venerdì 31 marzo 2017

Comparazione tra le divinità di differenti mitologie politeiste

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Con il termine politeismo si individuano e si classificano nella storia delle religioni quelle forme religiose che ammettono l'esistenza di più divinità destinatarie di un culto[1].


Il termine "politeismo" è attestato nelle lingue moderne per la prima volta nella lingua francese (polythéisme) a partire dal XVI secolo [1]. Il termine polythéisme fu coniato dal giurista e filosofo francese Jean Bodin, e quindi utilizzato per la prima volta nel suo De la démonomanie des sorciers (Parigi, 1580), per poi finire nei dizionari come il Dictionnaire universel françois et latin (Nancy 1740), il Dictionnaire philosophique di Voltaire (Londra 1764) e l'Encyclopédie di D'Alembert e Diredot (seconda metà del XVIII secolo), la cui voce polytheisme è curata dallo stesso Voltaire, utilizzato in ambito teologico in opposizione a quello di "monoteismo"; entra nella lingua italiana nel XVIII secolo [2].
Il termine polythéisme è formato da termini derivati dal greco antico: πολύς (polys) + θεοί (theoi) ad indicare "molti dèi"; quindi da polytheia, termine coniato dal filosofo giudaico di lingua greca Filone di Alessandria (20 a.C.-50 d.C.) per indicare la differenza tra l'unicità di Dio nell'Ebraismo rispetto alla nozione pluralistica dello stesso propria delle religioni antiche[3], tale termine fu poi ripreso dagli scrittori cristiani (ad esempio da Origene in Contra Celsum).
Nella storia delle religioni del XIX secolo, in particolare nella scuola evoluzionistica, il politeismo è stato considerato come preceduto da forme di religiosità arcaica che si esprimevamo non nei confronti di divinità, ma verso oggetti inanimati (feticismo) o generici spiriti (animismo) o demoni (polidemonismo[4], ma anche totem (totemismo), o forze impersonali (manapreanimismo[5] oppure con la costruzione di una religiosità fondata su riti magici (dinamismo magicorituale[6]. Solo con il progresso della civiltà sarebbe sorto il politeismo come culto di esseri divini per lo più in forme antropomorfe.
La teoria elaborata dalla "scuola dell'Ur-monotheismus" (fondata da Wilhelm Schmidt, e per questo indicata anche come Scuola di Vienna), sostenne invece che la religiosità antica era rappresentata inizialmente dal monoteismo che si alterò successivamente in un politeismo dove i vari dèi rappresentavano o le caratteristiche principali dell'unica divinità iniziale o uomini illustri divinizzati, o la personificazione di fenomeni naturali divinizzati [7].
Rispetto alle altre forme religiose pluraliste, con il politeismo si afferma l'esigenza di una maggiore caratterizzazione e precisione dell'entità spirituale, tale che ciascuna divinità si riferisca a un particolare aspetto del mondo terreno e che sia collegata ad altre divinità, in modo da costituire un universo personificato quanto più collegato e ordinato, così che tramite il culto, il credente possa entrare in contatto con esso. Il politeismo si diffonderebbe dunque in quelle società organizzate che si esprimono in diversi campi dì azione che necessitano di essere armonicamente organizzati.
« La pluralità dei campi d'azione giustifica la pluralità degli dei, così come l'armonizzazione dei diversi campi d'azione porta a collegare in un pantheon armonico i vari dei.[8] »
Un microcosmo, quello della società umana, che cerca corrispondenza con l'universo ordinato, con il macrocosmo divino.

La nozione di politeismo nella filosofia

Nella filosofia occidentale

Secondo Nicola Abbagnano, il politeismo è presente quando viene distinto il concetto di Dio da quello di divinità. Infatti si stabilisce una analogia tra divinità e umanità: come ci sono tanti uomini che partecipano dell'umanità, così ci sono tanti dèi che partecipano della divinità. Di conseguenza sono politeistiche molte filosofie comunemente utilizzate, specialmente nel Medioevo, al fine di dimostrare l'esistenza di un unico Dio, p. es. quella di Platone, di Aristotele e di Plotino. Si può dire che il politeismo appare estremamente radicato nel pensiero filosofico occidentale classico, mentre decade nel Medioevo cristiano e nell'era moderna scientifica spesso atea, sebbene abbia sempre conservato notevoli influenze (si vedano ad esempio le intelligenze angeliche presenti in molte speculazioni cristiane, retaggio delle intelligenze celesti di Aristotele).[9]

