Molti erano i pensieri che agitavano la mente di Luca Bosco, mentre si trovava nel retro di un taxi che lo stava conducendo nel luogo concordato per l'incontro.
Avrei dovuto rifiutare. Non ho più niente a che spartire con quella gente.
Eppure la curiosità aveva prevalso.
La convocazione era giunta del tutto inaspettata, tanto che lui, inizialmente, aveva pensato che si trattasse di uno scherzo.
Erano passati molti anni dai tempi in cui aveva frequentato la Confraternita e ormai non era più in contatto con nessuna delle persone che aveva conosciuto in quel contesto esclusivo ed influente.
Era stato lui stesso a interrompere i rapporti con il gruppo, e lo aveva fatto in modo drastico, sbattendo la porta, senza lasciare alcuno spiraglio ai ripensamenti.
La diplomazia non era mai stata il suo forte.
Forse sarebbe stato più saggio agire con tatto, ma come sempre, quando il senso di delusione gli provocava una reazione di sdegno, tendeva ad eccedere con le parole.
Ed erano volate parole grosse, quelle da cui non si torna più indietro.
Parole troppo vere, troppo ben cucite, come un vestito nuovo, sui loro destinati, per poter essere dimenticate e men che meno perdonate.
Non che gli importasse essere perdonato dalla Confraternita, tranne che da un unico suo componente, una giovane donna, Virginia Dracu, di cui lui era stato vanamente innamorato. Lei amava un altro. Ma quello era un capitolo a parte.
Io non ero degno di lei, e per questo l'ho allontanata da me con parole imperdonabili.
Parole che non riflettevano i suoi sentimenti, ma che dovevano essere senza possibilità di perdono.
A volte è necessario commettere qualcosa di imperdonabile per continuare a vivere.
Quando ripensava a quel periodo della sua vita, non poteva fare a meno di provare un forte senso di estraneità rispetto al se stesso di allora.
Era cambiato, aveva preso decisioni importanti, reciso cordoni che, invece di salvarlo, lo imprigionavano.
Aveva rifiutato il potere che l'appartenenza alla Confraternita della Torre Eburnea gli avrebbe garantito.
La sete di potere porta ai vertici le persone sbagliate. I migliori leader sono quelli che hanno ricevuto il comando senza cercarlo, mentre indirizzavano le loro energie nel realizzare qualcosa di più importante, e di più sano.
Il potere non trasforma le persone: mette soltanto in evidenza ciò che sono.
Forse era proprio quella la ragione primaria per cui si era fatto da parte.
I miei limiti, i miei difetti, i miei problemi avrebbero interferito troppo nelle responsabilità di cui qualcuno, sia pure in buona fede, avrebbe voluto che io mi facessi carico.
Certo era un peccato.
I suoi talenti sembravano essere andati sprecati.
Ma siamo sicuri che scegliere una vita contemplativa sia uno spreco? Non è forse questa la vita autentica?
Persino gli Eburnei, dall'alto della loro simbolica Torre d'Avorio, avrebbero dovuto capirlo.
In fondo c'era qualcosa di ascetico nelle loro riunioni nel castello medievale di Monterovere Boica, di proprietà del conte Lorenzo Galli di Monterovere, Professore Ordinario di Filologia Romanza all'Università di B. e Presidente della Confraternita della Turris Eburnea.
Il professor Monterovere era un uomo carismatico, che sapeva dosare sapientemente ascesi e mondanità.
Questo valeva per tutti i membri della Confraternita.
Ma inevitabilmente, in quell'ascesi, si era insinuata la convinzione di essere degli Eletti, superiori alla massa, al gregge.
Migliori forse sotto qualche punti di vista, ma peggiori sotto tantissimi altri. Primo tra tutti, il peccato di superbia.
Io almeno l'ho riconosciuto e l'ho combattuto. E ho persino cercato di fare ammenda.
Non era poco, ma forse erano stati gli eventi della vita a fargli tornare in mente l'umiltà.
Tutti quelli che si credono in cima a una torre d'avorio, avrebbero bisogno di un grande bagno di umiltà.
Forse certi dolori, certe sofferenze avevano avuto quel ruolo.
Avevano estirpato, almeno in parte, quel tipo di mentalità snob e supponente che, come troppo spesso accade agli uomini di cultura, si era impadronita di lui facendogli temporaneamente perdere di vista la parte più genuina della sua identità.
