domenica 16 luglio 2023

Medioevo: mappe e stemmi del Centro-Sud Italia


Il ducato bizantino di Calabria sorse nel VI secolo aggregando la regione del Brutium, cioè l'odierna area cosentina, con le terre ancora possedute nel Salento (la Calabria dei Romani) i cui confini settentrionali sarebbe stati costituiti dal cosiddetto "Limite dei greci", una sorta di muraglia difensiva costruita a salvaguardia del territorio dalla minaccia dei longobardi. 

Il nome Calabria (che in origine designava la penisola salentina) cominciava così a essere utilizzato per designare il Bruzio, mentre il Salento prendeva il nome di Terra d'Otranto, progressivamente conquistato dai Longobardi.

Il sacro romano imperatore Enrico II il Santo, della dinastia sassone, nominò il nobile cavaliere ser Melo da Bari, nel 1016, duca di Puglia e Calabria.
Tale ducato rimase unito fino alla conquista normanna.




Sviluppi successivi



Nel 1059 papa Niccolò II assegnò il titolo ducale al conte di Puglia e Calabria Roberto d'Altavilla. In realtà anche stavolta il titolo era stato inizialmente concepito per comprendere soltanto i due territori della Puglia e della Calabria (separati l'uno dall'altro proprio dal principato di Salerno) occupati dai Bizantini ma apertamente rivendicati dalla Chiesa romana dopo che questi ultimi avevano consumato il grande scisma; tuttavia i duchi normanni, grazie ad eccellenti capacità militari, politiche e matrimoniali, nel volgere di pochi decenni riuscirono ad appropriarsi anche dell'intero principato di Salerno oltre che di una parte del principato di Benevento, fino a creare un unico grande dominio esteso su tutta quella parte dell'Italia meridionale situata a est del ducato di Napoli (destinato anch'esso, peraltro, a cadere in mano normanna entro il secolo successivo).










sabato 1 luglio 2023

Vite quasi parallele. Capitolo 196. L'anno "senza estate"

 

Forse oggi pochi se lo ricordano, ma nel 1996, in alcune zone della riviera romagnola, la stagione estiva, pur essendo cominciata con un giugno caldo, vide, a partire da luglio, un'instabilità termica e pluviale che creò la percezione che il bel tempo non arrivasse mai. 
I vecchi guardavano il cielo col naso per aria e si chiedevano: "Ma quando arriva l'estate?"
I dibattiti in materia, presso le bocciofile degli stabilimenti balneari duravano ore e ore, nei giorni in cui non pioveva, mentre negli altri giorni la conversazione riguardante "l'anno senza estate" si spostava nei saloni dei barbieri oppure sotto i portici delle villette. 
A Cervia, in via Giove, sia i proprietari che gli inquilini villeggianti attendevano, come ogni anno, l'arrivo della famiglia Monterovere, che da sempre era oggetto di chiacchiere, pettegolezzi e congetture, specie da quando il Professore e la Signora avevano atteso invano, l'estate precedente, il ritorno del Figliol Prodigo, su cui erano circolate voci di ogni genere, specie sulle "cattive compagnie" da lui frequentate a Milano, sulla convinzione (infondata) secondo cui "non aveva dato neanche un esame", sulle località in cui era stato in viaggio "a scrocco della fidanzatina ricca e viziata... ma sì, quella biondina anoressica che gli fa le corna sia con i maschi che con le femmine... come si chiama... Alba, no, Aurora, sì sì, una poco di buono che fa colazione sniffando cocaina: solo una così si poteva prendere quel matto di Roberto" e infine concludevano unanimemente su un punto indubitabile, ossia che il giovane Monterovere, fin da bambino, aveva "sempre avuto molte rotelle fuori posto".
"Diventerà pazzo" profetizzavano alcuni.
"No, è già pazzo" sentenziavano gli altri.
I villeggianti annuivano e pensavano ai poveri genitori: "Certo che avere un figlio così è proprio una disgrazia. Loro fanno finta di niente, ma si vede che quel buono a nulla gli ha spezzato il cuore, quando l'anno scorso ha passato l'estate a Saint-Tropez, a far baldoria, senza studiare, e dimenticandosi di avere una famiglia che lo stava aspettando. Che indecenza!"

