venerdì 2 aprile 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 121. Cena in Rosso con sottintesi in Nero.





La sala da pranzo dei Monterovere al piano terra era fresca, ma cupa e del tutto inadatta a una residenza estiva al mare, e questo perché, quando si era trattato di arredarla Francesco e Roberto Monterovere erano riusciti a far prealere la propria idea riguardo all'arredamento, rispetto a quella della padrona di casa, Silvia.
Il marito e il figlio della Signora, che preferivano uno stile antico, optarono innanzi tutto per una massiccia tavola rotonda in legno di quercia rossa, con basamento centrale e un certo numero di sedie, sempre in quercia rossa, con schienale alto, decorato e imbottitura in pelle scura e  decorazioni di tipo celtico (entrambi erano fissati sul fatto che i Monterovere discendevano da un incrocio tra Galli Boi e Longobardi, mentre i Ricci, con i loro capelli color bronzo, fossero discendenti dai Galli Senoni e Lingoni, laddove invece i Lanni e gli Orsini erano Romani ).
A completare il tutto, c'erano tappeti erano rossi e persianiun camino di colore identico a quello dei mobili, un parquet era sempre in legno di quercia rossa, mentre per le pareti si era scelta una carta da parati di un colore rosa decorato a motivi floreali, unica concessione ai gusti della Signora, la quale, pur essendo intestataria della casa, aveva fatto pagare i mobili al marito, dal momento che lei si rifiutava di acquistare "simili orrori neogotici".

Quando finalmente i convitati si sedettero a tavola, alle ore 20.00 dell'1 luglio 1992, nella sala da pranzo al piano terra della "roccaforte Monterovere" a Cervia, i Visconti-Ordelaffi di Bertinoro capirono subito che, al contrario di ciò che ci si sarebbe aspettati da un pasto estivo, in una località di mare, cucinato peraltro da una cuoca napoletana, il menu sembrava quello di un cenone natalizio, o addirittura della Festa americana del Ringraziamento: mancava solo il tacchino arrosto.
Ma la colpa non era della Signora e nemmeno della cuoca. La responsabilità era, come sempre e come tutto, di quella testa matta del figlio Roberto.
Anche su questo, nei giorni precedenti, c'era stata una discussione furibonda tra madre e figlio: la signora Silvia Ricci-Orsini Monterovere voleva infatti una cena "a base di pesce e frutti di mare", pur sapendo benissimo che Roberto detestava il pesce e in generale tutto ciò che veniva sottratto alle acque.
Sarebbe bello poter dire che Roberto, considerato il suo amore per gli animali, fosse vegetariano, ma purtroppo non lo era e non lo sarebbe mai potuto essere, come ogni Celta cresciuto nella Romagna Centrale, era un carnivoro, e in particolare adorava i salumi e gli arrosti, soprattutto di carni rosse, specialmente quelle suine, per quanto ogni volta chiedesse mentalmente perdono al povero animale, la cui specie, peraltro, era ingiustamente diffamata. Che provi, un uomo, a vivere nelle stesse condizioni in cui sono costretti a vivere i maiali, e vediamo quale delle due specie ne esce peggio.
E tuttavia le tradizioni non possono cambiare di punto in bianco, per cui il nostro Roberto il Gallico, anche per quanto riguardava i primi piatti, nei giorni di festa li voleva conditi col ragù di carne, oppure serviti in brodo di pollo.
C'erano millenni di storia: i Celti, le varie tribù dei Galli cisalpini, non erano mai andati via, si erano solo nascosti nelle zone più selvagge. 
In Romagna, i Romani avevano colonizzato le terre lungo la via Emilia e il litorale lungo la via Popilia (l'attuale Adriatica), ma le zone acquitrinose e boschive superstiti erano tra quei due mondi romanizzati erano ancora popolate dai Galli, rimasti pervicacemente fedeli alle loro tradizioni, e la Romagna centrale, pur portando il nome di Romandiola, non era affatto romana e bastava percorrere una decina di chilometri nell'entroterra per capirlo.
Ma ora, a distanza di trent'anni dagli eventi narrati, sia la tradizione gallica che quella romana erano in pericolo: non c'era posto per loro nel regno omologante dello Smartphone, l'Anticristo, la Bestia dell'Apocalisse, il 666.
Lorenzo Monterovere l'aveva previsto, e per questo era arrivato in alto, fino al Consiglio Ristretto.








Torneremo su questo discorso, ma ora è meglio continuare con la narrazione.
Al di sopra di qualsiasi cosa, Roberto adorava la piadina col prosciutto. 
Quello era forse il più grande contributo che la Romagna aveva dato al benessere dell'umanità.
Ne aveva scoperto il gusto precocemente, grazie al fatto che l'altra sua bisnonna di Casemurate, la maestra Clara Torricelli, madre di Ettore Ricci, sapeva fare una piadina straordinaria il cui sapore, a detta di Roberto, toccava i vertici del piacere gastronomico. Altro che caviale e aragoste!
Fortunatamente, Clara Ricci aveva insegnato quell'arte alla signora Rita Albedo, che era la capo-cuoca ai tempi  in cui la Governante era ancora Ida Braghiri, e quando poi Rita divenne la nuova Governante, il testimone passò alle sue tre figlie: Dolores, Consuelo e Soledad.

I nomi spagnoli in realtà erano soprannomi dati loro dal defunto padre, Alfonso Albedo, amalfitano di origine spagnola. Figlio di un diplomatico, si era laureato in giurisprudenza, sperando nella raccomandazione paterna, ma il padre morì precocemente, e il figlio, dopo la laurea non trovò lavoro, e ad essere sinceri, non l'aveva nemmeno cercato. Nel frattempo aveva messo incinta la cameriera, Rita Esposito, originaria di Torre Annunziata. Da uomo d'onore, la sposò, ed in pochi mesi dissipò l'eredità paterna. A quel punto chiese aiuto ad un un lontano parente del ramo spagnolo della famiglia, il ramo nobile, il cui capo era un Duca, un Pari di Spagna, molto ricco e importante, che era,"consigliere d'amministrazione in una importante azienda" di cui però nessuno sapeva niente. 
Il grande filantropo Fernando José Maria Albedo, Duca di Alcazar de Las Altas Torres trovò per Alfonso un posto al vice-consolato di Spagna, a Ravenna. Non era gran che, avrebbe potuto fare molto di più, ma lui garantì che c'erano "interessanti prospettive di carriera".
Alfonso non voleva lasciare la sua terra natia, ma la moglie Rita, che provava grande ammirazione per il "Consigliere Albedo", e aveva parlato con lui molto a lungo, conquistandone la fiducia, convinse il marito a seguire le istruzioni del suo illustre parente spagnolo.




Fu proprio per onorare il Duca di Alcazàr de Las Altas Torres, che gli Albedo, giunti a Ravenna nel 1960, appena in tempo per la nascita della prima figlia, scelsero, di comune accordo col parroco, peraltro molto devoto nei confronti della Beata Vergine Maria, a suggerire che venisse dato alla figlia un nome ispirato al culto mariano, che si prestasse però ad un soprannome spagnolo.
Per la primogenita non c'erano stati problemi: il suo nome di battesimo fu Maria Addolorata, e il suo soprannome, naturalmente, Dolores. Per la seconda, si scelse il più raro nome Maria Consolatrice, al fine di poterla soprannominare Consuelo. Per la terza fu un problema: i diminutivi italiani erano più molto semplici e frequent in italiano, per cui alla fine si decise di puntare direttamente sullo spagnolo, optando per Maria Soledad, in riferimento al culto ispanico della Vergine, che dopo la morte, la Resurrezione e l'Ascensione del Figlio, visse in solitudine, prima di essere Assunta in Cielo. 
E in questo caso Soledad, ossia "solitudine", non fu un soprannome, ma un nome vero e proprio, per quanto non molto allegro.
Ma come mai gli Albedo caddero nuovamente in disgrazia?  E' importante saperlo ai fini della trama futura di questa narrazione. La famiglia si era inserita molto bene nella nuova città, ma dopo una quindicina d'anni Alfonso Albedo, proprio durante un pranzo col Consigliere suo benefattore, si sentì male e morì precocemente come suo padre.
Il Consigliere, considerata la passione di Rita per la cucina e l'eterna devozione che lei provava nei suoi confronti, le trovò lavoro presso una famiglia nobile dell'entroterra, molto potente e generosa. 
Alle figlie sembrava che il Duca di Alcazar de las Altas Torres avrebbe potuto fare molto di più e di meglio per loro, ma ancora una volta, il Consigliere disse: "fidatevi di me, perché il posto dove vi mando, che pure vi sembrerà dimenticato da Dio, è invece, in questo preciso istante, l'Ombelico del Mondo".
Le tre ragazze rimasero perplesse, ma la signora Rita sapeva ormai tutto quello che c'era da sapere, la sua strategia aveva grandi arcate, che procedevano imponenti verso il futuro.
Il Consigliere Albedo si rivolse a un suo carissimo amico, di nome Lorenzo, il quale a sua volta parlò con un membro eminente del clan Ricci-Orsini-Monterovere, e tutto venne risolto per il meglio.
Era il 1976, la vedova Rita Albedo e le sue figlie entrarono con grande soddisfazione nel prestigioso entourage di Villa Orsini.

