lunedì 8 novembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 167. La metamorfosi di Aurora

 


A metà degli Anni Novanta scoppiò una specie di "Rivoluzione estetica" destinata a cambiare il canone della bellezza femminile e anche, in un secondo momento, quello della bellezza maschile.
Il canone precedente valorizzava le curve, secondo la classica e abbondante formula 90-60-90.
Esistevano eccezioni illustri, ma non erano molte. 
Poi, all'improvviso, sulla scia del successo dell'aerobica, del fitness e della dietologia, a metà degli anni Novanta si impose un nuovo modello basato su un fisico decisamente più asciutto, dove la priorità assoluta era la magrezza.
Le dimensioni di seni e glutei non erano più rilevanti come in passato, almeno dal punto di vista della moda, e sembrava anzi che le curve fossero diventate un impiccio.
La magrezza divenne molto più importante delle curve (nel corpo femminile) e dei muscoli (in quello maschile)
Dietro a queste tendenze c'era un in nuce, un messaggio implicito, da parte degli stilisti, di cui ci stiamo accorgendo soltanto ora con l'affermazione mediatica del concetto di "fluidità di genere".

Il corpo femminile e quello maschile tendevano a convergere in una sorta di ideale androgino.
L'importante era essere magri e, possibilmente anche alti, il resto era un optional.
Il viso femminile poteva assumere tratti più ossuti e marcati, mentre quello maschile, al contrario, tendeva ad una maggiore dolcezza e a tratti più efebici.
I nuovi requisiti ideali del fisico femminile e di quello maschile si affermarono prima sulle passerelle, poi sulle copertine delle riviste e infine nel mondo dello spettacolo e nell'immaginario collettivo.
Dalla metà degli Anni Novanta in poi questa rivoluzione estetica apparve sempre più evidente: nelle sfilate fluttuavano top model evanescenti, creature fatate in dissolvenza bellezze "elfiche" dai corpi snelli come silfidi dell'aria.
Una delle principali icone di quel nuovo modello femminile era Kate Moss, che sembrava nutrirsi solo di luce e polvere bianca, perché la cocaina o le anfetamine potevano permettere alle nuove top model di mantenersi così magre, quasi anoressiche, senza essere torturate dai morsi della fame e dalla stanchezza.
Non era certo un modello sano, anche se ufficialmente la dieta ferrea e l'attività fisica vennero presentate come un imperativo categorico, cosa che trasformò l'esistenza di un'intera generazione di giovani, sia donne che uomini, in un inferno.
Quell'ossessivo insistere su una nutrizione ipocalorica e ipoglicemica, con portate microscopiche, insalate miste, cucina esotica o comunque alternativa, si sommava allo stramaledetto jogging o a quello spaventoso strumento di tortura che è la cyclette, generando un apparente entusiasmo che mascherava una vita di rinunce e privazioni.
Tutto questo era definito sano, ma produceva spesso disturbi alimentari, ansia e sensi di colpa.
Come poteva definirsi sano questo cercare di protrarre l'androginia dell'adolescenza in eterno?
Per non parlare del fatto che il nuovo canone di bellezza, in maniera implicita, spostava il desiderio in una direzione pericolosa, dal momento che la nuova generazione di modelle sembrava composta (e in buona parte lo era) da ragazze minorenni, e talmente esili da apparire poco più che adolescenti.
Si potrebbe obiettare dicendo che, in fondo, Nabokov aveva già detto tutto sull'argomento, narrando la passione malsana e autodistruttiva di un professore di mezza età nei confronti di Lolita.
Ma si trattava di casi isolati, mentre dopo divenne un fenomeno di massa.

Un'altra obiezione, però, potrebbe essere: "e allora il modello di Audrey Hepburn e di Coco Chanel? Non c'era forse anche prima? Sì, ma era solo uno dei possibili modelli di riferimento, dopo divenne "il" modello.
Sembrava quasi che tutto il mondo della moda e dello spettacolo fosse piombato in una versione estrema della sindrome di Peter Pan, dove anche il desiderio rimaneva bloccato in una fase adolescenziale, ambigua e immatura, che si protraeva sempre più a lungo.
Tutto questo, tra l'altro, spianò la strada ad un certo format televisivo pomposamente detto talent show, che, pur rivolgendosi ufficialmente a un pubblico giovane, strizzava l'occhio anche a un pubblico meno giovane, ma egualmente immaturo.
Nel giro di un decennio, con velocità sempre crescente, moda, cinema, televisione e internet imposero il modello ovunque, cosa che fece soffrire molto coloro che avevano una costituzione fisica robusta.

Che effetto ebbe questa rivoluzione estetica sulla nostra Aurora Visconti-Ordelaffi?
Possiamo rispondere dicendo che rafforzò una tendenza che in lei era già presente.
Nel ripercorrere le tappe della sua evoluzione, prendendo spunto da alcune immagini, riteniamo opportuno partire dal terzo anno del Liceo Scientifico, quando iniziò la sua relazione con Roberto Monterovere.
A sedici anni, nel 1992, Aurora si presentava come una adolescente "acqua e sapone", dai tratti dolci e regolari e dal corpo longilineo e fisiologicamente snello, in armonia col suo fenotipo "nordico".








A diciassette anni, nel 1993, aveva già incominciato ad assumere pose da modella e a seguire una dieta più rigida e provare diverse tinte per i capelli.






A diciannove anni e mezzo, nel 1994, il suo volto aveva assunto un aspetto più maturo, con tratti più marcati, ma più raffinati.
Roberto ricorda ancora con nostalgia lo sguardo radioso di Aurora quando, insieme a lui, arrivò a Milano: era una splendida ed entusiasta "matricola fuori sede", giunta in una città che le era congeniale, ed era consapevole di avere quel tipo di bellezza, che la moda di metà Anni Novanta stava esaltando. 
E sapeva altrettanto bene che il suo corpo, in virtù della dieta e dell'esercizio fisico, aderiva in toto al canone estetico che si stava affermando nella moda.
Tale consapevolezza, unita al fatto la propria bellezza era al suo apice, ebbe su di lei un notevole effetto euforizzante.
Era una reazione naturale: chiunque, nelle sue condizioni, si sarebbe sentito euforico.