La cosa strana era che in passato le stesse persone avevano detto più o meno le stesse cose riguardo ai coniugi Monterovere e alla loro presunta ingratitudine nei confronti di Ettore Ricci.
All'epoca le lamentele erano state del tipo: "Al povero Ettore gli è preso un colpo quando ha saputo che la signorina Silvia si era fidanzata con quel tipo che viene dai monti, che si mangia le parole, che si dimentica di mettere l'acqua nella caffettiera... ma questo è il meno. La catastrofe era che un terzo dell'eredità prendeva la strada dei Monterovere, noti fannulloni comunisti e teste calde"
C'era voluto molto tempo prima che i residenti e i villeggianti di Via Giove accettassero quel matrimonio così inopportuno, ma alla fine impararono a rispettare e persino ad ammirare il Professore e la Signora (la quale era anche lei professoressa, ma forse, agli occhi dei villeggianti, aveva un'aria meno professorale; e poi era figlia di Ettore Ricci, e dunque un'ereditiera, la qual cosa era stimata più che una professione).
Non che questo rendesse i vicini più indulgenti, ma almeno ci si odiava con rispetto, si sapeva che la sconfitta del nemico non era necessariamente una propria vittoria, come i fatti poi dimostrarono.
Col tempo il bersaglio, fin troppo facile, del gossip, era diventato il figlio, specie dall'affaire du Savoy in avanti.
I guai che ne erano seguiti, per Roberto, avevano fatto la gioia di così tante persone che quasi a lui sembrava di essere un benefattore.
E il meglio, per i "paparazzi", doveva ancora venire!
Roberto Monterovere si rivelò una cornucopia di scandali, uno dietro l'altro, tanto che alla fine, persino i suoi più accaniti detrattori incominciarono a sentirsi come quelli che sparano sull'ambulanza.
Ma questo accadde solo trent'anni dopo.
Invece nel '96, nell' "anno senza estate", Roberto aveva solo 21 anni e, come si suol dire, "tutta la vita davanti".
Con grande sorpresa di tutti, ai primi di agosto, il giovane Monterovere comparve da solo, senza fidanzata, a bordo di una scalcagnata Punto sicuramente di seconda mano, che parcheggiò in maniera discutibile, a riprova, se mai ce ne fosse stato bisogno, del fatto che era un pessimo guidatore, tanto che ben pochi osavano chiedergli un passaggio.
E nonostante quell'arrivo dimesso, in punta di piedi, e il basso profilo che cercò di mantenere con un aplomb quasi inglese, tutti si accorsero di lui.
La signora Marchesi dal terrazzino lo osservava col binocolo che usava per andare all'opera, e anche l'ingegner Reggiani, stravaccato sull'amaca, tra due vecchi pini che avevano visto tempi migliori, per non parlare delle varie vedove proprietarie delle villette di cui affittavano i piani nobili, tenendo per sé il seminterrato e il portico, da cui, mentre sferruzzavano, controllavano l'intero vicinati.
Prima tra tutte, a farsi avanti, fu la vicina sulla destra, la Rosina, che all'anagrafe risultava essere nominata come la vedova Zotici Maldenti Ventosi Teresa. Aveva seppellito tre mariti e da ognuno di loro aveva ricevuto una consistente eredità, ma aveva mantenuto i modi schietti e ruspanti della sua infanzia rurale, e così pure una spontaneità che alternava slanci d'affetto fin troppo focosi con scatti d'ira feroce contro chiunque avesse l'ardire di parcheggiare davanti a casa sua, rovinandole la visuale della strada e di tutti i passanti.
<<Roberto, da quant'è che non ti vedevo!>>  strillò in modo sufficientemente acuto per essere certa di aver dato per prima la notizia a tutto l'isolato.
Poi corse a baciarlo sulle guance, con la bocca umida a ventosa e un forte odore di aglio e cipolla.
Il giovane Monterovere le permise di fargli il terzo grado proprio lì, sul marciapiede, ma cercò di svincolarsi rispondendo a monosillabi. Alla fine, l'anziana vedova, a riprova del suo buon cuore, disse:
<<Aspetta mo', che ti vado a prendere un pesce che ho appena cucinato, così lo mangi per cena. E' uno sgombro pescato dal mio inquilino nel porto canale. L'ho pulito per bene e gli ho tolto tutto il petrolio delle barche, poi l'ho cotto con la mia ricetta segreta e vedrai che delizia!>>
Roberto detestava mangiare il pesce: se qualcuno avesse voluto fargli un dispetto, gli sarebbe bastato invitarlo a cena e servigli soltanto un menu di pesce e frutti di mare.
Nonostante tutto, però, il giovane Monterovere, all'epoca, era ancora capace di atti di pura gentilezza e sacrificio, per cui alla sera mangiò quel maledetto sgombro e ne pagò le conseguenze.
Era una notte molto umida, per cui Roberto decise di dormire in mansarda, dove si stava più caldi e asciutti.
Alle 3 di notte circa, l'Ora del Lupo, fu svegliato da un enorme senso di nausea a cui seguirono ripetuti conati di vomito.
Capì subito che quel malessere era legato al pesce della Rosina, che sicuramente era andato a male o conteneva sostanze dannose o microbi di vario genere.
Nel giro di un'ora, Roberto aveva rimesso anche l'anima, ma la situazione, invece di migliorare, peggiorò: un dolore addominale acuto si fece strada, sommandosi alla nausea.
Essendosi già trovato in situazioni simili, cercò di tamponare i sintomi con il Plasil e il Buscopan, ma lo stomaco rigettava qualsiasi cosa, persino l'acqua.
All'alba, consapevole di aver contratto un'intossicazione alimentare, Roberto chiamò il Pronto Soccorso.
L'ambulanza arrivò a sirene spiegate.
Potrete immaginare la gioiosa curiosità dei vicini nel constatare che "la campana suonava per Roberto Monterovere".
I genitori, ancora insonnoliti e increduli, riuscirono a dirgli che l'avrebbero raggiunto alla sede dell'ex ospedale di Cervia, dove ormai era attivo soltanto il presidio delle emergenze.
Il medico sentenziò: <<Gastroenterite da escherichia coli. Mi ci gioco le palle. Mettetelo nello stanzino, a letto, con una flebo di acqua e Bimixin. Si procederà con l'antibiotico fino a remissione>>
Roberto, piegato in due dalle coliche, chiese un antidolorifico:
<<Me lo deve iniettare, perché se no rimetto tutto>>
Il medico lo fissò, come per valutare se avesse davanti un tossicodipendente, poi, con magnanimità, concesse:
<<Va be', le faccio un'iniezione di morfina, ma solo per stavolta!>>
E così, mentre gli mettevano la flebo e gli iniettavano l'antidolorifico, Roberto scivolò lentamente nel sonno.
Al risveglio si ritrovò davanti i genitori stravolti e preoccupati.
<<Come stai? Va un po' meglio?>>
Il figlio sentiva ancora un notevole malessere, ma cercò di non drammatizzare:
<<Un po'. Ho molta sete>>
Cercò di bere a piccolissimi sorsi, perché ancora lo stomaco era sottosopra.
Poi:
<<Giuro che non mangerò più pesce in vita mia, e che non accetterò mai più cibo da quella vecchia strega che ha tentato di avvelenarmi!>>
Il padre commentò:
<<Non esageriamo...>>
E la madre, rivolta al padre:
<<E' la morfina che lo fa delirare. L'unica volta che me la somministrarono, vedevo tutto di colore violetto>>
Nel pomeriggio riuscirono a riportare il figlio a casa, sempre a Cervia, ma facendolo dormire nell'appartamento grande, nella stanza vicino alla loro.
E quello fu il "divertentissimo" primo giorno di ferie.