Rita divenne capo-cuoca, con Dolores come sua vice 
Consuelo ottenne un incarico destinato a conferirle potere e prestigio, come quello che nel tardo impero romano spettava al "preaepositus sacri cubiculi") e cioè cameriera personale, infermiera e dama di compagnia della contessa Diana.
Soledad che aveva appena finito la terza media, divenne una specie di badante delle due anziane vedove che vivevano in quello strano maniero neogotico, la contessa madre Emilia e la sua consuocera, la maestra Clara Ricci, colei che insegnò a tutte loro a fare la piadina meglio di quanto facessero la pizza). 
Per concludere questo inciso, va detto che la contessa Diana si affezionò profondamente alle tre ragazze, in particolar modo a Consuelo, che divenne la sua "longa manus". così come anche "i suoi occhi e le sue orecchie" nelle situazioni in cui Diana non poteva o non voleva essere presente.
Quando poi Ida Braghiri cadde in disgrazia, la signora Rita divenne Governante e le sorelle Albedo si impadronirono immediatamente di Villa Orsini, con la stessa tenacia dell'edera che si appiccica a qualunque cosa e ne assorbe la linfa.
Quella sera a Cervia. la cena era stata preparata da Dolores, e servita da Consuelo, che poi avrebbe riferito tutto alla Contessa, mentre Soledad era rimasta a Villa Orsini per non lasciare Diana da sola in quel cupo maniero. Samuele, figlio di Dolores e di padre ignoto, assisteva come aiuto cameriere.

Sulla tavola c'era una tovaglia color rosa "flamingo", ossia fenicottero rosa, una scelta avvenuta dopo liti feroci tra madre e figlio e una serie di veti incrociati del tipo "rosso no perché non è Natale", "bianco no perché non siamo un ristorante", "scozzese no perché non è autunno", "fiorato no perché non si adatta alla stanza", "colori freddi no perché fanno a pugni con la mobilia", "colori caldi no perché non s'intonano con la carta da parati", "colori pastello no perché non è un matrimonio" "colori scuri no perché non è un funerale", insomma, alla fine si giunse ad un colore che fosse sì rosa come le pareti, ma non freddo e nemmeno pastello. "E flamingo sia!" autorizzò alla fine la Signora, sfinita da quel tira e molla.




I piatti erano tre a testa, uno alto per il primo, uno basso per il secondo e uno piccolo per il dessert, e fin qui tutto molto sobrio, per quanto fossero previste altre portate con altri piatti.
Per quel che riguarda le posate, ovviamente era stata tirata fuori l'argenteria e lucidata in modo scrupoloso. I bicchieri erano tutti, rigorosamente, in cristallo di Boemia.

Non era stato facile scegliere il centrotavola, ma risparmiamo al lettore i dettagli dei veti incrociati e ci limitiamo a dire che alla fine si optò per un alto e sottile cristallo di Murano contenente acqua cristallina e tre rami di Rosa Tudor, che Edmund Spenser, ne "La Signora delle Fate", dichiarò essere "il più nobile dei fiori", nelle varianti Osiria, Nostalgia e Doubled Delight.




I tovaglioli, invece erano di un color rosso rubino, scelta strategica per farli apparire sempre puliti.
Sul tavolo c'erano già i vini, tutti rigorosamente rossi, tanto che nell'immaginario collettivo quella cena sarebbe stata ricordata in eterno come "la Cena in Rosso".
Inutile dire che la Signora e il figlio si scannarono anche su questo aspetto: Roberto ottenne che tutti i vini fossero adatti per essere abbinati a un menu di carne, e quindi rossi sul serio, ma Silvia pose il veto assoluto sul Cabernet Sauvignon, per non ricordare a tutti che nella famiglia, oltre alla tara ereditaria della depressione, c'era anche quella dell'alcolismo della bisnonna Emilia.
Roberto impose con cieca determinazione il Pinot Nero di Borgogna, in memoria, naturalmente, di Filippo I il Bello, Duca di Borgogna e Re di Castiglia, di cui si è parlato fin troppo in precedenza.
La Signora, per non essere da meno, scelse un Merlot rosso di Bordeuax e, come vino da dessert, non potendo optare sui bianchi, risolse brillantemente la questione facendosi procurare, sempre dalla cantina di Villa Orsini, un Brachetto d'Acqui DOCG.

Il visconte Bartolomeo non riuscì a trattenere una battuta:
<<Ma come? Avete snobbato la mia Albana di Bertinoro, che era piaciuta tanto a Galla Placidia!>> ci fu un attimo di gelo, ma subito lui sorrise <<Ah ah, stavo scherzando! Ormai non riesco più a berla, per tutte le volte che ho dovuto controllare se la produzione andava bene!>>
La tensione si sciolse in una risata collettiva.
Non pago della sua ironia da bettola, il Visconte, da berlusconiano barzellettiere ante litteram, infierì di nuovo:
<<Comunque sono tutti vini rossi! Non sarete mica comunisti?>>
Stavolta però tutti erano preparati alle freddure di Bartolomeo Visconti, per cui ci fu una risata ancor più fragorosa.
Poi venne il momento, sempre molto imbarazzante, in cui i commensali devono scegliere il posto a tavola. 
La Signora, che era ormai una raffinata esperta in ricevimenti, grazie al suo celeberrimo Salotto Intellettuale, politicamente trasversale e logisticamente itinerante, preferiva scegliere lei le assegnazioni, onde evitare spiacevoli equivoci. 
Ma stavolta Roberto si oppose, dicendo che sarebbe stata una mancanza di rispetto.
Alla fine, essendo una tavola rotonda, la disposizione era meno formale, e dunque il Visconte, per primo, si accomodò sulla sedia più vicina a lui e la Viscontessa si sedette dalla parte opposta.
Questo era già un messaggio chiaro: marito e moglie preferivano stare alla larga e puntare la propria attenzione su altri commensali.
La Signora capì subito, e si sedette alla destra del Visconte, il quale le sorrise in modo berlusconiano e lanciò su di lei quello che in seguito la stessa Silvia avrebbe definito "uno sguardo libidinoso".
E non c'era di che meravigliarsi, considerata la fama di donnaiolo di Bartolomeo e anche il fatto che Silvia, prima che tutte le disgrazie del mondo la trasformassero in una Dolores ad honorem, era davvero una bella donna, molto somigliante all'attrice Mary McDonnell, con cui condivideva l'aspetto "celtico" (capelli color bronzo e occhi verdi) e anche un'ombra malinconia di fondo, nello sguardo, persino quando sorrideva.
Il lettore si chiederà perché a volte la chiamiamo Silvia e altre volta "la Signora", come se fossero due persone distinte. Ebbene, alla fine di questo capitolo risulterà chiaro il motivo, ma riteniamo giusto anticipare che Silvia era la persona reale, mentre "La Signora" era la maschera, anzi, l'armatura, con cui Silvia cercava di difendersi dagli assalti del mondo intero. 
Aveva dovuto creare quello scudo fin da bambina, per non essere schiacciata da tutte le sofferenze della sua famiglia, ed ora che finalmente si illudeva che la sua famiglia fosse in pace, ecco che arrivavano questi intrusi, a ficcare il naso dappertutto, a usare suo figlio come mezzo per soddisfare sordide ambizioni o piaceri perversi. 
Lei non lo avrebbe permesso, e su questo punto le due identità si saldavano.




Il Professore, accortosi che il Visconte fissava il decolleté di Silvia in maniera troppo esplicita, si sedette tra lei e la Viscontessa.
A quel punto Aurora, d'imperio, fece sedere Roberto tra la viscontessa Antonietta e se stessa, che alla propria destra aveva il padre.
E anche quel rituale da scacchisti si concluse come era ampiamente prevedibile.
Roberto si trovò "beato tra le donne", poiché anche la madre di Aurora era una donna di grande bellezza, e nutriva per lui un affetto e una stima così sinceri da farlo inorgoglire.
E' perché non mi conosce bene. Tutti quelli che mi conoscono bene, prima o poi capiscono che sono un insopportabile misantropo.
Non c'erano antipasti: la cena prevedeva fin troppe calorie da smaltire senza che se ne aggiungessero altre con inutili grissini, salatini, tramezzini e cose simili.
In men che non si dica, arrivò Consuelo con i primi piatti, serviti in via prioritaria agli ospiti.
Il Visconte notò che la cameriera era giovane, bella e con un grande stile, e le lanciò il suo "sguardo libidinoso".
Avrebbe fatto anche apprezzamenti fuori luogo se sua moglie Antonietta non fosse intervenuta per tempo chiedendo:
<<Ma questi sono... insomma è un piatto tipico che da bambina mangiavo spesso...>>
Era stato il Professore a suggerire quel primo:
<<Sono il mio piatto preferito: strozzapreti con panna e spek. Il massimo!>>
Bartolomeo Visconti sorrise di nuovo come Berlusconi prima di raccontare l'ennesima barzelletta:
<<Quindi sei un mangiapreti, dì la verità!>>
Francesco, che attendeva con ansia il suo piatto, si limitò a sorridere:
<<Non mi permetterei mai. Sono, tra l'altro, molto amico di don Sergio, il mio collega di religione, un uomo di grande cultura. E' un sacerdote molto amato. Potrei parlare con lui all'infinito. 
Gli ho persino confessato che io...  insomma, è strano per uno laureato in fisica e matematica, ma io credo nel... come dire... nel soprannaturale...>>
La Signora alzò gli occhi al cielo:
<<Francesco, per favore, non incominciare...>>
Il Visconte invece era interessatissimo:
<<Io voglio sentire! Finisci il discorso, Francesco, mi interessa>>
Il Professore, timoroso dei rimproveri della moglie, ma desideroso di parlare, proseguì:
<<Iniziò tutto come un gioco, ma ero giovane e da giovani si fanno tante sciocchezze. Ero a casa di di mia nonna Eleonora, c'era anche mia zia Anita e... mio fratello Lorenzo...>>
Bartolomeo drizzò le orecchie, seguito dagli altri commensali, tranne Silvia, che non voleva assolutamente svelare segreti di famiglia, specie quelli riguardanti Lorenzo.
Francesco è un ingenuo. Non capisce che il Visconte vuole entrare nelle grazie di Lorenzo, e noi non sappiamo ancora se il Consiglio sia d'accordo.
Era una questione molto seria, c'erano in ballo implicazioni che il Visconte non poteva nemmeno lontanamente immaginare. 
Francesco, però, sembrava non rendersi conto delle implicazioni di ogni minima rivelazione.
<<A un certo punto, Lorenzo propose di fare una seduta spiritica. Voleva evocare lo spirito di Ferdinando Monterovere, mio bisnonno, che morì in circostanze mai chiarite, in un luogo maledetto, perché un tempo vi si compivano riti pagani da parte dei Druidi.




