Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
lunedì 23 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 6. La fortuna dei Ricci e la disgrazia degli Orsini
Ma com'era stato possibile che una famiglia di contadini fosse riuscita a fare così tanti soldi da entrare in possesso di tutte le ipoteche che gravavano sul Feudo Orsini?
Il vecchio Giorgio Ricci era il capofamiglia e quello che teneva i cordoni della borsa, ma non era sempre stato così.
Ultimo di un imprecisato numero di fratelli, era cresciuto quasi come un animale selvatico.
Basso, tarchiato, irsuto come un cinghiale, aveva occhi infuocati e penetranti, capelli ispidi come setole, una perenne barba di tre giorni, da carcerato, e un'aria cupa e vagamente minacciosa.
Fuggito di casa all'età di tredici anni, aveva lavorato come "garzone" in varie tenute di campagna, senza dare confidenza a nessuno.
A differenza degli altri della sua età, non spendeva tutto il suo magro salario in osterie e bordelli: i suoi appetiti erano ben altri.
L'essere nato per ultimo, così come l'essersi sentito sempre l'ultima ruota del carro, in ogni circostanza, avevano procurato in lui una reazione ben precisa, e cioè quella di ribaltare il suo destino diventando il primo, sempre, ovunque, in ogni modo.
Sapeva benissimo, però, che sgobbare e risparmiare, di per sé, non era una strategia vincente per diventare i primi.
Bisognava anche correre qualche rischio.
Giorgio Ricci scoprì di avere il bernoccolo degli affari, specie nelle trattative di compravendita.
Riusciva sempre a ottenere il prezzo che voleva.
Era come un grosso gatto sornione che giocava col topo prendendolo per sfinimento.
Poteva stare giorni interi a contrattare il prezzo della vendita di un pollo.
I padroni se ne accorgevano e gli affidavano sempre più spesso l'incarico di comprare e vendere sementi, bestiame, raccolti, prodotti caseari e artigianali, non faceva differenza: lui riusciva sempre a ottenere un prezzo conveniente.
In cambio di queste mediazioni, Giorgio Ricci si faceva pagare una percentuale.
Alla fine riuscì a raggranellare un certo gruzzolo che gli permise di comprare una piccola casa colonica con un pezzo di terra attorno, che gli serviva come pretesto per fingere di fronte al mondo intero di essere soltanto un piccolo coltivatore diretto.
In realtà la sua professione era quella di sensale, o come diremmo oggi, di mediatore.
Non appena ebbe raggranellato un altro gruzzolo, inizio a praticare la vera attività a cui aveva sempre aspirato, e cioè quella di usuraio.
La prima preoccupazione di uno strozzino serio è quella di garantirsi la copertura delle autorità locali, fornendo generose disponibilità liquide, senza interesse e a fondo perduto ad ogni notabile, pubblico o privato.
Tutti gli altri, invece, dovevano pagare tassi molto elevati e se sgarravano rischiavano di incorrere in incidenti spiacevoli.
Giorgio ottenne la sua prima rivincita morale sul destino quando i suoi fratelli maggiori si presentarono da lui col cappello in mano, ricordando con eccezionale nostalgia "i bei tempi andati".
Lui si mostrò incredibilmente magnanimo e garantì ai fratelli un trattamento di favore, dando loro persino validi consigli su come far fruttare il denaro.
Di fatto i fratelli di Giorgio Ricci divennero i suoi prestanome.
Il primogenito, Amilcare (perché all'epoca andavano di moda quei nomi lì, dietro suggerimento di fantasiosi parroci a giovani parrocchiani che dovevano battezzare i marmocchi) fondò un'officina di riparazione di strumenti per l'agricoltura, che presto si trasformò in una piccola fabbrica di macchine agricole.
Il secondogenito, Teodorico, comprò una tenuta con ottimi vigneti e frutteti.
Il terzogenito, Enotrio, divenne titolare di numerosi allevamenti di bestiame.
Il quartogenito, Paride, mise su un'osteria, con albergo a ore (di fatto un bordello) e altre simili attività ricreative.
Poi vennero le sorelle.
Carolina fondò una maglieria con annesso negozio di vestiti e attività sartoriali, impiegando ragazze che lavoravano 12 ore al giorno per un salario da fame (e a volte integravano il reddito facendo "servizi" presso l'albergo di Enotrio) e
Adriana, che era rimasta nubile e abitava ancora con i vecchi genitori, Primo e Severina, ebbe l'incarico delle "pubbliche relazioni". Di fatto la sua attività consisteva nel raccogliere dati e informazioni su tutto e su tutti, con tecniche di spionaggio che avrebbero fatto impallidire i servizi segreti di mezzo mondo.
Una volta assicuratosi il controllo di tutta l'economia locale tramite i fratelli e le sorelle, Giorgio decise di prendere moglie.
Per lui, che aveva fatto a malapena la terza elementare, il primo passo di ascesa sociale consistette nello sposare una donna istruita e di buona famiglia.
Dopo attente valutazioni, trovò la persona che faceva per lui.
Clara Valentini era una giovane e graziosa maestra elementare, figlia di proprietari terrieri decaduti, e per un po' di tempo fu l'unica insegnante nella scuola di Casemurate.