Seguì una settimana di forte debolezza, accentuata dall'umidità e dalle zanzare onnipresenti.
L'umore di Roberto, già basso prima di arrivare alla residenza estiva, sprofondò in una crescente malinconia, e i suoi fantasmi lo assalirono tutti in una volta.
Ombre di un passato ancora breve, ma già sufficientemente affollato e molesto, gli giravano intorno, nella mente e gli rimproveravano ogni singolo errore, ogni minimo cedimento, senza tregua.
"E' tutto così confuso" pensò "ma questa confusione sono io, io per quello che realmente sono, non come vorrei o come dovrei essere, e non ne ho più paura. Non sono un leader e non sono un gregario. Non so cosa farò, ma di certo preferirei diventare un docente universitario di materie umanistiche piuttosto che un impiegato di banca. E' il momento di dirlo, ma quali saranno le reazioni? La nonna mi appoggerà senza riserve, e anche i miei genitori. Lo zio Lorenzo gioirà e sentenzierà: 'Te l'avevo detto!". Il resto della famiglia capirà, ma gli altri? 
Amici e conoscenti, cosa diranno? La penseranno come i villeggianti di via Giove? 
Cari vicini di casa: perché non comprendete le mie ragioni? Che cos'ho fatto, se non tentare di assaggiare la vita prima di richiudermi definitivamente dietro un muro di libri?"
Aurora gli avrebbe rinfacciato il suo vittimismo, la sua eterna strategia del "chiagni e fotti", ma questo era un elemento scaramantico, non una truffa.
"Ho cercato di essere umile, di non prendermi troppo sul serio, di scherzare sui miei tanti difetti: perché allora c'è stata tanta invidia contro di me? Perché mi hanno accusato di superbia?
Ho studiato duramente, giorno e notte, per anni e anni. Perché mi accusano di essere ozioso?"
Ancora una volta la risposta consisteva in un solo nome proprio: Aurora.
"Da quando mi sono innamorato di Aurora è andato tutto storto. Se ho sbagliato, l'ho fatto per amore di lei. Ma adesso Aurora mi sta uccidendo, eppure non riesco a vivere senza di lei. L'estate stessa non esiste senza di lei.".
Ricordò ancora una volta la "poetica dell'Assenza" di Montale.
"...piove, perché se non sei, è solo la mancanza, e può affogare..."
E poi:
"...tu non ricordi, altro tempo frastorna la tua memoria... tu non ricordi, ed io non so più chi va e chi resta..."
E ancora:
"Assente, come manchi a questa plaga che ti presente e senza te consuma: sei lontana e perciò tutto divaga dal suo solco, dirupa, spare in bruma."
Avrebbe potuto continuare all'infinito, poiché l'assenza della persona amata è una delle colonne portanti della letteratura di ogni luogo e di ogni tempo.

Aurora era andata in Giappone, a conoscere il clan Mizuhara, insieme ad Ayami e a Jenny Burke-Roche.
Roberto aveva preferito tornare nelle sue terre natie e passare l'estate con la sua famiglia, ma non riusciva a provare il conforto che aveva sperato.
L'acqua del mare era troppo fredda, quell'anno, o almeno così pareva a lui.
"Questo mare si è infranto sul mio cuore per tutta la vita."
E avrebbe continuato a farlo: ogni estate un amore, ogni estate un tormento, era sempre andata così, non importava quale fosse il bilancio finale, perché in amore si dà molto più di quanto si riceve, altrimenti non è vero amore. L'amore è incondizionato, oppure non è amore.
Camminava lungo la spiaggia, guardava le ragazze, ma gli sembrava che nessuna fosse in grado di fargli dimenticare Aurora.
Alzava lo sguardo verso il porto, vedeva il grattacielo di Milano Marittima, ricordava che lì vicino c'era la villa estiva dei Visconti e senz'altro la madre di Aurora l'avrebbe accolto a braccia aperte.
Se lui fosse piaciuto alla sua ragazza almeno un decimo di quanto piaceva alla madre di lei, allora sì che le cose sarebbero andate per il verso giusto.
Ritornava all'ombrellone e crollava sul lettino, distrutto come se avesse corso la maratona di New York. E aveva solo ventun anni!
I conoscenti avevano voglia di parlare con lui, ma la cosa non era reciproca.
Andava al bar della spiaggia, si comprava un gelato, si metteva a sedere nel gruppo di quelli che guardavano in tv le prime vittorie di Valentino Rossi al motomondiale, in quella che all'epoca era la classe 125, e pensava: "Beato lui, che fa quel che gli piace, guadagna un sacco di soldi e può avere tutte le ragazze che gli pare".