Lo scopo della seduta era proprio quello di chiedere cosa successe realmente. 
Nessuno di noi credeva in queste cose, ma decidemmo di accontentare Lorenzo, più che altro per tirarlo su di morale, perché all'epoca era solo uno studente eccentrico e isolato.
Lorenzo faceva da medium, diceva di essere portato, io lo lasciai fare. 
Vi risparmio il procedimento, l'avrete visto mille volte al cinema. Finalmente arriva il momento delle domande di apertura, del tipo ci sei, come ti chiami eccetera, e insomma... noi avevamo messo, ciascuno, un dito su un dischetto che poteva scivolare sulle varie lettere... è difficile barare con un dito solo sulla plaquette.
Eppure, lo ricordo come se fosse ieri, il dischetto iniziò a muoversi, molto velocemente, con grande forza, ma non rispose sì o no... passò sulle varie lettere e formulò un nome, che per me era privo di senso... "Eclion". 
Ebbi paura e interruppi subito la seduta, ma Lorenzo annuiva, entusiasta... e disse che era il nome di un demone o qualcosa del genere. Detto così sembra una cosa assurda, ma quel dischetto, santo Cielo, quel dischetto... voi non potete immaginare... andava velocissimo e con una forza... una forza...
Ma il momento decisivo avvenne molti anni dopo. 
Stavo raccontando questa storia a mia suocera, e c'era anche la sua governante dell'epoca, Ida Braghiri... quando dissi il nome di quel demone, Eclion, a Ida cadde la tazza di tè dalle mani, una cosa mai accaduta prima, e poi le sfuggì un frase del tipo "allora è vero", o qualcosa di simile. 
E non volle aggiungere altro. 
In seguito, Diana mi disse che le sorelle di Ida avevano fama di essere streghe, e che quel nome, quello stesso nome, era stato fatto dalla maggiore, Elvira, che avrà avuto un centinaio d'anni, e in gioventù era stata l'amante col conte Ippolito, il padre del conte Achille, che raccontò tutto alla famiglia.
 Lo so, è una storia che non sta in piedi, ma io da allora credo che una dimensione soprannaturale esista, anche se non ho mai voluto farmi coinvolgere>>
Il Visconte annuì, mentre masticava con gusto gli strozzapreti:
<<Suo fratello invece ha dedicato molto tempo allo studio dei misteri>>
La Signora, che sapeva bene dove quel ficcanaso voleva arrivare, intervenne:
<<Lorenzo studia le religioni esoteriche, ha scritto dei testi accademici importanti sull'argomento, ma da qui a dire che creda in certe cose... no, io mi rifiuto anche solo di pensarlo>>
La viscontessa Antonietta intervenne:
<<Mio padre mi raccontò che una volta Ida Braghiri gli disse qualcosa, su questo argomento, ma all'epoca anch'io non gli prestai attenzione, però mi pare che abbia fatto il nome...>>
Silvia la bloccò subito:
<<Ida Braghiri ci odia: il suo passatempo preferito è screditarci agli occhi del mondo intero.
Ma non ci riuscirà! Io sono credente, cristiana cattolica apostolica romana, e vado regolarmente a messa, fin da bambina, ci andavo con mia nonna Clara, l'unica vera credente in casa nostra.
Il mio parroco dice che il Male metafisico non esiste, esiste solo il Male morale, e noi, col nostro Libero Arbitrio abbiamo il dovere di opporci ad esso. 
Il Signore sa che scelta faremo, perché è onnisciente e la sua Provvidenza conosce tutto il tempo futuro, ma non interferisce col nostro Libero Arbitrio, se non per mezzo della Grazia... lo spiega anche Dante, con un famoso esempio...
Questo è quello che so. Tutto il resto sono fumisterie assurde!>>

Bartolomeo stava per dire qualcosa a cui pareva tenere molto, quando Consuelo e il nipote arrivarono con il resto dei vituperati strozzapreti.
Roberto ne era goloso quanto il padre, e ci si buttò a pesce.
Aurora, invece, disse:
<<Per me sono troppi>>
Lui si accigliò:
<<Ma se mi hai detto che il tuo metabolismo brucia tutto!>>
Lei sorrise:
<<Be', non proprio tutto. In realtà sto molto attenta alla linea e faccio molto movimento>>
Roberto annuì e disse:
<<Non preoccuparti, i tuoi li finisco io, anche mio padre fa così con mia madre>>
Aurora sorrise, notando che anche Francesco era un mangiatore da competizione.
Silvia, sentendosi chiamata in causa per l'ennesima volta, ne approfittò per sviare il discorso:
<<E' vero, incominciò a farlo prima ancora che fossimo fidanzati. Spero che non ci giudicherete male. Noi siamo persone semplici, alla buona. Mio padre è partito dal nulla ed era un vero Romagnolo, dalla testa ai piedi. E lui ci spiegava, a noi figlie, che nel mondo contadino in modo particolare, la "mangiata" è considerata un rito. E va detto che l'essere grassi era ritenuto un segno di ricchezza, di potere e persino di forza. Per i contadini della generazione di mio padre, dire "sei ingrassato" era un complimento! Pensate a come si sono ribaltate le cose, adesso>>
Ribaltate o meno, i Monterovere, che non avevano mai zappato nemmeno un orticello, pulirono il piatto nel giro di un minuto e subito chiesero il bis a Samuele, che, conoscendoli, l'aveva già preparato.
Padre e figlio immersero la testa nel piatto e non diedero udienza a nessuno.
La Viscontessa doveva ancora arrivare a metà della prima porzione e Aurora aveva mangiato ancor meno.
Silvia era contrariata, le sembrava che stesse andando tutto storto e ne dava la colpa al marito e al figlio:
<<I Monterovere, a differenza dei Ricci-Orsini, hanno uno stomaco che digerirebbe anche i sassi. Se io mangiassi come loro mi verrebbe l'ulcera. 
Ma tu, Aurora, mi sembra che esageri nel senso contrario... per caso gli strozzapreti non ti piacciono?>>
Aurora :
<<Sono buonissimi, davvero, e se potessi li mangerei tutti, ma dopo mi toccherebbe fare un'ora in più di esercizio fisico>>
La Signora parve preoccupata:
<<Ma se anche una volta sgarri, non sarà la fine del mondo>>
A quel punto intervenne Antonietta:
<<Sai, Silvia, la mia Aurora ci tiene davvero alla sua silhouette, è molto rigorosa in questo. 
Ha una grande forza di volontà. E poi fin da bambina è stata abituata ad esercitare il contegno, anche a tavola>>
Silvia annuì sorridendo, ma nella sua testa pensava tutt'altro.
Lei lo chiama "contegno", ma dalle mie parti si chiama "anoressia". 
Roberto aveva già finito nel tempo record, di valore europeo, di 40 secondi netti, anche la seconda porzione, e guardava avidamente il piatto di Aurora, la quale, con un'amorevolezza quasi angelica, scambiò il proprio piatto con quello vuoto del suo ragazzo, e gli scompigliò di nuovo i capelli:
<<Sappi che ti amerò anche quando metterai su la pancia>>
E a quel punto, Consuelo, con una parlata a metà tra il napoletano spagnoleggiante degli Albedo e il romagnolo acquisito come "ius soli", essendo nata a Ravenna, spiazzò tutti dicendo:
<<Uomo de panza, uomo de sostanza, dice sempre mia madre!>>
E questa dichiarazione mise d'accordo tutti.

Samuele roteava attorno alla tavola, come un avvoltoio, in attesa che i piatti si vuotassero, per portarli via.
Silvia annunciò:
<<Abbiamo anche un altro primo. Di solito, nelle "mangiate", viene servito un tris abbondante, ma essendo una cena ci siamo limitati a due primi piatti. Quello che sta per arrivare è uno dei più tipici delle nostre campagne, i cappelletti in brodo. 
Li ha fatti la Rita, con la ricetta di mia nonna Clara Ricci, dovete assolutamente assaggiarli!>>
Antonietta e Aurora non riuscirono a mascherare uno sguardo terrorizzato, mentre il Visconte aveva uno sguardo entusiasta:
<<Ma certo! Faremo onore alla famosa Governante di Villa Orsini>> e poi, rivolto a Francesco, con aria fortemente allusiva, aggiunse: <<Del resto, tuo fratello Lorenzo, sapeva quel che faceva, quando segnalò Rita Albedo alla contessa Diana>>
Seguì un silenzio tombale, con lo sbigottimento in particolare di Consuelo, che a malapena riuscì a tenere la bocca chiusa.
Si trattava, infatti, di un segreto di famiglia, di cui era ammissibile parlare solo tra parenti carnali.
Come al solito, la Signora prese le redini della situazione:
<<Mio cognato sa sempre riconoscere il talento, quando lo vede. Rimase estasiato dalla cucina di Rita, quando fu ospite della famiglia Albedo. Conosceva un loro parente, Fernando, un uomo molto colto e carismatico, che partecipò ad una conferenza in cui Lorenzo presentava uno dei suoi libri. 
Fu una felice e singolare coincidenza e tra loro nacque una grande amicizia>>
E il tono perentorio e asciutto con cui Silvia concluse il discorso fece capire senza ombra di dubbio che su tale argomento si era detto anche troppo.

"Singolare coincidenza, la chiama lei" pensò Roberto, che era stanco di essere tenuto all'oscuro di tutto.
Avrebbe voluto sapere di più, ma c'era sempre questa reticenza, nella sua famiglia, ogni volta che si nominava sia lo zio accademico, sia il misterioso "consigliere Albedo", una figura quasi mitologica, avvolta in un'aura di mistero.
Una volta l'aveva chiesto a Diana e persino lei era rimasta quasi terrorizzata:
<<Roberto, è meglio che tu ne resti fuori. Tu non hai idea...>> e poi si era fermata.
Lui le aveva chiesto:
<<Idea di cosa?>> 
E lei, con un tono che non ammetteva repliche, gli aveva risposto:
<<Di tutto!>>
Ma adesso finalmente incominciava a capire che il Visconte aveva cambiato atteggiamento nei confronti del clan Ricci-Orsini-Monterovere perché aveva capito che i capifamiglia erano in ottimi rapporti con Fernando Albedo, "el Duque de Alcazàr de las Altas Torres".