Poteva vantare inoltre un'amicizia con la signorina Emma De Toschi, figlia di Violetta Orsini, una delle sorelle del vecchio Conte Vittorio.
Si erano conosciute in collegio. Emma aveva poi continuato a studiare all'università, lettere classiche, a Bologna.
Siccome la famiglia Valentini aveva grossi debiti nei confronti di Giorgio Ricci, e tenendo conto che la giovane maestrina Clara, per quanto colta e brillante, era piuttosto bruttina, slavata, secca e col naso lungo, la proposta di matrimonio da parte del Ricci ebbe l'approvazione sia dei genitori che della ragazza.
Alla fine si tratto di un matrimonio fortunato, nel senso che Giorgio Ricci ottenne quello che aveva sempre desiderato, e cioè essere ammesso alla corte degli Orsini, e la Maestra Clara ottenne finanziamenti per pubblicare numerosi saggi storici, tra cui le già citate "Cronache casemuratensi", che la resero una vera e propria autorità locale dal punto di vista della cultura.
Da quel matrimonio nacquero vari figli, destinati a loro volta ad uno sfrenato arrampicamento sociale.
Nel frattempo Giorgio Ricci divenne il finanziatore di tutte le stravaganti iniziative del vecchio Conte Vittorio in costose attività di editoria dilettantistica, giardinaggio, architettura, campi da golf, laghi di pesca sportiva, bacini di canottaggio e altre amenità che forse avrebbero avuto qualche speranza se fossero state più vicine alla riviera e non a un borgo di contadini.
I tempi di Mirabilandia erano ancora lontani. E gli agriturismi non hanno raggiunto Casemurate nemmeno oggi.
Quando il Conte Vittorio morì, nel 1930, il suo primogenito e successore Conte Achille si rese conto che tutte le sue terre e proprietà, compresa la Villa, erano gravate da ipoteche a favore di Giorgio Ricci.
A quel punto l'usuraio e il nobiluomo incominciarono a prendere in considerazione l'idea che forse un'alleanza matrimoniale tra i loro figli avrebbe potuto risolvere molte spiacevoli questioni.
Il Pantheon celtico
Antiche divinità galliche e britanniche
Maschili
- Abandinus - Forse un dio del fiume
- Abellio - (Abelio, Abelionni) Un dio degli alberi da frutto
- Alaunus - (Fin) Un dio del sole
- Alisanos - (Alisauno)
- Ambisagro - Un dio del tuono e della luce
- Anextiomaro - (Anextlomaro, Anextlomara) Un dio del sole
- Atepomaro - Un dio del sole
- Arverno - Un dio tribale
- Arausio - Un dio dell'acqua
- Bodbh - Un corvo che frequentava i campi di battaglia cibandosi dei corpi e del sangue dei morti
- Barinto - (Manannán mac Lir) Un dio del mare e dell'acqua
- Belanu - Una divinità protoceltica, dio della luce
- Belatu-Cadros - (Belatucadros, Belatucadro, Balatocadro, Balatucadro, Balaticauro, Balatucairo, Baliticauro, Belatucairo, Belatugago, Belleticauro, Blatucadro e Blatucairo) Un dio dell'acqua
- Borvo - (Bormo, Bormanus) Dio dei minerali e delle sorgenti
- Buxeno
- Camulos - (Camulo, Camulos) Un dio della guerra
- Canetonnessis
- Cernunnos - Un dio maschio con corna da cervo
- Cicolluis - Cicolluis o Cicoluis (Cicollus, Cicolus, Cicollui, Cichol) può essere identificato con l'aspetto guerriero del dio romano Marte, molto probabilmente è stata una divinità protettrice.