Alla radio, uno dei tormentoni era la canzone "Più bella cosa" che com'è noto Eros Ramazzotti dedicò alla prima moglie, Michelle Hunziker, negli anni felici del loro amore.
Michelle aspettava una figlia e aveva deciso di chiamarla Aurora.
Gira e rigira si tornava sempre a quel nome, non c'era via di scampo.
"Com'è cominciata io non saprei, la storia infinita con te..."
Quella canzone lo ossessionava.
"Com'è che non passa con gli anni miei, la voglia infinita di te, cos'è quel mistero che ancora sei, che porto qui dentro di me..."
Perché gli altri trovavano le parole giuste e lui invece non ci riusciva?
Non riusciva più a studiare, non riusciva nemmeno a leggere, tanto forte era il "magone" che lo opprimeva.
Non dormiva più e poi al mattino non riusciva ad alzarsi dal letto e all'ora di pranzo la nausea continuava a tormentarlo.
Non si poteva andare avanti così.
Si confidò con i genitori e chiese loro consiglio, e come sempre i pareri del padre e della madre erano non solo discordanti, ma agli antipodi.
Secondo il padre non c'era altra soluzione che riprendere la relazione con Aurora, perdonandole le sue stranezze e le sue infedeltà.
Secondo la madre, invece, bisognava sradicare persino il ricordo di quella ragazza e sancirne la "damnatio memoriae".
Era sempre andata così: Roberto si trovava a un bivio, chiedeva un consiglio e i suoi gli davano pareri opposti, rendendo ancor più difficile la decisione.
"Ma è colpa mia. Non posso più rimandare le scelte all'infinito. Ci dovrà pur essere una risposta, da qualche parte, dentro o fuori di me, oppure sto andando irrimediabilmente alla deriva?".
L'ultima parola, come sempre, la ebbe sua nonna Diana:
<<Adesso non sei lucido e quindi non è il momento di prendere decisioni, ma di curarsi. Avevo sperato che a te non toccasse la maledizione di famiglia, ma ormai è chiaro: questi sono i sintomi della depressione maggiore e per uscirne c'è un unico modo. Bisogna rivolgersi a uno specialista e per tua fortuna ce n'è uno che ha lo studio a Milano Marittima>>
Era chiaro che per "specialista" si intendeva uno psichiatra, ma naturalmente la parola non doveva essere pronunciata.
E così iniziò la "storia infinita" di Roberto con gli antidepressivi.
Ancora non se ne parlava molto, almeno in Italia, ma da lì a poco sarebbe incominciata la più grave epidemia di fine millennio, e cioè la depressione. Tale morbo deriva da uno squilibrio chimico dei neurotrasmettitori, e i farmaci servono per riequilibrarlo, dando la forza ai malati di risolvere i loro problemi personali e sociali.
Il primo antidepressivo che veniva prescritto all'epoca era l'ormai celeberrimo Prozac, in termini chimici chiamato fluoxetina, la prima molecola degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina. Però poi i maschi preferirono sostituire il Prozac con altri farmaci, a causa del più nefasto degli effetti collaterali, ossia una lieve, ma preoccupante, disfunzione erettile.
Il dosaggio però era basso e quell'effetto collaterale, per almeno un anno, non si presentò.
La depressione regredì, temporaneamente.
Roberto ritrovò il sonno e l'appetito (fin troppo!), e l'umore risalì e così anche l'interesse e il piacere per le quotidiane occupazioni. Si rimise anche a studiare, perché le date degli esami si avvicinavano.
E così l'estate del 1996 terminò senza essere nemmeno cominciata.


Nota dell'autore

Il reale "anno senza estate", conosciuto anche come l'anno della povertà e Eighteen hundred and froze to death (1800 e si moriva di freddo nei paesi di lingua inglese), fu il 1816, anno durante il quale gravi anomalie al clima estivo distrussero i raccolti nell'Europa settentrionale, negli stati americani del nord-est e nel Canada orientale[1]. Lo storico John D. Post lo ha battezzato "l'ultima grande crisi di sopravvivenza nel mondo occidentale".

Oggi si ritiene che le aberrazioni climatiche furono causate dall'eruzione vulcanica del Tambora, nell'isola di Sumbawa dell'attuale Indonesia (allora Indie orientali olandesi), avvenuta dal 5 al 15 aprile 1815, eruzione che immise grandi quantità di cenere vulcanica negli strati superiori dell'atmosfera. Il vulcano Soufrière nell'isola di Saint Vincent nei Caraibi nel 1812, e il monte Mayon nelle Filippine nel 1814, avevano già eruttato abbondanti polveri e gas pesanti nell'atmosfera. Come è comune a seguito di grandi eruzioni vulcaniche, la temperatura globale si abbassò poiché la luce solare faticava ad attraversare l'atmosfera. Tali fenomeni si sovrapposero ad un periodo in cui si verificò il minimo di Dalton, durante il quale si ritiene che il Sole abbia emanato meno energia. In quel periodo, inoltre, era ancora in corso la cosiddetta piccola era glaciale, periodo di raffreddamento generale del pianeta che, dal medioevo, si protrasse fino al 1850.

Le inusuali aberrazioni climatiche del 1816 ebbero l'effetto peggiore nell'America del nordest, nelle province canadesi del Maritimes e di Terranova e nel nord dell'Europa. Tipicamente la tarda primavera e l'estate in quelle regioni americane sono sì relativamente instabili, ma mai fredde: le temperature minime raramente scendono sotto i 5 °C, praticamente mai in Europa, e la neve d'estate in quelle zone del Nord America è estremamente rara, sebbene a maggio talvolta cada del nevischio.

Nel maggio 1816, invece, il ghiaccio distrusse la maggior parte dei raccolti; a giugno, nel Canada orientale e nel New England si abbatterono due grandi tempeste di neve che provocarono numerose vittime; inoltre, all'inizio di giugno quasi trenta centimetri di neve ricoprirono Québec, e a luglio ed agosto i laghi e i fiumi ghiacciarono in Pennsylvania e altre tre gelate colpirono il New England distruggendo tutti gli ortaggi, tranne quelli poco sensibili al freddo. Furono comuni rapide ed improvvise variazioni di temperatura.

Come risultato, vi fu un notevole incremento dei prezzi dei cereali. Grandi tempeste, piogge anomale e inondazioni dei maggiori fiumi europei (incluso il Reno) sono attribuite all'eruzione, così come la presenza di ghiaccio nell'agosto del 1816. L'eruzione del Tambora fu anche la causa, in Ungheria, della caduta di neve "sporca", e qualcosa di simile accadde anche in Italia, dove per un anno circa cadde della neve rossa, si crede dovuta alle ceneri presenti nell'atmosfera.