Ma quei pensieri non lo turbavano più di tanto: il buon cibo e la compagnia di Aurora erano il meglio che potesse desiderare in quel momento.

Con i cappelletti in brodo si ripeté la stessa scena di prima, con i Monterovere impegnatissimi ad ingozzarsi in maniera indecente e la Signora a vergognarsi del marito e del figlio e a chiedersi, come sempre senza risposta, che cosa mai, in un giorno di tanti anni prima, l'avesse spinta a sposare quello strano e vorace elemento della natura.
I Visconti però non erano affatto scandalizzati, anzi, si sentivano in colpa per le misere capacità digestive del proprio stomaco.
<<Fate sapere alla signora Albedo, che i suoi cappelletti sono davvero squisiti>> proclamò il Visconte, come se questo apprezzamento lo rendesse automaticamente benemerito agli occhi dell'ineffabile "consigliere Albedo".
<<La signora Rita adesso è di sopra a riposare. Oggi ci ha dato una mano. Le riferirò il vostro apprezzamento. Ne sarà molto contenta>> rispose la Silvia, e il suo tono e dal suo tono si capivano tre cose: 1) era contrariata dal fatto che Antonietta e Aurora non avessero mangiato quasi niente; 2) che non aveva alcuna intenzione di far incontrare il Visconte con la signora Albedo; 3) che anche questo argomento si chiudeva lì.
Consapevole di questo, il visconte Visconti decise di giocare il suo asso di briscola, ossia la barzelletta del bambino muto:
<<Allora, consentitemi di raccontare una storiella...>>
Stavolta fu la viscontessa a sollevare gli occhi al cielo, ma non osò bloccare il marito.
Anche Aurora pareva imbarazzata, ma cercò di nasconderlo servendo i propri cappelletti a Roberto, mettendogli direttamente in bocca il proprio cucchiaio, in gesto di grande intimità, quasi erotica, che fece arricciare il naso alla Signora.
<<,,,allora c'è questo bambino che non parla dalla nascita. Un giorno, finalmente, dice la sua prima parola: "Nonno". E il nonno muore. E va be', è un puro caso. Poi un giorno dice: "Zio" e lo zio muore. Certo è una singolare coincidenza. Passa altro tempo e poi dire: "Babbo". 
E muore l'idraulico! Ah ah ah!>>
Il Visconte Visconti rise per un minuto intero, e la sua risata contagiò anche Samuele e Consuelo, mentre la Viscontessa accennò un sorrisino di circostanza, il Professore apprezzò la battuta, ma aveva un cappelletto in bocca e rischiò di rimanere soffocato.
Ma il volto della Signora rimase immobile, perché Silvia, a differenza del marito, del figlio e anche di Consuelo Albedo. aveva colto il vero messaggio sottinteso: "
"Una singolare coincidenza." Mi ha rispedito indietro le mie parole. Maledizione! Quell'idiota sa tutto! E dunque è meno idiota di quanto sembri. Ma se intende usare mio figlio per arrivare ad Albedo, gli caverò gli occhi con le mie stesse mani!"

Aurora e Roberto, ignari di tutto, continuavano nel loro rito di "un cappelletto alla volta", come se stessero facendo qualcosa di profondamente sensuale.
In fondo il loro "convegno d'amore" era ben riuscito: Roberto aveva trovato, infatti, un modo elegante per consentire ad Aurora di non acquisire quelle calorie che l'avrebbero costretta alle torture del maledettissimo esercizio fisico!
In quel momento, i sensi di quel ragazzo viziato, erano appagati. 
Quel Principino che si illudeva di essere Filippo il Bello o Dorian Gray soltanto perché aveva mobilitato mezzo mondo per farsi tingere i capelli di biondo scuro, poi riempirli di meches color biondo oro, biondo grano e biondo miele, e infine farseli arricciare con una permanente che neanche i modelli prima di una sfilata si sarebbero sognati.




Credeva di sapere molto, ma in realtà, tra tutti i presenti, era quello che ne sapeva di meno, riguardo al vero argomento attorno a cui quella cena, con vini rossi e sottintesi oscuri, stava ruotando.
Ognuno recitava la sua parte, tranne il Principino, che tutti ritenevano troppo ingenuo, troppo fatuo, troppo giovane per poter essere informato riguardo al punto centrale di un grande disegno, molto più grande di lui.
Si sarebbe almeno dovuto ricordare i versi di Virgilio, nella seconda Egloga:
"O formose puer nimium ne crede colori / alba ligustra cadunt, vaccinia nigra leguntur".
Persino Aurora ne conosceva il significato, e cercava in tutti i modi di preservare la sua bellezza, per quanto alla fine i vizi superassero le buone intenzioni.
E in un certo senso, lei stava anche cercando di trasformare il suo ragazzo in una copia al maschile di se stessa, una specie di gemello, certamente non omozigote, ma comunque, per il momento, più simile ad una fanciulla vestita da uomo, che a un giovane uomo.
Roberto se ne accorgeva, ma in fondo ne era narcisisticamente compiaciuto.
Non si rendeva conto della perdita di credibilità che poteva causare questa eccessiva stravaganza.
Intendiamoci, Aurora era in buona fede con Roberto,  e se taceva su alcune questioni, era solo perché, in fondo, credeva veramente di essere la migliore compagna di vita possibile, per lui.
Se poi suo padre voleva trarne dei vantaggi, erano affari suoi: in fondo il Visconte era sicuramente meno pericoloso del Duca, il misterioso "consigliere Albedo", con il suo grande disegno.








Francesco e Silvia, invece, non erano concordi nemmeno su questo punto: il Professore era possibilista, la Signora non lo era per niente.

Ormai i primi piatti erano finiti.
Samuele, o meglio, Sam, come si faceva chiamare da tutti, aveva sparecchiato con grande solerzia e rapidità.
E non si era perso una parola di tutti i discorsi che erano stati fatti, perché ne conosceva bene le implicazioni: lui era cresciuto a Villa Orsini, e per lui Roberto era come un fratello maggiore.
Sarebbe sbagliato pensare a Sam come ai suoi omonimi che compirono imprese insieme a Frodo Baggins o a Jon Snow, ossia Aegon VI Targaryen.
Sam Albedo era a conoscenza delle trame del Consigliere, per quanto non ne conoscesse i contenuti esoterici, riservati agli Iniziati.
Inoltre si sentiva parte di un clan ancora più allargato, dove gli Albedo e i Visconti-Ordelaffi si sarebbero uniti ai Ricci-Orsini-Monterovere, per infondere alla Dinastia (così la chiamava Sam, sentendosene parte), nuova linfa vitale, sangue fresco, per quanto di eccellente origine.
Avrebbe desiderato anche lui una girlfriend come Aurora, e per questo, quella sera, quando gli avevano detto che si trattava di una cena elegante, ritenne giusto e appropriato indossare una specie di smoking, anche se non ne possedeva uno adatto, per cui in realtà fu più un'accozzaglia tra un nomale abito grigio da giorno e un farfallino nero piuttosto appariscente.
Però era un bellissimo ragazzo, molto simile ad Harry Styles da adolescente, e non era abituato al disprezzo con cui Aurora lo trattava, pur sapendo che anche gli Albedo erano di famiglia illustre.
Certo, lui studiava all'Alberghiero, ma quella era solo una questione di business, c'erano molti affari da gestire, adesso che il clan aveva finalmente conquistato lo "sbocco al mare", quasi come se Cervia fosse Danzica, Kaliningrad (che un tempo portava il glorioso nome di Koenigsberg, la patria di Kant)  o addirittura San Pietroburgo.
Sam comunque sorrideva, e sapeva che un giorno sarebbe diventato il braccio destro di Roberto, ora che i suoi vecchi amici lo avevano tradito.




Dopo aver sparecchiato, Sam chiese se i Signori gradivano un bis dei cappelletti.
Francesco, dopo essere scampato al soffocamento, fu costretto dalla moglie a rinunciare, con il sollievo di tutti, e si poté passare, finalmente, alla seconda portata ufficiale.
Consuelo arrivò con un enorme vassoio pieno di salsicce arrosto e "costolacce di porco alla romagnola".
Sam portò un vassoio altrettanto grande con prosciutto, salame e coppa.
Poi, comparendo per la prima volta, arrivò Dolores Albedo, con un vassoio pieno di piadine:
<<Queste le ho fatte io! Con la ricetta della bisnonna Clara, la madre del povero signor Ettore, che Dio li benedica entrambi!>>
Il Visconte si mise la mano sul cuore e dichiarò compunto:
<<Signora Albedo, giuro di non aver mai mangiato così bene in vita mia! Lo dica anche alla signora Rita, mi raccomando. E naturalmente, mi unisco al ricordo del cavalier Ricci, che per me era come un padre, ed esprimo una lode anche per la sua cara madre, di cui ho avuto l'onore di leggere la famosa "Storia di Casemurate" edita dal Ponte Vecchio>>
Si era imparato il discorso a memoria, e l'aveva provato più volte allo specchio.
Non aveva però messo in conto l'entusiasmo mostrato da Roberto:
<<Davvero ha letto il libro! E' straordinariamente accurato, se consideriamo che la bisnonna Clara era solo un'insegnante elementare. Eppure il testo mostra un rigore storiografico degno di un saggio universitario. Cosa ne pensa riguardo alla teoria sull'origine del nome?>>
Il Visconte divenne rosso, poi viola e per un attimo parve sul punto di collassare:
<<Be' io, ecco, non mi permetterei mai di entrare in un dibattito così, così... voglio dire... insomma...>>

Silvia era furibonda per il mare di balle e scempiaggini dette da quel leccapiedi, che osava perfino servirsi della memoria di Ettore Ricci e della maestra Clara per i suoi squallidi giochetti.
Il cavalier Ricci! Era come un padre! Ma quando mai? E dove diavolo era il Visconte di Bertinoro quando mio padre è stato lapidato nella pubblica piazza? 
E adesso pretende anche di sapere la storia del paese in cui sono nata e cresciuta. 
Ma che ne sa lui di tutto questo? Che ne sa di quanto dolore ci è costato?
Cercò di ricomporsi, nella maschera pubblica della Signora, da tutti rispettata e ammirata.
<<In realtà mia nonna Clara ha semplicemente riportato quello che c'era scritto nelle mappe dell'Archivio Storico di Forlì. Non ha senso, a mio parere, parlare di dibattito, quando tutte le mappe ricordano che il nome iniziale era Casa Murata e si riferiva alla fortezza costruita da Bernardo Orsini, il primo Conte di Casemurate. 




