popolo di cui erano piene le leggende della tradizione celtica che, nonostante la colonizzazione romana e la predicazione cristiana, sopravvivevano radicate nell'immaginario collettivo delle piccole comunità dell'entroterra.
E forse parte di quell'antico sangue celtico scorreva persino nelle vene di Ferdinando Monterovere, guardacaccia della selva di Querciagrossa, che si proclamava discendente del feldmaresciallo Raimondo Monterovere, conte di Querciagrossa e condottiero degli eserciti austro-ungarici nella loro prima guerra contro i Turchi Ottomani.
Il castello dei Monterovere era ancora lì, in cima alla collina, ma la famiglia era ormai decaduta e, come avrebbe detto il professor Tolkien, "da lungo tempo orbata di signoria e comando".
Si manteneva vivo, tuttavia, un certo spirito aristocratico e sdegnoso, che attribuiva ai Monterovere, forse anche a causa dell'alta statura e dell'indole burbera e poco socievole, una certa aria di severo disprezzo nei confronti del mondo intero.
Ciò metteva in soggezione gli altri abitanti di Querciagrossa, che provavano una sorta di timore reverenziale nei confronti di "don Ferdinando", quando pattugliava a cavallo la foresta e il villaggio, spingendosi fino alla collina e alle mura del castello che un tempo era appartenuto ai suoi antenati,
Tuttavia il vecchio Ferdinando non era poi così severo come lo descriveva, e anzi con i suoi numerosi figli e nipoti era estremamente gentile, e amava trascorrere le serate accanto al focolare, raccontando ai bambini le antiche leggende celtiche, fino a che la brace non si spegneva e i piccoli già erano tra le braccia di Morfeo.
Pur amando molto queste leggende, non aveva mai dato troppo credito alle voci riguardanti l'Orma del Diavolo e riteneva che gli unici veri pericoli, in una foresta, fossero i briganti, i lupi, gli orsi e i cinghiali.
Mai e poi mai si sarebbe lasciato convincere da certe superstizioni inventate dalle vecchie comari bigotte per mettere in cattiva luce i pagani.
E tuttavia quando nel tardo pomeriggio del 28 febbraio 1928, quando ritrovarono il suo cadavere vicino al corpo senza vita del cavallo azzoppato, nessuno riscontrò tracce di violenza da parte di briganti, lupi, orsi o cinghiali.
Certo, la spiegazione più razionale sarebbe stata che un uomo anziano come lui, di oltre ottant'anni, poteva essere caduto da cavallo per aver perso il controllo delle redini, o per un malore.
Oppure poteva essere stato lo stesso cavallo, anch'esso non più giovanissimo, ad essere stramazzato a terra, portandosi dietro all'altro mondo il suo padrone, ammesso che esista un altro mondo per i cavalli, per non parlare degli umani.
Il problema era però che il cavallo, nonostante l'età, si era sicuramente impennato, lasciato sul sentiero impronte sospettosamente profonde, come se avesse visto qualcosa di terrificante.
La vicenda suscitò profondo scalpore tra gli abitanti del paese e rafforzò la loro convinzione sulla natura maledetta di quel luogo e di quel bosco.
Diverse furono le reazioni dei figli del defunto Ferdinando.
Il primogenito, Enrico, prese una drastica decisione e scese a valle, nella Bassa Padana, insieme alla moglie Eleonora e ai nove figli ch'ella gli aveva dato, e sfidando le nebbie, i rigori degli interminabili inverni e l'afa soffocante delle estenuanti estati tra mosche e zanzare, si stabilì nelle paludose campagne tra Ravenna e Faenza.
Il secondogenito, Domenico, si arroccò nelle "wuthering highs" del Monte Cimone, tra Sestola e Fanano.
Il terzogenito, Bartolomeo, partì per le Americhe.