Ma alla fine la schiettezza di Luca Bosco aveva prevalso e le sue prese di posizione su molte tematiche sensibili erano state giudicate "politicamente scorrette" dal professor Monterovere.
Il potente accademico gli aveva fatto capire che, se lui fosse stato più "accomodante" su certo temi, lo avrebbe introdotto nei giusti ambienti per fare carriera.
A tale riguardo, il professore lo aveva ammonito:
<<Le attribuivo più finezza, dottor Bosco>>
<<Mi illumini lei, allora, professor Monterovere>>
Lui lo aveva guardato con aria solenne:
<<Lei è un giovane colto, e la conoscenza è uno dei requisiti necessari del potere>>
Luca era rimasto sorpreso da quell'accostamento così diretto tra il sacro e il profano:
<<Io perseguo la conoscenza per puri fini contemplativi, non per usarla come strumento di potere. E credevo che fosse così anche per lei, ma a quanto pare, anch'io le attribuivo più finezza, Professore>>
Monterovere aveva accennato un sorriso ironico:
<<Lei si atteggia a veggente, a profeta, mio caro dottor Bosco, ma come diceva Machiavelli, i profeti disarmati vanno incontro alla rovina. La rende forse felice la conoscenza fine a se stessa?>>
<<La conoscenza non rende mai felici, al contrario. Ci sono cose di cui sarebbe meglio ignorare persino l'esistenza, per poterne evitare la paura. Perdere la felicità è uno dei prezzo della conoscenza. Non è forse questo il vero significato del Peccato Originale? Chi si ciba del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, perde il paradiso terrestre, ossia l'innocenza degli ingenui>>
Il Professore aveva annuito:
<<Avete il dono della parola efficace, oltre che quello della conoscenza. E anche questa è un'arma importante. Ma non basta avere le armi, bisogna anche saperle usare. E avere la saggezza di scegliere il momento opportuno per farlo, o per astenersi dal farlo. E anche il buon senso di non usarle contro di sé>>
Era un avvertimento.
Luca Bosco mancava di quel tipo di buon senso che serviva per avere successo nella vita.
<<Se l'ipocrisia e il conformismo sono i prezzi da pagare per far carriera, allora io non sono assolutamente disposto a pagarli>>
Lorenzo Monterovere aveva assunto un'espressione disgustata:
<<E' un grande spreco, dottor Bosco. Molte speranze erano state riposte in lei... malriposte, per meglio dire! C'era una vena aristocratica nel suo sangue, un quarto di nobiltà, ma a quanto pare gli altri tre quarti, e le loro origini campagnole, hanno prevalso>>
Luca aveva sorriso:
<<Origini campagnole di cui io vado fiero e di cui parlo volentieri, al contrario delle altre.
Un nobile non deve mai vantarsi di esserlo, perché non c'è nessun merito nella nascita>>
Erano parole sincere. Luca Bosco era prima di tutto, e al di sopra di ogni altra considerazione, il "bambino della campagna", il cui cuore era sempre rimasto legato al mondo bucolico e rustico della sua infanzia, trascorsa nella casa dei nonni.
Era davvero cresciuto in campagna, vicino a un fiume, in un mondo che non esisteva piú.
Ed era passato molto tempo, e lui era andato a vivere in città, in una brutta città, ed era diventato qualcun altro, in un altro luogo.
Ma quell'infanzia... ahh, quella vita: guardare la luce del sole sull'erba calpestata e genti vigorose che svolgevano con amore le antiche attività della loro esistenza quotidiana.
Tutto perduto... perduto per sempre...
Dov'è andato tutto quel vigore?
Se n'è andato come la pioggia sugli alberi, come il vento sui prati, ad Ovest, oltre le colline, nell'Ombra.
Un'intera civiltà si era dissolta nel giro di pochi decenni.
Tutto è svanito insieme a quel che restava dell'antica tradizione e delle sopravvivenze di magia celtica, in quei luoghi che per tanto tempo ne erano stati protetti.
Gli antichi Galli Boi adoravano le querce, e lì, nell'appennino emiliano, ce n'erano in abbondanza.
Ma la Quercia Sacra non c'è più. E la Confraternita non è stata in grado di preservarne la memoria.
Il sacro era stato degradato a mero folklore.
Si era persa la dimensione metafisica, l'aspirazione al trascendente, la cognizione del soprannaturale.