Questa euforia si sommò al fatto di essere anche un'esperta di moda e di trovarsi a Milano, che era ed è una delle capitali della moda.
Anche la persona più equilibrata di questo mondo, trovandosi in una situazione simile, e godendo anche di ampie disponibilità economiche, avrebbe ceduto allo shopping compulsivo, per valorizzare ciò che la sorte le aveva donato.

Aurora era già mentalmente predisposta a questo comportamento, ma quella sorta di congiunzione astrale apparentemente così favorevole, abbatté ciò che restava dei suoi freni inibitori, dando vita a comportamenti eccessivi.
Il primo di questi fu appunto la spesa esagerata e incontrollata in beni e servizi di lusso, specialmente in capi di abbigliamento firmati e acquistati nel Quadrilatero della Moda, (dove trascorreva ormai gran parte del fine settimana e del tempo libero), ma anche in centri estetici e in saloni di bellezza come quello di Aldo Coppola, il Re dei coiffeur, anzi, pardon, degli hair stylist, l'inventore del Degradé Joelle, la tecnica rivoluzionaria che aprì la strada alle colorazioni più raffinate, come il Balayage, il Flamboyage e lo Shatush, per citare solo alcuni esempi.
All'epoca un trattamento completo da Coppola poteva raggiungere prezzi inimmaginabili per i comuni mortali. I capelli di Aurora, ormai, valevano tanto oro quanto pesavano.
Se poi a tutto questo aggiungiamo il make up e gli accessori vari tipo borsette, cinture orologi, occhiali da sole et similia, possiamo ottenere un'immagine di lei molto più elaborata e curata nei minimi dettagli.
A vent'anni, nel 1995, Aurora Visconti appariva come una elegantissima donna di classe, raffinata e carismatica, ossequiata e venerata ovunque andasse.

La sua metamorfosi specie quando era in "tenuta da shopping", raggiunse livelli miracolosi: sembrava davvero una top-model, o una giovane signora dell'Alta Società, o magari la moglie di un attore famoso, di un calciatore ricchissimo o di un oligarca russo dell'era Eltsin.
Di certo, quando era fresca di parrucchiere e di make up e agghindata con abiti e accessori che seguivano uno stile preciso, non sembrava più la diciannovenne matricola "fuori sede" dei primi giorni.
Era diventata un'altra persona.












E tuttavia, prima di diventare così, aveva dovuto risolvere un problema piuttosto serio, e cioè il fatto che pur essendo di famiglia ricca, non era sufficientemente danarosa per mantenere un simile stile di vita senza destare preoccupazioni persino in sua madre, che in fatto di shopping compulsivo la sapeva lunga.
Se in quegli anni ci fosse stata un'ampia diffusione di Internet con una connessione adsl, avrebbe potuto proporsi come fashion blogger, se poi ci fossero stati lo smartphone e Instagram avrebbe potuto fare l'influencer con ottimi guadagni, ma la storia non si fa con i "se".
Esistevano comunque opzioni alternative, tra cui, per esempio, il finanziare le spese con nuovi introiti derivanti da una attività lavorativa.
Le sarebbe piaciuto fare la modella, e ne aveva tutti i requisiti e le occasioni, ma su quel punto i suoi genitori furono inflessibili: posero un veto assoluto per varie ragioni facilmente immaginabili e minacciarono di tagliarle i finanziamenti.
Dissero che un eventuale impiego nel mondo della moda non era compatibile con quello negli studi, specie in un'università così difficile, e non avevano tutti i torti.
Lei ne era cosciente e sapeva di dover prendere una decisione chiara su cosa voleva realmente fare nella vita.
Di tutto questo parlò col suo ragazzo, che la rassicurò dicendo che l'avrebbe sempre sostenuta, in qualunque scelta e che credeva in lei e nelle sue possibilità di successo, sia nel mondo della moda che in quello degli affari, che peraltro potevano anche coincidere, in determinati casi.

A far pendere il piatto della bilancia verso una delle due scelte fu qualcosa di inaspettato.
Con sua sorpresa, già nel primo mese di lezioni, Aurora si era resa conto di essere portata per gli studi bocconiani, e questo si aggiunse a ciò che già sapeva, ossia che una laurea prestigiosa con un'alta valutazione le avrebbe permesso una carriera potenzialmente molto remunerativa e ben più duratura, con una posizione sociale più prestigiosa, agli occhi dei genitori, rispetto a quella nella moda. Dobbiamo pensare, infatti, che all'epoca, specialmente dal punto di vista di persone di mezza età e "di provincia", l'attività di modella era pregiudizialmente associata ad ambienti e situazioni "non del tutto rispettabili", una cosa che oggi nemmeno le nonne pensano più.

E dunque, quell'università e quella facoltà a cui all'inizio si era iscritta solo per accontentare i genitori ed essere vicina al fidanzato, le si rivelarono così congeniali che la sua media nei voti degli esami fu ottima fin dall'inizio e decisamente migliore di quella di Roberto.
Come sappiamo, i nervi di quest'ultimo erano stati messi a dura prova in precedenza, ragion per cui la sua mente era troppo stanca per essere ricettiva come in passato.
La giovane Visconti, invece, partiva fresca e riposata e la sua capacità di concentrazione e di memorizzazione, basata su una intelligenza pragmatica e motivata dal suo ferreo desiderio di far buona impressione agli occhi della famiglia e del fidanzato,  si rivelò eccezionale.
I meccanismi della mente sono complessi, ma nel caso di Aurora risultava evidente un punto, e cioè che la sua motivazione era accresciuta dall'idea che quell'impegno avrebbe potuto soddisfareoltre che il suo orgoglio, anche le sue esigenze economiche.
Questo insieme di considerazioni si dimostrò molto efficace nell'ottenere rendimenti universitari molto al di sopra delle aspettative, già alla fine del primo semestre.
A quel punto Aurora stipulò un patto con suo padre e sua madre: se lei avesse continuato ad avere una media dal 29 in su, loro l'avrebbero premiata con una consistente "iniezione di liquiditànel conto da cui la sua Mastercard attingeva.
E quella media fu mantenuta, dal momento che, per preparare gli esami, le occorreva molto meno tempo di quello che era necessario non solo al suo ragazzo, ma anche a studenti molto più portati per quelle materie.
Poteva trascorrere i weekend a fare shopping o a farsi bella costosamente senza che i rendimenti universitari calassero e persino senza che le sue spese fossero più contestate dai genitori, dal momento che si trattava di un premio concordato, e che comunque le si prospettava davanti una luminosa carriera, a prescindere dai conti dell'azienda di famiglia.
Sembrava, sotto tutti gli aspetti, la famosa quadratura del cerchio, o quanto meno il proverbiale uovo di Colombo.

