martedì 6 aprile 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 122. Non è poi così lontana Samarcanda

 

Molti segreti, in quella cena, erano stati svelati senza bisogno di parlarne apertamente.
Dietro agli aneddoti, alle battute o alle dissertazioni pedanti su questioni marginali, c'erano stati sottintesi, allusioni e mezze verità, colte al volo dagli interlocutori.
Le questioni erano rimaste in sospeso, ma erano comunque state affrontate, seppure in maniera indiretta.
Si era arrivati ad un punto di non ritorno, si era superato un confine non territoriale  che creava un'alleanza tra i tre clan presenti: i Ricci-Orsini-Monterove, i Visconti-Ordelaffi, e gli Albedo, rappresentanti di Sua Grazia il consigliere don Fernando Albedo, Duca di Alcazar de las Altas Torres.
C'erano però molte opposizioni interne, molte incertezze e molte omissioni.
Silvia era fermamente contraria, Francesco era incerto e Roberto favorevolissimo, anche se non sapeva quasi nulla, tranne ciò che il Visconte gli aveva richiesto nell'incontro privato a casa del notaio Papisca: quello era stato il primo passo. 
Roberto era stato zelante nell'eseguire le istruzioni di Bartolomeo Visconti: aveva ripreso i contatti con lo zio Lorenzo, il quale ormai lo chiamava tutte le settimane e discettava col nipote di argomenti filosofici, teologici, storici, evitando, per il momento, le questioni esoteriche,
Non gli aveva mai chiesto quali interessi il consigliere Albedo potesse avere riguardo ai Monterovere.
Diana fingeva di non sapere nulla, ma si vedeva che era preoccupata e contrariata.
Non poteva sapere, Roberto, che persino la questione dei preservativi era stata dibattuta con la sua dama di compagnia e alla fine Consuelo aveva convinto la Contessa che era necessario prevenire eventuali mosse azzardate, specialmente tenendo conto che su tutta la faccenda non era stata "sciolta la riserva".
Aurora sembrava più innamorata che mai, eppure Roberto continuava a non fidarsi del tutto, perché si domandava se a lei interessasse di più lui come persona, o sempre lui, ma come "principe ereditario" di una serie di famiglie, persone e aziende importanti.
Lei mi sorride, ma "io non so l'amore vero che sorriso ha".
Incredibile come un verso tanto delicato, in una canzone tanto femminile come Minuettoche negli Anni Settanta era valsa la vittoria del Festivalbar a Mia Martini, già vittoriosa l'anno prima con Piccolo uomo , fosse stato scritto da un cantautore rude come Califano, che andò a letto con migliaia di donne ma non ne amò nessuna. Il suo sodalizio artistico con Mia Martini toccò il vertice ne "La nevicata del '56", un testo molto raffinato, che ricordava in chiave magica un evento della loro infanzia.
E sempre Mia Martini, proprio in quel 1992, era arrivata seconda a Sanremo con "Gli uomini", un ritratto impietoso, ma purtroppo non del tutto infondato su certi comportamenti maschili, e qui qualcuno ci vide qualche riferimento a Ivano Fossati, il suo ex, con cui le cose finirono piuttosto male.
Roberto, grazie alle "lezioni private" di Aurora, aveva incominciato a conoscere i testi delle canzoni "storiche" della musica leggera italiana, e alcune di quella straniera, ed era rimasto sorpreso dal fatto che, pur essendo concepiti per un pubblico non colto, e pur scivolando spesso nei luoghi comuni, ogni tanto contenessero frasi ben formulate, ritmi efficaci, figure retoriche originali e significati non banali.

Molti anni dopo, Roberto ne parlò ampiamente con i suoi interlocutori, ed è anche per questo che la nostra narrazione presenta numerosi riferimenti al riguardo. 
Una volta ci raccontò che lui e Aurora, prima che comparisse qualche crepa nel loro rapporto, avevano scelto, come "loro canzone", una appena uscita nell'autunno del 1992, e cioè "Non abbiam bisogno di parole" di Ron.
La ricorderete tutti: "...e ti solleverò tutte le volte che cadrai, e raccoglierò i tuoi fiori che per strada perderai..."
Le radio la davano in continuazione, ovunque, la si assorbiva nell'aria, penetrava nella memoria come un messaggio subliminale, con quello slancio improvviso in cui la musica, inizialmente sottotono, prendeva il volo all'improvviso, toccando l'acuto massimo in "fiori" per poi digradare lievemente  fino a "e seguirò il tuo volo senza interferire mai", e il cuore di tutti si stringeva, perché ognuno avrebbe voluto sentirsi dire allo stesso modo quelle parole, perché come abbiamo già detto, l'amore non è mai abbastanza.
Va detto, però, che all'epoca, non essendoci internet a disposizione, era più difficile trovare i testi delle canzoni, e Roberto proprio non sapeva come procurarseli, e si vergognava a chiederlo persino ad Aurora, e su questo punto si creò un siparietto comico, quell'estate, ma racconteremo ogni cosa a suo tempo.
Soltanto quando lo incontrammo, due o tre anni fa, prima di intraprendere la nostra narrazione, gli facemmo notare che bastava comprare TV Sorrisi e Canzoni, e lui rimase di sasso: "Non ci avevo mai pensato", fu il suo commento. 
Sul momento fu imbarazzante vedere quell'uomo di grande cultura così sprovveduto nelle cose banali della quotidianità, ma aveva le sue ragioni.
Era da comprendere, il suo essere "fuori dal mondo": certi giornaletti non erano ammessi nel Salotto Intellettuale dei Monterovere, e non interessavano neppure a quello mondano di Villa Orsini. 
Tranne la cronaca rosa di Oggi e Gente, la contessa vedova Emilia, leggeva solo i romanzi di Liala Negretti Odescalchi, e non si interessava di canzoni, per quanto ammettesse di aver ammirato, a suo tempo, Wanda Osiris che gettava le rose scendendo le scale, mentre cantava Ti parlerò d'amor, e di aver riconosciuto che Nilla Pizzi, dopo la sua interpretazione di "Grazie dei fior", poteva considerarsi una giovane promessa. 
Persino la contessa Diana aveva gusti insospettabili, che preferiva non divulgare, ma che Roberto ricordava alla perfezione, come se i suoi ricordi di bambino di tre anni fossero un film indelebile.
Immaginatevi la scena: Diana nel suo salottino privato, a cui era ammessa soltanto Consuelo, mentre guardava con lei le trasmissioni musicali alla tv, e fuori dalla porta socchiusa, il nipotino ficcanaso, sconvolto nel vedere che la nobile nonna piangeva a dirotto ascoltando Anima Mia, col biondino che cantava in falsetto; si struggeva di nostalgia alle note di Champagne, si esaltava per gli acuti di Albano in Nel Sole, fremeva di desiderio quando il prestante Julio Iglesias si lanciava in Se mi lasci non vale, sospirava per Massimo Ranieri disperato in Perdere l'amore, che a suo parere era insuperabile, per quanto estremamente depressiva. Da notare il fatto che le interessavano solo i cantanti maschi, mentre considerava le cantanti alla stregua di sgualdrine. 
Ufficialmente, però, la Contessa non ascoltava musica leggera, sarebbe stato inappropriato: nel Salone da Ballo di Villa Orsini, erano ammessi solo dischi di vinile di musica classica.
Ah, come dimenticare i valzer del Ballo di Mezza Estate, quando tutta la crème dell'aristocrazia romagnola rendeva omaggio alla famiglia Ricci-Orsini, prima che i processi ad Ettore Ricci spazzassero via tutto, rendendo quella sala un guscio vuoto.
Ma negli occhi di Roberto, il bambino della campagna, sarebbe rimasta per sempre viva l'immagine di Diana che, danzando, faceva volteggiare i suoi abiti lunghi, ma leggeri e vaporosi, bellissima e regale come una dea.




Al contrario, Silvia, negli anni scatenati della sua gioventù, si era identificata in Mina, aveva cambiato pettinatura ogni volta che la cambiava lei, seguito le sue vicende amorose meglio delle proprie, imparando i testi delle sue canzoni a memoria, declamando "Ancora ancora ancora" persino durante gli amplessi e infine indossando il lutto quando la Tigre di Cremona se ne fuggì a Lugano a nascondere i chili di troppo. 
Per alcuni anni Silvia ebbe una passione folle per Dalidà, imitandone l'aspetto, le movenze, la presenza scenica, il piglio regale, l'alternanza tra euforia e disperazione, ma purtroppo in quel caso il lutto fu reale e drammatico. Dopo di che, ma senza troppa convinzione, Silvia ripiegò sui cavalli di battaglia di Milva ("Rapsodie gitane" e "Alexander Platz") e dell'intramontabile ed eterna Vanoni,  specie in "Una ragione di più", di cui, non vista, cantava e continua ancora a cantare, dopo una vita intera di battaglie, "oggi e poi domani e poi domani ancora, finché il mio cuore ce la fa"
E quella "ragione di più" per vivere derivava dal senso del dovere nei confronti di una famiglia scombinata, le cui traversie l'avevano paradossalmente resa forte, tenacemente legata alla vita, e sempre lucidissima, laddove invece le sorelle, alla fine, avevano ceduto ai colpi bassi dell'età.
Mina, Dalidà, Milva e Vanoni: tutte donne con i capelli rossi, come Silvia che li aveva ereditati da suo padre, unica tra le tre considerevoli sorelle Ricci-Orsini, e per questo prediletta da Ettore Ricci.