Poi, naturalmente il nome cambiò quando sorse un villaggio attorno alla fortezza e si costruirono le seconde mura, e allora si chiamò il tutto: Case Murate e infine Casemurate. 
Ma sapere questo non ci restituirà quella fortezza e quel villaggio, che furono demoliti dalla barbarie igienista di fine Ottocento. 
Il mio bisnonno Ippolito aveva già trasferito la residenza di famiglia a Villa Orsini, ma l'esproprio e la demolizione della fortezza fu un colpo durissimo, che sta all'origine della sciagurata idea di mio nonno Achille, che spese tutto il suo patrimonio per trasformare la Villa in un Maniero in stile neogotico. 
Potrà sembrare strano, ma alla maestra Clara Ricci quel Maniero piaceva molto, e convinse suo figlio Ettore a corteggiare mia madre, ma questa è storia risaputa, e se n'è parlato fin troppo>>

Tutti avevano ascoltato Silvia con grande attenzione e finalmente erano riusciti a intuire il suo punto di vista, e cioè il sacrificio che non aveva impedito la sconfitta, l'azione distruttrice del tempo.
Dietro alla maschera insondabile della Signora Ricci-Orsini Monterovere c'era un dolore straziante e continuo, l'incubo della Guerra, della Linea Gotica che passava per il Bevano, dei Tedeschi che si pulivano il fondoschiena con il corredo di sua madre, del suicidio di zia Isabella, e poi tutto il resto, una morte dietro l'altra, una tragedia dietro l'altra, uno scandalo dietro l'altro...
"La morte è quel che di giorno in giorno va perduto", ripeteva Silvia a se stessa e lo avrebbe fatto per i successivi trent'anni e ancora e ancora, perché il Male non finiva mai.
E anche ammesso che gli uomini di fede sincera potessero accedere alla vita eterna, chi mai avrebbe ridato loro i luoghi che avevano perduto?
Silvia non voleva il Paradiso, voleva solo pace per la sua famiglia e rispetto per la sua casa e la sua terra. Era chiedere troppo?
Sì, lo era. Nessuno aveva avuto il minimo rispetto per un luogo ritenuto insignificante da chi non ci era nato e cresciuto.
Perché, con tutti i luoghi che c'erano, avevano dovuto costruire proprio lì, dove un tempo sorgevano la fortezza e il villaggio, lo svincolo della superstrada E45, senza nemmeno degnarsi di mettere il nome del luogo distrutto, dove quella mostruosità incrociava la Cervese.
A nessuno passava per l'anticamera del cervello che anche i luoghi hanno un'anima, come le persone!
Cosa significava per loro una colata di cemento dove un tempo c'era una fortezza con un villaggio?
Che cosa importava a loro delle sofferenze e dei sacrifici che erano stati fatti per difendere ciò che restava di quel luogo?
Per loro Casemurate era soltanto l'insignificante nome di un piccolo borgo raso al suolo, sconfitto dalla storia, scomparso dalla memoria, come se non fosse mai esistito. 
Niente, nessuno, in nessun luogo, mai.
Etiam periere ruinae.




Il Visconte, per un attimo, parve sinceramente consapevole di cosa significava quel nome per la figlia di Diana Orsini, la donna che aveva sacrificato se stessa per salvare ciò che restava della memoria di quel luogo.
Per lui non c'era stato bisogno di sacrifici: la rocca di Bertinoro era integra, il borgo medievale perfettamente conservato, l'ambiente era valorizzato, come la coltivazione della vite.
Bertinoro compariva sempre sulle carte georgrafiche, anche le più grossolane: tutti lo ricordavano, a prescindere dalla storiella di Galla Placidia.
Ma chi mai avrebbe ricordato Casemurate? Chi si sarebbe preso la briga di raccontare una storia caduta nell'oblio, per una damnatio memoriae decretata da una società che pare quasi infastidita per il fatto di sorgere su un territorio con alle spalle millenni di storia umana e arte e natura.
<<Prometto>> disse Bartolomeo Visconti <<che consiglierò a tutti la lettura del testo di Clara Ricci>> e la sua faccia contrita parve voler dire "a tutti, compreso me stesso".

Anche Roberto aveva provato un senso di profonda nostalgia, paradossale, dal momento che non aveva mai visto quella fortezza, e non c'era neanche una fotografia, una sola, che la ricordasse.
Sarebbe stato bello poter fare qualcosa per colmare questa mancanza.
Non pretendeva certo di proclamare pomposamente, come Orazio, "exegi monumentum aere perennius", però si sentiva in dovere di fare qualcosa. 
Ma non subito... non subito.
In quel momento le attenzioni con cui Aurora lo vezzeggiava gli facevano perdere la cognizione dello spazio e del tempo.




La verità è che, pur essendo all'oscuro di tanti segreti, tutta quella fortuna gli faceva paura.
Sentiva di non meritarla, di essere debitore, per non si sa quali motivi, nei confronti di uno zio semi-sconosciuto e di un misterioso "consigliere" che si era preso la briga di infiltrare i propri familiari nella casa di sua nonna, per tenere d'occhio la situazione. Ma perché?
Lorenzo, al telefono, era stato sempre evasivo sull'argomento, e aveva rimandato a dopo l'estate un incontro di persona.
E chissà quali cose potevano succedere, in quella Folle Estate da poco iniziata.
Notò con una certa preoccupazione che Aurora, pur mangiando poco, beveva fin troppo vino, e questa sua disinvoltura con gli alcolici avveniva senza che i suoi genitori le facessero segno di moderarsi.
E non pareva affatto ubriaca, come se il suo fisico fosse ormai abituato ad assumere alcol.
In effetti, a pensarci bene, la fortuna di cui non si riteneva degno era forse minore rispetto a ciò che Roberto credeva.
Dietro a quello sguardo sereno, a quel corpo da fata e a quell'aspetto da angelo, si celava una realtà potenzialmente esplosiva.
 Anoressica, alcolista, sadomasochista e mentalmente disturbata.
Fino a quando quella situazione sarebbe potuta durare?
Meglio non farsi troppe domande, non pensare troppo, non rovinare con le preoccupazioni il benessere di quel momento.
La cena era solo a metà, e la serata poteva regalare altre sorprese.
E come un carnivoro sulla preda, si avventò con la forchetta sulle carni arrostite, i salumi e le piadine, 
Sarebbe stato difficile capire, in quel momento, se ci fosse un qualche legame tra il selvaggio Celta delle origini e il Principino viziato alla fine della dinastia.
Ora noi sappiamo di sì, e conosciamo anche le conseguenze di quella duplice natura in un unico corpo.








lunedì 29 marzo 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 120. Amore e Gloria


La vetrata sovrastante, che si trova nella cattedrale di Bruges, è un dittico che ritrae, presumibilmente, la duchessa Maria di Borgogna e il suo sposo, Massimiliano d'Asburgo, all'epoca Arciduca d'Austria.
Secondo altre fonti i due personaggi ritratti sarebbero invece Giovanna di Castiglia, all'epoca Principessa delle Asturie e di Girona, ossia erede al trono di Spagna e Filippo il Bello, Duca di Borgogna e figlio di Massimiliano e Maria.

Per quanto entrambi i matrimoni fossero sorti da esigenze politiche e dinastiche, tanto da creare, in sole tre generazioni, uno degli imperi più grandi della storia.  furono anche matrimoni d'amore e di passione, su cui le generazioni successive hanno favoleggiato per secoli.
Gli ingredienti, del resto, c'erano tutti:
Amore e gloria, nello stesso tempo, ma anche tragedia, come richiede la letteratura, 
E' un concetto che merita attenzione: le storie d'amore felici non interessano a nessuno, i lettori vogliono che gli amanti soffrano, e paghino di persona la loro felicità. 
La storia può finir bene o finir male: l'importante è che ci sia una buona dose di sofferenza, perché la felicità altrui, come del resto la fortuna altrui è noiosa e spesso suscita un sentimento di invidia che mette a disagio il lettore.
E allora eccogli servita l'azione complicante, o la tragedia finale, se proprio i personaggi hanno avuto in precedenza troppa fortuna.
Un perfetto esempio di tutto ciò è la tragedia con cui sia i primi che gli ultimi Asburgo scontarono l'amore e la gloria dei loro fortunati matrimoni.

Maria di Borgogna morì giovane per una caduta da cavallo, suo figlio Filippo morì altrettanto giovane in circostanze mai del tutto chiarite e Giovanna, per il resto della sua lunga esistenza, visse reclusa nella fortezza di Tordesillas, con la fama, mai dimostrata, di essere impazzita di dolore dopo la morte del bellissimo marito.

