giovedì 7 gennaio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 102. L'anno della Falsa Primavera


"Se non avessi mai amato, oggi sarei imperatore della galassia" scrisse Maurizio Maggiani, e certamente Roberto Monterovere, nella sua mezza età, ripensando agli anni della tarda adolescenza e della giovinezza, sarebbe giunto alla stessa conclusione, senza nemmeno la chiusura consolatoria del Maggiani, secondo cui "ne valeva la pena".
No, nel caso di Roberto non ne valeva affatto la pena, dal momento che i benefici che trasse dalle sue storie d'amore furono sempre molto minori rispetto alle devastazioni che quegli amori lasciarono dietro di sé.
Ed ora ci accingiamo a raccontare il primo di questi amori, e forse il più disastroso di tutti, perché le sue conseguenze erano destinate deviare irrimediabilmente verso il peggio la vita di coloro che ne furono coinvolti.
Invochiamo pertanto il sostegno delle Muse, affinché ci renda testimoni trasparenti e cronisti fedeli degli eventi mirabili e terribili che avvennero nell'anno Domini 1992, nella città di Forlì e in altri luoghi di cui è cosa saggia e misericordiosa tacere persino il nome.
Roberto aveva diciassette anni, un'età in cui i mutamenti sono visti come speranze, e il pensiero del futuro è fonte di gioia e non di paura o preoccupazione.
A quell'età, in genere, la salute e la bellezza raggiungono il loro culmine, e vengono ingenuamente considerate come attributi eterni e inalienabili.
Roberto aveva persino incominciato a fare sport (tennis, nuoto e palestra) e a curare meglio il proprio aspetto fisico. Il suo rendimento scolastico, nel terzo anno del Liceo Scientifico, era stato al di sopra di ogni aspettativa, in ogni materia, e questo sembrava aprirgli la strada verso chissà quali luminosi orizzonti.
Ma la vera grande novità consisteva nel fatto che si era innamorato sul serio e la fanciulla che gli aveva rubato il cuore sembrava ricambiare questo sentimento (anche se al riguardo le versioni sono discordanti e non esistono prove certe).
Naturalmente Roberto si era innamorato già altre volte, ma erano solo infatuazioni adolescenziali, che, in assenza dei social network di cui gli adolescenti attuali si avvalgono per il rituale del corteggiamento, non erano andati oltre a qualche bacio.
Ciò che invece accadde nel 1992 era molto diverso, perché il sentimento che nacque era molto più profondo e basato su una reale conoscenza e stima della persona amata, una ragazza era stata sua compagna di classe sia alle medie che alle superiori: si trattava di Aurora Visconti.
Avevamo già in precedenza accennato al fatto che sua madre Maria Antonietta era una lontana cugina di Silvia Ricci-Orsini e dunque vedeva di buon occhio l'amicizia tra Aurora e Roberto, sperando che si tramutasse in qualcosa di più.
Purtroppo, nella famiglia di Aurora Visconti, soltanto sua madre era ben disposta nei confronti di Roberto, mentre il padre, un ricco imprenditore di nobili origini, non era affatto entusiasta alla sola idea che sua figlia frequentasse il nipote di quell'Ettore Ricci che era morto in disgrazia.
Ma la perplessità di Bartolomeo Visconti non sarebbero state un ostacolo insuperabile, se non si fossero messi nel mezzo il cugino di lei, Felice Porcu, un zotico violento e malvagio, e naturalmente il solito Vittorio Braghiri, ex migliore amico di Roberto ed ora suo massimo rivale.
Ma prima di entrare nel merito di queste dinamiche, è necessario raccontare quali furono le circostanze che portarono Roberto Monterovere ad innamorarsi di Aurora Visconti.