Il look che scelse e a cui rimase fedele era adatto a ciò che voleva diventare: una donna in carrieraun po' come le protagoniste nel film omonimo, con Sigourney Weaver, Mellanie Griffith ed Harrison Ford, e con quella splendida colonna sonora, la canzone "Let the river run".
Aurora sarebbe stata perfetta come protagonista.

Ed era proprio così che lei si proponeva di diventare: un'elegante, bellissima ed emancipata donna in carriera.











Il suo aspetto divenne autorevole: era già alta di suo, per cui, quando metteva i tacchi alti e i pantaloni a palazzo o comunque svasati o flare, che coprivano quei tacchi per tre quarti o, a volte, del tutto, sembrava ancora più alta e acquisiva un'autorevolezza immediata, che quasi intimidiva i comuni mortali (specie quando indossava gli occhiali da sole e il cappello).


















Per completare quel look sceglieva camicie eleganti e bluse realizzate con tessuti preziosi e speciali, con balze, rouchesvolants o con un fiocco elaborato e "assertivo": una versione femminile della cravatta dei dirigenti maschi (escluso Marchionne, che si sarà presentato in maglione anche in Paradiso).
Quando sentiva quegli abiti e quei tessuti aderire alla propria pelle, Aurora era percorsa da un brivido di libidine: provava un vero e proprio piacere feticistico nell'essere vestita così e Roberto la trovava irresistibilmente sexy, per cui tra loro c'era un'intesa immediata.
Lui moriva dalla voglia di toccarla, e ormai era diventato un esperto nel sapere dove la sua fidanzata voleva essere toccata, per cui bastava solo un cenno da parte di lei, e lui faceva scivolare le sue dita su quei tessuti serici, a contatto con quella pelle dorata, facendosi strada verso zone proibite.
E se erano in pubblico, era tutto ancora più eccitante, e del resto nessun tassista o commesso o passante aveva avuto qualcosa da ridire, perché Aurora era così bella che tutti, uomini o donne che fossero, avrebbero desiderato di poterla anche solo sfiorare per un breve istante.
E invece Aurora concedeva questo privilegio a due sole persone: se stessa e il fidanzato.
Roberto traeva da quei momenti un piacere puramente tattile eppure così intenso da rivaleggiare con quello più specificamente sessuale.
Ed era consapevole che anche Aurora provava quel tipo di piacere, e molto superiore, perché ormai la conosceva bene e sapeva che quella determinata condizione, per lei, era la perfetta alchimia di tutti gli ingredienti che le provocavano un qualcosa di estatico anche solo al minimo contatto con lui.
Solo Roberto sapeva esattamente cosa fare e cosa dire per rendere perfetta e completa la soddisfazione che lei viveva in ogni istante, per ore e ore, mentre il mondo intorno a loro non sospettava nulla.
Per questo, anche se il numero dei corteggiatori di Aurora era cresciuto in maniera esponenziale, nessuno di loro poteva anche solo lontanamente immaginare quanto lei e Roberto fossero in sintonia.
Crediamo sia legittimo dire che si erano plasmati a vicenda, ma senza dubbio fu lei quella che maggiormente influenzò l'altro.
Anni dopo, quando la loro storia era finita, Roberto si accorse di aver acquisito molte caratteristiche della personalità di lei, e non riuscì a liberarsene, perché era come un tatuaggio impresso non sul corpo, ma sull'anima.

In quel periodo tra l'ottobre del 1994 e il febbraio del 1995 si sentivano entrambi molto forti, e il pericolo stava proprio in questo.
E' proprio nel momento in cui ci sentiamo più forti che corriamo i rischi maggiori.
Aurora e Roberto erano all'apice della felicità, e non si resero conto delle crepe che incominciavano a svilupparsi nel loro rapporto, e che solo anni dopo divennero visibili.
In lei c'era un lato oscuro, molto nascosto, il cui peso finì per gravare sempre più sulle spalle di lui.
Nonostante apparisse una persona sicura di sé, Aurora aveva i suoi punti deboli.
L'abbiamo scritto più volte e lo ripetiamo:  nessuno è invulnerabile, nemmeno una personalità energica e determinata come quella di Aurora. 













Lo shopping compulsivo era solo la punta dell'iceberg di un problema molto più serio.
Ora, i lettori più affezionati ricorderanno che sin dall'adolescenza Aurora aveva sviluppato un disturbo della personalità di tipo ossessivo-compulsivo con, ci si consenta la battuta un po' scontata, cinquanta sfumature di grigio, ossia con risvolti sado-masochistici non convenzionali, del tipo che i Giapponesi chiamano omorashi e anche quelli da dominatrice (non a caso spesso si vestiva in abiti maschili, con giacca, cravatta e pantaloni). Roberto subì tutto questo obtorto collo, ma che sopportò stoicamente pur di stare con lei, perché ne era follemente innamorato.
Già da quel momento, comunque, lui aveva capito che c'erano dei problemi difficili da risolvere.
Di tutto questo avremmo preferito non parlare, se non fosse stato così rilevante da costituire uno dei segreti inconfessabili della loro granitica stabilità di coppia.
Certo, anche per tutto questo, se ci fosse stato Internet con l'adsl diffuso, forse Aurora avrebbe potuto rendersi conto che tutto ciò che la rendeva insicura era molto più diffuso di quanto pensasse.
Aurora era riconoscente, nei confronti del fidanzato, per questo e per altri motivi, ancor meno limpidi, ma crediamo che comunque fosse in buona fede nel manifestagli i suoi sentimenti.
E tutto questo forse sarebbe anche potuto giungere ad un esito felice, se solo entrambi si fossero resi conto in tempo di cosa si stava sviluppando nella mente di lei.