Lui lo sapeva bene. Per quanto fosse stato solo un infante, all'epoca, aveva ancora dei ricordi di quel periodo.
Da bambino, Luca Bosco aveva visto con gli occhi gli Anni Settanta.
Ne ricordava l'ardore velleitario.
L'unico elemento che gli piaceva di quegli anni era la moda.
Ricordava sua madre in quegli anni, e come sembrasse più alta nascondendo i tacchi sotto i pantaloni a zampa. Una tecnica geniale, che le donne dei decenni successivi avevano dimenticato.
Che differenza tra le donne sexy di allora e le ragazzette fissate con i leggins e la moda skinny, che bollavano come "vintage" tutto il resto.
Sono crudele a liquidarle così? Devo essere crudele per essere buono, diceva Amleto.
Ma qui c'era qualcos'altro.
per anni ho creduto, sbagliando, che in amore non potessero esistere vie di mezzo: o si è ricambiati, o non si è ricambiati, e siccome la seconda opzione si era rivelata la più frequente, era meglio metterci una pietra sopra... solo adesso mi rendo conto che le donne della mia vita mi hanno ricambiato come potevano, e non era colpa loro se io esigevo qualcosa di più... ma come sempre queste cose si capiscono solo dopo aver perso le migliori occasioni per creare qualcosa di importante...
Potevano essere sue figlie, magari anche sue nipoti. Parlavano degli anni settanta come se fossero avvenuti in tempi remoti.
Ma lui li aveva visti con i suoi occhi...
Quante cose aveva visto con questi suoi occhi!
Troppe cose
Ci sono cose, a questo mondo, che sarebbe meglio non vedere. Meglio non sapere...
A volte si chiedeva se non era preferibile l'ignoranza, ma non riusciva a darsi risposta.
Sapeva soltanto di avere la mente ingombra per i troppi pensieri e i troppi ricordi, e avrebbe dato qualunque cosa per potersene liberare.
Eppure quei ricordi sono parte di me. Quei ricordi sono me...
E dunque doveva conviverci, anche se la conoscenza veicolata da quei ricordi era una fonte di dolore.
Un dolore sordo, insistente, che lo accompagnava da mattina a sera, e da cui aveva implorato di potersi liberare.
Pietà per il veggente e chi non vede, pietà per chi conosce già il futuro, pietà per chi lo sa, per chi lo dice, pietà per chi lo ignora, e brancola nel buio.
Oltretutto, raramente i profeti erano amati.
Il futuro che aveva previsto non piaceva a nessuno e nonostante tutti i suoi sforzi per cambiarlo, sembrava ogni giorno farsi più probabile, più incombente.
E allora si ricordava le parole sprezzanti del professor Monteverde.
Forse sono davvero un profeta disarmato. E forse anch'io sono prossimo alla rovina.
Il meglio è passato. Tutto sta declinando. Tutto scende, precipita, si schianta...
Mentre la primavera della sua vita era sfumata lentamente in un'estate secca e arida, egli era giunto alla conclusione che i pilastri della saggezza e della salute mentale consistevano nel concentrarsi sul presente, nel fare pace con il passato e nel non preoccuparsi troppo per il futuro.
Facile a dirsi, potrebbero obiettare alcuni, e avrebbero ragione.
Non ho mai amato le novità. Mi rendono maldestro. Per essere abile in qualcosa ho bisogno di un lunghissimo esercizio. Se poi qualcuno o qualcosa cambia le regole, allora mi tocca ricominciare da capo.
Ma c'erano altre ragioni.
Nel futuro c'è la fine di tutto ciò che amiamo.
Com'era possibile desiderare una cosa simile?
Come si poteva non rimpiangere un passato in cui si era stati felici?
La felicità passata non è più felicità, il dolore passato è ancora dolore.
E' un'asserzione fin troppo ottimista.
La felicità passata diventa nostalgia, e la nostalgia è essa stessa una forma di dolore per tutto ciò che abbiamo perduto.
Lui sentiva tutto questo in modo particolare.
Dicono che io sia un reazionario, ma non è vero: sono un nostalgico nei confronti di alcuni aspetti del passato che sono andati perduti.
Lo scorrere del tempo porta con sé, nello stesso momento, il progresso di qualcosa e la decadenza di qualcos'altro.