Nella filosofia greca (Politeismo ellenico)

Per esempio, nel pensiero di Platone è teorizzata una divinità. il Demiurgo o Artefice, il quale plasma il cosmo intero dando origine a degli "dei generati" (questa è la definizione che ne dà nel Timeo) identificati con gli astri; ad essi il Demiurgo affida il compito di generare gli altri esseri viventi, che saranno mortali.[10] Platone quindi riconosce una molteplicità di dei, sebbene subordinati al loro Artefice; bisogna notare tuttavia che la questione del divino è complessa in Platone, in quanto lo stesso Generatore dell'Universo è inferiore all'unico principio ideale del Sommo Bene (altresì detto Uno), anch'esso di natura divina. Per questa ragione, parlando del Divino Artefice, Platone utilizza l'espressione ó théos "il dio", e non "Dio", in modo da indicare un ente che partecipa della natura divina dell'Uno.[11]
Secondo Aristotele, la dimostrazione dell'esistenza del primo motore vale anche per i motori (cioè le divinità) delle sfere celesti, il cui numero è 47 o 55, a seconda dell'assegnazione o meno di moti inversi al sole e alla luna. Infatti nella sua visione teleologica della natura ogni moto deve avere un fine, e di conseguenza una sostanza di natura divina. Queste divinità sono subordinate al primo motore ma hanno comunque lo stesso suo rango. Il politeismo di Aristotele è evidente anche nel suo continuo riferirsi a "dèi"[12] e nell'individuare nelle credenze popolari il concetto di un divino che permea tutta la natura, convinzione che secondo Aristotele coincide con uno degli insegnamenti tradizionali più importanti e cioè che le sostanze prime sono dèi.[13]
Anche Plotino e i neoplatonici quando parlano di unità divina non intendono escluderne la molteplicità. L'Uno è la fonte dalla quale scaturiscono tutte le altre realtà e raccoglie il molteplice in sé stesso. Proprio la presenza di una molteplicità di dèi è il segno della potenza divina. Infatti:
Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così molteplice come essa stessa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quell che è, di creare una molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa.[14]
In conclusione, sembra evidente che nei pensatori dell'antichità, l'unità del divino non contraddica la sua molteplicità, così come l'esistenza di una gerarchia tra gli dèi e la funzione preminente di uno di essi (il Demiurgo di Platone, il Primo Motore di Aristotele, il Sommo Bene di Plotino) non comporta l'identità fra divinità e Dio e non è quindi un monoteismo.

Nella filosofia medievale

Il politeismo (almeno come filosofia) non è scomparso con l'affermazione ufficiale del monoteismo cristiano; al contrario, se ne è avuta la ricorrente risorgenza nel pensiero occidentale sin dal Medioevo.
Gli esempi più antichi sono quelli di Giovanni Scoto Eriugena, con la sua dottrina di ispirazione neoplatonica sulle quattro nature, e Gilberto di Poitiers (XII secolo) che distinguendo fra deitas e Deus interpretava la Trinità come un triteismo (cioè come tre dèi, anziché tre persone di un'unica divinità come sostiene la dottrina cattolica). Anche Gioacchino da Fiore, probabilmente sulla scia di Gilberto, inclinava al triteismo.
D'altronde il triteismo era già stato sostenuto in occidente anche da Roscellino nell'XI secolo: secondo Anselmo d'Aosta, Roscellino sosteneva che le tre persone della Trinità sono tre realtà come tre angeli e tre anime, sebbene siano identiche assolutamente per volontà e potenza.[15]
Nell'oriente greco-ortodosso sostennero il triteismo Giovanni Filopono e Stefano Gobaro nel VI secolo[16]