E poi era arrivata Aurora, scandalizzata perché Roberto non aveva mai sentito nominare La canzone del Sole di Battisti, (e non si sarebbe perso niente), o Buonanotte fiorellino di De Gregori, che per giustificare ai radical-chic tale scivolone nel campo "melodico dell'amore", lasciò circolare la leggenda metropolitana secondo cui il testo fosse stato ispirato da una sua presunta fidanzata morta nella Strage di Ustica, con tanto di sottolineature nei punti chiave: "il mio biglietto scaduto" e "l'anello resterà sulla spiaggia". 
E allora diventava una canzone impegnata, una denuncia coraggiosa, e persino i comunisti più accaniti non riuscivano a trattenere le lacrime ogni volta che constatavano che "il granturco nei campi è maturo ed ho tanto bisogno di te", ma lei non c'era perché era morta a giugno nella Strage, e allora "la coperta è gelata e l'estate e finita", "gli uccellini nel vento non si fanno mai male", chiarissimo riferimento all'aereo silurato dagli americani che volevano colpire invece Gheddafi.
Tutto molto commovente, peccato che canzone fosse uscita nell' album "Rimmel" del 1975, e cioè cinque anni prima dell'abbattimento del DC-9, in quel fatale 1980 in cui le stragi si succedettero una dietro l'altra. (Come, del resto, anche nel 1992).
Questo inciso canoro, troppo lungo ma comunque poco esauriente, ci servirà nel prosieguo di questo capitolo, perché Aurora amava comunicare i suoi concetti chiave e le sue dichiarazioni solenni tramite l'esegesi di testi di canzoni d'autore, e fu proprio quello che avvenne alla fine di quella serata del memorabile 1 luglio 1992.




Ormai la cena volgeva al termine.
Quando finalmente si arrivò al dessert, i commensali erano tutti in uno stato semi-confusionale, non per il cibo e l'alcol, che erano stati comunque consumati in abbondanza o almeno più del solito, specie da parte delle convitate del gentil sesso, ma per tutte le informazioni che erano emerse da un dialogo in apparenza innocente.
Naturalmente, dai Monterovere, anche i dessert erano più di uno.
Erano i tempi in cui Francesco godeva di ottima salute e Roberto era magro come un chiodo o snello come i paggi del Duca di Norfolk, almeno stando alle memorie di Falstaff, ma entrambi, molti anni dopo, avrebbero pagato a caro prezzo la loro ingordigia.
Sam Albedo portò una ciotola di meringa per tutti, sua zia Consuelo portò una coppa di gelato ai gusti di stracciatella, pistacchio e zuppa inglese e infine la madre di Sam, Dolores, servì il Sorbetto al Limone.
E qui Silvia si sentì in dovere di riprendere il discorso antropologico sul rituale della "magneada" nella Romagna Centrale, o Romagna Celtica. 
<<Il sorbetto, di tradizione meridionale, fu introdotto relativamente tardi come momento di separazione tra la "mangiata" vera e propria, e il "dopo mangiata", che comunque comprendeva rituali altrettanto sacri e presenti dal Cinquecento in avanti in molte tradizioni italiane: il caffè, l'ammazzacaffè con gli amari, e anche il sigaro, per quanto la pipa fosse molto preferibile, perché l'aroma di tabacco da pipa è dolce, mentre quello del sigaro è pestilenziale>>
Il Visconte, gran fumatore di sigari, non era d'accordo e mentre ancora divorava la meringa, brandì il cucchiaino come un'arma e dichiarò:
<<Non tutti i sigari lo sono! Per esempio gli Avana...>> e stava per lanciarsi in un'arringa degna di Cicerone, quando la moglie lo fermò:
<<No, guarda, caro mio, fanno tutti schifo, oltre a far male alla salute>>
Al che lui batté in ritirata, annegando la sua frustrazione nel frizzante vino rosé da dessert.
Tutti fecero onore al sorbetto, e tutti bevvero il caffè, e anzi Aurora ne chiese un'altra tazza, forse per scongiurare i rischi di un abbiocco, dopo quello che per lei era stato un delirio calorico che le sarebbe costato un mese di massacrante esercizio fisico.
Soltanto i due capifamiglia (che in realtà erano sudditi delle rispettive mogli), si avventurarono nella degustazione dell'infuocato Fernet Branca, dopo il quale, con la gola ustionata e lo stomaco in fiamme, decisero unanimemente che i vari Averna, Cynar, Giuliani, Lucano, Montenegro, Rabarbaro Zucca, Ramazzotti e Strega potevano tornare nelle cantine.





A quel punto la "mangiata" celtico-romanza poteva dirsi conclusa e i commensali uscirono in veranda per prendere una boccata d'aria.
Il Visconte, fumando un sigaro Avana, e il Professore, costretto a inalarne gli effluvi, parlarono di politica: e stranamente si trovarono d'accordo, perché proprio nel 1992 era incominciata la virata verso destra di Francesco Monterovere, che in seguito lo portò alla condanna suprema per un intellettuale, ossia l'essere Radiato dall'Albo dei Radical-chic, con conseguenze devastanti per il Salotto Culturale della Signora e altre questioni più significative.
Racconteremo più avanti tutto questo, perché fu comunque l'atto finale di un cambiamento avvenuto con estrema gradualità e sempre in seguito ad eventi storici o ragionamenti ben precisi.

La Viscontessa e la suddetta Signora, si sedettero sotto la pergola e incominciarono a ricordare "il bel tempo andato", perdendosi nell'eterno topos del "quelli sì che erano tempi!", e forse non avevano tutti i torti, perché accanto al progresso c'è sempre la decadenza: sono come due gemelli, che procedono fianco a fianco, così come, in ogni estate al culmine, c'è sempre un po' di morte, e ogni fotografia dell'alba è indistinguibile da quella di un tramonto, così come si assomigliano il crepuscolo e l'aurora.

Aurora, come era suo costume, afferrò con la salda presa della tennista allenata o della ginnasta ritmica, la mano di Roberto, e lo condusse nuovamente sul gazebo in pietra, in cima alla collina.
Aveva un'espressione solenne e la famosa "faccia delle grandi occasioni", per cui quindi il suo ragazzo le lasciò il controllo della situazione, come poi del resto faceva sempre.




<<Roberto, io avrò anche scolato vino rosso a volontà, ma tutto quello che sto per dirti e per donarti viene dal profondo del mio cuore. 
Io credo nel Destino e sento io e te siamo destinati a stare insieme per tutta la vita>>
Lui cercò una riposta più vicina alla propria visione del mondo:
<<Io credo nell'amore che provo per te ed è un sentimento che prevale su tutto il resto.
Ma non credo nel destino e nemmeno nel Libero Arbitrio. 
Io penso che, al di là di tutto ciò che l'umanità racconta a se stessa per non aver paura della morte e sentirsi ancora al centro di un grande disegno e non ai margini di una galassia in un universo con milioni di galassie, e al di là di tutti i suoi sforzi per considerarsi artefice del proprio destino, gli unici principi fondamentali che dominano l'universo rimangano pur sempre l'Errore e il Caso>>
Aurora conosceva la Weltanschauung del suo ragazzo e non se ne stupì, ma per l'ennesima volta volle fare un esempio tratto da una canzone famosa:
<<Hai presente Samarcanda di Vecchioni ? Questa dovresti conoscerla, perché lui sarebbe perfetto per il Salotto Intellettuale di tua madre>>
Roberto ne ricordava vagamente il ritornello un po' assurdo che riguardava un cavallo:
<<E cosa c'entra con ciò di cui stiamo parlando?>>
Lei sorrise, come un'insegnante indulgente verso il suo allievo preferito che non si è applicato abbastanza:
<<Segui il mio discorso e capirai. E' una splendida ballata, con una prosodia straordinaria e una sapiente armonizzazione di metrica e retorica che solo un classicista come lui poteva utilizzare al meglio>>
Roberto, che si sentiva troppo stanco per una lezione, cercò di deviare il discorso:
<<Ma non ti interessavano solo i cantautori di centro-destra?>>
Aurora gli tirò un orecchio come a un monello e poi continuò, serissima:
<<Questa canzone è un capolavoro, sia per i contenuti che per le scelte stilistiche e musicali.
Parla del fatto che non si può sfuggire al proprio destino e che anzi, più uno cerca di fuggire, più va incontro a quel destino, come succede al protagonista della canzone.
Un soldato, scampato ai mille pericoli di una guerra imprecisata, sta festeggiando la vittoria, nella Capitale altrettanto imprecisata di un ignoto impero, dove sono in corso spettacoli e grandi libagioni.
L'inizio ci dà subito il ritmo, con un la tecnica usata da Carducci nelle Odi barbare, cioè un adattamento italiano della metrica classica: qui abbiamo tre dattili e un anapesto alternati a tre dattili e un giambo: "Ridere, ridere, ridere, ancora / ora la guerra paura non fa"
Nota l'insistenza di anafora e allitterazione, che rendono più efficace il ritmo>>
Roberto incominciava ad essere interessato:
<<Ma come fai a conoscere la metrica classica? Noi allo Scientifico non la facciamo>>
Lei, con affettata modestia, si limitò a dire:
<<Mia madre ha fatto Lettere Classiche come la tua, anche se non ha la cattedra di latino e greco come Silvia, e non fa lezioni private se non a me. Ha voluto insegnarmi qualcosina in più.
Io avrei voluto fare il Classico, sai, e anche se il motivo ufficiale per cui scelsi lo scientifico era perché poi avrei dovuto fare economia e quindi era meglio fare più matematica, la vera ragione è perché volevo stare in classe con te: il preside assicurò a mio padre che sarei stata assegnata nella tua stessa sezione. Mio padre assecondò questo mio desiderio solo perché era l'unico modo per evitare che facessi il classico. Ma io ti amavo moltissimo, già dalle scuole medie...>>
Roberto era incredulo:
<<Mi amavi già così tanto? E hai continuato per tutto questo tempo?>>
Lei annuì, serissima:
<<Sempre. Noi siamo destinati a stare insieme. 