Aveva sempre percepito di più la decadenza, forse perché la sua indole oscilla tra malinconia e collera.
Ma in fondo, a chi non è capitato di riandare con la mente a certi momenti felici del suo passato e dire: "Ah, quelli sì che erano tempi!", per poi rabbuiarsi nella consapevolezza che certe cose non tornano più.
Era l'eterno interrogativo dell'"ubi sunt". Poteva ricordarne infinite citazioni...
Ubi est gloria nunc Babiloniae?Ubi est Romulus, ubi est Remus?Stat rosa pristina nomine,nomina nuda tenemus.
Oppure Dante:
La casa Traversara e gli Anastagi /e l'una gente e l'altra è diretata /le donne e' cavalier, gli affanni e gli agi / che ne 'nvogliava a more e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Jorge Manrigue:
Cosa ne stato del re don Juan? / I principi di Aragona, / Cosa ne è stato? / Cosa è stato di tanta nobiltà, / cosa è stato delle tante mode / che portavano con sé? Le giostre e i tornei, /
paramenti, ricami, e cimieri / sono stati nient'altro che vento? Cosa sono stati, se non erbe
del campo?
O il Beuwulf, a cui si era ispirato Tolkien:
Dov'e andato il cavallo? Dove il cavaliere? Dove colui che elargiva tesori? Dove sono i sedili del banchetto? Dov'è la baldoria della sala grande? [...]Come se n'è andato quel tempo,
scuro, coperto dalla notte, come se non fosse mai stato
O l'amara considerazione del giudice inglese Ranulph Crewe sui grandi casati distrutti dalla guerra delle due rose:
C'è un tempo e una fine per ogni cosa temporale - finis rerum, una fine per i nomi e le dignità e qualunque cosa sia di questa terra, e perché non dei De Vere? Dove sono i Bohun, dove i Mowbray, dove i Mortimer? Dite, il più grande, dov'è Plantageneto?
E soprattutto i versi di Francois Villon nella Ballade des dames du temps jadis :
Mais où sont les neiges d'antan!
Dove sono le nevi di un anno fa?
Il suo equivoco con la Confraternita degli Eburnei stava proprio in questo rapporto col passato:
<<Lei è un reazionario, dottor Bosco, che si è nascosto dietro la maschera di aristocratico progressista dalla mentalità aperta>> lo aveva rimproverato il Professor Monterovere.
Luca aveva scosso il capo:
<<L'espressione "aristocratico progressista" è un ossimoro di cui la maggior parte della sinistra al caviale non si rende conto, o non vuole rendersi conto. Ma ogni tanto succede che anche il caviale incomincia a dare la nausea, e si ritrova il genuino desiderio di una pizza o un panino al prosciutto>>
Il Professor Monterovere aveva assunto un'espressione di estremo disgusto:
<<Lei ci ha ingannati tutti, Dottor Bosco. E più di ogni altro ha ingannato me. La consideravo una delle mie migliori promesse, e invece si è rivelato una delle mie peggiori delusioni. Non capirò mai fino in fondo i motivi per cui ha voluto buttare tutto all'aria, né se lei sia un traditore o un folle, o tutte e due le cose insieme!>>
Luca sapeva che nulla di ciò che avrebbe detto poteva cambiare le cose, eppure, prima di congedarsi, dichiarò:
<<Forse sono un folle, glielo concedo. Ma traditore mai! Io non ho mai rinunciato all'Antica Via, al Grande Disegno. Siete stati voi della sinistra al caviale ad esservi prostrati di fronte alla Massoneria. Voi ad aver ceduto all'ossequio nei confronti del Grande Capitale finanziario. Vi ritenete moralmente superiori, ma siete soltanto i servi sciocchi dell'Oligarchia!>>
E dopo aver detto questo se n'era andato, senza attendere repliche, e senza desiderare alcuna possibilità di riappacificazione.
Era tempo di riprendere in mano la mia vita di studioso e pensatore. La vita autentica.
Qualcuno ha detto che la vita è ciò che accade mentre pensiamo ad altro.
In un certo senso era successo così anche a lui.
Troppo a lungo si era distratto e astratto dal contesto.
Era necessario riacquistare una coscienza del presente, dell' hic et nunc.
Concentrarsi sull'attimo, come un predatore.
E in effetti la sua indole era sempre stata simile a quella di un gatto.Era necessario riacquistare una coscienza del presente, dell' hic et nunc.