- Cimbriano
- Cissonio - (Cisonio, Cesonio) Un dio del commercio
- Cnabezio
- Cocidio - Un dio della guerra
- Condatis - Un dio delle confluenze dei fiumi
- Contrebis - (Contrebis, Contrebo) Un dio di una città
- Dii Casses
- Dis Pater - (Dispater) Un dio degli inferi
- Esus - (Hesus)
- Fagus - Un dio dei faggi
- Fido - Un dio locale dei galli Boi di Fidenza
- Genii Cucullati - Spiriti incappucciati
- Grannos - (Gramnos, Gramnnos) Un dio della salute, dei minerali e delle sorgenti
- Icauno - Un dio di un fiume
- Intarabo
- Iovantucaro - Un protettore della giovinezza
- Leno - Un dio della salute
- Leucezio - (Leucetius) Un dio del tuono
- Lúg
- Luxovio - (Luxovius) Un dio dell'acqua cittadina
- Maponos - (Maponus) Un protettore della giovinezza
- Mogetius - Un dio della guerra paragonato a Marte
- Mogons - (Moguns)
- Moritasgus - Un dio del sole
- Mullo
- Nemauso
- Nerio
- Nodens - (Nudens, Nodons) Un dio della salute, del mare, della caccia e dei cani
- Ogmios
- Odino, (in inglese Wodan) capo degli dei (come il dio greco Zeus )
- Robur - Un dio delle querce
- Rudianos - Un dio della guerra
- Segomo - Un dio della guerra
- Smertrios - (Smertios, Smertrius) Un dio della guerra
- Sucellos - (Sucellus, Sucellos) Un dio dell'agricoltura, delle foreste e delle bevande alcoliche
- Taranis - Un dio del tuono
- Toutatis - (Caturix, Teutates) Un dio tribale
- Veteris - (Vitiris, Vheteris, Huetiris, Hueteris)
- Virotutis - Un dio del sole
- Visucio
- Vindonno - Un dio del sole
- Vinotono
- Vosegus
Femminili
- Abnoba
- Adsullata
- Aericura
- Agrona
- Ancamna
- Andarta
- Andraste
- Arduinna
- Aufanie
- Arnemezia
- Artio
- Aventia
- Aveta
- Belisama
- Brigantia
- Britannia
- Camma
- Campestres
- Clota
- Coventina
- Damara
- Damona
- Dea Matrona
- Dea Sequana
- Epona
- Erecura
- Icovellauna
- Litavis
- Mairie
- Nantosuelta
- Nemetona
- Ritona (Pritona)
- Rosmerta
- Sabrina
- Senua
- Sequana
- Sirona
- Sulevie
- Sulis
- Tamesis
- Verbeia
Personaggi della mitologia gallese
Maschili
Femminili
Personaggi della mitologia irlandese
Maschili
Femminili
Personaggi della mitologia scozzese
domenica 22 gennaio 2017
sabato 21 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 5. Dalla Bassa all'Africa
Nei racconti a sfondo epico che Romano Monterovere, nei rari momenti in cui era in vena di confidenze, elargiva ad amici e parenti riguardo alla sua gloriosa partecipazione alla Guerra d'Etiopia, c'erano, ad essere sinceri, molte lacune e ancor più contraddizioni, tanto che non risultò affatto facile cercare di avere anche solo una vaga idea di quel che fosse realmente accaduto.
Secondo la maggior parte delle versioni, Romano Monterovere giunse al porto di Asmara, in Eritrea, nel novembre del 1935, dopo un lungo viaggio per mare su una nave del Regio Esercito di cui non è dato sapere il nome.
La sua prima avventura fu quella di un bagno nelle acque del Mar Rosso, dove rischiò di essere divorato dagli squali, o, come diceva lui, da "pescecani".
Poi, nonostante la sua presunta sete di gloria e di azioni eroiche, fu assegnato alle retrovie con funzione di guidatore di camion.
Di fatto, quando riuscì a ottenere la patente di guida, mezza Etiopia era già stata conquistata.
Ma le imprese del milite Monterovere erano appena iniziate.
La sua prima prodezza fu quella di portare vettovaglie e munizioni alla 24esima divisione fanteria "Gran Sasso", di stanza ad Adua sotto il comando del generale Adalberto di Savoia-Genova.
A questo punto della narrazione, con un sorriso complice agli ascoltatori, Romano Monterovere si toccava il lobo dell'orecchio destro, per indicare che il generale Savoia-Genova aveva fama di essere omosessuale. Seguivano alcune storielle piccanti sull'argomento.
Poi però le cose in guerra si misero male e il Comandante Superiore De Bono fu sostituito dal Maresciallo Badoglio.
Quando la divisione "Gran Sasso" prese parte, insieme a tutto il II corpo d'armata, alla Battaglia dello Sciré, Romano Monterovere, pur avendo manifestato il desiderio di combattere in prima linea per la Partria, magari gridando leopardianamente "Procomberò sol io!", venne nuovamente destinato alla retroguardia.
<<Non dimentichiamo>> era solito far notare Romano Monterovere nelle sue memorie di guerra <<che la retroguardia è costituita da truppe esperte, in grado di mantenere una forte coesione e un ottimo morale, per evitare una rotta drammatica>>
Fortunatamente per lui, quello fu uno dei rari casi in cui non si presentò tale evenienza.
Il 29 febbraio 1936 l'intero II Corpo d'Armata marciava su Axum, il IV Corpo si muoveva come programmato per attaccare il fianco sinistro dello schieramento etiope.
Il 2 marzo, l'avanzata del II Corpo riprese ma venne bloccata dalla retroguardia del ras Immirù: fu un attacco inaspettato e breve in quanto la mattina dopo, quando l'artiglieria e l'aeronautica italiane erano pronte per agire, gli Etiopi avevano già abbandonato il campo di battaglia. A quel punto la battaglia poté dirsi conclusa con la ritirata delle truppe del Negus dalle loro posizioni.
Di tutto questo Romano Monterovere non vide praticamente nulla.
Ma il suo "onore" di guerriero trovò un riscatto poco dopo, quando il suo camion fu incaricato di portare munizioni presso "i guadi del fiume Telcazzè" (e guai se qualcuno osava ridacchiare per quel nome singolarmente esotico).