Ma torniamo al povero soldato, che "vide tra la folla quella Nera Signora / vide che cercava lui e si spaventò". Dunque vede la morte e pensa che lei sia lì per falciare la sua vita.
Per questo implora il sovrano di dargli "la bestia più veloce che c'è", riferendosi al cavallo, e qui inizia la parte che ci interessa per quel riguarda il Destino.
"Corri cavallo, corri ti prego / fino a Samarcanda io ti guiderò / non ti fermare, vola ti prego / corri come il vento che mi salverò".
Perché Samarcanda? Non è solo per il valore ritmico ed eufonico del nome della città, ma anche per la sua collocazione che, nel mondo classico, era considera alla fine dell'oikoumene, il mondo conosciuto: solo Alessandro Magno aveva messo piede a Samarcanda, prima di fondare Alessandria Eschate, "la Lontanissima", "l'Estrema").





Ma Samarcanda ha anche un significato cupo e pericoloso: è stata la capitale dell'impero del feroce Tamerlano, Timùr El-Lang, lo Zoppo,  personaggio mitizzato, dopo aver sconfitto gli Ottomani nella Battaglia di Angora (l'odierna Ankara).





Il soldato finalmente vede in lontananza la sua meta, ma la sua gioia dura poco:
 "Fiumi poi campi poi l'alba era viola / bianche le torri che infine toccò / ma c'era sulla porta quella nera signora / stanco di fuggire la sua testa chinò".
Eccolo quindi di fronte al Destino che aveva cercato di evitare con tutte le sue forze, e la Morte arriva persino a deriderlo, quando lui le dice di averla vista guardarlo con malignità tra la gente nella capitale e la Nera Signora risponde, prendendosi gioco di lui: "Ti sbagli, t'inganni, ti sbagli soldato / io non ti guardavo con malignità / era solamente uno sguardo stupito / cosa ci facevi l'altro ieri là / ti aspettavo qui per oggi a Samarcanda / eri lontanissimo due giorni fa / ho temuto che per ascoltar la banda / non facessi in tempo ad arrivare qua".
Il soldato, per fuggire la morte, il Destino, paradossalmente gli era andato incontro>>
Roberto capì fin troppo bene il messaggio, ma non conosceva il finale della canzone:
<<E la morte del soldato viene descritta?>>
Aurora sorrise:
<<NoIl soldato ripensa al suo viaggio e capisce che non è stato inutile, anzi, forse è stata la più bella avventura della sua vita, e ne valeva la pena. 
Samarcanda è la Morte, ma il viaggio per raggiungerla è un'esperienza straordinaria, che alla fine ci sembra breve:
"Non è poi così lontana Samarcanda / corri cavallo corri di là / ho cantato insieme a te tutta la notte / corri come il vento che ci arriverò">>














Fu allora che l'atteggiamento sdegnoso di Roberto nei confronti della cosiddetta "musica leggera" cambiò. Un bravo cantautore poteva veicolare, anche con una canzone orecchiabile, concetti profondi, in una forma esteticamente rigorosa.
In effetti il commento di Aurora, per quanto "di parte" nei confronti del tema del destino, aveva un senso, perché quel viaggio incontro al Fato, "tra i grilli e le cicale", era stato comunque un bel viaggio, e a Roberto venne da pensare che il suo viaggio insieme ad Aurora sarebbe stato così, pericoloso, folle, esiziale, ma sicuramente bellissimo e memorabile, forse l'esperienza più appagante di tutta la sua vita, che avrebbe fatto apparire tutta la sua esistenza successiva, dopo i 40 anni, come "uno scialo di triti fatti", una "opaca trafila delle cose", un "interminabile sopravvivere a se stesso", una specie di film muto, in bianco e nero, un lungo piano sequenza di giorni aggiunti a giorni senza alcuna ragione, se non il tirare avanti a tutti costi, fino a diventare, come tutti i sopravvissuti a grandi esperienze di vita, un vecchio che vive di ricordi, ripensando a un passato trascorso con persone morte da tempo, disprezzando il presente e facendo pochissimo affidamento sul futuro, come Leuconoe "quam minimun credula postero".

Nel frattempo Aurora prese dalla sua borsetta un minuscolo pacchettino quadrato e disse:
<<Questo è per te>>
Roberto, che come tutti i tipi in stile Asperger, temeva le novità, lo prese con un certo timore e poi guardò lei:
<<Non dovevi, non era necessario un regalo...>>
Lei gli intimò:
<<Aprilo>>
Lui obbedì e quando vide il contenuto, per poco non svenne.
Era un anello da uomo con un rubino incastonato.
Sapeva distinguere gli anelli da uomo da quelli da donna perché i Conti di Casemurate si tramandavano il loro anello d'investitura (in pietra di ametista) da innumerevoli generazioni.
<<E' meraviglioso, ma... che significato devo attribuirgli?>>
Aurora sorrise:
<<Mi piace pensare che questo sia l'inizio del nostro fidanzamento>>
Lui rimase di stucco:
<<Ma è l'uomo che deve regalare l'anello!>>
Lei rise:
<<Tra i miei sogni proibiti c'era anche questo. Essere io a fare la proposta, alla quale non è necessario che tu risponda, perché so già che ci sposeremo>>
Roberto la guardò e vide davanti a sé una creatura sovrumana, una dea che lo aveva scelto per ragioni oscure, che andavano oltre l'amore, oltre le tradizioni, oltre alla normalità...
<<Sì, anch'io ti voglio sposare, e sono certo che lo farò. Ma non subito...>>
Lei tornò ad avere un'espressione solenne:
<<Metti al dito questo anello, perché le tue fatiche saranno gravi, e in tutte esso ti sosterrà, preservandoti dalla stanchezza, perché questo è l'Anello del Fuoco, e chissà che non riesca ad accendere il tuo coraggio e la tua speranza, quando un giorno tutto sembrerà spegnersi.
Quanto a me, il mio cuore ti appartiene, e rimarrà in attesa che tu sia pronto, fino all'ultimo dei suoi battiti. Fino a quel giorno, io ti aspetterò>>




Roberto era commosso, e anche se la notte impediva di vedere il suo viso, le sue lacrime solcavano il volto fino alle labbra.
Quelle parole erano la riformulazione di un brano che lui stesso le aveva letto, nell' Appendice B del "Signore degli Anelli", all'inizio della cronologia della Terza Era, dove il sovrano degli elfi sindar, Cirdan il Timoniere, decide di donare uno degli anelli del potere, Narya, l'Anello del Fuoco, uno dei tre concessi ai Re degli Elfi ( gli altri due erano Vilya, l'anello di zaffiro, ereditato da Elrond, signore degli elfi noldor, e Nenya, l'anello di diamante, donato direttamente a Galadriel, regina degli elfi dorati di Lothlorien) a Mithrandir, meglio conosciuto come Gandalf, ma che in origine aveva nome Olorin, quando era un Maiar, uno degli spiriti primordiali al servizio dei Valar, le Potenze di Arda, insignite di questo compito dal supremo Iluvatar. Lo mandavano i Valar, per sostenere i popoli della Terra di Mezzo, perché l'ora dello scontro finale si stava avvicinando.





Il re Cirdan, signore dei Sindar, gli Elfi Grigi, nella sua saggezza, lo riconobbe, e lo accolse con gioia, e dopo aver parlato a lungo con lui, prese una decisione.
Gli donò il proprio anello e la propria promessa di attenderlo, fino a che l'ultima nave degli elfi non fosse partita per l'ovest.
Cirdan fece tutto questo per Gandalf, "poiché sapeva donde egli venisse, e dove infine sarebbe tornato".







venerdì 2 aprile 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 121. Cena in Rosso con sottintesi in Nero.





La sala da pranzo dei Monterovere al piano terra era fresca, ma cupa e del tutto inadatta a una residenza estiva al mare, e questo perché, quando si era trattato di arredarla Francesco e Roberto Monterovere erano riusciti a far prealere la propria idea riguardo all'arredamento, rispetto a quella della padrona di casa, Silvia.
Il marito e il figlio della Signora, che preferivano uno stile antico, optarono innanzi tutto per una massiccia tavola rotonda in legno di quercia rossa, con basamento centrale e un certo numero di sedie, sempre in quercia rossa, con schienale alto, decorato e imbottitura in pelle scura e  decorazioni di tipo celtico (entrambi erano fissati sul fatto che i Monterovere discendevano da un incrocio tra Galli Boi e Longobardi, mentre i Ricci, con i loro capelli color bronzo, fossero discendenti dai Galli Senoni e Lingoni, laddove invece i Lanni e gli Orsini erano Romani ).
A completare il tutto, c'erano tappeti erano rossi e persianiun camino di colore identico a quello dei mobili, un parquet era sempre in legno di quercia rossa, mentre per le pareti si era scelta una carta da parati di un colore rosa decorato a motivi floreali, unica concessione ai gusti della Signora, la quale, pur essendo intestataria della casa, aveva fatto pagare i mobili al marito, dal momento che lei si rifiutava di acquistare "simili orrori neogotici".