Concentrarsi sull'attimo, come un predatore.
Era capace di empatia e simpatia, e conosceva bene le regole del gioco, ma non era stato mai realmente addomesticabile.
Non era né leader, né gregario, né ribelle, né emarginato: era libero, e nessuno mai era riuscito a possedere interamente le chiavi del suo cuore.
Aveva imparato a camminare sul crinale sottile tra la contemplazione e il desiderio, apprezzando i doni della quiete, senza disdegnare quelli della passione, una fiamma che era sempre rimasta accesa in lui, anche nei momenti più oscuri.
Non era un uomo di mondo, ma nemmeno un asceta.
Era nato sapendo che c'è un tempo per tutte le cose, e questa era stata sempre la sua salvezza.
Elegante e buffo a seconda delle circostanze, aveva il dono dell'ironia e la capacità di non prendersi mai troppo sul serio.
Cercava di godersi quello che la vita gli offriva.
Le sue armi erano l'intuizione e la parola, unite però ad una diffidenza di fondo verso l'intero universo.
Dire che fosse cinico sarebbe stata una un'esagerazione.
Non era una persona cattiva, tutt'altro: era una persona buona a cui erano capitate molte cose cattive.
Il suo era più che altro un giustificato disincanto, che non aveva nulla a che vedere con i piagnistei dei pessimisti o l'acidità dei frustrati, e si teneva a distanza di sicurezza dalla velleitaria ingenuità degli utopisti e dei fanatici.
Non approvava chi generava illusioni, ma non voleva nemmeno essere lui a disilludere gli altri, ricordando l'ammonimento di Arturo Graf: "Badate, volendo estirpare un'illusione, di non uccidere un'anima".
Ogni tanto si chiedeva se esistevano veramente persone soddisfatte.
La risposta che gli veniva più spontanea conteneva in sé un po' della presunzione del suo passato.
La felicità è il premio di consolazione degli idioti.
Però forse non era sempre così.
Certo una persona felice, guardandosi in un ipotetico specchio delle brame, avrebbe visto solo se stessa.
Chi non desidererebbe cambiare qualcosa si sé, se ne avesse il potere?
Sulla base di questa considerazione, forse nessuno era felice, nemmeno chi credeva di esserlo.
Forse ognuno, persino il più sicuro di sé, doveva tenere a bada frustrazioni inconfessabili.
Ed io? Cosa devo tenere a bada?
Quelli della Confranternita, che apparentemente, in pubblico, professavano idee buoniste, in privato, nel segreto della loro setta, non nascondevano la loro vera morale, secondo cui non esistevano bene e male, ma soltanto il potere.
Distinguere il bene dal male non era sempre facile e a volte era del tutto impossibile, tanto i due principi si compenetravano, come lo yin e lo yang nel simbolo del Tao.
Ma anche il potere sapeva celarsi molto bene: spesso i veri potenti erano quelli che agivano nell'ombra.
Alcuni di loro hanno fatto grandi cose. Terribili, certo, ma grandi!
E la grandezza meritava comunque attenzione.
Mi avevano offerto il potere, ma io ho rifiutato. L'ho fatto perché sapevo che, nonostante le mie buone intenzioni, avrei potuto farne un cattivo uso.
Nella loro ottica il suo "gran rifiuto" equivaleva ad un fallimento.
Ho veramente fallito?
Superata ingloriosamente la soglia dei quarant'anni, senza aver combinato nulla di particolarmente significativo, Luca Bosco, aveva siglato col mondo, con la vita (e con la propria coscienza) una specie di tregua, o di armistizio.
Non era stato facile. Ogni rinuncia aveva i suoi costi.
Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni e la chiamiamo mondo.
Così scriveva Pirsig e aveva ragione.
Il problema era selezionare la sabbia giusta, le percezioni più favorevoli.
Quel tipo di saggezza non è una conquista facile, né mai del tutto definitiva, ma era di sicuro una forma mentis che aiutava a vedere le cose in una prospettiva meno angosciosa, e questa era una attitudine di non poco conto per un uomo costretto a vivere in un contesto dove le sue doti non erano considerate particolarmente utili.
Il contesto, già.
L'Italia degli anni '10 del XXI secolo non era quel che si direbbe un contesto particolarmente esaltate.
Che la "nave sanza nocchiero in gran tempesta" stesse affondando era chiaro ai più.