Nella filosofia moderna

Contrariamente a quel che si pensa, il politeismo è stato difeso anche da filosofi moderni. Uno di questi è David Hume, secondo il quale il passaggio dal politeismo al monoteismo è dovuto non ad una profonda riflessione filosofica ma alla necessità di tenersi buona la divinità adulandola,[17] e il culto di una singola divinità condurrebbe all'intolleranza e alla persecuzione degli altri culti perché considerati empi ed assurdi.[18]
Il politeismo, invece, rende impossibile l'intolleranza perché ammette senza problemi l'esistenza delle divinità di altre tradizioni o nazioni. Inoltre è più accettabile da un punto di vista razionalistico perché comprende solo una moltitudine di storie le quali, per quanto prive di fondamento, non implicano alcuna assurdità espressa e contraddizione dimostrativa.[19]
Dopo Hume, anche altri filosofi hanno posto l'accento sulla superiorità del politeismo sul monoteismo, come William James[20] e Charles Renouvier. Renouvier, in particolare, affermava che il politeismo fosse l'unico rimedio contro il fanatismo religioso e l'assolutismo filosofico, e non lo riteneva comunque inconciliabile con l'unità del divino, in quanto l'Uno sarebbe comunque la prima delle persone divine. Infatti:
Il progresso della vita e della virtù popola l'universo di persone divine e saremo fedeli a un sentimento religioso antico e spontaneo quando chiameremo dèi quelle tra loro di cui crediamo di poter onorare la natura e benedire le opere.[21]
Secondo Hegel, poi, le istituzioni storiche (e soprattutto lo Stato) sono divinità vere e proprie perché in esse si realizza la ragione autocosciente: Lo Stato è la volontà divina in quanto attuale spirito esplicantesi a forma reale e ad organizzazione di un mondo.[22]
Anche le dottrine panteistiche, però, hanno un carattere politeista in quanto tendono a diffondere il divino su un certo numero di enti, distinguendo fra divinità e Dio e indebolendo la separazione tra gli enti stessi. Tra i panteismi moderni tendenzialmente politeistici troviamoo le dottrine di Henri Bergson, di Samuel Alexander e di Alfred Whitehead. Queste dottrine, infatti, affermano che la divinità sarà realizzata dal mondo, per cui al momento della realizzazione la divinità sarà necessariamente costituita da una molteplicità di enti divini.
Bergson identifica Dio con lo sforzo che la vita stessa compie per procedere alla creazione di nuove forme, migliori di quelle di partenza.[23] L'umanità sarebbe la punta avanzata di questo sforzo creativo della vita e da essa verrebbe in futuro il suo stesso rinnovamento e la ripresa della funzione essenziale dell'universo, che è una macchina per fare gli dèi.[24] In ogni caso bisogna notare che Bergson utilizzò questa espressione in senso analogico, riferendosi alla possibilità dell'uomo di oltrepassare i suoi propri limiti e divenire quindi un grande uomo d'azione, spiccatamente morale e certo in qualche modo divino, perché espressione più pura dello slancio vitale della vita. Inoltre, è vero che Bergson considerava Gesù uno di questi uomini e che nella vecchiaia desiderò convertirsi al Cristianesimo, sebbene non l'abbia poi fatto per solidarietà con le popolazioni semite che iniziavano ad essere perseguitate (v. Henri Bergson).
Alexander sostiene che Dio può realizzarsi solo se si incorpora nel mondo. Infatti:
Dio è l'intero mondo in quanto possiede la qualità della deità. Di questo essere l'intero mondo è il corpo, la deità è lo spirito. Ma il possessore della deità non è reale ma ideale: come un esistente reale Dio è il mondo infinito nel suo nisus verso la deità, o, per adottare una frase di Leibniz, in quanto è gravido della deità.[25]
In pratica, secondo una metafora di Alexander, Il mondo dovrà partorire Dio, vale a dire che nel corso dell'evoluzione naturale la deità si manifesterà incorporandosi in un certo numero di esseri.[26]
Sulla stessa linea si colloca il pensiero di Whitehead che per esprimerlo ricorre ad una serie di antitesi:
È vero sia che Dio è permanente e il mondo fluente. È vero sia che Dio è uno e il mondo molti, sia che il mondo è uno e Dio molti. È vero sia che il mondo, in confronto di Dio, è eminentemente reale, sia che Dio, in confronto col mondo, è eminentemente reale. È vero sia che il mondo è immanente in Dio, sia che Dio è immanente nel mondo. È vero sia che Dio trascende il mondo, sia che il mondo trascende Dio. È vero sia che Dio crea il mondo, sia che il mondo crea Dio;[27] si tratta di una reciproca attesa, in quanto sia il mondo che Dio stesso attendono l'uno dall'altro la propria realizzazione:
Il mondo è la molteplicità delle attualità finite che cercano una perfetta unità. Né Dio né il mondo raggiungono un completamento statico. Entrambi sono nella morsa dell'ultimo fondamento metafisico, l'avanzamento creativo verso il nuovo. Ognuno di essi, sia Dio che il mondo, è lo strumento della novità dell'altro.[28]
Secondo Max Weber, l'uomo deve prendere posizione tra i diversi valori o sfere di valori ("dèi"), i quali lottano fra loro ma nessuno di essi vince mai definitivamente. Secondo Weber il politeismo è costituito da questa lotta, per cui il mondo dell'esperienza rimane sempre politeistico e non diventa mai monoteistico.[29]
Nel tardo Novecento, Odo Marquard ha fatto l'elogio del politeismo, interpretandolo come espressione del pluralismo postmoderno.[30]