Questo incipit ci serve come introduzione di una delle tante stranezze partorite dalla mente disturbata di Roberto Monterovere. 
Per quanto, nonostante la sua vanità e il suo desiderio d'amore e gloria, Roberto fosse ben consapevole del fatto che il clan Ricci-Orsini-Monterovere non era la Casa d'Austria e Borgogna, e il clan Visconti-Ordelaffi non era la Casa di Castiglia e Aragona, nella sua sfrenata immaginazione era sorto un ridicolo parallelismo tra la propria vicenda di amore e gloria e quella dei citati principi del Sangue Reale, con i loro matrimoni dinastici che furono anche matrimoni d'amore.
A queste riflessioni dedicheremo un certo spazio, prima di tornare, verso la fine del capitolo, alla narrazione vera e propria. Ma noi crediamo che questi pensieri servano per meglio capire il resto.
Qui sotto potete, intanto, ammirare lo stemma di Massimiliano I quando divenne Imperatore: l'aquila nera bicipite del Sacro Romano Impero e il blasone della Casa d'Austria e Borgogna.


Ora dovete sapere che il nostro Roberto Monterovere, nella sua follia d'amore e di ambizione, aveva incominciato a sentirsi come un epigono di Massimiliano o di Filippo, e tutta la sua cultura araldica e la sua ossessione per gli stemmi, gli alberi genealogici, e i ritratti dei principi e delle principesse delle case reali, lo avevano indotto, con un atto di hybris che oscillava tra la tracotanza e l'assurdità, a scegliere Filippo come modello di riferimento per tutto, tranne che per la morte precoce.

Può essere che, trent'anni fa, data l'età adolescente, avessero forse qualche tratto comune.
A diciassette anni, Roberto Monterovere, oltre alla folta e lunga capigliatura, (che avrebbe conservato nel tempo, salvo alcuni intervalli dovuti alle fidanzate di turno), aveva la pelle chiarissima e glabra, i connotati dolci ancora infantili, tra cui le labbra piene e le cartilagini del naso ancora non troppo pronunciate, e soprattutto una costante espressione un po' blasé, che con una certa generosità e una buona dosa di piaggeria, i sudditi di Filippo I giudicarono sufficienti per chiamarlo "il Bello", "le Beau" o "el Hermoso".  Adesso diremmo "the Handsome".



Filippo, Duca di Borgogna, delle Fiandre, del Brabante e del Lussemburgo, fin dalla nascita, fu allevato dalla nonna Margherita di York, sorella di Edoardo IV e di Riccardo III, scampata alla disfatta yorkista nella Guerra delle Due Rose, sposando Carlo il Temerario.
Il bel Filippo era francofono, e pur essendo un Asburgo, e quindi appartenente anche alla Casa d'Austria, si sentiva più che altro erede della Casa di Borgogna, e non ricoprì mai, come erroneamente alcune fonti sostengono, il titolo di Arciduca d'Austria, che rimase a suo padre Massimiliano anche dopo la sua ascesa al trono imperiale e fu poi ereditato dal secondogenito di Filippo e Giovanna, ossia Ferdinando I, il capostipite del Ramo Austriaco della dinastia.
Ciononostante esistono ritratti di lui, bambino, circondato dagli stemmi delle varie regioni austriache.




Il suo stemma personale come Duca di Borgogna, però, poneva al centro il Leone Nero delle Fiandre, su campo dorato, perché era lì, nel ricco porto di Bruges, il baricentro dei suoi possedimenti, più prestigioso persino del Leone d'Oro su campo nero, stemma del Brabante. 
Bruxelles era un vescovato autonomo, e il Vescovo, primo consigliere del Duca era de facto il governatore di tutto il Ducato.


Tornando al discorso di Roberto e ai suoi deliri di parallelismo, c'era anche il fatto che Filippo era nato negli Anni Settanta, sì, ma del Quattrocento!
Ma questo era un dettaglio trascurabile, di fronte alle altre "sconvolgenti" coincidenze.
La sua amata Giovanna era quasi sua coetanea (più giovane di un solo anno) e si sposarono giovanissimi, a diciott'anni, (che però era la norma, all'epoca). 


Come è noto una serie di lutti, ultimo dei quali la precoce morte della regina Isabella, portò, nel giro di un tempo molto breve, Giovanna, sul trono di Castiglia come Regina regnante suo iure.




Filippo divenne dunque Re consorte di Castiglia, per quanto Giovanna, innamoratissima di lui e costantemente indisposta a causa di una gravidanza dietro l'altra (la coppia ebbe sei figli), lasciò di fatto al marito il governo del Regno, cosa che infastidì Ferdinando d'Aragona e il solerte cardinale Cisneros. 
Qualcuno aveva messo in giro la voce che Filippo e Giovanna volessero depotenziare la Santa Inquisizione. Due anni dopo Giovanna elevò Filippo al rango di Re regnante.





Regnarono insieme solo due anni, dal 1504 al 1506, dopodiché la morte improvvisa di Filippo, a soli 28 anni, le causò una profondissima depressione, che all'epoca era considerata una forma di pazzia.
Le fazioni si divisero, i Castigliani volevano Giovanna, ma Cisneros e gli Aragonesi, citando il testamento di Isabella, richiedevano la reggenza del padre Ferdinando nel caso la Regina non godesse di buona salute. Furono messe in giro leggende nere e macabre, specie riguardo a certi dettagli del corteo funebre, che era diretto a Cordova, perché lì era stata sepolta anche la regina Isabella.
La differenza, però, fu che quando il feretro di Isabella fu trasportato da Medina del Campo a Cordova, nessuno aveva protestato per la lunghezza del tragitto, non c'era stato bisogno (essendo novembre) di camminare di notte per conservare l'integrità della salma, né che ad ogni tappa, la suddetta salma dovesse essere tenuta al fresco. Ma quando Giovanna fu costretta a viaggiare di notte, essendo solo settembre e ancora molto caldo, Cisneros e i suoi sostenitori, tra cui Germaine de Foix, seconda moglie di Ferdinando, ebbero buon gioco a dire che la Regina era impazzita.

Diana Orsini era ossessionata da questa storia e dal personaggio di "Giovanna la Pazza", Juana la Loca, forse perché, soffrendo di depressione, temeva di fare la sua stessa fine, ma grazie il Cielo i tempi erano cambiati.
Aveva raccontato mille volte quella storia a suo nipote Roberto, il quale ne conosceva infiniti dettagli e particolari e aveva cercato di separare le leggende nere dalla più verosimile ricostruzione storica moderna.

E qui veniva la fase in cui, secondo Roberto, i "parallelismi" tra lui e Filippo il Bello, dovevano assolutamente finire.
Per dirla con Virgilio, e con i versi che commossero Augusto, Ottavia e Giulia alla morte di Marcello, l'erede designato, heu miserande puer, si qua fata aspera rumpas, tu Marcellus eris (Aen. VI, 884).

Roberto, che come sappiamo amava l'araldica, era affascinato dagli stemmi reali di Filippo e Giovanna, il primo col Collare dell'Ordine del Toson d'Oro, massima onoreficenza della Casa d'Austria e Borgogna, il secondo molto simile a quello impostato dalla regina Isabella, ma riportante anche gli stemmi asburgici "inquartati" insieme a quelli spagnoli.





Se la morte precoce non avesse posto fine al regno di Filippo I, forse sarebbe diventato lui l'Imperatore sul cui regno non non tramontava il sole, al posto di suo figlio Carlo V, nel cui stemma, possiamo ammirare, oltre alla corona d'Austria e all'aquila imperiale bicipite, anche una metà della Croce di Borgogna, che unisce la corona e la stola alle teste dell'aquila, e le Colonne d'Ercole, che ormai non significavano più la fine del mondo, ma il suo contrario: Plus ultra.






Carlo V si illudeva che tutti si sarebbero dimenticati del "piccolo dettaglio" secondo cui sua madre, la legittima Regina Regnante suo iure, era viva e vegeta, e sempre meno persone credevano che il suo confino fosse volontario.
Crediamo che sia destino, specie per coloro che si chiamano Carlo, che l'ombra delle madri regine, nel bene e nel male, incomba sulla gloria dei loro figli, quasi per oscurarne il fulgore.

Tutti, in Castiglia, si chiedevano: <<Ma la regina Giovanna è davvero pazza, oppure vorrebbe semplicemente governare in maniera diversa da suo figlio?>>
Il povero Cisneros, dopo aver brigato per una vita intera a rafforzare la posizione di Carlo, morì misteriosamente e opportunamente, quando quest'ultimo, nel 1516, alla morte del nonno Ferdinando, lasciò le Fiandre per le Spagne, che ai suoi occhi servivano ad un solo scopo: procurarsi denaro per conquistare la Francia e l'Italia e restaurare l'Impero d'Occidente, più la Germania.
I Castigliani lo sapevano benissimo e incominciarono a chiedersi quali fossero le reali condizioni di salute della Regina.
Ci sono molte testimonianze di spicco, tra cui quella di San Francisco Borgia, illustre gesuita, e persino di papa Adriano VI, i quali scrissero ripetute missive a Carlo V, lamentando il fatto che non ci fosse motivo per confinare la Regina a Tordesillas, dove il corteo funebre era stato fermato dieci anni prima da Cisneros.
Gli ecclesiastici che regolarmente facevano visita alla Regina, riportavano ai superiori più o meno lo stesso resoconto, ossia che Sua Maestà appariva prostrata, di umore altalenante, ma, come diremmo oggi, pienamente in grado di intendere e di volere.

Ormai tutti avevano capito che il vero problema, tra madre e figlio, era la totale discordanza soprattutto su un punto: Giovanna, dimostrando con ciò di avere molto più senno di quanto le si attribuisse, voleva che l'argento delle Americhe rimanesse in Castiglia e non andasse a finanziare le guerre contro la Francia o in Italia.
Le rare volte in cui il figlio o il nipote, futuro Filippo II, le fecero visita, sostenne che il destino della Castiglia fosse quello di unificare la penisola iberica, compreso il Portogallo, ma tramite una pacifica politica matrimoniale, mentre non condivideva l'utopia di Carlo, e cioè il suo sogno di creare una sorta di Impero universale cristiano.
Anche su questo ebbe ragione lei e poté constatarlo molti anni dopo, quando lo stesso Carlo incominciò a dubitare del proprio sogno e a pensare che il suo impero andasse diviso tra suo figlio e suo fratello.