Effetti

L'Europa, che stava ancora riprendendosi dalle guerre napoleoniche, soffrì per la mancanza di cibo: in Gran Bretagna e in Francia vi furono rivolte per il cibo e i magazzini di grano vennero saccheggiati. La violenza fu peggiore in uno Stato senza sbocchi sul mare come la Svizzera, il cui governo fu costretto a dichiarare un'emergenza nazionale. La mancanza di foraggio ispirò Karl Drais, allora ancora un barone, a cercare nuovi modi di trasporto senza cavalli, il che portò all'invenzione della draisina, detta anche Dandy horse o velocipede, il prototipo della moderna bicicletta (e della motocicletta), e diede un impulso decisivo ai successivi mezzi di trasporto personale a motore.

Le "incessanti nevicate" del luglio 1816 durante un'"estate umida e non congeniale" costrinsero Mary Shelley, John Polidori e i loro amici a restare al chiuso durante le loro vacanze svizzere. Essi decisero di gareggiare a chi avrebbe scritto la storia più spaventosa, e così Mary Shelley scrisse Frankenstein, or The Modern Prometheus e Polidori Il vampiro. Gli alti livelli di cenere nell'atmosfera resero spettacolari i tramonti di quell'anno, tramonti celebrati nei dipinti di Turner.

Secondo un'ipotesi formulata da J.D.Post della Northeastern University, il freddo fu responsabile, in qualche modo, della prima pandemia colerica del mondo.[2] I testi medici descrivono che, prima del 1816, il colera era circoscritto alla zona del pellegrinaggio sul Gange, mentre la carestia di quell'anno contribuì alla nascita di una epidemia nel Bengala, che si diffuse poi in Afghanistan e nel Nepal. Dopo aver raggiunto il Mar Caspio, l'epidemia si trasferì in occidente toccando il mar Baltico ed il Medio Oriente. La diffusione della malattia fu lenta, ma costante.

Un esempio: la carestia a Heiligenstein. Iscrizione su di un muro a ricordo della carestia.

Sul muro di una casa a Heiligenstein, in Alsazia, si legge:

(DE)

«Im Jahr 1817 ist diese Hütte gebauet worden, in welchem Jahr man für ein Furtel Waißen bezahlte 120 fr für ein Sack Erdapfel 24 fr für ein Ohmen Wein 100 fr»

(IT)

«Nell'anno 1817 è stato costruito questo cottage; quell'anno abbiamo pagato 120 franchi per una misura di grano, 24 franchi per un sacchetto di patate, 100 franchi per un Ohmen (50 litri) di vino»

(secondo i dati di Jacob Stiedel)

giovedì 1 giugno 2023

Vite quasi parallele. Capitolo 195. Il castello delle cose perdute.



"Gli oggetti sono ancora al loro posto
a custodire muti la quiete polverosa 
delle stanze, nell'oppiaceo incantesimo 
che inutilmente finge un'illusione,
come se i decenni non fossero sfumati 
nell'inconcludenza di un tempo nascosto 
già negli interstizi e sotto i tappeti. 
E non serve a nulla fare l'inventario 
delle cose perdute, per soffocare poi
l'urlo dei rimpianti nella finzione 
di un presente uguale, ed appoggiarsi 
a questi muri fragili come fossero pilastri, 
mentre tutto frana intorno e i volti 
a poco a poco si congedano."