Note

  1. ^ a b Paolo ScarpiPoliteismo in Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi, 1993, p. 573.
  2. ^ Alberto Nocerini, L'Etimologico, Firenze, Le Monnier, edizione elettronica
  3. ^ Gabriella PirontiIl "linguaggio" del politeismo in Grecia: mito e religione vol.6 della Grande Storia dell'antichità (a cura di Umberto Eco). Milano, Encyclomedia Publishers/RCS, 2011, pag.22.
  4. ^ Cfr.Enciclopedia Treccani
  5. ^ Il preanimismo secondo Edward Burnett Tylor (1832-1917) rappresenterebbe una primissima fase dell'evoluzione religiosa, dove prima ancora della personalizzazione di forze soprannaturali, come si ritrova nell'animismo, l'uomo attribuiva valore religioso a indefinite energie impersonali.
  6. ^ R. Pe., G. C., Politeismo, Enciclopedia Italiana (1935)
  7. ^ Enciclopedia Treccani alla voce "politeismo".
  8. ^ Sapere.it alla voce "Politeismo"
  9. ^ Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, s. v. "Dio" 3, 1998, Torino: UTET.
  10. ^ Platone. Timeo, 40d.
  11. ^ Platone. Leggi, 717b.
  12. ^ Aristotele. Etica nicomachea, X, 9, 1179a, 24.; Aristotele. Metafisica, I, 2, 983a, 11.; Aristotele. Metafisica, III, 2, 907b, 10.
  13. ^ Aristotele. Metafisica, XII, 8, 1074a, 38.
  14. ^ Plotino. Enneadi, II, 9, 9.
  15. ^ Anselmo d'Aosta, De fide trinitatis, 3.
  16. ^ Fozio, Biblioteca, 232.
  17. ^ David Hume, Storia naturale della religione, 1757.
  18. ^ David Hume, Essays, II, pag 335 sgg.
  19. ^ David Hume, The Natural History of Religion, sez. XI e XII, in Essays, II, pag. 336 e 352.
  20. ^ William James, A Pluralistic Universe, 1909.
  21. ^ Charles Renouvier, Psychologie rationelle, 1859, cap. XXV, ed. 1912, pag. 306.
  22. ^ Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Filosofia del diritto, §270.
  23. ^ Henri Bergson, Les Deux sources de la morale et de la religion, pag. 235.
  24. ^ Henri Bergson, Les Deux sources, pag. 234.
  25. ^ Samuel Alexander, Space, Time and Deity, II, pag. 535.
  26. ^ Samuel Alexander, Space, Time and Deity, II, pag. 365.
  27. ^ Alfred North Whitehead, Process and Reality, pag. 527-28.
  28. ^ Alfred North Whitehead, Process and Reality, pag. 529.
  29. ^ Max Weber, Zwischen zwei Gesetze, 1916, in Gesammelte Politische Schriften, pag. 60 sgg.
  30. ^ Odo Marquard, Lob des Polytheismus, 1979.

Voci correlate



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Vite quasi parallele. Capitolo 54. Tutti insieme appassionatamente