Il 3 e 4 marzo 1936, mentre la II Armata si stava faticosamente aprendo la strada per Selaclacà, le truppe di Ras Immirù giunsero sulle rive del fiume dove però trovarono ad attenderle 126 cacciabombardieri che in due giorni sganciano 636 quintali di esplosivo, bombe incendiarie ed iprite, oltre a 25.000 proiettili di mitragliatrice
La distruzione dell'armata del Ras Immirù, seguita dalle distruzioni delle armate dei Ras Mulughietà e Cassa, permise a Badoglio di concentrare la propria attenzione sull'avanzata verso Addis Abeba. Con l'eccezione delle armate al diretto comando del negus Hailé Selassié, non vi erano altre forze etiopi che si opponessero agli italiani nell'area.
Romano Monterovere, per quanto fosse segretamente antifascista, provò un senso di ebbrezza nel momento in cui, il 5 maggio successivo, il suo camion entrò nella capitale etiopica mentre dagli altoparlanti le radio proclamavano la nascita dell'Impero coloniale italiano.
Questa ebbrezza era probabilmente corroborata dalla presa d'atto che, a guerra finita, lui era ancora vivo e senza un graffio.
venerdì 20 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 4. Noblesse oblige
Nel 1936, all'età di 21 anni, la bellissima contessina Diana Orsini Balducci di Casemurate era ancora inspiegabilmente nubile.
Era affascinante, raffinata, intelligente, istruita secondo un'educazione di prim'ordine, con tanto di diploma di liceo classico, lezioni di francese, di pianoforte, di danza, di equitazione, di alta sartoria, di giardinaggio e altre simili attività di elevata inutilità sociale.
Tre anni prima aveva ufficialmente adempiuto al primo grande rito iniziatico delle ragazze "di buona famiglia", ossia il Debutto in Società.
L'occasione era stata un ballo presso la residenza di campagna dei marchesi Spreti di Serachieda, insigne dinastia ravennate che vantava discendenze persino dagli Esarchi bizantini.
Qualche secolo prima, una Lucrezia Spreti aveva anche sposato un conte Orsini, per cui le due famiglie risultavano imparentate, seppure alla lontana.
Il prestigio di Villa Spreti, dotata persino di un'alta torre merlata risalente al XV secolo e detta "Torre di Casemurate", era tale da far sì che la strada di fronte a quel notevole maniero, sorto vicino alla chiesa parrocchiale, avesse preso il nome di Via Spreti, e così è chiamata ancor oggi.
Già a quei tempi Villa Spreti era tenuta in condizioni decisamente migliori di Villa Orsini.
Inoltre, per dirla tutta, mentre Villa Spreti era una residenza di villeggiatura, la Villa Orsini era l'ultima residenza rimasta alla famiglia dei Conti di Casemurate.
E per giunta era gravata da imbarazzanti ipoteche dovute ad una serie di sfortunati investimenti e ad un tenore di vita superiore alle rimanenti liquidità della famiglia.
L'unica speranza per salvare la dinastia dalla rovina consisteva nel combinare matrimoni adeguati per i figli.
Il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate e sua moglie Emilia Paolucci de Calboli avevano avuto sei figli.
Ludovico (1913-1916) era morto precocemente di meningite.
Diana nata nel 1915, era, come si è detto, talmente bella, elegante e di classe da poter aspirare a un buon partito, almeno prima che i suoi corteggiatori si rendessero conto che portava in dote soltanto un cognome glorioso e una marea di debiti.
Annalisa (1917- 1919) era morta precocemente di febbre spagnola.
Ginevra, nata nel 1921, era pallida, magra, rossa di capelli, lentigginosa, ma di carattere gentile.
Isabella, nata nel 1924, prometteva di diventare persino più attraente di Diana.
Augusto, nato nel 1926 era un grande appassionato di motociclismo e automobilismo.
Dal momento che Diana era l'unica figlia in età da marito, tutte le trattative segrete per i matrimoni combinati erano concentrati su di lei.
L'unica soluzione per evitare la catastrofe era fare in modo di imparentarsi, tramite matrimonio dei figli e delle figlie, con qualche famiglia ricca.
Purtroppo, considerando l'enormità dei debiti che gravavano sulla famiglia dei Conti di Casemurate, e il rischio probabile di una completa rovina, seguita dal disonore sociale, spaventavano anche i più ricchi borghesi della zona.
Rimaneva comunque un consistente numero di corteggiatori che il Conte sprezzantemente giudicava di rango inferiore e "squattrinati".
In verità non erano proprio tutti squattrinati: uno i quattrini ce li aveva, ma le origini agresti della sua famiglia erano ritenute troppo recenti.
Come avevamo anticipato, costui era il ruspante Ettore Ricci, figlio dell'ancor più ruspante Giorgio, primo tra i creditori del Conte.
Certo, agli occhi di quest'ultimo i Ricci erano degli zotici, ma quest'argomentazione passava in secondo piano di fronte alla considerazione che proprio quella famiglia si trovava in possesso delle ipoteche gravanti su Villa Orsini e sui terreni adiacenti, gli ultimi rimasugli di quello che un tempo era stato il Feudo di Casemurate.
Ogni volta che il Conte Achille si trovava a meditare su quell'argomento, non poteva fare a meno di chiedersi com'era stato possibile per la sua stirpe cadere così in basso.
Investimenti sbagliati, spese eccessive, vizi inconfessabili e altre dissipatezze avevano contribuito in maniera inesorabile a quel declino, che ormai si stava trasformando in un crollo verticale.