Quando, dopo un così lungo periodo di assenza, Roberto tornò al Maniero Orsini, la magione neogotica dei suoi antenati materni, non poté fare a meno di notare gli inequivocabili segni di declino che la affliggevano. La residenza era stata fatta costruire nell'Ottocento dal suo trisavolo, il conte Ludovico, studioso del Medioevo e grande ammiratore delle dimore inglesi dell'età vittoriana.
Le spese di costruzione avevano prosciugato le finanze degli Orsini di Casemurate, a cui si pose rimedio soltanto due generazioni dopo, col famoso matrimonio tra Diana Orsini ed Ettore Ricci.
La ricchezza della famiglia Ricci aveva riportato il Maniero agli antichi splendori,
ma da quando Ettore era morto, la manutenzione era stata trascurata perché le spese erano enormi, e non rientravano nei limiti delle disponibilità degli eredi e dell'azienda agricola che circondava la residenza, dove ormai l'ottantatreenne Diana viveva sola in compagnia della governante.
Nei piani di Ettore, Roberto avrebbe dovuto salvare la situazione diventando ricco come gli altri bocconiani, e questo rendeva ancora più amaro il suo fallimento, perché era ormai chiaro a tutti che non aveva minimamente ereditato il senso degli affari di suo nonno.
Questo era il suo tormento, mentre ritornava nel luogo che aveva amato più di ogni altro.
Il parco intorno al Maniero si stava inselvatichendo, il che aveva comunque un certo fascino romantico-decadente, pur essendo doloroso da accettare.
Allo stesso modo della sua grande dimora, anche Diana Orsini era invecchiata, ma conservava ancora il sorriso radioso, e l'intensità dei suoi penetranti occhi neri, che in un giorno lontano avevano conquistato il cuore di Ettore Ricci.
Dopo un lungo abbraccio, nonna Diana chiese al nipote:
<<Allora, com'è Milano?>>
Roberto si era fatto un'opinione precisa al riguardo:
<<E' una città grande, ma non una grande città>>
Diana sorrise, mentre si sedevano nel Salotto Liberty, che aveva decisamente visto tempi migliori:
<<Capisco. E la Bocconi?>>
Il nipote sorrise amaramente:
<<Diversa da come me l'immaginavo. Credevo che, data la sua retta esosa, fosse meno affollata e gli studenti fossero seguiti meglio. Invece siamo in troppi e i professori sono distanti, poco chiari, circondati da assistenti acidi che agli esami sparano sul mucchio, come nelle università statali. 
Le materie, poi, mi hanno messo in crisi fin dall'inizio.
Io, da sciocco illuso, mi aspettavo di conoscere i segreti per comprendere dottrine infallibili ed esaltanti e invece, come c'era da aspettarsi, le cose sono molto diverse.
L'economia aziendale è aria fritta, a parte i bilanci, che avrebbero richiesto una vocazione ragionieristica che io non ho. Mea culpa. L'economia politica è fatta di modelli matematici molto astratti e totalmente inutili. La statistica oscilla tra la noia e l'incomprensibilità fino ad arrivare alle fumisterie metafisiche dell'econometria, che in teoria dovrebbe prevedere l'andamento economico futuro, nella realtà non spiega nemmeno ciò che è accaduto nel passato. L'economia finanziaria è un bluff che nasconde dietro "strumenti derivati" dai nomi stranissimi, una pratica da usurai, truffatori e giocatori d'azzardo. E poi ci sono gli esami di diritto per i quali serve molta memoria e purtroppo la mia è drasticamente calata>>
La nonna evitò di pronunciare il suo fatidico "te l'avevo detto" e cercò di sdrammatizzare:
<<Be', almeno non hai perso il tuo senso dell'umorismo e la tua predisposizione verso la satira. 
In ogni caso, dopo ormai due anni, la tua media è buona e hai dato molti esami, per cui la situazione è meno catastrofica di come la dipingi>>
Roberto era sollevato dal tono conciliante di lei, ma non poteva nasconderle la verità:
<<Il problema è che il mio umore oscilla continuamente tra l'ansia e la tristezza. Prima o poi dovrò iniziare una psicoterapia>>
Diana cercò di sdrammatizzare:
<<Spero che non salti fuori che la tua infanzia con me è stata la causa di tutti i mali!>>
Lui rise e scosse il capo:
<<Se sono ancora vivo è grazie al "bambino della campagna" che è la parte più sana della mia mente. I miei ricordi più belli sono qui e sono la mia ancora di salvezza, in mezzo alla tempesta che sto attraversando>>
Lei annuì e poi chiese:
<<Come sta Aurora? Riesce a conciliare tutti i suoi impegni?>>
Roberto capì che le dolenti note stavano arrivando:
<<Lei è sempre euforica. Ha trovato il suo mondo ideale, ma è cambiata, e non certo in meglio. Vorrei essere più preciso ma non è facile: la situazione è molto complessa>>
Diana lo sapeva fin troppo bene:
<<Posso immaginarlo. Questa situazione, dall'esterno, appare molto "mondana", il che non è necessariamente un male. Mio padre, il Conte, era un "uomo di mondo", che si è lasciato travolgere dagli eventi e ci ha portato alla rovina, per questo io ho rifiutato ogni forma di mondanità, cosa peraltro molto facile a Casemurate, così come a Forlì.
Se fossi vissuta a Milano, chissà cos'avrei combinato. 
Non credo però che tutti i tuoi amici siano mondani: ci saranno pure studenti seri e capaci di profonde riflessioni>>
Il nipote scosse il capo:
<<Ce n'è uno solo, Leonardo Monza. Negli altri, in apparenza "seri", vedo troppa ambizione. Sarebbero disposti a pugnalare alle spalle anche le persone più care pur di arrivare di salire di grado nella loro scalata verso un maggior prestigio sociale, una maggiore ricchezza, un maggiore potere. Non hanno scrupoli, non hanno pace e né pietà>>
La nonna sospirò:
<<Capisco. Mi ricordano un po' Ettore, ma solo nella sua parte peggiore. Tu non sei come lui, sei come me. Noi non siamo fatti per quel tipo di scalate. Possiamo solo cercare di trovare la nostra nicchia, ma c'è sempre un prezzo da pagare. 
Nel tuo caso il prezzo consiste nel ridimensionare l'orgoglio. E' una lezione che ho dovuto imparare anch'io. Per molto tempo ho cercato di salvare le apparenze, ma a un certo punto mi sono accorta che non ne valeva la pena. Che la gente dica pure quel che vuole: ciò che conta è che noi troviamo una tana sicura dove ritagliarci il nostro discreto angolo di pace.>>
Roberto era sostanzialmente d'accordo, ma c'era un'obiezione che si sentì in dovere di esprimere:
<<Il Maniero Orsini è molto più di un "discreto angolo di pace". Ci vuole molto denaro per mantenere una residenza così straordinaria. Un denaro che non abbiamo più. Un denaro che io avrei dovuto guadagnare e invece ho già capito che non ne sarò in grado.
Questo luogo è ciò che io considero la mia vera casa, non l'appartamento di Forlì, in quel condominio pieno di vicini impiccioni. 
Io avrei voluto vivere qui e invece prima o poi, a causa della mia inettitudine, saremo costretti a vendere tutto>>