Di ritorno dal viaggio di nozze, nel mese di gennaio del 1975, Silvia era già incinta. 
Lei e Francesco presero dimora, temporaneamente, a Villa Orsini.
All'epoca l'antica residenza dei Conti di Casemurate ospitava molte persone.
Oltre ai padroni di casa, Ettore Ricci e Diana Orsini, c'erano le loro anziane madri Clara Ricci ed Emilia Orsini, la sorella di lui, Adriana, la governante Ida Braghiri col marito Michele e spesso erano presenti anche i nipotini di Ettore e Diana, e cioè Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti.
La convivenza si rivelò subito difficile.
Francesco Monterovere aveva uno stile di vita completamente diverso da quello della famiglia Ricci-Orsini.
Il primo episodio curioso si ebbe quando Francesco decise di preparare il caffè ai suoceri, dopo pranzo.
Dichiarò di essere un mago nel preparare il caffè e non volle nessuno attorno, nemmeno l'onnipresente Ida Braghiri.
Dopo qualche minuto, una terribile puzza di bruciato si levò sopra ai fornelli. 
Francesco si era dimenticato di mettere l'acqua nella caffettiera,
Poiché la cosa gli accadeva di frequente, a causa della sua proverbiale distrazione, rimase imperturbabile e tornò in sala da pranzo dicendo:
<<Ho bruciato la caffettiera, ormai è da buttare. Dove posso trovarne un'altra?>>
Ettore Ricci, la cui tirchieria era altrettanto proverbiale, lo fissò con occhi infuocati e poi si rivolse alla figlia in dialetto, come faceva sempre quando era infuriato:
<<Ma quest che que, din dal venal?>> che tradotto significava "Ma questo qui da dove viene?"
Ida Braghiri, trionfante nel vedere le prime crepe dell'immagine reverenziale del Professore, gli diede la sua, premurandosi di osservare da vicino tutta la situazione.
Il secondo episodio si ebbe quando Francesco portò a Villa Orsini il suo stereo di Faenza.
Lo collocò in uno studiolo vicino allo studio di Ettore Ricci.
Poi mise su un disco di musica operistica e fece partire la marcia trionfale dell'Aida di Verdi a tutto volume.
Nel giro di una frazione di secondo, Ettore Ricci, imbestialito, si diresse verso lo studiolo bestemmiando pesantemente, ma fu fermato da sua moglie.
Diana gli disse:
<<Lascia che gli parli io>>
Ma Ettore era fuori controllo e come sempre, in quelle situazioni, passava al dialetto:
<<E fa salté vi la ca!>> (Fa saltar via la casa)
E poi, spalancando la porta:
<<Se non spegni quell'accidente di coso, te lo butto dalla finestra! Tu e le tue diavolerie! Come quell'altro aggeggio... come si chiama? Quell'arnese assurdo...>>
Francesco, meravigliato, rispose con aria innocente:
<<E' un microprocessore, un Intel 8080. . Me lo sono fatto mandare da mio zio Alfredo, che vive in America>>
Ettore sgranò gli occhi:
<<Lo zio Alfredo! L'unico zio d'America che invece di mandare soldi li chiede! Guarda che lo so quanto ti ha fatto spendere per quell'aggeggio. Comunque è chiaro che non serve a niente>>
Francesco guardò il suocero sorridendo:
<<Per il momento. Ma tra un anno o due farà miracoli>>
Ettore uscì scuotendo la testa e borbottando tra sé.
Poi incominciarono ad arrivare i volumi rilegati della Grande Enciclopedia De Agostini, con annesse rate di pagamento.
Ettore Ricci all'inizio credette che si trattasse di un errore del postino e lo cacciò in malo modo.
Quando Francesco chiese se era passato qualcuno con il nuovo volume dell'Enciclopedia, Ettore sbiancò:
<<Ma con quelle rate ci potresti pagare un mutuo! E quanti libri sono? E' impossibile leggere tanti libri!>>
<<L'Enciclopedia non è un libro da leggere, ma da consultare>>
Ettore scosse la testa, sdegnato:
<<Va là, va là, va là!>> bofonchiò e poi passò al dialetto <<Dal robi acsè, me deg a e mond!>>
L'espressione è quasi intraducibile in italiano, perché perderebbe la sua efficacia, volendo dire, più o meno: "Delle cose così non possono esistere al mondo, dico io".
Poi arrivarono le rate della macchina, una Citroen azzurra dalla forma aerodinamica, comprata da Francesco poco prima del matrimonio.
Ettore questa volta andò a protestare direttamente da sua figlia, investendola con un profluvio di parole in dialetto:
<<Cun tot ch'iom cu iè a e mond, t'avivta da tu propri quel che lè? Un sgrazié cun al pezi in te cul!>> che tradotto suonava all'incirca: "Con tutti gli uomini che ci sono al mondo, proprio quello ti dovevi prendere? Un disgraziato con le pezze al culo!"
<<Presto ci trasferiremo a Forlì, così non dovrai più sopportarci>>
<<A Forlì... ma se non avete ancora trovato un appartamento? E con cosa lo pagherete? Non avete già abbastanza rate che vi mangiano lo stipendio?>>
<<Troveremo un modo, papà. Ma nel frattempo, dobbiamo cercare di convivere in maniera civile. Io aspetto un figlio e devo stare tranquilla. E poi non voglio che mio figlio nasca in una famiglia litigiosa>>
Ettore sbuffò e alla fine cedette:
<<Entro giugno vi trovo una casa. Non voglio neanche che mi paghiate l'affitto, basta che vi togliete dai c... ehm, dai piedi!>>

giovedì 30 marzo 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 53. Rubare la scena alla sposa