Difficile dire chi fece la scelta peggiore.
mercoledì 19 giugno 2019
martedì 18 giugno 2019
domenica 16 giugno 2019
venerdì 14 giugno 2019
martedì 11 giugno 2019
lunedì 10 giugno 2019
Mappa dell'Europa e dell'Italia nel 1300 all'epoca di Dante
Mappa dell'Italia nell'Età Comunale dal Duecento al Trecento. L'Italia dei Comuni e delle Signorie nel Basso Medioevo.
martedì 28 maggio 2019
Tutte le spiegazioni alternative del finale di Game of Thrones e della Canzone del Ghiaccio e del Fuoco
1) Spiegazione "profetica" o del "fraintendimento della Profezia": la missione del "Principe Promesso", Jon Snow alias Aegon VI Targaryen non era soltanto quella di mettere insieme un esercito che fermasse l'avanzata degli Estranei, ma anche, e forse soprattutto, quella di provocare la distruzione del Trono di Spade, iconico simbolo del Male, e di porre fine alla dinastia Targaryen, che già nel suo motto "Fuoco e Sangue", ha rappresentato nella maggior parte dei casi la prima, massima e originaria causa delle calamità di Westeros.
Secondo questa interpretazione, si potrebbe persino adombrare che il ruolo di Jenny di Vecchie Pietre, manipolata dalla veggente albina che formulò la Profezia, fosse proprio la rovina dei Targaryen (anche a costo di un'ecatombe epocale segnata da trent'anni di guerre) e la distruzione del Trono di Spade.
2) Spiegazione "dietrologica" e "complottista" : chi è veramente il re Bran lo Spezzato? Lui stesso dice a tutti coloro che gli chiedono perdono per le violenze passate (in particolare Jaime e Theon), di non essere più Bran Stark, ma qualcosa di diverso. Questo qualcosa viene chiamato "il Corvo dai Tre Occhi", con riferimento alla Sapienza Arcana che deriva dal Terzo Occhio, quello che vede oltre le apparenze, e che conosce il passato, il futuro e la verità).
Di questa entità però sappiamo soltanto che il precedente Corvo dai Tre Occhi era Brynden Rivers "Bloodraven" Targaryen, il più misterioso dei cosiddetti Grandi Bastardi, ossia i figli illegittimi di Aegon IV Targaryen e delle sue amanti. Nel caso specifico Brynden Rivers, soprannominato "Corvo di Sangue" per il suo aspetto sinistro (era orbo, albino e con una grande voglia rosso sangue), era figlio di Melissa Blackwood, delle terre dei fiumi, ed aveva mostrato di possedere doti che gli erano valse la fama di metamorfo (il suo spirito poteva prendere il controllo di un animale, in particolare il corvo) e di esperto di arti oscure.
Maestro dei Sussurri e Primo Cavaliere sotto i regni di Daeron II, suo fratellastro, e dei figli di lui Aerys I e Maekar, suscitò un timore reverenziale nei sette regni, ma soprattutto instillò nei pronipoti Aemon (il vecchio Maestro Aemon del Castello Nero, alla Barriera) ed Aegon V, l'idea di una predestinazione dei Targaryen ad una straordinaria impresa.
Aegon V, ormai ossessionato dal suo folle progetto di far rivivere le uova di drago mescolando un calderone di altofuoco con il sangue di un suo discendente "puro", nato da successivi incroci tra fratelli (si tratterà di Rhaegar, naturalmente), spedì Bloodraven alla Barriera, seguito volontariamente da Aemon Targaryen, che aveva rinunciato al diritto di successione per dedicarsi alla conoscenza. Divenuto Lord Comandante dei Guardiani della Notte, Bloodraven scomparve in circostanze misteriose e fu ritrovato ancora vivo, e bicentenario, da Bran Stark, la cui mente era da tempo manipolata dallo stesso Bloodraven.
E' chiaro che il corpo del vegliardo ha ormai raggiunto, nonostante tutti i tentativi di prolungare la sua esistenza (compreso quello di entrare in simbiosi con un Albero dei Volti, anche al fine di poter spiare tutti coloro che si confessavano presso i parchi degli Antichi Dei) è ormai al termine.
Di fatto succede allora qualcosa di straordinario: tutti i ricordi di Bloodraven e dei Corvi dai Tre Occhi che lo hanno preceduto trasmigrano nella mente di Bran Stark, che diventa il ricettacolo di una antichissima memoria storica, ma anche di una serie di precedenti personalità, tra le quali la più recente e quindi la più forte è proprio quella di Bloodraven.