In qualità di creditori ipotecari, i Ricci stringevano lentamente, ma inesorabilmente il cappio intorno al collo lungo e pallido del Conte Orsini, il quale tentava di tener buoni quei "bifolchi" ricevendo spesso l'unica componente presentabile di quel clan, ossia la Maestra Clara, moglie del capofamiglia e, come già si era accennato, autrice delle Cronache casemuratensi.
L'apporto della maestra Clara aveva contribuito a dirozzare almeno un po' la famiglia Ricci, tanto che
suo marito Giorgio si atteggiava ormai a riverito possidente.
Tra i loro figli, Ettore era di sicuro il più intraprendente, e aveva fama di instancabile lavoratore. In lui l'indole bizzarra, focosa e irascibile dei Ricci, era compensata da una simpatia derivante da un talento istrionico e dalla capacità di avere sempre la battuta pronta.
Fisicamente non era un gran che: basso, irsuto, dai lineamenti non certo aristocratici, contrastava in maniera evidente con la bellezza di Diana Orsini.
Ma, come diceva Zsa Zsa Gabor: "Un uomo ricco è sempre bello".
Peccato che Diana Orsini non la pensasse affatto allo stesso modo.
Non si trattava solo di un capriccio: la contessina era consapevole che la personalità di Ettore Ricci e la propria erano agli antipodi.
Naturalmente nessuno si era minimamente preoccupato di informare Diana del fatto che, nonostante la sua opposizione, le trattative per un eventuale matrimonio con Ettore stavano proseguendo in maniera febbrile e concitata.
Le uniche allusioni a tal proposito provenivano dall'ultima domestica rimasta a Villa Orsini, una certa Ida Braghiri, moglie del fattore degli Orsini, che era già segretamente a libro paga della famiglia Ricci.
La signora Ida non faceva altro che tessere le lodi di Ettore Ricci.
Diana, che non era una stupida, capì quello che c'era da capire.
<<Non lo sposerò mai!>> dichiarò apertamente ai genitori <<Non potete costringermi>>
La Contessa Emilia assunse un'espressione affranta: <<Finiremo tutti sul lastrico>>
Diana azzardò una battuta: <<E lavorare no?>>
Questa volta fu il Conte in persona a intervenire: <<Piuttosto mi sparo un colpo di rivoltella! La nobiltà ha i suoi obblighi, e tra questi c'è il matrimonio combinato. Ma il lavoro... no, meglio la morte. Nessuno potrà mai dire di avere il Conte Orsini sul libro paga!
Ma tu, figlia mia, potresti finire per avermi sulla coscienza. Hai avuto un'educazione di prima classe. Sei cresciuta nei privilegi. E' tempo che tu faccia il tuo dovere>>
La Contessa Emilia approvò:
<<In fin dei conti, noblesse oblige>>
Diana scosse il capo con tutte le sue forze:
<<Mai! Avete capito? Mai e poi mai!>>
Ma il Conte e il futuro genero avevano già fissato le tappe che avrebbero dovuto condurre, in maniera inesorabile, al matrimonio più improbabile della storia.
Vite quasi parallele. Capitolo 3. Dagli Appennini alla Bassa
Quando Enrico Monterovere e sua moglie Vittoria Bonaccorsi decisero di vendere il loro podere sull'Appennino modenese per trasferirsi da qualche parte nella Bassa pianura, il primo dei loro nove figli aveva già trent'anni e l'ultimo ne aveva solo due.
Il primogenito, Alfredo, che era una testa calda, oltre che uno scansafatiche, decise di emigrare in America e per un bel po' non si seppe più niente di lui.
Il resto della famiglia cambiò residenza più volte, passando da un affitto all'altro e da una città all'altra, a seconda del lavoro, sempre saltuario, svolto da Enrico e da qualcuno dei figli più grandi.
Ad essere sinceri, anche Enrico Monterovere non era quel che si direbbe un gran lavoratore e nessuno, nemmeno sua moglie, era in grado di dire con esattezza di cosa si occupasse, almeno fino al 1935, quando arrivò la Grande Svolta nella sua vita, la Chiamata dal Sinai, ossia l'assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, presso la ridente stazione di Bagnavallo.
Certo, per gente nata in montagna, trasferirsi nella Bassa ravennate era un po' come sprofondare nelle sabbie mobili, ma un posto nelle Ferrovie dello Stato valeva questo ed altro.
Restava comunque piuttosto nebulosa la natura dell'incarico di Enrico Monterovere presso la Stazione di Bagnacavallo.
Nessuno lo aveva mai visto con una divisa e una paletta rossa e verde in mano.
Qualche malalingua, però, insinuava di averlo scorto con secchi d'acqua, stracci e scopone.
Né la moglie, né i figli decisero di indagare ulteriormente. In fondo un salario alla fine del mese arrivava, e per quanto non fosse gran che, valeva pur sempre il detto: pecunia non olet.
Avevano trovato un appartamento in affitto a un prezzo fin troppo conveniente.