Quando finalmente i convitati si sedettero a tavola, alle ore 20.00 dell'1 luglio 1992, nella sala da pranzo al piano terra della "roccaforte Monterovere" a Cervia, i Visconti-Ordelaffi di Bertinoro capirono subito che, al contrario di ciò che ci si sarebbe aspettati da un pasto estivo, in una località di mare, cucinato peraltro da una cuoca napoletana, il menu sembrava quello di un cenone natalizio, o addirittura della Festa americana del Ringraziamento: mancava solo il tacchino arrosto.
Ma la colpa non era della Signora e nemmeno della cuoca. La responsabilità era, come sempre e come tutto, di quella testa matta del figlio Roberto.
Anche su questo, nei giorni precedenti, c'era stata una discussione furibonda tra madre e figlio: la signora Silvia Ricci-Orsini Monterovere voleva infatti una cena "a base di pesce e frutti di mare", pur sapendo benissimo che Roberto detestava il pesce e in generale tutto ciò che veniva sottratto alle acque.
Sarebbe bello poter dire che Roberto, considerato il suo amore per gli animali, fosse vegetariano, ma purtroppo non lo era e non lo sarebbe mai potuto essere, come ogni Celta cresciuto nella Romagna Centrale, era un carnivoro, e in particolare adorava i salumi e gli arrosti, soprattutto di carni rosse, specialmente quelle suine, per quanto ogni volta chiedesse mentalmente perdono al povero animale, la cui specie, peraltro, era ingiustamente diffamata. Che provi, un uomo, a vivere nelle stesse condizioni in cui sono costretti a vivere i maiali, e vediamo quale delle due specie ne esce peggio.
E tuttavia le tradizioni non possono cambiare di punto in bianco, per cui il nostro Roberto il Gallico, anche per quanto riguardava i primi piatti, nei giorni di festa li voleva conditi col ragù di carne, oppure serviti in brodo di pollo.
C'erano millenni di storia: i Celti, le varie tribù dei Galli cisalpini, non erano mai andati via, si erano solo nascosti nelle zone più selvagge. 
In Romagna, i Romani avevano colonizzato le terre lungo la via Emilia e il litorale lungo la via Popilia (l'attuale Adriatica), ma le zone acquitrinose e boschive superstiti erano tra quei due mondi romanizzati erano ancora popolate dai Galli, rimasti pervicacemente fedeli alle loro tradizioni, e la Romagna centrale, pur portando il nome di Romandiola, non era affatto romana e bastava percorrere una decina di chilometri nell'entroterra per capirlo.
Ma ora, a distanza di trent'anni dagli eventi narrati, sia la tradizione gallica che quella romana erano in pericolo: non c'era posto per loro nel regno omologante dello Smartphone, l'Anticristo, la Bestia dell'Apocalisse, il 666.
Lorenzo Monterovere l'aveva previsto, e per questo era arrivato in alto, fino al Consiglio Ristretto.








Torneremo su questo discorso, ma ora è meglio continuare con la narrazione.
Al di sopra di qualsiasi cosa, Roberto adorava la piadina col prosciutto. 
Quello era forse il più grande contributo che la Romagna aveva dato al benessere dell'umanità.
Ne aveva scoperto il gusto precocemente, grazie al fatto che l'altra sua bisnonna di Casemurate, la maestra Clara Torricelli, madre di Ettore Ricci, sapeva fare una piadina straordinaria il cui sapore, a detta di Roberto, toccava i vertici del piacere gastronomico. Altro che caviale e aragoste!
Fortunatamente, Clara Ricci aveva insegnato quell'arte alla signora Rita Albedo, che era la capo-cuoca ai tempi  in cui la Governante era ancora Ida Braghiri, e quando poi Rita divenne la nuova Governante, il testimone passò alle sue tre figlie: Dolores, Consuelo e Soledad.

I nomi spagnoli in realtà erano soprannomi dati loro dal defunto padre, Alfonso Albedo, amalfitano di origine spagnola. Figlio di un diplomatico, si era laureato in giurisprudenza, sperando nella raccomandazione paterna, ma il padre morì precocemente, e il figlio, dopo la laurea non trovò lavoro, e ad essere sinceri, non l'aveva nemmeno cercato. Nel frattempo aveva messo incinta la cameriera, Rita Esposito, originaria di Torre Annunziata. Da uomo d'onore, la sposò, ed in pochi mesi dissipò l'eredità paterna. A quel punto chiese aiuto ad un un lontano parente del ramo spagnolo della famiglia, il ramo nobile, il cui capo era un Duca, un Pari di Spagna, molto ricco e importante, che era,"consigliere d'amministrazione in una importante azienda" di cui però nessuno sapeva niente. 
Il grande filantropo Fernando José Maria Albedo, Duca di Alcazar de Las Altas Torres trovò per Alfonso un posto al vice-consolato di Spagna, a Ravenna. Non era gran che, avrebbe potuto fare molto di più, ma lui garantì che c'erano "interessanti prospettive di carriera".
Alfonso non voleva lasciare la sua terra natia, ma la moglie Rita, che provava grande ammirazione per il "Consigliere Albedo", e aveva parlato con lui molto a lungo, conquistandone la fiducia, convinse il marito a seguire le istruzioni del suo illustre parente spagnolo.




Fu proprio per onorare il Duca di Alcazàr de Las Altas Torres, che gli Albedo, giunti a Ravenna nel 1960, appena in tempo per la nascita della prima figlia, scelsero, di comune accordo col parroco, peraltro molto devoto nei confronti della Beata Vergine Maria, a suggerire che venisse dato alla figlia un nome ispirato al culto mariano, che si prestasse però ad un soprannome spagnolo.
Per la primogenita non c'erano stati problemi: il suo nome di battesimo fu Maria Addolorata, e il suo soprannome, naturalmente, Dolores. Per la seconda, si scelse il più raro nome Maria Consolatrice, al fine di poterla soprannominare Consuelo. Per la terza fu un problema: i diminutivi italiani erano più molto semplici e frequent in italiano, per cui alla fine si decise di puntare direttamente sullo spagnolo, optando per Maria Soledad, in riferimento al culto ispanico della Vergine, che dopo la morte, la Resurrezione e l'Ascensione del Figlio, visse in solitudine, prima di essere Assunta in Cielo. 
E in questo caso Soledad, ossia "solitudine", non fu un soprannome, ma un nome vero e proprio, per quanto non molto allegro.
Ma come mai gli Albedo caddero nuovamente in disgrazia?  E' importante saperlo ai fini della trama futura di questa narrazione. La famiglia si era inserita molto bene nella nuova città, ma dopo una quindicina d'anni Alfonso Albedo, proprio durante un pranzo col Consigliere suo benefattore, si sentì male e morì precocemente come suo padre.
Il Consigliere, considerata la passione di Rita per la cucina e l'eterna devozione che lei provava nei suoi confronti, le trovò lavoro presso una famiglia nobile dell'entroterra, molto potente e generosa. 
Alle figlie sembrava che il Duca di Alcazar de las Altas Torres avrebbe potuto fare molto di più e di meglio per loro, ma ancora una volta, il Consigliere disse: "fidatevi di me, perché il posto dove vi mando, che pure vi sembrerà dimenticato da Dio, è invece, in questo preciso istante, l'Ombelico del Mondo".
Le tre ragazze rimasero perplesse, ma la signora Rita sapeva ormai tutto quello che c'era da sapere, la sua strategia aveva grandi arcate, che procedevano imponenti verso il futuro.
Il Consigliere Albedo si rivolse a un suo carissimo amico, di nome Lorenzo, il quale a sua volta parlò con un membro eminente del clan Ricci-Orsini-Monterovere, e tutto venne risolto per il meglio.
Era il 1976, la vedova Rita Albedo e le sue figlie entrarono con grande soddisfazione nel prestigioso entourage di Villa Orsini.

Rita divenne capo-cuoca, con Dolores come sua vice 
Consuelo ottenne un incarico destinato a conferirle potere e prestigio, come quello che nel tardo impero romano spettava al "preaepositus sacri cubiculi") e cioè cameriera personale, infermiera e dama di compagnia della contessa Diana.
Soledad che aveva appena finito la terza media, divenne una specie di badante delle due anziane vedove che vivevano in quello strano maniero neogotico, la contessa madre Emilia e la sua consuocera, la maestra Clara Ricci, colei che insegnò a tutte loro a fare la piadina meglio di quanto facessero la pizza). 
Per concludere questo inciso, va detto che la contessa Diana si affezionò profondamente alle tre ragazze, in particolar modo a Consuelo, che divenne la sua "longa manus". così come anche "i suoi occhi e le sue orecchie" nelle situazioni in cui Diana non poteva o non voleva essere presente.
Quando poi Ida Braghiri cadde in disgrazia, la signora Rita divenne Governante e le sorelle Albedo si impadronirono immediatamente di Villa Orsini, con la stessa tenacia dell'edera che si appiccica a qualunque cosa e ne assorbe la linfa.
Quella sera a Cervia. la cena era stata preparata da Dolores, e servita da Consuelo, che poi avrebbe riferito tutto alla Contessa, mentre Soledad era rimasta a Villa Orsini per non lasciare Diana da sola in quel cupo maniero. Samuele, figlio di Dolores e di padre ignoto, assisteva come aiuto cameriere.