Ma la velocità del naufragio e la sua gravità erano chiari soltanto a chi, come lui, era dotato di una particolare dote intuitiva.
Non riusciva a togliersi dalla testa quei tremendi presagi.
Se le danze finiranno la colpa sarà di chi ha spento la musica, non di chi ha avuto il coraggio di scendere in pista.
I migliori rifuggivano la politica: non ne volevano nemmeno sentir parlare.
I più forti lasciavano il paese.
Lui stesso l'avrebbe fatto, se non fosse stato per i legami familiari e il particolare senso delle radici.
Avrebbe preferito essere nato in Svizzera, o in Olanda, in Norvegia. Insomma, in un paese serio.
In genere il freddo favoriva la serietà.
L'estate invece era la stagione dei tamarri.
Ma sto tornando a pensare in maniera elitaria, e non va bene!
Non era un tamarro, ma non era neanche un fighetto.
Certi vezzi rivelano fragilità, la stessa fragilità che abbiamo tutti ma in misura minore, meno nociva.
Era un italiano, qualunque cosa volesse dire questo termine, ma era anche un italianista e un filologo romanzo.C'era stato un tempo, prima che la frenesia del riformismo permanente demolisse quel poco di certezze che ancora rimanevano in quell'angolo di mondo dalla storia plurimillenaria, in cui la laurea in italianistica era chiamata Lettere moderne, per distinguerla da quella in Lettere classiche.
Durante il dottorato in Filologia Romanza, aveva conosciuto una ragazza, Virginia Dracu, che aveva tutti i requisiti per essere la donna della sua vita, tranne uno: stava con un altro.
Virginia, ancora lei... dopo tutto questo tempo... sempre...
Virginia... se almeno riuscissi a dimenticare il suo nome...
Cercava di demolire quell'idealizzazione.
In fondo che cosa c'è in un nome? Virginia è solo uno dei tanti nomi dell'amore.
Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.
Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d'avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome?
Questi pensieri erano tratti da Shakespeare, naturalmente.
La rosa non ammalia pur con altro nome?
Ah, se solo avesse potuto togliersi dalla testa il ricordo di lei!
L'amore era il suo vero punto debole.
Sarebbe caduto anche lui a causa dell'amore?
Perché si cade sempre a causa di quello.
L'amore ci rende vulnerabili.
Quante volte avrebbe voluto dirle: "Tu sei Lei. La mia anima gemella... In altre parole, io ti amo"
Eppure non era accaduto.
Le parole d'amore ci espongono all'eventualità del fallimento.
E le lettere d'amore, quando c'è l'amore, sono ridicole.
L'aveva scritto un grande.
Ho rinunciato all'amore perché non voglio soffrire. Sono incapace di sopportare lo struggimento dell'amore.
L'amore è ossessione, è fanatismo, è pazzia.
Certo, l'assenza di amore rendeva infelici, ma la sua presenza di più, perché ogni gioia veniva pagata a prezzo di grandi sofferenze,
La parola "amore" no, non basta più, non è più qui... ma questo è un vivere a metà...
Ma con l'amore si sarebbe sofferto di più. Con l'amore, di più.
Con Virginia, di più.
Lei era come sale su una ferita mai rimarginata.
Virginia sembrava il personaggio di un romanzo, ma amava un altro, un inglese biondo e aristocratico, di origine tedesca peraltro, come indicava il cognome Waldemar.
Luca aveva creduto, sbagliando, che Virginia e Waldemar sarebbero stati felici insieme, e invece era stato l'esatto contrario.
E' stato triste accorgersi di avere tanto sbagliato.
Il segreto era guardare oltre, guardare più lontano.
Ma ovunque lui guardasse, vedeva solo rovine. Un mondo in disfacimento.
E lì lui lottava, da solo, contro tutti, in una terra senza speranza.
Tirava a campare con un lavoretto part-time sottopagato in una delle tante biblioteche universitarie della Città dai Portici Antichi.
Resisteva, tenacemente. Si era prefisso di sopravvivere almeno a un certo numero di persone a lui sgradite ed era già una ragione sufficiente.
Una ragione per rimanere saldo e fermo.
Non amava muoversi. Aver coraggio è anche riuscire a star fermi dinanzi al pericolo.
"Chi si muove cammina; ma chi è prode il campo tien!"
