Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
venerdì 20 gennaio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 3. Dagli Appennini alla Bassa
Quando Enrico Monterovere e sua moglie Vittoria Bonaccorsi decisero di vendere il loro podere sull'Appennino modenese per trasferirsi da qualche parte nella Bassa pianura, il primo dei loro nove figli aveva già trent'anni e l'ultimo ne aveva solo due.
Il primogenito, Alfredo, che era una testa calda, oltre che uno scansafatiche, decise di emigrare in America e per un bel po' non si seppe più niente di lui.
Il resto della famiglia cambiò residenza più volte, passando da un affitto all'altro e da una città all'altra, a seconda del lavoro, sempre saltuario, svolto da Enrico e da qualcuno dei figli più grandi.
Ad essere sinceri, anche Enrico Monterovere non era quel che si direbbe un gran lavoratore e nessuno, nemmeno sua moglie, era in grado di dire con esattezza di cosa si occupasse, almeno fino al 1935, quando arrivò la Grande Svolta nella sua vita, la Chiamata dal Sinai, ossia l'assunzione da parte delle Ferrovie dello Stato, presso la ridente stazione di Bagnavallo.
Certo, per gente nata in montagna, trasferirsi nella Bassa ravennate era un po' come sprofondare nelle sabbie mobili, ma un posto nelle Ferrovie dello Stato valeva questo ed altro.
Restava comunque piuttosto nebulosa la natura dell'incarico di Enrico Monterovere presso la Stazione di Bagnacavallo.
Nessuno lo aveva mai visto con una divisa e una paletta rossa e verde in mano.
Qualche malalingua, però, insinuava di averlo scorto con secchi d'acqua, stracci e scopone.
Né la moglie, né i figli decisero di indagare ulteriormente. In fondo un salario alla fine del mese arrivava, e per quanto non fosse gran che, valeva pur sempre il detto: pecunia non olet.
Avevano trovato un appartamento in affitto a un prezzo fin troppo conveniente.
Certo, il piano terra era un po' umido, la muffa un po' troppo resistente, il seminterrato allagato e d'inverno si gelava, ma in fondo i Monterovere non erano forse stati temprati dai rigori degli inverni appenninici presso il bosco dell'Orma del Diavolo?
Questo era quanto Enrico ripeteva le rare volte in cui rincasava sobrio.
Le altre volte era meglio non rivolgergli parola.
In particolar modo era meglio non ipotizzare in sua presenza un qualche collegamento tra l'umidità della residenza e la tubercolosi di cui soffrivano tre dei suoi figli.
Come si è detto, Enrico e Vittoria ne avevano avuti nove, di cui sei maschi e tre femmine.
Alfredo, quello emigrato in America, si era fatto vivo dopo anni per lettera chiedendo un prestito.
La madre, che come spesso accade era l'unico vero "uomo" in famiglia, gli rispose che gli avrebbe fatto avere dei soldi soltanto se lui avesse fatto pervenire alla famiglia qualche medicinale utile per curare la tisi.
La signora Vittoria Monterovere, infatti, aveva sentito dire, alla radio, che gli Americani stavano sperimentando un nuovo farmaco, di cui ancora non era noto il nome, ma che in seguito sarebbe stato conosciuto come penicillina, la pioniera degli antibiotici.
Purtroppo, però, soltanto nel 1941 la penicillina incominciò ad essere utilizzata come antibiotico nella cura della tisi, troppo tardi per salvare Renata, Maria e Umberto Monterovere, persino se Alfredo, in quegli anni, si fosse anche solo vagamente preoccupato di far avere il farmaco ai fratelli.
I rimanenti figli, consapevoli che l'aria di Bagnacavallo non era esattamente quella del sanatorio di Davos in Svizzera, rimpiansero il Monte Cimone e l'Orma del Diavolo, maledissero Alfredo e l'America, e si misero alla ricerca di soluzioni alternative.
Romano, il secondogenito, si arruolò volontario nella Guerra d'Africa per la conquista dell'Abissinia, anche se il metodo di arruolamento risultò più che altro simile ad una retata di polizia con successiva deportazione al porto eritreo di Asmara.
Rimanevano ancora sul groppone dei vecchi Enrico e Vittoria altri quattro figli.
La terzogenita Anita, incredibilmente intelligente, brillante e vagamente simile a Marlene Dietrich, riuscì ad ottenere il diploma per l'insegnamento magistrale e poi, giovanissima, una cattedra a Pola, in Istria, dove si illuse di potersi costruire una vita al sicuro da ogni affanno e pericolo, in armonia con i vicini Jugoslavi.
Gli ultimi tre, che erano ancora adolescenti, si guadagnavano la pagnotta con lavori saltuari nelle numerose cave e torbiere della zona o nelle eterne opere di bonifica.
Uno di loro, che si chiamava Ferdinando come il nonno morto all'Orma del Diavolo, sviluppò un interesse straordinario per le cave e i canali, a tal punto da mettersi in proprio con un'attività destinata ad un inaspettato successo.
La signora Vittoria dirigeva la famiglia con salda autorità, tanto da riuscire persino a convincere sua sorella Valentina, sposata col ricco commerciante Filippo Bassi-Pallai, a investire denaro nell'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Tutto sommato, dopo tanti anni di tribolazioni, il peggio sembrava essere passato, o almeno questa era l'impressione della famiglia Monterovere poco prima che, nel 1940, la radio annunciasse che un'ora fatale, segnata dal destino, batteva nei cieli della nostra Patria.
L'ora delle decisioni irrevocabili.
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