Cercheremo di spiegarlo senza troppi giri di parole: l'autostima è un bene, l'eccesso di autostima no.
Negli anni milanesi, il narcisismo di Aurora assunse connotati patologici tali che gli psichiatri avrebbero potuto riscontrare in lei, in base al famigerato manuale statistico diagnostico (DSM), un numero sufficiente di sintomi del disturbo narcisistico della personalità.
Anche considerando che il senso "grandioso" di sé si può sviluppare con facilità se si è oggettivamente dotati sotto molti punti di vista, esiste comunque un limite oltre il quale c'è una patologia.
Aurora incominciò a prendersi troppo sul serio, ad attendersi dagli altri un trattamento di riguardo, a non perdonare più le fragilità altrui, a non rapportarsi bene con le visioni del mondo alternative alla propria, a manifestare un egocentrismo eccessivo.

Siamo tutti un po' egocentrici, chi più, chi meno: è la malattia della nostra generazione e forse anche della successiva, ma il punto è capire quando questo egocentrismo diventa eccessivo.
La giovane Visconti riusciva ancora, se lo voleva, a mascherare questi sintomi dietro ad una normale esigenza di galanteria che una donna con le sue qualità può considerare un atto dovuto, ma chi la conosceva bene si accorgeva che c'era qualcosa che non andava.
Roberto era ancora troppo innamorato per rendersene conto, e questo trascinò anche lui nel vortice di frenesia edonistica che la sua ragazza aveva creato intorno a sé.
Non vogliamo però scaricare le colpe su una sola delle parti.
Ognuno dei due ebbe le sue responsabilità riguardo a ciò che accadde in seguito.
Roberto avrebbe potuto dirle di no, una volta ogni tanto, ma non lo fece, e non solo per amore, ma perché gli piaceva immensamente essere al fianco di quella dea, ne era onorato e lusingato e si divertiva pure lui nel partecipare a quella vita edonistica e nel frequentare quell'ambiente così sfarzoso, invece di studiare.

Alla fine lei era riuscita a  trasformarlo in un dandy, perché anche lui lo voleva, e questo divenne parte integrante del suo "personaggio" per il resto dei suoi giorni.
Gli sembrava di essere un novello Julien Sorel, un Rastignac, un Lucien de Rubempré, ricalcando i passi di quegli studenti provinciali divenuti raffinati esteti dediti al piacere e alle donne, invece di studiare.
Quando girava per le strade del centro, mano nella mano con Aurora, si sentiva un dio, e si convinceva che lui e la sua ragazza, insieme, erano più fighi persino di Johnny Depp e Kate Moss!









Ora sappiamo tutti come l'alcolismo ha ridotto Johnny Depp e come la cocaina ha ridotto Kate Moss, ma all'epoca la loro storia era vista come l'archetipo della passione tra due personalità forti, colleriche e carismatiche, quel tipo di coppia che litiga furiosamente e al culmine della lite i due si arrapano e si fanno la scopata del secolo.
Tutti volevano essere come loro, in quegli anni, ed era normale che fosse così: dopo di loro, ben poche coppie raggiunsero, tali livelli di "divismo": Brad Pitt e Gwyneth Paltrow, Tom Cruise e Nicole Kidman, Leonardo Di Caprio e Gisele Bundchen, poi ognuno di loro è invecchiato, si è sposato due o tre volte, e ha lasciato il testimone a nuove coppie, meno carismatiche.
Tutto passa.
Ma in quei mesi tra il novembre del '94 e il febbraio del '95, Roberto visse una in specie di sogno ad occhi aperti, ed era un bel sogno. E così, ebbro di piacere, si lasciò trascinare dalla corrente e dimenticò tutto il resto.
La sua unica dipendenza (giudichino i lettori se tossica o meno) fu quella da Aurora Visconti-Ordelaffi.
Era lei la sua bevanda inebriante: Aurora era tutto per lui.





L'avrebbe seguita anche all'Inferno, e forse fu proprio quello che fece.
Sapeva che avrebbe pagato caro il prezzo di quei mesi di vita dissipata, e infatti il conto, in termini di voti, arrivò insieme agli esami di fine semestre.
Ma di tutto questo e di molto altro ancora parleremo nel prossimo capitolo.



lunedì 1 novembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 166. Il Binario 9 e 3/4 a Rogoredo, il Porto di Mare, la Foresta Proibita, la Fata Verde e il Quadrilatero della Moda.