Si teneva però aggiornato su tutto. Osservava con la massima attenzione. Ponderava ogni notizia.
Raccoglieva dati, pareri, riflessioni, analisi.
E serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
Certo non era una vita facile.
Aveva dovuto rinunciare a molte cose, e dire addio a gran parte del mondo che gli era caro.
La vita era una cerimonia degli addii.
Purtroppo le persone care se ne andavano sempre troppo presto, mentre le altre sembravano essere eterne.
C'erano alcune persone a cui voleva assolutamente sopravvivere.
Solo allora avrebbe considerato compiuta la sua missione terrena e si sarebbe congedato dalla vita da pari a pari.
Ma fino ad allora, più che vita, la sua sarebbe stata una sopravvivenza. Un tirare a campare.
Una vita solitaria, per lo più.
Erano sempre gli altri a cercare di stanarlo, lui preferiva stare per conto suo, leggere, guardare dei film, meditare.
Eppure anche queste sue scelte erano state interpretate, dai membri della Confraternita, come un atteggiamento calcolato, una strategia di marketing: negarsi alimenta il mistero.
Abitava in un umido monolocale al piano terra di un cadente palazzo del centro storico, in zona universitaria. Era di sua proprietà, almeno, (un'eredità lasciatagli dalla sua nonna materna, con cui c'era stato un rapporto di grandissimo affetto) e lui ne aveva fatto la sua tana, come se fosse una specie di caverna hobbit, cosa di cui era perfettamente consapevole.
A soli dieci anni aveva già letto tutti i romanzi di Tolkien, e senza dubbio al professore di Oxford andava il merito, e forse anche la colpa, di aver fatto amare a Luca Bosco la lettura più di qualsiasi altra cosa al mondo. In particolare la lettura di romanzi fantasy oppure di genere fantastico, che contenessero cioè almeno un piccolo elemento di sovrannaturale.
Il suo interesse per il sovrannaturale andava oltre la letteratura e l'arte. La sua cultura infatti comprendeva buona parte della storia delle religioni, con particolare interesse per l'animismo, il misticismo, i politeismi, i culti misterici, lo gnosticismo, le eresie, l'esoterismo, fino alle sue propaggini novecentesche.
Era lontano, almeno mentalmente, dalle religioni ufficiali e dalla loro ortodossia.
Non accettava l'idea che Dio potesse essere nel contempo buono e onnipotente.
Amava quindi il dualismo zoroastriano e manicheo e le sue sopravvivenze nello gnosticismo e in tutta la letteratura che ne era derivata, così come alle religioni orientali.
Era molto interessato inoltre alla mitologia.
Si trattava di un desiderio di evasione dalla realtà o, come dicevano i critici letterari, di "escapismo", accusa a cui Tolkien stesso aveva risposto con valida efficacia:
"Non è la fuga del disertore, ma l'evasione del prigioniero verso la libertà".
Era nata così la simbiosi tra lui e i libri e, giunto ormai "nel mezzo del cammin di nostra vita", riteneva che quella simbiosi gli avesse quantomeno garantito un'esistenza tranquilla, lontana dai pericoli e da quelle spiacevoli complicazioni e avventure che, per dirla con Bilbo Baggins, "facevano far tardi a cena".
Si sbagliava.
Non aveva la minima idea di quanto si stesse sbagliando.
Eppure un indizio c'era, nel biglietto, scritto di proprio pugno dal Professor Monterovere in persona:
<<Dottor Bosco, so che esiste un'unica ragione che possa convincerla a riprendere i contatti con me e la Confraternita della Turris Eburnea, e questa ragione ha un nome e un cognome ben precisi: Virginia Dracu. Cherchez la femme, si diceva una volta. Ebbene, questa volta, mio caro vecchio amico, pare che l'abbiamo ritrovata. Viva. E in ottima salute>>
La notizia avrebbe anche potuto essere falsa, ma il dubbio era stato instillato nella mente di Luca Bosco, dando inizio ad una serie di reazioni inevitabili e tutto sommato prevedibili.
Monterovere sapeva che io non avrei potuto resistere a quel richiamo. E' la coazione a ripetere, l'assurda illusione che ci fa dire: "Questa volta sarò in grado di gestire la situazione. Questa volta saprò comportarmi nel modo giusto". Ma non è forse follia credere, rifacendo sempre le stesse cose, di poter ottenere risultati diversi?
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