Pur conoscendola da anni, si "accorse di lei" soltanto nel terzo anno delle superiori, il che era francamente incomprensibile, dal momento che la ragazza era molto bella e anche molto intelligente.
Il fatto era che Roberto, negli anni dello sviluppo, si era sentito attratto da ragazze più grandi, più mature, mentre la bellezza di Aurora era ancora un bocciolo di rosa in attesa di fiorire.
Ma la scusa ufficiale che il giovane Monterovere addusse all'epoca si limitava alla considerazione che lo studio assorbiva tutte le sue attenzioni ed energie.
La stessa Aurora, in seguito, gli disse: <<Mi hai snobbata per cinque anni, prima alle medie e poi al liceo. Io stavo nel banco dietro al tuo, e tu non ti sei voltato neanche una volta, neanche per chiedere in prestito una penna, perché tanto tu non avevi bisogno di niente e di nessuno. La scuola era solo un luogo di studio, dove prendere appunti in religioso silenzio. E adesso, improvvisamente, ti accorgi che esisto. Non so cosa pensare>>
Il fatto era che nemmeno Roberto sapeva cosa pensare riguardo a ciò che gli stava accadendo.
Non si trattava solo di una questione di attrazione fisica, era quel tipo di innamoramento stilnovistico che proprio quell'anno stava studiando in storia della letteratura italiana.
Guinizelli, Cavalcanti, Dante fino ad arrivare a Petrarca.
Ma prima di loro c'erano stati i latini, in particolare Catullo e i greci, in particolare Saffo, a descrivere i "sintomi" di tale innamoramento: tachicardia, acufeni, sbalzi di umore e di temperatura, insonnia, anoressia, ansia, pensieri ossessivi, sensazione di non poter vivere senza poter almeno vedere la persona che si ama.
Le neuroscienze hanno confermato ciò che i poeti avevano intuito più di duemila anni fa, e cioè che l'innamoramento è uno stato alterato della coscienza, per molti aspetti simile a certe forme psicopatologiche, quali il disturbo ossessivo-compulsivo o persino quello bipolare (in precedenza conosciuto come psicosi maniaco-depressiva).
Le innovative tecniche di brain-imaging ci mostrano come il sistema nervoso centrale di un innamorato presenti un'anomalia a livello di corteccia cerebrale, causata da uno squilibrio dei neurotrasmettitori, in primo luogo la serotonina, che presiede al sonno, all'appetito e soprattutto all'umore.
Ma Roberto, all'epoca, non sapeva assolutamente nulla di tutto questo e non c'era Wikipedia a fornire spiegazioni che, per quanto non del tutto esaurienti ed attendibili, gli avrebbero comunque fornito qualche utile indicazione.
E così accadde che, in un mattino di primavera del 1992, durante l'ora di italiano, mentre si svolgeva la lezione sull'immortale sonetto dantesco "Tanto gentile e tanto onesta pare", un raggio di sole inondò la classe, ed Aurora, che ne era circonfusa come un angelo del Paradiso, chiese a Roberto, che era più vicino alla finestra, di regolare le veneziane.
Il giovane Monterovere si accinse alla complessa operazione, riguardo alla quale, come in tutte le cose pratiche, era completamente negato.
Mentre armeggiava inutilmente tra fili e pendagli, la luce del sole, invece che diminuire, aumentò di potenza, finché Roberto, esasperato, si voltò verso i compagni in cerca di aiuto e in quel momento la vide.