E allora sorge spontaneo un dubbio, a mio parere più che legittimo, e cioè: il vincitore del Gioco del Trono è Bran Stark o è Brynden Rivers Bloodraven, cioè un Targaryen, e forse il più potente tra tutti i discendenti della stirpe del Drago?
A far pendere l'ago della bilancia verso la seconda ipotesi è anche il fatto che, per ammissione dello stesso Martin, Brynder Rivers Bloodraven è ispirato ad Elric di Melniboné, protagonista di una delle saghe fantasy che maggiormente hanno influenzato "Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco", specialmente per quanto riguarda la dinastia Targaryen.
Molti si sono spinti più oltre, fino ad ipotizzare un legame tra il Corvo dai Tre Occhi e il Re della Notte, ma questa ipotesi, per quanto suggestiva e ripetuta con insistenza nella fanfiction, non trova alcun riscontro nel comportamento del Corvo stesso. Resta comunque il dubbio riguardante il fatto che la morte del Re della Notte sia stata troppo facile, ma questo aspetto che sfiora il nonsense e l'assurdo può rientrare in una delle successive spiegazioni.
Se un complotto deve esserci, allora, a mio parere, può essere soltanto quello di Brynden Rivers Bloodraven Targaryen, il "vincitore occulto".
3) Spiegazione "buonista" : in un mondo dominato dalla violenza e dalla dissolutezza diventa Re l'unico personaggio che non ha mai sperimentato nessuna delle due pulsioni.
4) Spiegazione "incoraggiante" e "ascetica": in un mondo dove solo la forza fisica e l'astuzia spregiudicata sembrano avere successo, diventa Re un ragazzo reso disabile nel corpo, che ha usato la sua intelligenza non per ottenere beni materiali, ma per raggiungere una forma di consapevolezza superiore.
5) Spiegazione "decostruzionista" e "iconoclasta": gli sceneggiatori hanno acutizzato, con brutale e deliberato uso del "nonsense", l'atteggiamento sadico di George Martin, che, sconvolgendo un millenario patto narrativo, ha mostrato la spietatezza della sorte, facendo morire in modo crudele e drammatico anche i personaggi positivi, compreso uno dei più amati protagonisti dei primi romanzi e della prima serie. In tal modo si è destabilizzato ogni possibile orizzonte di attesa dei lettori e degli spettatori, smentendo sistematicamente le loro teorie e le loro speranze, mostrandone la sostanziale vanità.
6) Spiegazione del "contrappasso dantesco" o del "discorso della montagna": i malvagi subiscono un tormento che ribalta il piacere che traevano dai loro eccessi, divenendone vittime; coloro che hanno persistito, nonostante i ripetuti ammonimenti, in un comportamento eccessivo, ne rimangono travolti e periscono a causa della "reiterazione" del reato o del peccato ; al contrario "gli ultimi saranno i primi".
7) Spiegazione "nichilista" o del "pessimismo cosmico": l'universo è dominato dalla mera casualità, e le storie devono insegnare ai lettori, uditori o spettatori che la vita è ingiusta e priva di senso, e tutti coloro che hanno cercato di ingabbiare la casualità e l'ingiustizia all'interno di uno schema razionale o di una profezia edificante finiscono non solo col fallire, ma anche con l'apparire ridicoli a causa delle loro stesse elucubrazioni, con le quali hanno tentato di dare un senso a ciò che non ha mai avuto senso.
domenica 26 maggio 2019
sabato 25 maggio 2019
venerdì 24 maggio 2019
mercoledì 22 maggio 2019
lunedì 20 maggio 2019
domenica 19 maggio 2019
venerdì 17 maggio 2019
Mappa dell'Europa nell'anno 900, dopo la divisione dell'Impero Carolingio
Kingdom of the West Franks and kingdom of the East Franks
West frankish kingdom and East frankish kingdom
Royaume franc occidental et royaume franc oriental
Regno dei Franchi Occidentali e Regno dei Franchi Orientali
Regnum Francorum Occidentalium et Regnum Francorum Orientalium
Regnum Francorum et Regnum Teutonicorum
(Regnum Franciae et Regnum Germaniae, denominazioni usate solo in seguito)
Situazione dell'Europa sudorientale alla fine del IX secolo: i principati slavi si inseriscono tra l'Impero Carolingio e l'Impero Bizantino
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