Sulla tavola c'era una tovaglia color rosa "flamingo", ossia fenicottero rosa, una scelta avvenuta dopo liti feroci tra madre e figlio e una serie di veti incrociati del tipo "rosso no perché non è Natale", "bianco no perché non siamo un ristorante", "scozzese no perché non è autunno", "fiorato no perché non si adatta alla stanza", "colori freddi no perché fanno a pugni con la mobilia", "colori caldi no perché non s'intonano con la carta da parati", "colori pastello no perché non è un matrimonio" "colori scuri no perché non è un funerale", insomma, alla fine si giunse ad un colore che fosse sì rosa come le pareti, ma non freddo e nemmeno pastello. "E flamingo sia!" autorizzò alla fine la Signora, sfinita da quel tira e molla.




I piatti erano tre a testa, uno alto per il primo, uno basso per il secondo e uno piccolo per il dessert, e fin qui tutto molto sobrio, per quanto fossero previste altre portate con altri piatti.
Per quel che riguarda le posate, ovviamente era stata tirata fuori l'argenteria e lucidata in modo scrupoloso. I bicchieri erano tutti, rigorosamente, in cristallo di Boemia.

Non era stato facile scegliere il centrotavola, ma risparmiamo al lettore i dettagli dei veti incrociati e ci limitiamo a dire che alla fine si optò per un alto e sottile cristallo di Murano contenente acqua cristallina e tre rami di Rosa Tudor, che Edmund Spenser, ne "La Signora delle Fate", dichiarò essere "il più nobile dei fiori", nelle varianti Osiria, Nostalgia e Doubled Delight.




I tovaglioli, invece erano di un color rosso rubino, scelta strategica per farli apparire sempre puliti.
Sul tavolo c'erano già i vini, tutti rigorosamente rossi, tanto che nell'immaginario collettivo quella cena sarebbe stata ricordata in eterno come "la Cena in Rosso".
Inutile dire che la Signora e il figlio si scannarono anche su questo aspetto: Roberto ottenne che tutti i vini fossero adatti per essere abbinati a un menu di carne, e quindi rossi sul serio, ma Silvia pose il veto assoluto sul Cabernet Sauvignon, per non ricordare a tutti che nella famiglia, oltre alla tara ereditaria della depressione, c'era anche quella dell'alcolismo della bisnonna Emilia.
Roberto impose con cieca determinazione il Pinot Nero di Borgogna, in memoria, naturalmente, di Filippo I il Bello, Duca di Borgogna e Re di Castiglia, di cui si è parlato fin troppo in precedenza.
La Signora, per non essere da meno, scelse un Merlot rosso di Bordeuax e, come vino da dessert, non potendo optare sui bianchi, risolse brillantemente la questione facendosi procurare, sempre dalla cantina di Villa Orsini, un Brachetto d'Acqui DOCG.

Il visconte Bartolomeo non riuscì a trattenere una battuta:
<<Ma come? Avete snobbato la mia Albana di Bertinoro, che era piaciuta tanto a Galla Placidia!>> ci fu un attimo di gelo, ma subito lui sorrise <<Ah ah, stavo scherzando! Ormai non riesco più a berla, per tutte le volte che ho dovuto controllare se la produzione andava bene!>>
La tensione si sciolse in una risata collettiva.
Non pago della sua ironia da bettola, il Visconte, da berlusconiano barzellettiere ante litteram, infierì di nuovo:
<<Comunque sono tutti vini rossi! Non sarete mica comunisti?>>
Stavolta però tutti erano preparati alle freddure di Bartolomeo Visconti, per cui ci fu una risata ancor più fragorosa.
Poi venne il momento, sempre molto imbarazzante, in cui i commensali devono scegliere il posto a tavola. 
La Signora, che era ormai una raffinata esperta in ricevimenti, grazie al suo celeberrimo Salotto Intellettuale, politicamente trasversale e logisticamente itinerante, preferiva scegliere lei le assegnazioni, onde evitare spiacevoli equivoci. 
Ma stavolta Roberto si oppose, dicendo che sarebbe stata una mancanza di rispetto.
Alla fine, essendo una tavola rotonda, la disposizione era meno formale, e dunque il Visconte, per primo, si accomodò sulla sedia più vicina a lui e la Viscontessa si sedette dalla parte opposta.
Questo era già un messaggio chiaro: marito e moglie preferivano stare alla larga e puntare la propria attenzione su altri commensali.
La Signora capì subito, e si sedette alla destra del Visconte, il quale le sorrise in modo berlusconiano e lanciò su di lei quello che in seguito la stessa Silvia avrebbe definito "uno sguardo libidinoso".
E non c'era di che meravigliarsi, considerata la fama di donnaiolo di Bartolomeo e anche il fatto che Silvia, prima che tutte le disgrazie del mondo la trasformassero in una Dolores ad honorem, era davvero una bella donna, molto somigliante all'attrice Mary McDonnell, con cui condivideva l'aspetto "celtico" (capelli color bronzo e occhi verdi) e anche un'ombra malinconia di fondo, nello sguardo, persino quando sorrideva.
Il lettore si chiederà perché a volte la chiamiamo Silvia e altre volta "la Signora", come se fossero due persone distinte. Ebbene, alla fine di questo capitolo risulterà chiaro il motivo, ma riteniamo giusto anticipare che Silvia era la persona reale, mentre "La Signora" era la maschera, anzi, l'armatura, con cui Silvia cercava di difendersi dagli assalti del mondo intero. 
Aveva dovuto creare quello scudo fin da bambina, per non essere schiacciata da tutte le sofferenze della sua famiglia, ed ora che finalmente si illudeva che la sua famiglia fosse in pace, ecco che arrivavano questi intrusi, a ficcare il naso dappertutto, a usare suo figlio come mezzo per soddisfare sordide ambizioni o piaceri perversi. 
Lei non lo avrebbe permesso, e su questo punto le due identità si saldavano.




Il Professore, accortosi che il Visconte fissava il decolleté di Silvia in maniera troppo esplicita, si sedette tra lei e la Viscontessa.
A quel punto Aurora, d'imperio, fece sedere Roberto tra la viscontessa Antonietta e se stessa, che alla propria destra aveva il padre.
E anche quel rituale da scacchisti si concluse come era ampiamente prevedibile.
Roberto si trovò "beato tra le donne", poiché anche la madre di Aurora era una donna di grande bellezza, e nutriva per lui un affetto e una stima così sinceri da farlo inorgoglire.
E' perché non mi conosce bene. Tutti quelli che mi conoscono bene, prima o poi capiscono che sono un insopportabile misantropo.
Non c'erano antipasti: la cena prevedeva fin troppe calorie da smaltire senza che se ne aggiungessero altre con inutili grissini, salatini, tramezzini e cose simili.
In men che non si dica, arrivò Consuelo con i primi piatti, serviti in via prioritaria agli ospiti.
Il Visconte notò che la cameriera era giovane, bella e con un grande stile, e le lanciò il suo "sguardo libidinoso".
Avrebbe fatto anche apprezzamenti fuori luogo se sua moglie Antonietta non fosse intervenuta per tempo chiedendo:
<<Ma questi sono... insomma è un piatto tipico che da bambina mangiavo spesso...>>
Era stato il Professore a suggerire quel primo:
<<Sono il mio piatto preferito: strozzapreti con panna e spek. Il massimo!>>
Bartolomeo Visconti sorrise di nuovo come Berlusconi prima di raccontare l'ennesima barzelletta:
<<Quindi sei un mangiapreti, dì la verità!>>
Francesco, che attendeva con ansia il suo piatto, si limitò a sorridere:
<<Non mi permetterei mai. Sono, tra l'altro, molto amico di don Sergio, il mio collega di religione, un uomo di grande cultura. E' un sacerdote molto amato. Potrei parlare con lui all'infinito. 
Gli ho persino confessato che io...  insomma, è strano per uno laureato in fisica e matematica, ma io credo nel... come dire... nel soprannaturale...>>
La Signora alzò gli occhi al cielo:
<<Francesco, per favore, non incominciare...>>
Il Visconte invece era interessatissimo:
<<Io voglio sentire! Finisci il discorso, Francesco, mi interessa>>
Il Professore, timoroso dei rimproveri della moglie, ma desideroso di parlare, proseguì:
<<Iniziò tutto come un gioco, ma ero giovane e da giovani si fanno tante sciocchezze. Ero a casa di di mia nonna Eleonora, c'era anche mia zia Anita e... mio fratello Lorenzo...>>
Bartolomeo drizzò le orecchie, seguito dagli altri commensali, tranne Silvia, che non voleva assolutamente svelare segreti di famiglia, specie quelli riguardanti Lorenzo.
Francesco è un ingenuo. Non capisce che il Visconte vuole entrare nelle grazie di Lorenzo, e noi non sappiamo ancora se il Consiglio sia d'accordo.
Era una questione molto seria, c'erano in ballo implicazioni che il Visconte non poteva nemmeno lontanamente immaginare. 
Francesco, però, sembrava non rendersi conto delle implicazioni di ogni minima rivelazione.
<<A un certo punto, Lorenzo propose di fare una seduta spiritica. Voleva evocare lo spirito di Ferdinando Monterovere, mio bisnonno, che morì in circostanze mai chiarite, in un luogo maledetto, perché un tempo vi si compivano riti pagani da parte dei Druidi.