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Le nozze di Francesco Monterovere e Silvia Ricci-Orsini, il 1° dicembre 1974, furono la prima e l'ultima occasione in cui tutti i personaggi di questo romanzo (ovviamente quelli all'epoca viventi) si incontrarono di persona e sedettero fianco a fianco nello stesso luogo.
E dunque tali nozze possono essere considerate come il punto in cui le vite "quasi parallele" a cui fa riferimento il titolo, simili a rette in uno spazio geometrico, si incrociarono per poi tornare, lentamente, ma inesorabilmente, ad allontanarsi.
Dal momento che il numero di invitati era decisamente troppo grande per la chiesa di Pievequinta, gli sposi decisero che la cerimonia si sarebbe tenuta nella basilica di San Mercuriale, nel centro di Forlì, a metà strada tra le residenze delle rispettive famiglie (i Monterovere di Faenza e i Ricci-Orsini di Casemurate).
Forlì è una cittadina piccola e noiosa, un posto dove non succede mai niente di interessante, a parte qualche mostra di quadri. Per questo il matrimonio tra Silvia e Francesco, due docenti già noti e apprezzati, con un grande numero di amici e parenti, tra cui famosi e controversi notabili e personaggi altolocati, divenne, senza volerlo, un evento mondano che riscosse da parte della popolazione locale un entusiasmo spropositato, manco si trattasse dei Principi di Galles.
Per l'occasione, i genitori della sposa, Ettore Ricci e Diana Orsini, avevano ricominciato a rivolgersi la parola, dopo circa vent'anni.
Si trattava di monosillabi, ma era già qualcosa.
I genitori dello sposo spiccavano per la loro altezza: Romano Monterovere era alto due metri e sua moglie Giulia Lanni era molto longilinea.
Diana e Giulia si conobbero per la prima volta e scoprirono di essere stranamente simili, sia nel fisico che nel carattere.
C'erano anche le tre nonne ultranovantenni degli sposi: la maestra Clara Ricci, la contessa madre Emilia Orsini e la signora Eleonora Monterovere.
Sembravano uscite da un film muto degli anni Venti, o da qualche dagherrotipo della Belle Epoque: rimanenze di un'età conclusa da molto tempo, e che tuttavia persisteva, ostinata, nel non voler morire.
Giulia Lanni Monterovere accompagnò all'altare il figlio Francesco.
Ettore Ricci fece la stessa cosa con sua figlia Silvia, lanciando occhiate minacciose a destra e a manca.
Silvia aveva scelto un abito elegante, ma sobrio.
Questa decisione era in linea col suo carattere.
Purtroppo tale sobrietà non apparteneva alla grande maggioranza delle invitate.
Esiste una regola ferrea, riguardo a come vestirsi ai matrimoni: non bisogna rubare la scena agli sposi, e in particolare le invitate non devono rubare la scena alla sposa.
Ebbene, le numerose fotografie che hanno immortalato quel giorno memorabile mostrano senza ombra di dubbio che mai, in tutta la storia, la regola del "non rubare la scena alla sposa" fu violata in maniera così plateale.
Certo gli Anni Settanta non erano sobri, ma quella cerimonia andò oltre.
Ovviamente, colei che più di ogni altra invitata attirò su di sé l'attenzione, anche se in maniera ridicola e a tratti esilarante, fu l'ottantenne Signorina De Toschi, la cui mise barocca, tutta fiocchi, balze, gioielli e boccoli, unita alla sua imponente bruttezza, ricordava, per gli intenditori, quella di Anna Maria Luisa di Borbone-Orleans, Duchessa di Montpensier, meglio conosciuta, nella Versailles di Luigi XIV, come La Grande Mademoiselle.