Gli occhi di Diana si velarono di commozione:
<<La salvezza del Maniero Orsini ha richiesto fin troppi "sacrifici umani". La mia vita è stata un inferno e la giovinezza di tua madre non è stata facile, tanto che, appena ha potuto, se n'è andata da questo luogo. Ettore si è ammazzato di lavoro per tenere in piedi la baracca. Abbiamo pagato tutti un prezzo troppo elevato. Questo posto ormai è solo un mausoleo e quando io sarò morta cosa ci rimarrà se non il ricordo delle lacrime che sono state versate e del sudore che è costata ogni singola pietra?
Tutta questa terra, un tempo, prima delle bonifiche, era una palude, la Valle Candiana, o 
Standiana e le streghe di Confluentia controllavano tutto.
Noi credevamo di aver vinto e aver conquistato questa terra, ma ora capisco che siamo stati troppo avidi. 
Credimi se ti dico che un giorno la Palude si riprenderà tutto>>
Roberto, nel sentire quelle parole, percepì che erano profondamente vere:
<<Te l'hanno detto le streghe di Confluentia?>>
Diana annuì:
<<Secondo loro tra pochi mesi ci sarà la prima di una lunga serie di alluvioni. Il nostro clima sta cambiando, stiamo diventando come i paesi tropicali, con due sole stagioni: la stagione secca e la stagione delle piogge, con un alternarsi di siccità e alluvioni.
Non c'è futuro per questa terra>>
Roberto si sentì come defraudato di qualcosa che era profondamente suo:
<<Io qui ho i miei ricordi migliori>>
La nonna annuì:
<<Lo so, e li conserverai nella tua mente, ma non puoi vivere solo di ricordi
Certe cose non tornano più. Non puoi vivere nell'illusione di rimettere in scena un ricordo che appartiene al passato. Niente torna mai come prima>>
Il nipote provò una stretta al cuore:
<<Allora è tutto perduto?>>
La voce di Diana divenne più dolce:
<<Quando ero piccola, mia madre mi diceva: "Se attraversi il sonno, trovi la terra di Mar, e là c'è una vallata dove sono riposte tutte le cose perdute del mondo: regni perduti, ricchezze perdute, ore perdute, amori perduti... le persone ci vanno per ritrovare i loro giorni e i loro ricordi smarriti, e spesso si sorprendono nel ritrovare il loro senno, perché non si erano mai accorti di averlo smarrito.>>
Roberto si rese conto che forse anche il suo senno gli stava sfuggendo:
<<In fondo io chiedevo soltanto un piccolo angolo di quiete, una nicchia, "un cantuccio d'ombra romita". Ma temo che non avrò nemmeno questo>>




La nonna espresse allora parole di saggezza:
<<Io ti invito a pensare a quello che hai e non a quello che non hai.
E non devi vivere tutto questo come una sconfitta. Ettore non aveva il diritto di chiedere ai suoi eredi di sacrificarsi allo stesso modo in cui lui si era sacrificato.
I tempi sono cambiati. L'epoca dei Manieri è finita. Persino in Inghilterra ormai le grandi residenze sono state lasciate al National Trust. 
Non devi farne nemmeno una questione di orgoglio, che è cosa ben diversa dalla dignità. 
Si può essere dignitosi anche nella disgrazia. Bisogna saper lasciar andare le cose che non possono vivere per sempre.
Il mondo cambia e noi dobbiamo adattarci. 
Preferisco pensare che la mia eredità sia qualcosa che possa garantirti quella serenità che ora hai perduto. Mi segui?>>
Roberto intravide in quelle parole un lievissimo spiraglio di luce nel suo tenebroso destino:
<<Credo di sì. Insomma, l'aereo della mia vita sta andando a schiantarsi, ma tu e i miei mi farete avere comunque un salvagente>>
Diana annuì:
<<Esatto! Noi ci siamo sempre capiti bene. E io capisco anche che tu hai bisogno di tempo, che vuoi assaggiare l'uva prima di dire che è acerba, così potrai sempre dire a tutti: "Ehi, ma è veramente acerba!">>
Il nipote tornò a sorridere:
<<Non posso negarlo. Non voglio avere rimpianti. Non voglio gettare la spugna al primo tentativo.
Lo so che finirò con lo sbattere la testa contro il muro, ma voglio comunque verificare se la mia testa è più dura di quel muro. 
Forse avrò bisogno di aiuto, ma so di poter contare su di te>>
La nonna sorrise:
<<Sempre... e come dice la canzone: "grandi braccia e grandi mani avrò per te".
Ma ad una condizione: non dovrai seppellirti vivo in un rudere gotico che cade a pezzi e farci crescere intorno una foresta di rovi, come se fossi la bella addormentata>>
Roberto rise:
<<Ti ringrazio per i tuoi tentativo di farmi ragionare in un momento in cui ho perso la bussola.
Cercherò di vedere le cose con il giusto disincanto, perché non posso continuare a inseguire delle illusioni. Eppure ci sono momenti in cui è difficile saper ridere di se stessi. Io ci proverò sempre, ma non so se ci riuscirò.
Il disincanto può fare questo effetto: sentirsi un sopravvissuto, in un mondo ostile, in una terra senza speranza>>




Diana sospirò:
<<Sì, be'... in effetti non c'è mai stata molta speranza. Ma hai il mio permesso di temporeggiare, di sperimentare...
Rimane da affrontare soltanto il problema dell'elefante bicefalo che si trova metaforicamente in mezzo al salotto>>
Il nipote sapeva che alla fine il discorso sarebbe arrivato a quel punto:
<<Le due teste si chiamano Lorenzo e Aurora, immagino>>
La nonna lo fissò di sottecchi:
<<Sono due teste pericolose, ma grazie al cielo si detestano reciprocamente, il che ti lascia un certo margine di manovra.
Che si azzannino pure tra di loro, ma è chiaro che alla fine Lorenzo prevarrà e a quel punto scatterà il suo piano.
Quando tu ti sentirai solo e bisognoso di una nuova compagna, lui manderà avanti una delle sorelle Burke-Roche.
Non sarà facile resistere al loro canto di sirene... ammesso che tu voglia resistere...>>
Roberto sapeva che la cosa era molto in là nel tempo:
<<Be', lo sai come si dice in questi casi: l'unico modo per togliersi una donna dalla testa è conoscerla bene>>
Diana rise:
<<Sei ancora più misogino di tuo nonno! Però non hai tutti i torti. Intendiamoci: sbatterai di nuovo la testa contro il muro, ma se avrai il buon senso di munirti di un casco forse potrai sopravvivere persino a Jezabel Burke-Roche.
Ma finirà per rivelarsi un'altra Aurora, una per cui ti ritroverai a dire: "avrei dovuto perderti e invece ti ho cercata">>