Lo scopo della seduta era proprio quello di chiedere cosa successe realmente. 
Nessuno di noi credeva in queste cose, ma decidemmo di accontentare Lorenzo, più che altro per tirarlo su di morale, perché all'epoca era solo uno studente eccentrico e isolato.
Lorenzo faceva da medium, diceva di essere portato, io lo lasciai fare. 
Vi risparmio il procedimento, l'avrete visto mille volte al cinema. Finalmente arriva il momento delle domande di apertura, del tipo ci sei, come ti chiami eccetera, e insomma... noi avevamo messo, ciascuno, un dito su un dischetto che poteva scivolare sulle varie lettere... è difficile barare con un dito solo sulla plaquette.
Eppure, lo ricordo come se fosse ieri, il dischetto iniziò a muoversi, molto velocemente, con grande forza, ma non rispose sì o no... passò sulle varie lettere e formulò un nome, che per me era privo di senso... "Eclion". 
Ebbi paura e interruppi subito la seduta, ma Lorenzo annuiva, entusiasta... e disse che era il nome di un demone o qualcosa del genere. Detto così sembra una cosa assurda, ma quel dischetto, santo Cielo, quel dischetto... voi non potete immaginare... andava velocissimo e con una forza... una forza...
Ma il momento decisivo avvenne molti anni dopo. 
Stavo raccontando questa storia a mia suocera, e c'era anche la sua governante dell'epoca, Ida Braghiri... quando dissi il nome di quel demone, Eclion, a Ida cadde la tazza di tè dalle mani, una cosa mai accaduta prima, e poi le sfuggì un frase del tipo "allora è vero", o qualcosa di simile. 
E non volle aggiungere altro. 
In seguito, Diana mi disse che le sorelle di Ida avevano fama di essere streghe, e che quel nome, quello stesso nome, era stato fatto dalla maggiore, Elvira, che avrà avuto un centinaio d'anni, e in gioventù era stata l'amante col conte Ippolito, il padre del conte Achille, che raccontò tutto alla famiglia.
 Lo so, è una storia che non sta in piedi, ma io da allora credo che una dimensione soprannaturale esista, anche se non ho mai voluto farmi coinvolgere>>
Il Visconte annuì, mentre masticava con gusto gli strozzapreti:
<<Suo fratello invece ha dedicato molto tempo allo studio dei misteri>>
La Signora, che sapeva bene dove quel ficcanaso voleva arrivare, intervenne:
<<Lorenzo studia le religioni esoteriche, ha scritto dei testi accademici importanti sull'argomento, ma da qui a dire che creda in certe cose... no, io mi rifiuto anche solo di pensarlo>>
La viscontessa Antonietta intervenne:
<<Mio padre mi raccontò che una volta Ida Braghiri gli disse qualcosa, su questo argomento, ma all'epoca anch'io non gli prestai attenzione, però mi pare che abbia fatto il nome...>>
Silvia la bloccò subito:
<<Ida Braghiri ci odia: il suo passatempo preferito è screditarci agli occhi del mondo intero.
Ma non ci riuscirà! Io sono credente, cristiana cattolica apostolica romana, e vado regolarmente a messa, fin da bambina, ci andavo con mia nonna Clara, l'unica vera credente in casa nostra.
Il mio parroco dice che il Male metafisico non esiste, esiste solo il Male morale, e noi, col nostro Libero Arbitrio abbiamo il dovere di opporci ad esso. 
Il Signore sa che scelta faremo, perché è onnisciente e la sua Provvidenza conosce tutto il tempo futuro, ma non interferisce col nostro Libero Arbitrio, se non per mezzo della Grazia... lo spiega anche Dante, con un famoso esempio...
Questo è quello che so. Tutto il resto sono fumisterie assurde!>>

Bartolomeo stava per dire qualcosa a cui pareva tenere molto, quando Consuelo e il nipote arrivarono con il resto dei vituperati strozzapreti.
Roberto ne era goloso quanto il padre, e ci si buttò a pesce.
Aurora, invece, disse:
<<Per me sono troppi>>
Lui si accigliò:
<<Ma se mi hai detto che il tuo metabolismo brucia tutto!>>
Lei sorrise:
<<Be', non proprio tutto. In realtà sto molto attenta alla linea e faccio molto movimento>>
Roberto annuì e disse:
<<Non preoccuparti, i tuoi li finisco io, anche mio padre fa così con mia madre>>
Aurora sorrise, notando che anche Francesco era un mangiatore da competizione.
Silvia, sentendosi chiamata in causa per l'ennesima volta, ne approfittò per sviare il discorso:
<<E' vero, incominciò a farlo prima ancora che fossimo fidanzati. Spero che non ci giudicherete male. Noi siamo persone semplici, alla buona. Mio padre è partito dal nulla ed era un vero Romagnolo, dalla testa ai piedi. E lui ci spiegava, a noi figlie, che nel mondo contadino in modo particolare, la "mangiata" è considerata un rito. E va detto che l'essere grassi era ritenuto un segno di ricchezza, di potere e persino di forza. Per i contadini della generazione di mio padre, dire "sei ingrassato" era un complimento! Pensate a come si sono ribaltate le cose, adesso>>
Ribaltate o meno, i Monterovere, che non avevano mai zappato nemmeno un orticello, pulirono il piatto nel giro di un minuto e subito chiesero il bis a Samuele, che, conoscendoli, l'aveva già preparato.
Padre e figlio immersero la testa nel piatto e non diedero udienza a nessuno.
La Viscontessa doveva ancora arrivare a metà della prima porzione e Aurora aveva mangiato ancor meno.
Silvia era contrariata, le sembrava che stesse andando tutto storto e ne dava la colpa al marito e al figlio:
<<I Monterovere, a differenza dei Ricci-Orsini, hanno uno stomaco che digerirebbe anche i sassi. Se io mangiassi come loro mi verrebbe l'ulcera. 
Ma tu, Aurora, mi sembra che esageri nel senso contrario... per caso gli strozzapreti non ti piacciono?>>
Aurora :
<<Sono buonissimi, davvero, e se potessi li mangerei tutti, ma dopo mi toccherebbe fare un'ora in più di esercizio fisico>>
La Signora parve preoccupata:
<<Ma se anche una volta sgarri, non sarà la fine del mondo>>
A quel punto intervenne Antonietta:
<<Sai, Silvia, la mia Aurora ci tiene davvero alla sua silhouette, è molto rigorosa in questo. 
Ha una grande forza di volontà. E poi fin da bambina è stata abituata ad esercitare il contegno, anche a tavola>>
Silvia annuì sorridendo, ma nella sua testa pensava tutt'altro.
Lei lo chiama "contegno", ma dalle mie parti si chiama "anoressia". 
Roberto aveva già finito nel tempo record, di valore europeo, di 40 secondi netti, anche la seconda porzione, e guardava avidamente il piatto di Aurora, la quale, con un'amorevolezza quasi angelica, scambiò il proprio piatto con quello vuoto del suo ragazzo, e gli scompigliò di nuovo i capelli:
<<Sappi che ti amerò anche quando metterai su la pancia>>
E a quel punto, Consuelo, con una parlata a metà tra il napoletano spagnoleggiante degli Albedo e il romagnolo acquisito come "ius soli", essendo nata a Ravenna, spiazzò tutti dicendo:
<<Uomo de panza, uomo de sostanza, dice sempre mia madre!>>
E questa dichiarazione mise d'accordo tutti.

Samuele roteava attorno alla tavola, come un avvoltoio, in attesa che i piatti si vuotassero, per portarli via.
Silvia annunciò:
<<Abbiamo anche un altro primo. Di solito, nelle "mangiate", viene servito un tris abbondante, ma essendo una cena ci siamo limitati a due primi piatti. Quello che sta per arrivare è uno dei più tipici delle nostre campagne, i cappelletti in brodo. 
Li ha fatti la Rita, con la ricetta di mia nonna Clara Ricci, dovete assolutamente assaggiarli!>>
Antonietta e Aurora non riuscirono a mascherare uno sguardo terrorizzato, mentre il Visconte aveva uno sguardo entusiasta:
<<Ma certo! Faremo onore alla famosa Governante di Villa Orsini>> e poi, rivolto a Francesco, con aria fortemente allusiva, aggiunse: <<Del resto, tuo fratello Lorenzo, sapeva quel che faceva, quando segnalò Rita Albedo alla contessa Diana>>
Seguì un silenzio tombale, con lo sbigottimento in particolare di Consuelo, che a malapena riuscì a tenere la bocca chiusa.
Si trattava, infatti, di un segreto di famiglia, di cui era ammissibile parlare solo tra parenti carnali.
Come al solito, la Signora prese le redini della situazione:
<<Mio cognato sa sempre riconoscere il talento, quando lo vede. Rimase estasiato dalla cucina di Rita, quando fu ospite della famiglia Albedo. Conosceva un loro parente, Fernando, un uomo molto colto e carismatico, che partecipò ad una conferenza in cui Lorenzo presentava uno dei suoi libri. 
Fu una felice e singolare coincidenza e tra loro nacque una grande amicizia>>
E il tono perentorio e asciutto con cui Silvia concluse il discorso fece capire senza ombra di dubbio che su tale argomento si era detto anche troppo.