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Undated portrait of La Grande Mademoiselle (Anne Marie Louise d'Orléans, Duchess of Montpensier) by a member of the School of Pierre Mignard.jpg

A pensarci bene, la Signorina De Toschi era in tutto e per tutto la reincarnazione della Grande Mademoiselle de Montpensier.
Ma non fu l'unica ad esibire uno sfarzo degno del più esuberante barocco.
Infatti, il secondo posto in ordine di vistosità, fu il look di Anita Monterovere, zia dello sposo, anche lei zitella e nel contempo ninfomane, animatrice di salotti e personalità istrionica con evidente sindrome da primadonna.
Anita detestava la sposa e dunque la sua scelta di rubarle la scena fu doppiamente colpevole.
Si presentò con una tinta di capelli rosso fuoco catarifrangente, occhiali da sole oblunghi e puntati verso l'alto, tenuti anche in chiesa, pelliccia ottenuta sterminando l'intera popolazione dei visoni della Moscovia, sigaretta con bocchino d'avorio, perennemente accesa, calze a rete nere, scarpe rosse con tacco 14.
Ma lo spettacolo più impressionante derivò dalle sorelle e dai fratelli di Ettore Ricci.
Carolina Ricci, in stile edoardiano, con parure di diamanti e tiara, sembrava la buon'anima della Regina Mary, moglie di Giorgio V del Regno Unito, e nonna dell'attuale sovrana.

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Adriana Ricci, invece, diede scandalo vestendosi da uomo.
I due fratelli di Ettore riuscirono a fare anche di peggio.
Aristide indossò un tight che sarebbe stato considerato eccessivo anche al matrimonio dei Principi di Galles.
Alberico, che per principio faceva tutto il contrario dell'odiato fratello, sembrava un barbone.
Leggermente più discreti i figli di Ginevra Orsini e del Giudice Papisco.
Goffredo, il direttore dell'Ufficio Legale della Bancaccia, era in tenuta da cavallerizzo.
Benedetta sembrava la sosia di Jackie Kennedy durante il matrimonio con Onassis.
Si era sposata da poco con Massimo Perfetti, il quale, a trentacinque anni, aveva già i capelli bianchi, dovuti allo stress derivante dal desiderio di essere il primo in qualsiasi cosa.
Anna si era fatta le meches, ma a catturare l'attenzione fu suo marito, Adriano Trombatore, il Sommo Poeta, che per l'occasione sfoggiava un vero look bohémienne: capelli lunghi alla Beethoven, cappello floscio alla Goethe, pipa, mantello, sciarpa di seta alla Oscar Wilde, giacca di velluto blu, pizzetto alla Johnny Depp, con un'ombra di barba di tre giorni, pantaloni bordeaux, stivali neri appuntiti, panciotto di satin blu notte con orologio d'oro da taschino, sul cui coperchio erano incise le seguenti lettere: "Da M.D.T. ad A.T. De Bono et malo".
Fortunatamente i testimoni, le damigelle e i paggetti riuscirono a contenere il loro estro.
Testimoni dello sposo erano suo fratello Lorenzo e suo cognato Ludovico Mancini, marito di Enrichetta, la quale era perennemente occupata a tenere a bada i due esuberanti figlioletti.
Testimoni della sposa erano i cognati, Ercole Spreti di Serachieda, marito di Margherita Ricci-Orsini e Saverio Zanetti Protonotari Campi, marito di Isabella Ricci-Orsini.
La loro aria compunta sembrava quasi voler dire addio ad un terzo dell'eredità di Ettore Ricci.
I più dispiaciuti erano Ida Braghiri, suo marito Michele e i loro numerosi figli e nipoti, erano tutti lividi per l'invidia e pareva che già tramassero qualcosa per rovinare la festa.
Ma la vera attrazione erano i pezzi grossi: molti imboscati, infatti, erano accorsi più che altro per incontrare di persona i notabili.
Il Senatore Leandri, l'assessore Tommaso Monterovere (di cui furono molto apprezzate la moglie e le figlie, di una bellezza dal sapor mediorientale), il Giudice Papisco, il Commissario Tartaglia, il Presidente del Rotary, Preside Prof. Everardo Rocca Rossellino, ricordavano tutti Marlon Brando nella parte di Don Vito Corleone.
Inutile dire che fu un gran giorno.
Fu anche l'inizio di un matrimonio d'amore, molto ben riuscito, ma destinato a dover affrontare troppe avversità.