La Bocconi non è Hogwarts, e su questo non ci piove, eppure presenta (o almeno presentava negli anni compresi tra il 1994 e il 1999) alcune analogie con la celeberrima scuola di Magia e Stregoneria. 
Una di queste era la ripartizione degli studenti in quattro gruppi : conosciamo già i prime tre, ossia gli Aziendalisti, gli Economisti e i Finanzieri.
Il quarto gruppo era quello soprannominato "casa degli Indecisi e dei Perplessi"cioè gli studenti che nel primo biennio non avevano ancora le idee chiare sulla specializzazione che avrebbero scelto alla fine del secondo anno, e che dunque non si erano pre-iscritti ad un corso di laurea specifico, ma solo al biennio propedeutico: la cosa aveva incidenza più che altro sulla ripartizione delle classi per l'uso delle aule e sulla possibilità di scelta di alcuni esami complementari al posto di altri.
Naturalmente Roberto era tra i Perplessi, e questo non dovrebbe stupirci, poiché non aveva mai avuto le idee chiare in vita sua e non le avrebbe avute nemmeno in seguito.
Il Dubbio è sempre stato la caratteristica principale del suo pensiero, anche quando aveva trovato, a livello pratico, soluzioni provvisorie.
Aurora aveva promesso a suo padre di scegliere Economia Aziendale, ma sembrava molto interessata alla Finanza, o magari, se proprio si vuol pensar male, ai Finanzieri, e dunque anche lei rientrava nel gruppo degli Indecisi.
Confrontando i quattro gruppi della Bocconi con le quattro case di Hogwarts, potremmo dire che gli Aziendalisti erano i Tassorosso, gli Economisti i Corvonero e i Finanzieri i Serpeverde.
Ma poi c'era il problema della "quarta casa".
Dobbiamo ammettere che i Grifondoro non avrebbero mai scelto la Bocconi, e se anche l'avessero scelta, non potevano certo essere paragonati agli Indecisi.
Eppure quando, alcuni anni dopo, J.K. Rowling pubblicò il primo romanzo della serie di Harry Potter, Aurora, che conosceva bene la passione del fidanzato per il Fantasy e per i castelli, gli consigliò di leggere quel libro che a lei era piaciuto tanto.
Roberto, inizialmente scettico, ne fu affascinato e non poté fare a meno di provare simpatia per Harry, tartassato da un professore che sembrava Amelio Sarpenti, e costretto a lottare contro poteri oscuri che agivano nell'ombra, ma il personaggio in cui si identificava maggiormente era Ron Weasley.
Strano, vero? 
Ma in fondo se consideriamo che Ron era cresciuto in campagna, in una famiglia numerosa, ed era un gran pasticcione e una buona forchetta... non è poi così strano.
E poi Ron stava con Hermione Granger, nella quale Aurora si riconosceva sotto molti aspetti.
Ma allora viene spontanea la domanda: chi, tra i loro colleghi bocconiani, avrebbe potuto ricoprire il ruolo di Harry Potter?
Nei primi mesi del primo anno, Aurora e Roberto avevano fatto amicizia con alcuni studenti, per lo più del gruppo degli Indecisi, ma tra questi ce n'era uno in particolare, che condivideva con loro un elemento notevole, ossia la nascita a Forlì.
Questo terzo bocconiano forlivese si chiamava Augusto Viroli ed era figlio di un famoso commercialista, a sua volta figlio di un altro famoso commercialista, e dunque il suo destino lavorativo sembrava già scritto fin dalla nascita.
Fisicamente poteva assomigliare a Harry, più a quello dei romanzi che a quello dei film.
Portava occhiali tondi esattamente come il giovane Potter, e questo fu sempre uno dei suoi tratti distintivi un po' bizzarri, di cui sembrava andare fiero.

All'inizio, pur provenendo dalla stessa città, Augusto non conosceva gli altri due compaesani se non di vista o di fama (non si sa se negativa o positiva)
Li aveva incontrati soltanto una volta, ad una conferenza su Caterina Sforza, tenuta dal Preside del Liceo Classico, eminente esperto di storia forlivese, e li aveva notati soltanto perché Aurora non passava certo inosservata e spiccava immediatamente tra i "barbari" dello Scientifico.

Ma a riprova che in fondo il parallelismo con i tre protagonisti dei romanzi J.K. Rowling non è del tutto tirato per i capelli, l'amicizia di Augusto con Aurora e Roberto ebbe inizio in circostante molto simili, e cioè in treno.

All'epoca non c'era ancora l'Alta Velocità, almeno non in Italia.
Esistevano alcuni Eurostar, ma permaneva ancora l'antica gerarchia: Intercity, Interregionale, Regionale e Locale.
Un giorno, Aurora, che fino a quel momento aveva compiuto tutti i tragitti da Milano a Forlì' e ritorno con sua Porsche Boxter insieme a Roberto, a cui non permise mai di guidarla, volle provare il brivido di un viaggio in Intercity.
Ma non si trattava di un treno qualunque, perché, il mitico Intercity 21-34 da Milano ad Ancona, delle ore 15.28, a causa degli orari strani e dalla stazione periferica da cui partiva, era completamente vuoto.

Sul serio. Era vuoto. Parola di Monterovere, giurava Roberto.
Non era una leggenda metropolitana, esisteva davvero
E nessuno lo conosceva, tranne il nostro anti-eroe, che come sappiamo amava le perlustrazioni "in loco", per conoscere l'urbanistica delle città e la regimazione delle acque e delle strade.
(Non c'era ancora Google Maps con la Street View, e se si voleva vedere un posto, bisognava "alzare il culo" e andarci).
Roberto era arrivato a Rogoredo, la prima volta, seguendo le tracce della Roggia Vettabbia, che all'epoca era una specie di fogna a cielo aperto, e lì si era imbattuto in questo luogo misterioso.
Si trattava di una zona boschiva (sì, è quel famigerato bosco di cui si parla tanto in tv, ma all'epoca lui non lo sapeva e non si rendeva conto dei pericoli).
Per fortuna non vi si era inoltrato e aveva preferito visitare la stazione, che a quei tempi era un luogo desolato con solo due binari (quasi peggio di Forlì, ma solo quasi).
E fu lì che lo vide partire, il Milano-Ancora delle 15 e 28, incredibilmente vuoto.
Le FS si erano letteralmente dimenticate della sua esistenza.
Si trattava di un segreto, custodito gelosamente dai macchinisti e dai controllori, che ne temevano la soppressione, e dunque era come una breccia verso il mondo della magia, una specie di Binario 9 e 3/4 in salsa milanese.
Purtroppo non c'era la locomotiva a vapore, ma almeno la stazione di partenza non era Milano Centrale, bensì Milano Rogoredo, dove all'epoca non c'era mai un cane.

Ci si arrivava facendo un tratto di strada in tram (partendo dal delizioso viale Bligny) e il resto in metropolitana, con la Linea M3, quella gialla: la si prendeva a Porta Romana, previo ingozzamento presso il McDonald's che faceva angolo tra Viale Sabotino e Corso Lodi.
C'è ancora, quel McDonald's, e a Roberto vennero le lacrime agli occhi quando glielo mostrammo su Google Maps.
Gli chiedemmo il perché di tanta commozione per un luogo così insignificante.
<<Perché ero giovane ed ero felice e pieno di speranze... guardate : quel luogo non è cambiato di una virgola, io invece...>>
Non insistemmo oltre, perché sapevamo quante speranze, quante risorse, quante energie, quanta salute e soprattutto quante persone aveva perduto, negli anni che seguirono.

Una volta saliti sulla M3 si superavano quattro fermate e cioè Lodi, Brenta, Corvetto e quella prima di Rogoredo, che aveva un nome che era tutto un programma, "Porto di mare".