Certo, il piano terra era un po' umido, la muffa un po' troppo resistente, il seminterrato allagato e d'inverno si gelava, ma in fondo i Monterovere non erano forse stati temprati dai rigori degli inverni appenninici presso il bosco dell'Orma del Diavolo?
Questo era quanto Enrico ripeteva le rare volte in cui rincasava sobrio.
Le altre volte era meglio non rivolgergli parola.
In particolar modo era meglio non ipotizzare in sua presenza un qualche collegamento tra l'umidità della residenza e la tubercolosi di cui soffrivano tre dei suoi figli.
Come si è detto, Enrico e Vittoria ne avevano avuti nove, di cui sei maschi e tre femmine.
Alfredo, quello emigrato in America, si era fatto vivo dopo anni per lettera chiedendo un prestito.
La madre, che come spesso accade era l'unico vero "uomo" in famiglia, gli rispose che gli avrebbe fatto avere dei soldi soltanto se lui avesse fatto pervenire alla famiglia qualche medicinale utile per curare la tisi.
La signora Vittoria Monterovere, infatti, aveva sentito dire, alla radio, che gli Americani stavano sperimentando un nuovo farmaco, di cui ancora non era noto il nome, ma che in seguito sarebbe stato conosciuto come penicillina, la pioniera degli antibiotici.
Purtroppo, però, soltanto nel 1941 la penicillina incominciò ad essere utilizzata come antibiotico nella cura della tisi, troppo tardi per salvare Renata, Maria e Umberto Monterovere, persino se Alfredo, in quegli anni, si fosse anche solo vagamente preoccupato di far avere il farmaco ai fratelli.
I rimanenti figli, consapevoli che l'aria di Bagnacavallo non era esattamente quella del sanatorio di Davos in Svizzera, rimpiansero il Monte Cimone e l'Orma del Diavolo, maledissero Alfredo e l'America, e si misero alla ricerca di soluzioni alternative.
Romano, il secondogenito, si arruolò volontario nella Guerra d'Africa per la conquista dell'Abissinia, anche se il metodo di arruolamento risultò più che altro simile ad una retata di polizia con successiva deportazione al porto eritreo di Asmara.
Rimanevano ancora sul groppone dei vecchi Enrico e Vittoria altri quattro figli.
La terzogenita Anita, incredibilmente intelligente, brillante e vagamente simile a Marlene Dietrich, riuscì ad ottenere il diploma per l'insegnamento magistrale e poi, giovanissima, una cattedra a Pola, in Istria, dove si illuse di potersi costruire una vita al sicuro da ogni affanno e pericolo, in armonia con i vicini Jugoslavi.
Gli ultimi tre, che erano ancora adolescenti, si guadagnavano la pagnotta con lavori saltuari nelle numerose cave e torbiere della zona o nelle eterne opere di bonifica.
Uno di loro, che si chiamava Ferdinando come il nonno morto all'Orma del Diavolo, sviluppò un interesse straordinario per le cave e i canali, a tal punto da mettersi in proprio con un'attività destinata ad un inaspettato successo.
La signora Vittoria dirigeva la famiglia con salda autorità, tanto da riuscire persino a convincere sua sorella Valentina, sposata col ricco commerciante Filippo Bassi-Pallai, a investire denaro nell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Tutto sommato, dopo tanti anni di tribolazioni, il peggio sembrava essere passato, o almeno questa era l'impressione della famiglia Monterovere poco prima che, nel 1940, la radio annunciasse che un'ora fatale, segnata dal destino, batteva nei cieli della nostra Patria.
L'ora delle decisioni irrevocabili.
giovedì 19 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 2. La Contea di Casemurate.
Se nella realtà esistesse un equivalente della Contea degli Hobbit, sarebbe senza dubbio la Contea di Casemurate, in Romagna, avente come centro il paese che le dà il nome, un nome strano, ma significativo riguardo ad un tacito, ma radicato desiderio, da parte dei suoi residenti, di non essere disturbati dal resto del mondo.
La storia di questo discreto angolo di mondo affonda le sue radici nel Medioevo.
Secondo le non troppo affidabili Cronache casemuratensi, della maestra elementare Clara Ricci Silvestrini (unica docente della scuola locale), pubblicate nel 1933 con tanto di prefazione del conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, l'etimologia del luogo sarebbe da attribuirsi alla fatto che il villaggio e il castello centrale, fin dalla loro fondazione, nel Medioevo, erano stati cinti di mura così solide da reggere a qualunque calamità, tranne le riforme urbanistiche di fine Ottocento.
L'unico dato relativamente certo consisteva nel fatto che il castello e il villaggio di Casemurate erano sorti presso l'incrocio tra due strade di una certa importanza, e cioè la Cervese, che collegava, e collega tutt'ora la città di Forlì con la cittadina costiera di Cervia, e il Dismano (antica Via Decumana) che collegava e ancor oggi collega le città di Ravenna e di Cesena.
Quelle due strade dividono tuttora la Contea di Casemurate in quattro parti, come i Decumani della Contea di Tolkien,
Pare anche assodato che i confini dell'antico feudo casemuratense fossero molto più estesi di quelli dell'attuale frazione, e pertanto il territorio della Contea tradizionale poteva essere all'incirca simile a un cerchio avente come centro l'incrocio tra la Cervese e il Dismano, e un diametro di circa quindici chilometri.