Per tutta la sua vita, Carlo V condivise formalmente il potere con la Regina sua madre, la cui longevità fu quasi una punizione divina nei confronti del figlio "usurpatore", e la conclusione di questa vicenda familiare è degna di una tragedia greca o di un dramma shakespeariano.

Juana la Loca, dopo mezzo secolo di confinamento a Tordesillas, si spense, a 76 anni, nel 1555 e suo figlio l'Imperatore, dopo averle dedicato un requiem solenne e riesumato il corpo di Filippo ancora miracolosamente integro, percorse il corteo funebre con le stesse modalità che alla madre erano costate l'accusa di pazzia, e seppellì entrambi i genitori a Granada, nella stessa cripta dove riposavano i Re Cattolici. E poi, nello stupore generale, abdicò l'anno successivo, 1556. afflitto dagli insuccessi militari, dalla gotta e da un tumore alla prostata, per poi morire poco dopo, tra atroci sofferenze, presso il monastero di Yuste, nell'assolata e quasi desertica Estremadura.
Fu vera gloria? Ai lettori lasciamo manzonianamente l'ardua sentenza, pur riconoscendo a Carlo e a suo fratello Ferdinando, il merito indiscutibile di aver frenato il dilagare dei Turchi in Europa.

Roberto Monterovere, che amava gli aneddoti e le singolari coincidenze, in seguito avrebbe più volte pensato all'ironia della Storia. A una Regina rovinata dal figlio Carlo, era seguito, in tutt'altra terra e in tutt'altra epoca, un Carlo "rovinato" da una madre Regina, eterna e propensa a riversare il suo affetto su cani e cavalli piuttosto che sui propri discendenti.

Ma in fondo, nonostante tutta questa capillare conoscenza della Storia, materia in cui ottenne anche una laurea, Roberto non apprese mai, se non quando tutto era perduto, compreso l'onore, la lezione più importante, ossia che, per quanto gli uomini possano sforzarsi nel perseguire un obiettivo, alla fine l'esito degli eventi dipende da una combinazione imprevedibile di fattori che, a seconda della propria visione del mondo, possono essere attribuiti, al Caso, al Destino o alla Volontà divina.

A dire il vero, Roberto non aveva appreso a sufficienza neanche il fatto che, molto frequentemente, quando un personaggio o una famiglia, raggiungono le mete più ambite e il più grande successo, incomincino a rovinarsi con le proprie stesse mani.

"Quando gli dei vogliono punirci" scriveva Karen Blixen, ispirandosi a un aforisma di Oscar Wilde, "avverano i nostri desideri". La versione di Wilde era pressoché identica, ma paradossalmente più puritana: "esaudiscono le nostre preghiere". 
Il concetto è lo stesso, per quanto la Blixen, appartenente a una generazione successiva e consapevole dell'aspetto inconscio del desiderio, sia più vicina alla teoria freudiana.
Perché questo paradosso risulta convincente?
Forse perché ci costringe a riflettere su cosa desideriamo davvero, quanto convintamente lo desideriamo e soprattutto se ciò che desideriamo è lecito e morale. 
Ma l'elemento principale di questo paradosso riguarda le conseguenze: siamo sicuri che l'avverarsi di un certo desiderio sia automaticamente foriero di benessere?
La verità è che non lo sappiamo e non possiamo saperlo se non ex post.
Molto spesso si rimane delusi, ma è questo è il minore dei mali.
La cosa più pericolosa è che, a causa di fattori imprevedibili, il successo può portare a conseguenze che nemmeno i più saggi e lungimiranti possono mettere in conto. 
Anche su questo argomento ci affidiamo alla saggezza del nostro Tolkien, che fa dire a Gandalf le seguenti, fondamentali, parole:
"Molti tra i vivi meritano la morte. E molti che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze".

Vorremmo concludere questo excursus con un esempio estremo, paradossale, al solo fine di rendere ancora più chiaro il concetto del ruolo del Caso, del Destino o della Volontà divina nella Storia.
Più di un secolo fa un bambino austriaco si ammalò gravemente di febbre e sua madre pregò Dio di farlo guarire.
Quel bambino si chiamava Adolf Hitler. La preghiera della madre fu esaudita, il bambino sopravvisse e le conseguenze furono 25 milioni di morti, nella seconda guerra mondiale, di cui 6 in campi di sterminio, per non parlare delle persecuzioni e di tutto il dolore non solo delle vittime, ma anche dei loro parenti e amici sopravvissuti.
Non occorre aggiungere altro, per capire che mai e poi mai potremmo essere in grado di conoscere le conseguenze persino del più innocente, puro e naturale dei desideri.

Tutta questa lunghissima premessa, di cui ci scusiamo con i lettori, lodandoli per la loro pazienza e tolleranza nei nostri riguardi, se sono arrivati a leggere fin qui, per dire che la rovina del clan Ricci-Orsini-Monterovere, così come del clan Visconti-Ordelaffi, ebbe come causa originaria proprio il fatto che i desideri più ambiziosi dei suoi membri di spicco e dei suoi promettenti rampolli furono esauditi, portando il loro benessere, la loro ricchezza, il loro potere al massimo livello di onore e gloria.

Fu proprio nello stesso momento in cui questo vertice venne raggiunto, che incominciò quella concatenazione di eventi che finì per travolgere tutto e tutti in tempi relativamente brevi.
Ma come sempre, procederemo per gradi, nella narrazione, soffermandoci in particolare su aspetti apparentemente secondari, destinati invece a provocare serie e sproporzionate conseguenze.



Quando i Visconti, quella sera del fatale 1 luglio 1992, scesero dall'automobile, i Monterovere erano davanti al cancello delle "mura interne", ad attenderli.
Per prime si fecero avanti le madri, con grandi salamelecchi e roboanti dichiarazioni di reciproco affetto e meraviglia per "quanto sei bella questa sera".

Poi fu il turno dei figli: Roberto si fece avanti verso Aurora, abbagliato più che mai dalla sua bellezza e dalla sua eleganza. Quella sera aveva scelto un look degno delle grandi occasioni: indossava un rutilante abito di paillettes dorate, corto e aderente, ma a maniche lunghe e senza scollatura, e una sottogonna in tulle che accentuava la sensualità delle gambe slanciate e sinuose come quelle di una fata o di una silfide. I capelli erano pettinati con piega ondulata da una parte, che ricadeva come seta sul viso, sul collo, sulle spalle e sull'abito. Dall'altra parte invece erano tenuti dietro l'orecchio. 
Le sopracciglia erano completamente ossigenate, ma l'ombretto scuro conferiva carattere al volto, che pur mantenendo i suoi tratti angelici, appariva lievemente più aggressivo, come quello di una "divinità offesa".
Ma era chiaro che ormai ogni sua scelta estetica era come un gioco di ruolo: quella sera voleva essere ancor più possessiva del solito, e infatti appena lui le si avvicinò, lei lo abbracciò con decisione e lo strinse a sé con vigore e poi, dopo un bacio altrettanto deciso, gli disse all'orecchio: <<Sono affamata. Che ne dici se ti mangio un orecchio?>> e poi gli mordicchiò il lobo, per fortuna con moderazione.
 Infine lo squadrò ben bene e dichiarò: 
<<Ma fatti guardare! Hai seguito le mie istruzioni alla lettera! Look Anni Settanta, estivo da mare, e quindi necessariamente un po' tamarro, ma l'abbinamento giacca bianca, camicia blu e pantaloni gialli wide-leg è quello che va di più, quest'anno, a Milano Marittima. E ti fa sembrare ancora di più un Rampollo Viziato, che è poi la verità ed uno degli elementi di te che mi fanno impazzire. 
Ma il capolavoro sono i capelli! La tinta e la permanente sono venute perfette. 
I riccioli dolci da Arcangelo e i colpi di sole su base biondo scuro ti stanno da Dio. 
Sembri Dorian Gray in vacanza al mare!. 
Chissà tua madre cos'avrà pensato! Per non parlare dei vicini e di tutta la "corte". 
Ma adesso sei perfetto per quando andremo a Londra. 
Oddio, non vedo l'ora di essere là e di averti tutto per me, perché tu sei mio. Tutto mio. Soltanto mio>>. 
Giusto per essere chiari!



Lui (che non era affatto entusiasta del proprio abbigliamento, ma era compiaciuto dal colore della capigliatura, che ci dicono abbia anche adesso, ma chi può confermalo, dal momento che lui non riceve quasi nessuno nel Sancta Sanctorum di Palazzo Monterovere) la condusse all'interno delle "seconda mura", lungo il vialetto che percorreva l'intera proprietà.
Lei osservava, affascinata, le varie tappe del giardino inglese e poi, quando giunsero in cima alla scaletta, si fermarono sotto il padiglione in pietra, che finalmente assunse una sua utilità.
Si poteva quasi dire che Ettore l'avesse edificato in previsione di quel giorno, quando il suo erede e la  fidanzata si sarebbero seduti sulla panca circolare, all'ombra, mentre il sole tramontava, per scambiarsi parole d'amore.
<<E tu? Sei soltanto mia?>> le chiese Roberto, e in quella domanda c'erano tutti i dubbi e le preoccupazioni e l'insicurezza che si portava dietro da una vita.
Aurora gli mise una mano tra i capelli alla Dorian Gray e li scompigliò, come si farebbe con un bambino piccolo.
<<Ma allora non mi stai a sentire? Io ho pensato solo a te per sei anni, e tu non mi degnavi di uno sguardo! Sei anni della mia vita! E per te ero come trasparente! Ma ti rendi conto che sofferenza? Sarei io a dovermi sentire insicura, non credi?>>
No, in effetti lui non ci credeva, ma era meglio non dirlo, almeno per il momento.
<<Aurora mi dispiace di averti fatto attendere tanto. Io avevo la testa di un bambino, fino a pochi mesi fa. Poi tu mi hai "risvegliato" e sono diventato un adolescente.
Ma adesso che mi hai conquistato, i rapporti di forza sono cambiati. 
Tu hai ottenuto il tuo trofeo! 
Il mio scalpo con boccoli tinti o la mia testa da appendere al muro...>>
Lei, indignata, stava per protestare, ma lui glielo impedì:
<<No, Aurora, lasciami finire... il fatto è che a volte chi seduce perde interesse per l'oggetto del desiderio, una volta che tale desiderio è stato soddisfatto. 
Ora, io so con assoluta certezza che non potrei mai perdere nemmeno un briciolo dell'amore che ho per te. Ma temo che non valga il viceversa, temo che tu possa stancarti di me, o rimanere delusa, e finire per cercare altrove...>>
Lei gli appoggiò una mano sulla bocca e poi gli disse, sottovoce, ma in maniera chiara:
<<Mai! Non succederà mai! Dove lo trovo un altro come te? Ci sei solo tu, e basta!
Io amo di te anche quelli che tu consideri difetti. Amo la tua stessa insicurezza, perché io voglio un compagno di vita che sia tenero e dolce, e più sensibile di me, affinché io possa rassicurarlo e vezzeggiarlo, come una madre col suo bambino. Tu hai bisogno di una madre più indulgente, non negarlo! E amo la tua fragilità.
Le cose più preziose sono anche le più fragili e questo vale anche per le persone: io conosco nel contempo il tuo valore e la tua vulnerabilità, e amo entrambe le cose.  
E non ho bisogno di altro, non cerco nessun altro e non c'è nulla che possa farmi cambiare idea.
Insomma, tu non ti libererai mai di me!>>