Porto di Mare è un luogo nella zona sud di Milano, tra il confine della città e i primi quartieri periferici, e prende il nome da un progetto del 1917 : nella zona, infatti, doveva essere collocato il porto fluviale destinato a sostituire la Darsena di Porta Ticinese.
Quel progetto aveva radici antiche, risalenti ai tempi in cui Leonardo da Vinci era alla corte di Ludovico Sforza detto il Moro, e cioè rendere Milano una vera città portuale, a cui si potesse arrivare dall'Adriatico navigando sul Po finché possibile e su una rete di canali in seguito.
Leonardo era ossessionato dall'idea che ogni città dovesse avere un porto, e i Romagnoli lo sanno bene, dal momento che un progetto simile, seppure molto più in piccolo, fu concepito dal grande Da Vinci anche per Cesena (e per il suo Porto Cesenatico, che portò alla fondazione dell'omonima cittadina della Riviera romagnola).
La caduta di Ludovico il Moro lasciò in sospeso molti progetti che furono comunque tenuti "al caldo", in serbo per momenti migliori, e così accadde anche per il sogno del porto milanese.
Secondo il progetto del 1917, Porto di Mare sarebbe stata l'area portuale destinata all'approdo del traffico fluviale proveniente dal canale Milano-Cremona-Po. 
Il raggiungimento del fiume Po avrebbe poi consentito il collegamento di Milano con il mare Adriatico, da cui il nome "Porto di Mare".




Ah, Porto di mare! Roberto, sempre fissato con i canali, le mappe e l'urbanistica, si entusiasmava a raccontare la storia di quel luogo e di quel nome: un sogno a cui lui, come pronipote del grande Francesco Lanni, il Profeta delle Acque, aveva sempre creduto. Un sogno che non sarà mai abbandonato, ed ora vi raccontiamo il perché.

Nei primi decenni del Novecento, anche i più convinti sostenitori della navigazione sui Navigli si trovarono in difficoltà: infatti, i mancati ammodernamenti dell'ultimo secolo avevano reso il sistema navigabile ormai obsoleto, con canali stretti e inadatti alla navigazione a motore.
Fu così che il Genio Civile presentò un progetto che prevedeva un porto a Rogoredo, a sud di Porta Romana, punto naturale di convergenza delle acque che colano dalla città; il progetto fu approvato nel 1917, l'anno dopo si costituì l'azienda portuale e in quello successivo cominciarono i lavori con lo scavo del bacino portuale e dei canali verso Cremona per 20 chilometri circa.






Nel 1922 i lavori furono sospesi perché l'acqua di falda aveva riempito naturalmente lo scavo e i pescatori se ne erano appropriati.
Dal 1925 al 1928 l'area venne anche sfruttata come cava per la ghiaia da utilizzare per la costruzione del nuovo quartiere popolare Regina Elena che stava sorgendo in piazza Gabrio Rosa sotto la direzione dell'architetto Giovanni Broglio.
Il progetto venne ripreso nel 1941e finita la seconda guerra mondiale fu integralmente ricompreso nel piano regolatore del 1953, ma i lavori non iniziarono mai.
Niente di nuovo sotto il sole: in Italia la maggior parte dei progetti avveniristici viene bloccata, per un motivo o per l'altro. Ma quel sogno non svanì mai del tutto.
Negli anni che precedettero l'istituzione della Regione Lombardia nel 1970, il collegamento idroviario via Po con l'Adriatico venne riaffermato nei documenti programmatici come scelta strategica per lo sviluppo dell'economia lombarda e nel 1972 iniziarono i lavori con lo scavo di un canale da Cremona all'Adda. 
I lavori di scavo del canale vennero abbandonati dopo aver superato Cremona e aver raggiunto Pizzighettone, a 16 chilometri circa dal Po (in totale, il canale, se completato, avrebbe misurato 65 chilometri).
Il Porto di Cremona è oggi un importante scalo merci, cosa che Roberto aveva verificato di persona, già da bambino, quando aveva costretto suo padre ad accompagnarlo a vedere il Po e la sua diramazione nei vari porti fluviali. A Cremona il Porto era il motore della zona industriale.






Roberto, che studiò per anni il progetto, e che avrebbe voluto creare canali navigabili anche sulle Alpi, ci ha assicurato, dandoci la sua "parola di Monterovere", che se quel canale arrivasse fino a Milano, potrebbe completarne il ruolo di perno dell'economia italiana e di hub per quella europea.
Il progetto del canale Milano-Cremona-Po non è stato abbandonato dalla regione Lombardia e periodicamente ci sono proposte per riprendere i lavori e completare l'opera per il tratto tra Pizzighettone e Porto di Mare. 




Il progetto è inserito nel complesso dell'Idrovia Padana, in parte già realizzata per il tragitto tra Ferrara e Porto Garibaldi, utilizzando in parte l'alveo del Po di Volano.
L'area veneta, anche per la sua vicinanza con Venezia-Mestre, è ormai completamente navigabile.
Da notare come il progetto dell'Idrovia Padana comprenda anche un collegamento col porto di Ravenna, Porto Corsini, anche se riteniamo che sia impraticabile, perché passerebbe troppo vicino ad aree protette come le Piallasse, le Mandriole e le Punte Alberete, rischiando di alterarne l'ecosistema.
L'ultimo progetto, forse troppo utopistico, prevedeva un suo collegamento con la rete dei Navigli, la Darsena, l'Expo e addirittura il Ticino (e quindi il Lago Maggiore), fino a Locarno.








Il Comune, ha presentato recentemente un progetto alternativo che prevede la creazione di un vero e proprio Quartiere di Porto di Mare, su una superficie di 1.200.000 metri quadrati, con una riqualificazione territoriale simile a quella che è avvenuta per l'Expo.