Per quanto, negli anni '30 del Novecento, le terre di Casemurate fossero suddivise in varie proprietà più o meno grandi, le Cronache casemuratensi ci ricordano che per molti secoli la signoria territoriale fu nelle mani di due sole potenti famiglie, gli Orsini Balducci, le cui fortune andarono poi decadendo nei secoli e i marchesi Spreti, che invece ebbero grande fortuna.
Le Cronache asseriscono inoltre che la fondazione della Contea di Casemurate si debba far risalire alla precisa data del 21 aprile 1278, quando Bertoldo Orsini, nipote di papa Niccolo III (quello con cui Dante ebbe un furente alterco in un Canto dell'Inferno, dopo averlo scambiato per Bonifacio VIII), della potente famiglia romana degli Orsini, fu nominato Conte di Romagna e affidò al fratello minore Bernardo il compito di presidiare la bassa pianura al centro del quadrilatero compreso tra le principali città della Romagna Settentrionale: Ravenna, Forli, Cesena e Cervia.
Fu così che, sempre secondo le Cronache della Maestra Ricci, nel 1278, Bernardo Orsini costruì una fortezza all'incrocio della Cervese e del Dismano e dove c'era un piccolo, anonimo villaggio, e la cinse di mura, dandole appunto il nome di Case Murate, che divenne poi Casemurate tutto attaccato.
Il documento probante tale atto di fondazione, secondo la scrupolosa indagine della Maestra Ricci, risultava conservato nell'archivio privato del Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate, che si proclamava diretto discendente del fondatore Bernardo, basandosi sempre su documenti gelosamente custoditi nel suddetto archivio, talmente segreto che, escludendo il Conte e la Maestra, non era mai stato visto da anima viva.
Del resto, a voler essere del tutto sinceri, non rimanevano tracce archeologiche né delle mura, né del castello, della qual cosa le Cronache colpevolizzavano, testuali parole, "l'iconoclastia positivista e modernista delle pubbliche istituzioni del Regno d'Italia, negli anni successivi all'Unità, nonché la barbarie distruttiva dell'avanguardia futurista", parole che sembravano piuttosto improbabili nell'ambito del lessico pudibondo della Maestra Ricci, mentre esprimevano in pieno l'eloquio infuocato, nonché le idee ardite, del Conte Orsini.
L'unico motivo per cui il contenuto delle Cronache non fu messo in discussione dalla censura fascista potrebbe essere attribuito al numero piuttosto ristretto delle copie stampate, tenendo conto anche delle ristrettezze nelle quali la famiglia Orsini Balducci di Casemurate era venuta a trovarsi.
Se però la sorte degli Orsini pareva inesorabilmente orientata verso la bancarotta, al contrario la condizione finanziaria della famiglia Ricci, di cui la maestra Clara faceva parte, era del tutto florida, tanto che suo marito Giorgio, agiato agricoltore, stava ampliando i propri possedimenti e accumulando diritti d'ipoteca sulle stesse terre del Conte.
E di certo la fortuna dei Ricci di Casemurate era anche legata al fatto che Giorgio Ricci era stato uno dei primi fervidi aderenti del Fascismo, potendo vantare un'amicizia cordiale col Duce in persona, suo coetaneo e romagnolo come lui.
Giorgio Ricci e Clara Silvestrini avevano avuto molti figli dai nomi altisonanti suggeriti da un parroco fin troppo colto tra cui Aristide, Alberico, Caterina, Adriana, ma soprattutto
Ettore, che aveva ereditato dal padre il bernoccolo per gli affari e dalla madre la sconfinata ammirazione mista ad invidia nei confronti della famiglia Orsini.
Da tempo Ettore Ricci aveva messo gli occhi addosso alla figlia primogenita del Conte, la bella e raffinata contessina Diana Orsini Balducci di Casemurate, che tuttavia non pareva ricambiare tali attenzioni.
Se ci è concessa una similitudine, Ettore Ricci era come il verghiano Mastro-Don Gesualdo, mentre Diana Orsini sembrava uscita da un romanzo di Jane Austin o Margaret Mitchell.
Date queste premesse, era già chiaro fin dall'inizio che le cose, per entrambi e le rispettive famiglie, per non parlare dell'intera Contea di Casemurate, avrebbero preso molto presto una brutta piega.
Vite quasi parallele. Capitolo 1. Ferdinando Monterovere disarcionato presso l'Orma del Diavolo
La sventura si abbatté per la prima volta sulla famiglia Monterovere in una gelida notte di febbraio del 1928, quando l'ottuagenario patriarca Ferdinando, di ritorno da una delle sue folli cavalcate in mezzo ai boschi dell'Appennino modenese, fu improvvisamente disarcionato dal suo destriero nei pressi di una località che la gente del luogo chiamava, premurandosi di fare i dovuti scongiuri, l'Orma del Diavolo.
Tale nome era legato ad un'antica superstizione.