"Singolare coincidenza, la chiama lei" pensò Roberto, che era stanco di essere tenuto all'oscuro di tutto.
Avrebbe voluto sapere di più, ma c'era sempre questa reticenza, nella sua famiglia, ogni volta che si nominava sia lo zio accademico, sia il misterioso "consigliere Albedo", una figura quasi mitologica, avvolta in un'aura di mistero.
Una volta l'aveva chiesto a Diana e persino lei era rimasta quasi terrorizzata:
<<Roberto, è meglio che tu ne resti fuori. Tu non hai idea...>> e poi si era fermata.
Lui le aveva chiesto:
<<Idea di cosa?>> 
E lei, con un tono che non ammetteva repliche, gli aveva risposto:
<<Di tutto!>>
Ma adesso finalmente incominciava a capire che il Visconte aveva cambiato atteggiamento nei confronti del clan Ricci-Orsini-Monterovere perché aveva capito che i capifamiglia erano in ottimi rapporti con Fernando Albedo, "el Duque de Alcazàr de las Altas Torres".




Ma quei pensieri non lo turbavano più di tanto: il buon cibo e la compagnia di Aurora erano il meglio che potesse desiderare in quel momento.

Con i cappelletti in brodo si ripeté la stessa scena di prima, con i Monterovere impegnatissimi ad ingozzarsi in maniera indecente e la Signora a vergognarsi del marito e del figlio e a chiedersi, come sempre senza risposta, che cosa mai, in un giorno di tanti anni prima, l'avesse spinta a sposare quello strano e vorace elemento della natura.
I Visconti però non erano affatto scandalizzati, anzi, si sentivano in colpa per le misere capacità digestive del proprio stomaco.
<<Fate sapere alla signora Albedo, che i suoi cappelletti sono davvero squisiti>> proclamò il Visconte, come se questo apprezzamento lo rendesse automaticamente benemerito agli occhi dell'ineffabile "consigliere Albedo".
<<La signora Rita adesso è di sopra a riposare. Oggi ci ha dato una mano. Le riferirò il vostro apprezzamento. Ne sarà molto contenta>> rispose la Silvia, e il suo tono e dal suo tono si capivano tre cose: 1) era contrariata dal fatto che Antonietta e Aurora non avessero mangiato quasi niente; 2) che non aveva alcuna intenzione di far incontrare il Visconte con la signora Albedo; 3) che anche questo argomento si chiudeva lì.
Consapevole di questo, il visconte Visconti decise di giocare il suo asso di briscola, ossia la barzelletta del bambino muto:
<<Allora, consentitemi di raccontare una storiella...>>
Stavolta fu la viscontessa a sollevare gli occhi al cielo, ma non osò bloccare il marito.
Anche Aurora pareva imbarazzata, ma cercò di nasconderlo servendo i propri cappelletti a Roberto, mettendogli direttamente in bocca il proprio cucchiaio, in gesto di grande intimità, quasi erotica, che fece arricciare il naso alla Signora.
<<,,,allora c'è questo bambino che non parla dalla nascita. Un giorno, finalmente, dice la sua prima parola: "Nonno". E il nonno muore. E va be', è un puro caso. Poi un giorno dice: "Zio" e lo zio muore. Certo è una singolare coincidenza. Passa altro tempo e poi dire: "Babbo". 
E muore l'idraulico! Ah ah ah!>>
Il Visconte Visconti rise per un minuto intero, e la sua risata contagiò anche Samuele e Consuelo, mentre la Viscontessa accennò un sorrisino di circostanza, il Professore apprezzò la battuta, ma aveva un cappelletto in bocca e rischiò di rimanere soffocato.
Ma il volto della Signora rimase immobile, perché Silvia, a differenza del marito, del figlio e anche di Consuelo Albedo. aveva colto il vero messaggio sottinteso: "
"Una singolare coincidenza." Mi ha rispedito indietro le mie parole. Maledizione! Quell'idiota sa tutto! E dunque è meno idiota di quanto sembri. Ma se intende usare mio figlio per arrivare ad Albedo, gli caverò gli occhi con le mie stesse mani!"

Aurora e Roberto, ignari di tutto, continuavano nel loro rito di "un cappelletto alla volta", come se stessero facendo qualcosa di profondamente sensuale.
In fondo il loro "convegno d'amore" era ben riuscito: Roberto aveva trovato, infatti, un modo elegante per consentire ad Aurora di non acquisire quelle calorie che l'avrebbero costretta alle torture del maledettissimo esercizio fisico!
In quel momento, i sensi di quel ragazzo viziato, erano appagati. 
Quel Principino che si illudeva di essere Filippo il Bello o Dorian Gray soltanto perché aveva mobilitato mezzo mondo per farsi tingere i capelli di biondo scuro, poi riempirli di meches color biondo oro, biondo grano e biondo miele, e infine farseli arricciare con una permanente che neanche i modelli prima di una sfilata si sarebbero sognati.




Credeva di sapere molto, ma in realtà, tra tutti i presenti, era quello che ne sapeva di meno, riguardo al vero argomento attorno a cui quella cena, con vini rossi e sottintesi oscuri, stava ruotando.
Ognuno recitava la sua parte, tranne il Principino, che tutti ritenevano troppo ingenuo, troppo fatuo, troppo giovane per poter essere informato riguardo al punto centrale di un grande disegno, molto più grande di lui.
Si sarebbe almeno dovuto ricordare i versi di Virgilio, nella seconda Egloga:
"O formose puer nimium ne crede colori / alba ligustra cadunt, vaccinia nigra leguntur".
Persino Aurora ne conosceva il significato, e cercava in tutti i modi di preservare la sua bellezza, per quanto alla fine i vizi superassero le buone intenzioni.
E in un certo senso, lei stava anche cercando di trasformare il suo ragazzo in una copia al maschile di se stessa, una specie di gemello, certamente non omozigote, ma comunque, per il momento, più simile ad una fanciulla vestita da uomo, che a un giovane uomo.
Roberto se ne accorgeva, ma in fondo ne era narcisisticamente compiaciuto.
Non si rendeva conto della perdita di credibilità che poteva causare questa eccessiva stravaganza.
Intendiamoci, Aurora era in buona fede con Roberto,  e se taceva su alcune questioni, era solo perché, in fondo, credeva veramente di essere la migliore compagna di vita possibile, per lui.
Se poi suo padre voleva trarne dei vantaggi, erano affari suoi: in fondo il Visconte era sicuramente meno pericoloso del Duca, il misterioso "consigliere Albedo", con il suo grande disegno.








Francesco e Silvia, invece, non erano concordi nemmeno su questo punto: il Professore era possibilista, la Signora non lo era per niente.

Ormai i primi piatti erano finiti.
Samuele, o meglio, Sam, come si faceva chiamare da tutti, aveva sparecchiato con grande solerzia e rapidità.
E non si era perso una parola di tutti i discorsi che erano stati fatti, perché ne conosceva bene le implicazioni: lui era cresciuto a Villa Orsini, e per lui Roberto era come un fratello maggiore.
Sarebbe sbagliato pensare a Sam come ai suoi omonimi che compirono imprese insieme a Frodo Baggins o a Jon Snow, ossia Aegon VI Targaryen.
Sam Albedo era a conoscenza delle trame del Consigliere, per quanto non ne conoscesse i contenuti esoterici, riservati agli Iniziati.
Inoltre si sentiva parte di un clan ancora più allargato, dove gli Albedo e i Visconti-Ordelaffi si sarebbero uniti ai Ricci-Orsini-Monterovere, per infondere alla Dinastia (così la chiamava Sam, sentendosene parte), nuova linfa vitale, sangue fresco, per quanto di eccellente origine.
Avrebbe desiderato anche lui una girlfriend come Aurora, e per questo, quella sera, quando gli avevano detto che si trattava di una cena elegante, ritenne giusto e appropriato indossare una specie di smoking, anche se non ne possedeva uno adatto, per cui in realtà fu più un'accozzaglia tra un nomale abito grigio da giorno e un farfallino nero piuttosto appariscente.
Però era un bellissimo ragazzo, molto simile ad Harry Styles da adolescente, e non era abituato al disprezzo con cui Aurora lo trattava, pur sapendo che anche gli Albedo erano di famiglia illustre.
Certo, lui studiava all'Alberghiero, ma quella era solo una questione di business, c'erano molti affari da gestire, adesso che il clan aveva finalmente conquistato lo "sbocco al mare", quasi come se Cervia fosse Danzica, Kaliningrad (che un tempo portava il glorioso nome di Koenigsberg, la patria di Kant)  o addirittura San Pietroburgo.
Sam comunque sorrideva, e sapeva che un giorno sarebbe diventato il braccio destro di Roberto, ora che i suoi vecchi amici lo avevano tradito.