Roberto aveva gli occhi lucidi e si sentiva uno sciocco, ma c'era un'ultima cosa che doveva essere chiarita e lui, con ancora la mano di lei sulla bocca, farfugliò un'unica parola, un nome:
<<Felix...>>.
Il viso di lei si rabbuiò: 
<<Lui è un parente, non conta. Comunque l'ho avvertito. O smetterà di metterci i bastoni tra le ruote, o lo escluderò totalmente dalla mia vita. E siccome temo che lui non smetterà, io e i miei genitori prenderemo misure molto serie nei confronti suoi e della sua famiglia. 
Mio padre è d'accordo, e devo dire che adesso, non so bene per quali motivi, mi sembra quasi sinceramente contento che io stia con te... forse è perché finalmente mi vede felice, ma sospetto che ci sia qualcos'altro...>>
Roberto sapeva che in effetti c'erano ben altri motivi, ma anche quello era un discorso che per il momento era meglio non affrontare.

Le sorrise e si abbracciarono di nuovo, Finalmente lui sentì sciogliersi tutta la tensione che aveva accumulato quel giorno e in maniera del tutto inaspettata, la sua virilità, che normalmente dormiva sonni profondi, si risvegliò dal torpore in maniera decisa e fin troppo evidente,  anche a causa della tessitura sottile dei suoi assurdi pantaloni gialli, tanto che lei, nonostante quella corazza di paillettes, dovette rendersene conto e con una certa sorpresa commentò: <<Oh oh... Qualcuno dà la sua ferrea approvazione, nelle parti basse>>
Roberto, che non aveva mai attribuito importanza a certe cose, e anzi le considerava volgari e ne era sempre stato imbarazzato e persino impaurito, fece subito un passo indietro, temendo di perdere il controllo della situazione.
In ogni caso, per darsi un contegno, mise il colletto della camicia sotto la giacca e abbottonò la camicia in maniera quasi decente. 
Mai avrebbe immaginato che trent'anni dopo, l'idolo di almeno due terzi delle ragazze del mondo, Harry Styles, ex voce degli One Direction, avrebbe indossato lo stesso outfit risultando quasi elegante, ma questo accadeva prima che incominciasse a vestirsi da donna, rimanendo comunque invariabilmente adorato dalle stesse fan di cui sopra.




Nel frattempo , il Visconte osservata pacifico e tranquillo il Ricci Compoud.
Sembrava un'altra persona, rispetto a quando lo aveva incontrato le volte precedenti. 
Il volto mostrava un sorriso gentile, pacato, accomodante, quasi benedicente, come se fosse davvero molto contento di trovarsi in quel luogo e con quelle persone, e approvasse senza riserve tutto ciò che vedeva e sentiva.
Mosse il primo passo verso l'altro pater familias, e a quel punto, Francesco Monterovere, abbandonando la sua diffidenza iniziale, tese la mano al Visconte, in "segno di pace".
Bartolomeo Visconti tese la mano a sua volta, con decisione, come faceva dopo aver stipulato un contratto molto vantaggioso, e la stretta di mano che ne seguì fu calorosa e solida, come se lui e Francesco fossero amici da vent'anni.

Difficile ipotizzare quello che passasse realmente nella testa di entrambi, perché erano uomini maturi e sapevano che la diplomazia era una cosa e la realtà un'altra, però si rendevano conto che, sic stantibus rebus, quella era la linea da seguire, almeno finché non fossero emersi nuovi elementi.
Si sedettero, insieme alle rispettive mogli, sotto la pergola, in attesa che la cena fosse pronta.
A rompere il ghiaccio, ancora una volta, fu Bartolomeo Visconti:
<<Professore, le sono grato per averci invitato qui stasera. In questi mesi ho imparato a conoscere la sua famiglia e suo figlio, ed è stato per me un grande piacere. Roberto è un bravo ragazzo, ed è riuscito a rendere felice mia figlia, cosa che nessuno aveva fatto prima di lui. E allora io dico che se i nostri ragazzi sono felici, allora lo siamo anche noi, perché un genitore che altro può desiderare se non la felicità del proprio figlio?>>
Messa così, la "prolusione" del Visconte risultava innegabile, e oltre tutto solleticava lo sviscerato amore paterno di Francesco, che nutriva per il figlio una grandissima stima e riponeva in lui speranze ancora più grandi:
<<E' proprio vero, signor Visconte. E sono lietissimo di averLa come mio ospite>>
Il Visconte si schermì e con aria ancora più affabile disse:
<<Mi piacerebbe che ci dessimo del tu e ci chiamassimo per nome di battesimo>>
Era un onore che il Visconte concedeva soltanto ai parenti carnali o ai rarissimi amici di lunghissima data.
<<Per me va benissimo! Bartolomeo... vero?>>
Il Visconte annuì, sorridendo e assomigliando sempre più a Berlusconi:
<<Vero! E tu sei Francesco, come il tuo nonno materno, l'Ingegnere, se non sbaglio>>
Il ricordo del venerato Francesco Lanni, il Profeta delle Acque, commosse il professor Monterovere:
<<Verissimo! E direi che qui ci vuole un brindisi, se tu e la tua signora gradite uno dei nostri aperitivi>> e fece un cenno studiato in precedenza per dare il via ai bagordi.

In quell'istante comparve il giovanissimo Samuele Napoletano, nipote della Rita, il quale quella sera, molto generosamente retribuito, svolgeva il ruolo di aiuto cameriere.
Era il classico ragazzo mediterraneo: con capelli corvini, naturalmente ricciuti, occhi nerissimi, pelle olivastra abbronzata e un sorriso solare che metteva di buon umore anche il più triste.
Lui e Roberto, coetanei, erano diventati amici, e c'era una grande ammirazione reciproca, in particolare Roberto ammirava molto il fatto che Samuele avesse un grandissimo senso pratico e lo aiutasse molte volte a insegnargli cose che adesso impareremmo in qualche tutorial su Youtube, o affideremmo direttamente a un tecnico informatico.
Con grande maestria, derivatagli non solo dalla frequenza dell'Istituto alberghiero, ma anche dal lavoro part-time in un bar, Samuele preparò gli aperitivi, servendo al Visconte il classico Martini Dry con oliva, al Professore l'ancor più classico Negroni, obbligatorio per tutti gli intellettuali radical-chic, alla Viscontessa un Campari Soda e alla Signora Silvia un Prosecco di Conegliano, proveniente dalle cantine di Villa Orsini.

Poco dopo tornarono anche i due piccioncini, e la Signora scosse la testa per l'ennesima volta di fronte al look assurdo del figlio, che del resto aveva ricevuto anche il biasimo paterno.
<<Ah, Roberto!>> disse la viscontessa Maria Antonietta alzandosi per abbracciarlo come se fosse un figlio <<oggi hai un look davvero irresistibile! Stai benissimo! Vero, Silvia, che tuo figlio oggi sembra il Principe Azzurro?>>
La Signora, con un sorriso simile a quello della regina Elisabetta II quando è costretta a fare buon viso a cattivo gioco, annuì vagamente e deviò subito il discorso:
<<E' Aurora ad essere bella come il sole! Non so se la mia sala da pranzo sarà sufficientemente elegante per ospitare una giovane nobildonna di così gran classe!>>
Roberto, che conosceva sua madre meglio di se stesso, capì il messaggio in codice, che suonava più o meno così: si è vestita tutta d'oro e paillettes come una escort che accompagna un ricco vecchio porco in un party un po' equivoco, tipo quelli dove si potrebbe incontrare Elton John.

Silvia era fatta così: qualunque sua frase aveva sempre significati molto diversi e quasi opposti da quello letterale. Era stato il suo modo di sopravvivere crescendo con una nonna costantemente ubriaca, una madre costantemente depressa, un padre costantemente arrabbiato col mondo intero, una governante dispotica e due sorelle che non avevano mai letto un libro in vita loro.
Aurora, senza degnare Samuele nemmeno di uno sguardo, si versò da sola, con l'aria di chi la sa lunga, una Vodka alla Pesca con Oransoda, il cocktail più di moda nella Folle Estate del 1992.
Il sorriso forzato di Silvia si piegò all'ingiù e con un cenno indicò a Samuele di portar via il cabaret e di chiedere se la cena era pronta.
Poco dopo, la signora Rita in persona invitò i Signori ad accomodarsi nella sala da pranzo del piano terra, dove era stata imbandita una tavola rotonda con ogni ben di Dio.
E così incominciò una cena sontuosa, e memorabile, ma molto impegnativa per tutti, di cui parleremo nel prossimo capitolo.