Il nipote rimase sorpreso dalle informazioni in possesso di sua nonna:
<<Vedo che sei molto informata sui piani degli Iniziati>>
La nonna si meravigliò del suo stupore:
<<Persino in questa landa sperduta abbiamo i nostri chiaroveggenti! Le streghe delle paludi, anche se sembrano solo vecchie erboriste in pensione, sono Iniziate di Rango Segreto e non hanno bisogno di viaggiare per sapere cosa sta succedendo.
Se poi aggiungi le cugine di Albedo, le figlie della mia governante, capirai che qui le voci girano in fretta. Ma noi giriamo più in fretta di loro.
Ascoltami bene: questi per te sono anni difficili e purtroppo ne verranno altri, forse ancora più difficili, ma tutto questo dolore ti servirà per imparare a capire quali sono i tuoi difetti e a trasformarli nei punti di forza.
La tua forza consisterà nel fatto di essere imprevedibile.
I tuoi nemici cercano di attaccarti seguendo gli schemi, ma tu li spiazzerai sempre con "l'inaspettato".
E' così che si vincono le battaglie: colpiscili sempre dove meno se l'aspettano, e fallo d'istinto.
I tuoi nemici periranno prima ancora di aver capito cosa sta succedendo, e gli altri capiranno che è meglio non averti come nemico.
Lorenzo crede di essere l'unico ad averti impartito l'insegnamento profondo, ma le lezioni migliori sono quelle che vengono da me.
Credo di averti fornito quel tipo di educazione non convenzionale e "creativa" per riuscire a improvvisare strategie di sopravvivenza anche di fronte alla tempesta che sta per scatenarsi.>>
Roberto socchiuse gli occhi con aria dubbiosa:
<<A quale tempesta ti riferisci?>>
Diana guardò fuori dalla finestra, verso un cielo dal colore del piombo:
<<Sono sopravvissuta a due guerre mondiali e alla guerra fredda e so riconoscere i segnali. 
E' iniziata così anche le altre volte. C'è una superpotenza egemone che vuole dominare il mondo, ma non tutti sono disposti a lasciarsi dominare.
Potrebbe essere interessante sentire al riguardo il parere postumo di Marie-France Tessier, se dovesse presentarsi l'occasione, ma non lasciarti irretire dalle sue eredi e dalle loro complici e soprattutto non dare troppo nell'occhio.
Verranno tempi pericolosi, tempi in cui sarà meglio rimanere anonimi.
Sai come si dice: "Sii come l'acqua che si fa strada attraverso le fessure. Non forzare, ma adattati all'oggetto, e troverai un modo per aggirarlo o attraversarlo. Se nulla dentro di te rimane rigido, le cose esteriori si riveleranno">>
Roberto riconobbe la citazione e il suo significato:
<<Un'altra perla dell'Insegnamento Profondo. Ed è vero: dovrò essere meno rigido se voglio adattarmi ai tempi che verranno. E tornerò sempre a chiedere il tuo consiglio>>
Diana sorrise:
<<Ho ancora del tempo, prima di salpare per l'ultimo viaggio. Fino ad allora, io ti aspetterò>>



























lunedì 1 maggio 2023

Occitania, lingua occitana e catalana

 


L'Occitania è un'area storico-geografica dell'Europa, non delimitata da confini politici, sviluppatasi in una larga parte della Francia meridionale, e zone limitrofe nelle odierne Italia e Spagna.
La sua caratteristica principale è linguistico-filologica, ovvero fondata sulla diffusione della lingua occitana, o lingua d'òc, evoluzione dell'occitano antico o provenzale. L'occitano non va però confuso né con il francoprovenzale (arpitano), né con il francese, sebbene tutte lingue d'origine romanza siano appartenenti al ramo galloromanzo. Queste lingue si consolidarono soprattutto durante la graduale latinizzazione della Gallia tardo-antica e altomedievale (dal IV al XII secolo circa), con locuzioni latine miste a termini franco-gallici.




Oggi, queste varietà linguistiche risultano di particolare interesse filologico, e sono state riconosciute e affiancate alle lingue ufficiali di ogni nazione appartenente. La lingua occitana venne poi usata dalla poesia trobatorica, la composizione letteraria sorta nella regione d'Aquitania intorno all'XI secolo e, più tardivamente, diffusa in buona parte dell'Europa. 

Il termine "Occitania" è d'uso a partire dal Basso Medioevo, attestato già nel 1290. Si ritiene fosse già utilizzato dall'amministrazione capetingia, come risultato della combinazione di oc, "sì", e "Aquitania".
Il re di Francia Filippo il bello, durante un concistoro a Poitiers nel 28 maggio del 1308 afferma di regnare su due nazioni, una di lingua gallica e l'altra di lingua occitana; e ancora nel 1381 Carlo VI di Francia osserva "Quas in nostro Regno occupare solebar tam in linguae Occitanae quam Ouytanae".
La parola "Occitania" rimane in vigore fino alla rivoluzione francese, e viene riabilitata dal movimento letterario nazionalista Félibrige. Frédéric Mistral (1879-1886), il maggior esponente, compilò un dizionario, Lou Tresor dóu Felibrige, Dictionnaire provençal-français.





Simbolo dell'Occitania è la Croce chiamata poi Occitana o di Tolosa, e fu scelta in quanto era lo stemma della dinastia dei conti di Provenza, i Bosonidi, così chiamati per il nome del capostipite Bosone il Vecchio (800 circa - 855 circa), duca dei Franchi, conte del Vallese, conte di Arles e conte di territori nei dintorni di Biella, nella contea di Vercelli; nella discendenza di Bosone il Vecchio vi furono conti, duchi, abati e vescovi durante tutta l'epoca carolingia. Dei suoi ascendenti non si hanno notizie, anche se alcuni lo indicano come figlio d’un tal Teodebaldo di Borgogna o d'Antibes, detto il Vecchio.

La seconda apparizione della croce occitana è nel sigillo di Raimondo IV di Tolosa, o di Saint-Gilles, che istituì la contea di Tripoli, nell'ambito della prima crociata, intorno al 1100.

La croce detta « occitana » è il derivato dello stemma gentilizio dei conti di Tolosa: «de gueules à la croix vidée, cléchée» (di rosso alla croce patente e pomata d'oro).