Ma torniamo alla nostra narrazione: una volta giunti a Rogoredo, si aspettava l'arrivo del treno fantasma.
E qui si potevano correre dei rischi.
Quella zona infatti era ed è tutt'ora assai malfamata, in quanto, nel luogo per cui si erano fatti tanti progetti, era cresciuta negli anni la Foresta Proibita, o il Bosco Atro, a seconda delle preferenze, e cioè un'area boschiva nella quale c'era e c'è ancora la più grande area di spaccio di droga di tutta Milano, ribatezzata dai Nas "il Supermarket dell'eroina".
L'esistenza di questo luogo è nota da sempre ed è sempre stata tollerata dalle amministrazioni di tutti i colori politici. Molti reportage giornalistici l'hanno rivelata al grande pubblico e c'è persino un romanzo ambientato in quel bosco.






Ora qualcosa si sta muovendo e forse l'area sarà davvero bonificata e riqualificata, un po' come è avvenuto per la Montagnola di Bologna, ma le ragioni del non intervento restano in piedi.
Gli ambientalisti non vogliono che il Bosco sia abbattuto, i partiti di sinistra o di area radicale, ritengono che l'intervento delle forze dell'ordine o del Comune servirebbe solo a far spostare la zona dello spaccio da un'altra parte, e quindi ci si dovrebbe limitare ad un cauto pattugliamento.
Parliamoci chiaro: Milano è una città dove è facile "perdersi", un po' come New Orleans, che proprio quell'anno fu fatale per Ylenia Carrisi.
Di mezzo c'è sempre il problema della droga, e qui i lettori ci consentano di aprire una parentesi sull'argomento, non solo perché Roberto, da appassionato di chimica farmaceutica, ci tenne una lezione molto dettagliata, ma anche perché questo discorso sfiorò, anche se solo leggermente, la vita dei nostri protagonisti.
Abbiate fiducia in noi, e sappiate che tutte queste premesse serviranno al momento giusto, quando ogni discorso confluirà in un unico mainstream, nei capitoli successivi.

C'è una stratificazione sociale che collega l'appartenenza a determinate categorie al tipo di droga scelto.
E' noto che, per esempio, la cocaina è molto utilizzata dai dirigenti perché dà energia e migliora le prestazioni; da chi lavora nel mondo dello spettacolo e della moda perché ha anche effetti anoressizzanti, e dai ricchi in generale perché costa molto.
Ha effetti devastanti sul sistema nervoso e su quello circolatorio: il cuore di un cocainomane è sottoposto a uno stress continuo che lo rende ipertrofico e soggetto a necrosi: è accaduto, per citare uno dei casi più noti, a Diego Maradona.
Simili nell'effetto energizzante e anoressizzante, ma diverse nei rischi e nei costi, sono le anfetamine, utilizzate soprattutto dagli studenti e dai giovani, per il costo relativamente basso, la maggiore facilità di reperimento e la capacità di migliorare il rendimento nello studio e nel lavoro.
La più usata e la più pericolosa è la MDMA, meglio nota come Ecstasy, distribuita spesso presso le discoteche, i night club e i party, anche per i suoi effetti di stimolazione sessuale.
Pochi sanno che le anfetamine posso essere persino più pericolose della cocaina, per il rischio di scatenare un'epatite tossica, oltre ai danni irreversibili ai neuroni di collegamento tra il cervello e gli apparati percettivi, e questo può condurre anche alla perdita della vista.
Se poi cocaina o anfetamine sono utilizzate in concomitanza con l'alcool, possono portare a danni cardiocircolatori gravissimi, tra cui ictus ischemici ed emorragici tali da condurre a paralisi, come accadde a John Paul Getty III.
L'uso e l'abuso di cocaina e anfetamine a Milano è tale da aver contaminato persino le acque di scarico.
Ma nel Bosco di Rogoredo lo spaccio riguarda principalmente, come si è detto, l'eroina e gli oppioidi in generale.
Il consumatore di oppioidi è in genere una persona che cerca un'evasione dalla realtà o quantomeno un modo per placare una profonda angoscia interiore : spesso si tratta di persone emarginate, fragili, incomprese, che vivono in una condizione di progressivo degrado.
Il disprezzo che parte della società prova nei loro confronti non fa altro che acuire la loro dipendenza e il rischio che ricorrano al crimine pur di procurarsi il denaro con cui pagare la droga.
Poi però bisogna fare una netta distinzione tra l'eroina, che ha un uso ricreativo, e gli altri oppioidi, che hanno un uso antidolorifico (morfina, codeina e tramadolo) il quale induce anche uno stato di pace interiore. 
La morfina può indurre allucinazioni lievi, ma l'effetto collaterale maggiore è il sonno.
La codeina invece ha come effetto l'atarassia, l'assenza di ogni tipo di sofferenza, compresa quella mentale.
E' essenziale comprendere il motivo che induce al consumo di oppioidi sintetici "minori", come la codeina e il tramadolo (o metadone) : in genere chi ne abusa non lo fa per uso ricreativo, perché questi farmaci non hanno come effetto il "trip", ossia il viaggio mentale indotto da allucinazioni, che è caratteristico solo dell'eroina o dell'LSD.
Chi abusa di codeina e tramadolo o molecole simili lo fa solo per placare l'angoscia interiore, perché in tali molecole non esiste alcun effetto allucinogeno o ricreativo.
Anche a livello di effetti dannosi c'è molta differenza: l'eroina, essendo iniettata per via endovenosa, comporta rischi estremamente alti, compresa la contaminazione con virus che si diffondono col sangue.
Gli altri oppioidi sono invece dei farmaci antidolorifici che, come tanti altri farmaci, comportano, in caso di dipendenza e di abuso, un elevato rischio di intossicazione epatica.
Chiediamo scusa per questo ripasso di tossicologia, ma riteniamo che sia essenziale, se si vuol combattere efficacemente la tossicodipendenza, capire i motivi per cui una persona fa uso di queste sostanza e mostrare a questa persona che esistono alternative più sane.
Stesso discorso vale per l'alcolismo.
Oggi noi vediamo il degrado a cui conduce l'alcolismo e l'uso di droghe pesanti.
Eppure fa parte dell'immaginario collettivo il fascino romantico-decadente dei poeti maledetti che fumano la pipa dell'oppio o assumono il laudano facendolo gocciolare sullo zuccherino dell'assenzio, la Fata Verde, Artemisia. E chi non conosce i quadri legati a queste immagini?