Dopo aver sparecchiato, Sam chiese se i Signori gradivano un bis dei cappelletti.
Francesco, dopo essere scampato al soffocamento, fu costretto dalla moglie a rinunciare, con il sollievo di tutti, e si poté passare, finalmente, alla seconda portata ufficiale.
Consuelo arrivò con un enorme vassoio pieno di salsicce arrosto e "costolacce di porco alla romagnola".
Sam portò un vassoio altrettanto grande con prosciutto, salame e coppa.
Poi, comparendo per la prima volta, arrivò Dolores Albedo, con un vassoio pieno di piadine:
<<Queste le ho fatte io! Con la ricetta della bisnonna Clara, la madre del povero signor Ettore, che Dio li benedica entrambi!>>
Il Visconte si mise la mano sul cuore e dichiarò compunto:
<<Signora Albedo, giuro di non aver mai mangiato così bene in vita mia! Lo dica anche alla signora Rita, mi raccomando. E naturalmente, mi unisco al ricordo del cavalier Ricci, che per me era come un padre, ed esprimo una lode anche per la sua cara madre, di cui ho avuto l'onore di leggere la famosa "Storia di Casemurate" edita dal Ponte Vecchio>>
Si era imparato il discorso a memoria, e l'aveva provato più volte allo specchio.
Non aveva però messo in conto l'entusiasmo mostrato da Roberto:
<<Davvero ha letto il libro! E' straordinariamente accurato, se consideriamo che la bisnonna Clara era solo un'insegnante elementare. Eppure il testo mostra un rigore storiografico degno di un saggio universitario. Cosa ne pensa riguardo alla teoria sull'origine del nome?>>
Il Visconte divenne rosso, poi viola e per un attimo parve sul punto di collassare:
<<Be' io, ecco, non mi permetterei mai di entrare in un dibattito così, così... voglio dire... insomma...>>

Silvia era furibonda per il mare di balle e scempiaggini dette da quel leccapiedi, che osava perfino servirsi della memoria di Ettore Ricci e della maestra Clara per i suoi squallidi giochetti.
Il cavalier Ricci! Era come un padre! Ma quando mai? E dove diavolo era il Visconte di Bertinoro quando mio padre è stato lapidato nella pubblica piazza? 
E adesso pretende anche di sapere la storia del paese in cui sono nata e cresciuta. 
Ma che ne sa lui di tutto questo? Che ne sa di quanto dolore ci è costato?
Cercò di ricomporsi, nella maschera pubblica della Signora, da tutti rispettata e ammirata.
<<In realtà mia nonna Clara ha semplicemente riportato quello che c'era scritto nelle mappe dell'Archivio Storico di Forlì. Non ha senso, a mio parere, parlare di dibattito, quando tutte le mappe ricordano che il nome iniziale era Casa Murata e si riferiva alla fortezza costruita da Bernardo Orsini, il primo Conte di Casemurate. 




Poi, naturalmente il nome cambiò quando sorse un villaggio attorno alla fortezza e si costruirono le seconde mura, e allora si chiamò il tutto: Case Murate e infine Casemurate. 
Ma sapere questo non ci restituirà quella fortezza e quel villaggio, che furono demoliti dalla barbarie igienista di fine Ottocento. 
Il mio bisnonno Ippolito aveva già trasferito la residenza di famiglia a Villa Orsini, ma l'esproprio e la demolizione della fortezza fu un colpo durissimo, che sta all'origine della sciagurata idea di mio nonno Achille, che spese tutto il suo patrimonio per trasformare la Villa in un Maniero in stile neogotico. 
Potrà sembrare strano, ma alla maestra Clara Ricci quel Maniero piaceva molto, e convinse suo figlio Ettore a corteggiare mia madre, ma questa è storia risaputa, e se n'è parlato fin troppo>>

Tutti avevano ascoltato Silvia con grande attenzione e finalmente erano riusciti a intuire il suo punto di vista, e cioè il sacrificio che non aveva impedito la sconfitta, l'azione distruttrice del tempo.
Dietro alla maschera insondabile della Signora Ricci-Orsini Monterovere c'era un dolore straziante e continuo, l'incubo della Guerra, della Linea Gotica che passava per il Bevano, dei Tedeschi che si pulivano il fondoschiena con il corredo di sua madre, del suicidio di zia Isabella, e poi tutto il resto, una morte dietro l'altra, una tragedia dietro l'altra, uno scandalo dietro l'altro...
"La morte è quel che di giorno in giorno va perduto", ripeteva Silvia a se stessa e lo avrebbe fatto per i successivi trent'anni e ancora e ancora, perché il Male non finiva mai.
E anche ammesso che gli uomini di fede sincera potessero accedere alla vita eterna, chi mai avrebbe ridato loro i luoghi che avevano perduto?
Silvia non voleva il Paradiso, voleva solo pace per la sua famiglia e rispetto per la sua casa e la sua terra. Era chiedere troppo?
Sì, lo era. Nessuno aveva avuto il minimo rispetto per un luogo ritenuto insignificante da chi non ci era nato e cresciuto.
Perché, con tutti i luoghi che c'erano, avevano dovuto costruire proprio lì, dove un tempo sorgevano la fortezza e il villaggio, lo svincolo della superstrada E45, senza nemmeno degnarsi di mettere il nome del luogo distrutto, dove quella mostruosità incrociava la Cervese.
A nessuno passava per l'anticamera del cervello che anche i luoghi hanno un'anima, come le persone!
Cosa significava per loro una colata di cemento dove un tempo c'era una fortezza con un villaggio?
Che cosa importava a loro delle sofferenze e dei sacrifici che erano stati fatti per difendere ciò che restava di quel luogo?
Per loro Casemurate era soltanto l'insignificante nome di un piccolo borgo raso al suolo, sconfitto dalla storia, scomparso dalla memoria, come se non fosse mai esistito. 
Niente, nessuno, in nessun luogo, mai.
Etiam periere ruinae.




Il Visconte, per un attimo, parve sinceramente consapevole di cosa significava quel nome per la figlia di Diana Orsini, la donna che aveva sacrificato se stessa per salvare ciò che restava della memoria di quel luogo.
Per lui non c'era stato bisogno di sacrifici: la rocca di Bertinoro era integra, il borgo medievale perfettamente conservato, l'ambiente era valorizzato, come la coltivazione della vite.
Bertinoro compariva sempre sulle carte georgrafiche, anche le più grossolane: tutti lo ricordavano, a prescindere dalla storiella di Galla Placidia.
Ma chi mai avrebbe ricordato Casemurate? Chi si sarebbe preso la briga di raccontare una storia caduta nell'oblio, per una damnatio memoriae decretata da una società che pare quasi infastidita per il fatto di sorgere su un territorio con alle spalle millenni di storia umana e arte e natura.
<<Prometto>> disse Bartolomeo Visconti <<che consiglierò a tutti la lettura del testo di Clara Ricci>> e la sua faccia contrita parve voler dire "a tutti, compreso me stesso".

Anche Roberto aveva provato un senso di profonda nostalgia, paradossale, dal momento che non aveva mai visto quella fortezza, e non c'era neanche una fotografia, una sola, che la ricordasse.
Sarebbe stato bello poter fare qualcosa per colmare questa mancanza.
Non pretendeva certo di proclamare pomposamente, come Orazio, "exegi monumentum aere perennius", però si sentiva in dovere di fare qualcosa. 
Ma non subito... non subito.
In quel momento le attenzioni con cui Aurora lo vezzeggiava gli facevano perdere la cognizione dello spazio e del tempo.




La verità è che, pur essendo all'oscuro di tanti segreti, tutta quella fortuna gli faceva paura.
Sentiva di non meritarla, di essere debitore, per non si sa quali motivi, nei confronti di uno zio semi-sconosciuto e di un misterioso "consigliere" che si era preso la briga di infiltrare i propri familiari nella casa di sua nonna, per tenere d'occhio la situazione. Ma perché?
Lorenzo, al telefono, era stato sempre evasivo sull'argomento, e aveva rimandato a dopo l'estate un incontro di persona.
E chissà quali cose potevano succedere, in quella Folle Estate da poco iniziata.
Notò con una certa preoccupazione che Aurora, pur mangiando poco, beveva fin troppo vino, e questa sua disinvoltura con gli alcolici avveniva senza che i suoi genitori le facessero segno di moderarsi.
E non pareva affatto ubriaca, come se il suo fisico fosse ormai abituato ad assumere alcol.
In effetti, a pensarci bene, la fortuna di cui non si riteneva degno era forse minore rispetto a ciò che Roberto credeva.
Dietro a quello sguardo sereno, a quel corpo da fata e a quell'aspetto da angelo, si celava una realtà potenzialmente esplosiva.
 Anoressica, alcolista, sadomasochista e mentalmente disturbata.
Fino a quando quella situazione sarebbe potuta durare?
Meglio non farsi troppe domande, non pensare troppo, non rovinare con le preoccupazioni il benessere di quel momento.
La cena era solo a metà, e la serata poteva regalare altre sorprese.
E come un carnivoro sulla preda, si avventò con la forchetta sulle carni arrostite, i salumi e le piadine, 
Sarebbe stato difficile capire, in quel momento, se ci fosse un qualche legame tra il selvaggio Celta delle origini e il Principino viziato alla fine della dinastia.
Ora noi sappiamo di sì, e conosciamo anche le conseguenze di quella duplice natura in un unico corpo.