I vecchi raccontavano che proprio in quel punto, attualmente situato tra il borgo di Querciagrossa e il castello di Monterovere, nelle vicinanze di Pavullo, migliaia di anni prima, esisteva un'enorme quercia, centro del culto pagano dei Druidi, praticato da alcune tribù dei Galli Boi, sopravvissute alla conquista romana della Gallia Cisalpina e ritiratesi nella zona appenninica retrostante alla via Emilia.
Secondo il non troppo affidabile testo "I Galli del Frignano", edito a proprie spese da Luigi Andrea Melegnati, erudito preside di una scuola media di Pavullo, in quelle zone dell'alto modenese, una tribù di Galli Boi si sarebbe fusa con ciò che restava degli antichissimi Friniati, altra popolazione pre-romana, e pur adeguandosi ad una romanizzazione di facciata, avrebbero coltivato in segreto le antiche tradizioni.
Sempre secondo il testo del Melegnati, quella stessa quercia sarebbe stata poi abbattuta per ordine dell'imperatore Teodosio I, nell'Anno Domini 389, in seguito alle devote, ma insistenti sollecitazioni di sant'Ambrogio, vescovo di Milano.
Poco dopo l'abbattimento dell'antica quercia celtica, incominciarono ad essere avvistati, in quel luogo già considerato un centro di stregoneria, alcuni fenomeni inspiegabili che presto vennero identificati come spiritelli notturni, folletti, elfi o fate del Piccolo Popolo di cui erano piene le leggende della tradizione celtica che, nonostante la colonizzazione romana e la predicazione cristiana, sopravvivevano radicate nell'immaginario collettivo delle piccole comunità dell'entroterra.
E forse parte di quell'antico sangue celtico scorreva persino nelle vene di Ferdinando Monterovere, guardacaccia della selva di Querciagrossa, che si proclamava discendente del feldmaresciallo Raimondo Monterovere, conte di Querciagrossa e comandante degli eserciti austro-ungarici nella loro prima guerra contro i Turchi Ottomani.
Il castello dei Monterovere era ancora lì, in cima alla collina, ma la famiglia era ormai decaduta e, come avrebbe detto il professor Tolkien, "da lungo tempo orbata di signoria e comando".
Si manteneva vivo, tuttavia, un certo spirito aristocratico e sdegnoso, che attribuiva ai Monterovere, forse anche a causa dell'alta statura e dell'indole burbera e poco socievole, una certa aria di severo disprezzo nei confronti del mondo intero.
Ciò metteva in soggezione gli altri abitanti di Querciagrossa, che provavano una sorta di timore reverenziale nei confronti di "don Ferdinando", quando pattugliava a cavallo la foresta e il villaggio, spingendosi fino alla collina e alle mura del castello che un tempo era appartenuto ai suoi antenati,
Tuttavia il vecchio Ferdinando non era poi così severo come lo descriveva, e anzi con i suoi numerosi figli e nipoti era estremamente gentile, e amava trascorrere le serate accanto al focolare, raccontando ai bambini le antiche leggende celtiche, fino a che la brace non si spegneva e i piccoli già erano tra le braccia di Morfeo.
Pur amando molto queste leggende, non aveva mai dato troppo credito alle voci riguardanti l'Orma del Diavolo e riteneva che gli unici veri pericoli, in una foresta, fossero i briganti, i lupi, gli orsi e i cinghiali.
Mai e poi mai si sarebbe lasciato convincere da certe superstizioni inventate dalle vecchie comari bigotte per mettere in cattiva luce i pagani.
E tuttavia quando nel tardo pomeriggio del 28 febbraio 1928, ritrovarono il suo cadavere vicino al corpo agonizzante del cavallo azzoppato, nessuno riscontrò tracce di violenza da parte di briganti, lupi, orsi o cinghiali.
Certo, la spiegazione più razionale sarebbe stata che un uomo anziano come lui, di oltre ottant'anni, poteva essere caduto da cavallo per aver perso il controllo delle redini, o per un malore.
Oppure poteva essere stato lo stesso cavallo, anch'esso non più giovanissimo, ad essere morto e stramazzato a terra, portandosi dietro all'altro mondo il suo padrone, ammesso che esista un altro mondo per i cavalli, per non parlare degli umani.
Il problema era però che il cavallo, nonostante l'età, si era sicuramente impennato, lasciato sul sentiero impronte sospettosamente profonde, come se avesse visto qualcosa di terrificante.
La vicenda suscitò profondo scalpore tra gli abitanti del paese e rafforzò la loro convinzione sulla natura maledetta di quel luogo e di quel bosco.
Diverse furono le reazioni dei figli del defunto Ferdinando.
Il primogenito, Enrico, prese una drastica decisione e scese a valle, nella Bassa Padana, insieme alla moglie Eleonora e ai nove figli ch'ella gli aveva dato, e sfidando le nebbie, i rigori degli interminabili inverni e l'afa soffocante delle estenuanti estati tra mosche e zanzare, si stabilì nelle campagne tra Ravenna e Faenza.
Il secondogenito, Domenico, si arroccò nelle "wuthering highs" del Monte Cimone, a Sestola e Fanano.
Il terzogenito, Bartolomeo, partì per le Americhe.
Difficile dire chi fece la scelta peggiore.
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