State attenti, dunque, perché la Fatina Verde vuole la vostra anima!
Se poi la mescolate col laudano, allora diventa un pericoloso mostro che si prende sia l'anima che il corpo e non lascia niente da bruciare o per cui spalare.
Così si diceva a fine Ottocento, nell'Età del Decadentismo, ma a fine Novecento tutto era diventato molto più prosaico, per quanto i registi abbiano riesumato quelle antiche immagini in film come "La vera storia di Jack lo Squartatore", con Johnny Depp nei panni dell'ispettore Abberline e il grande Ian Holm in quelli del dottor William Gull, medico della regina Vittoria, o il Dracula di Francis Ford Coppola, capolavoro immortale, con Keanu Reeves nei panni di Jonathan Harker, Winona Rider nei panni di Mina Murray, Anthony Hopkins nei panni del professor Abraham Van Helsing e Gary Oldman, nel ruolo di Vlad Dracula.
Facciamo notare che Gary Oldman fu scelto per interpretare il personaggio di Sirius Black nella saga di Harry Potter: vedete, cari lettori, che alla fine "tutto si tiene", in questa narrazione!
Il confine tra magia e pazzia, come quello tra farmaco e droga, è molto labile.
Gli oppioidi di oggi sono prescritti dal medico.
C'è gente che non vuole vaccinarsi, ma manda giù la codeina del Tachidol come se fosse una caramella.
Ci sono alcuni grandi nomi legati alla dipendenza da codeina, primo fra tutti il poeta Samuel Taylor Coleridge!

Ecco dunque descritto il sentiero, o meglio, il tunnel, che conduce alla Foresta Proibita.
Roberto ne ha conosciuti alcuni, a Milano, che sono finiti in questo tunnel, e si sono ritrovati nella Foresta, dove ad accoglierli c'erano mostri della peggior specie, quella umana.
















Ma di tutti questi pericoli i nostri protagonisti non sapevano quasi nulla, non ancora, almeno, per cui quando dal "binario nove e tre quarti" della stazione di Milano Rogoredo arrivava quell'intercity incredibilmente vuoto, dove non passava mai nemmeno un controllore, si mettevano in un bello scompartimento tutto per loro e incominciavano a chiacchierare.
Augusto era un conversatore da competizione, di quelli che quando ti attaccano una pezza non finiscono più: nemmeno Roberto riusciva ad aprire bocca, il che è tutto dire.
Però era molto colto e quindi spesso si parlava di cose elevate, poiché non omnes arbusta iuvant humilesque myricae e dunque si canimus silvas, silvae sint consule dignae.
Ah, la quarta egloga di Virgilio, che tanto piacque a Dante e a Pascoli! E pensare che c'è gente che nasce, vive e muore senza averla mai letta.
E ce ne sarà sempre di più, se la scuola continuerà la sua scellerata distruzione della letteratura latina.
Ma se non si conosce l'opera di Virgilio non si può capire quella di Dante, e allora come si può sfuggire ai pericoli della Selva Oscura, perché c'è sempre una Selva Oscura, c'è sempre una Foresta Proibita, c'è sempre un Bosco Atro dove ci si può perdere, se non si impara a sfuggire dai mostri.
Dobbiamo dare atto a Roberto che, per quanto i suoi resoconti fossero sconclusionati, sgrammaticati e infarciti di troppi ingredienti, non perdevano mai del tutto la coerenza e la coesione, perché come abbiamo già detto, in questo racconto tutto si tiene, tutto conduce in un'unica direzione.
Ogni apparente divagazione, in questo capitolo, ci tornerà utile nei prossimi.
Ma ora torniamo ai nostri personaggi.

Augusto, pur non vivendo nel residence di viale Beatrice d'Este, venne accolto nella Confraternita del Quinto Piano per intercessione di Aurora e Roberto, e si unì alle loro scorribande del venerdì sera, con i Prefetti e i vari adepti, all'ora dell'aperitivo, perché l'happy hour nasceva in quegli anni, e così anche la famigerata movida, specie nella zona dei Navigli, passando da un pub all'altro, da una pizzeria all'altra, da un cinema all'altro, da un night all'altro.
Precisiamo che Augusto non fu mai innamorato di Aurora, perché all'epoca era ancora impegnato con una ragazza di Forlì, e per questa ragione tornava a casa spesso, con l'Intercity di Rogoredo, al contrario dei nostri fidanzatini, che restavano quasi sempre a Milano.

Nel weekend, Aurora trascinava Roberto in centro, o meglio nel Centro del Centro, ossia la Cerchia Antica, la più esclusiva, a fare shopping, soprattutto nel Quadrilatero della Moda, o "fashion district", che era considerato dai campanilisti milanesi,  come "l'area più chic del pianeta", con buona pace di Parigi e Manhattan.







La giovane Visconti aveva ereditato da sua madre la passione per la moda e l'estetica in generale.
I soldi da spendere non le mancavano (soprattutto grazie alla famosa fideiussione di 15 miliardi di lire firmata da Fernando Albedo, a garanzia della solvibilità dell'azienda di famiglia, per intercessione di Lorenzo Monterovere, non dimentichiamolo mai).
Aurora divenne talmente nota in tutti i negozi del centro, specie quelli del Quadrilatero della Moda, che molti la scambiavano per una top model.
Volendo proseguire con il parallelismo potteriano, quella zona era per lei una specie di Diagon Alley, soprattutto la via Monte Napoleone, che per i fanatici della moda è l'Ombelico del Mondo.

Ben presto, persino i titolari delle Boutique più costose incominciarono a considerarla una cliente privilegiata, e dove non arrivava la sua carta di credito, c'erano comunque le conoscenze di Gabriele da Monza, ad aprirle tutte le porte e a farle conoscere persino i grandi nomi della moda, a partire da Miuccia Prada e Donatella Versace (all'epoca Gianni Versace era ancora vivo e sua sorella non era ancora diventata lo zombie che è adesso).
Sotto certi aspetti Aurora era una specie di Chiara Ferragni ante litteram (e siamo consapevoli che questo non è affatto un complimento), e non ci si deve stupire se in quegli anni la giovane Visconti incominciò a cambiare, a "mutare", a diventare una star, e sarà proprio di questo che parleremo nel prossimo capitolo.