Aurora pareva risplendere di luce propria, dai capelli dorati, dagli occhi di zaffiro, dal sorriso dolce e fresco come un frutto appena colto. 
In quel momento ella gli parve davvero come la più celestiale delle creature dell'universo.
Per tutto il resto della sua vita, Roberto cercò di ricostruire mentalmente quella scena: il sonetto della Vita Nova, il sole che accarezzava il volto e la linea snella della silhouette di Aurora e di come quella sublime combinazione di elementi e di emozioni, suscitò in lui un sommovimento interiore che rasentava l'estasi mistica.
E mentre lui se ne stava lì, immobile come se un incantesimo lo avesse pietrificato, la voce della docente gli giunse come di lontano: <<Monterovere, è meglio che lasci stare quelle veneziane. Se per favore qualcuno può... ecco, Visconti, grazie e mentre passi risveglia Monterovere dal torpore, perché non mi sembra che stamattina sia del tutto presente a se stesso>>
La classe rise, ma Roberto non sentiva altro che un coro d'angeli che in excelsis cantava la bellezza di quella "cosa venuta di cielo in terra a miracol mostrare".
Aurora gli si accostò, e per la prima volta lui si accorse anche del delicato e raffinato profumo di cui lei, ogni mattina, si passava due gocce sul collo e sui polsi.
Poi lei gli passò una mano davanti agli occhi, come per svegliarlo dall'incantesimo e gli chiese: <<Sei sicuro di star bene?>>
Lui notò, sempre per la prima volta, il fatto che anche la voce di lei era di una dolcezza infinita, come un flauto o un oboe, accompagnati, in sottofondo, da un'arpa.
Annuì e pensò che non era mai stato meglio in vita sua.
Lo pensò, certo, ma non lo disse, perché quel giorno le emozioni erano già state fin troppe.
In quel momento, egli sentì che la sua vita era così vicina a quello che sarebbe dovuta essere, eppure così lontana...
Lontana perché fin dall'inizio Roberto si rese conto che Aurora era, per lui, un sogno irraggiungibile, un frutto proibito
Ma in fin dei conti, non è forse vero che ciò che non possiamo avere finisce per diventare proprio quello che desideriamo di più?
Se avesse dato ascolto alla sua ragione, Roberto avrebbe lasciato perdere fin dall'inizio e avrebbe scacciato anche il solo pensiero di potersi in qualche modo avvicinare a lei.
Avrebbe evitato tantissimi guai e dolori e tormenti e tradimenti e tutto ciò che ne seguì e che rappresentò un ulteriore passo nella sua descensio ad inferos.
In fondo i segnali di pericolo c'erano tutti.
Aurora, per qualche ignota ragione, teneva in gran conto il parere di quella bestia feroce che era suo cugino, Felice Porcu, che già abbiamo descritto come "omni parte vitae detestabilis".
Porcu detestava a sua volta il giovane Monterovere, e sarebbe stato disposto a tutto pur di tenerlo lontano da sua cugina. 
L'altro elemento era, ovviamente, l'interesse di Vittorio Braghiri nei confronti di Aurora Visconti.
Fino a quel momento il suddetto interesse era rimasto inespresso, sospeso nell'Iperuranio plantonico, come del resto tutte le emozioni e tutti i sentimenti dell'enigmatico figlio di Massimo Braghiri.
C'era però l'assoluta certezza che, nel momento stesso in cui Roberto Monterovere avesse manifestato il proprio interesse per Aurora, allora Vittorio sarebbe sceso in campo per sbarrare la strada al rivale.
Più difficile da prevedere era l'alleanza, in chiave anti-monteroveriana, di Vittorio Braghiri con Felice Porcu, dal momento che i due non avevano quasi nulla in comune, se non l'odio verso Roberto Monterovere.
Vittorio era perfido, sì, ma aveva stile. 
Porcu invece era un violento allo stato puro, un teppista che si vantava di essere tale, confidando nella protezione della famiglia Visconti, che lo usava come "cane da guardia" e "buttafuori".
Ma c'era un terzo aspetto, del tutto imprevedibile, che era destinato a rivelarsi come uno degli eventi più catastrofici nella vita di Roberto, e cioè il coinvolgimento, nell'alleanza anti-monteroveriana, del docente di matematica, il viscido Malvolio Sarpenti, che da anni nutriva, in segreto, la paranoica convinzione che il collega Francesco Monterovere stesse complottando contro di lui.
Il vero complotto, invece, lo ordì proprio Sarpenti, offrendo a Vittorio Braghiri e a Felice Porcu la protezione e la forza dell'autorità costituita.
Avremo modo di narrare dettagliatamente gli eventi terribili che innescarono una crisi destinata a lasciare, nella vita di Roberto Monterovere, ferite mai del tutto cicatrizzate.
E così quella che per un po' di tempo sembrò essere la "primavera" della sua adolescenza, era destinata a diventare e ad essere ricordata come il suo contrario, ossia la "Falsa Primavera".

venerdì 1 gennaio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 101. La sopravvissuta e l'erede


Diana vagava sola nella casa dei suoi antenati.
I loro ritratti la fissavano dalle pareti con sguardo corrucciato. L'unica Orsini che aveva osato accennare un sorriso, nel "ritratto ufficiale", era stata lei stessa, ed ora le due Diane, quella del passato e quella del presente, si osservavano a vicenda. La prima, dal ritratto, osservava la "se stessa" reale con aria indulgente, e gli occhi scuri e profondi come abissi sembravano intravvedere, con malinconia dignitosa e maestoso coraggio, tutte le avversità che l'attendevano in agguato nella seconda parte della sua vita.
E adesso cosa mi resta?
"Che ne fu del re don Juan? E degli Infanti di Aragona, che ne è stato? Cosa resta di tanta nobiltà? Le giostre ed i tornei, i cimieri e le armature... Nient'altro fu che vento? Che cosa sono stati se non erbe di campo"
Della sua grande famiglia, era rimasta soltanto lei a presidiare Villa Orsini.
Per tre rami fiorì la mia stirpe, per sette manieri silvani, ma presto fu stanca del fiero blasone, piegò sotto il peso degli anni, l'antico retaggio degli avi è tutto ciò che io conquisto ed apporto: sono ormai senza patria nel mondo...
Villa Orsini non era mai stata così silenziosa.
Se n'erano andati via tutti.
Il valzer degli addii si era concluso e ognuno era partito per la sua strada.
I più si trovavano sotto la volta nera della cappella di famiglia, riuniti nel sonno eterno.
Suo padre, sua madre, i suoi fratelli Eugenio e Arturo, (il primo morto di meningite quando era solo un bambino), le sue sorelle Giovanna (morta per l'influenza spagnola) e Isabella.
E infine suo marito.
Tutti continuavano a vivere in lei, come se nel momento della dipartita le loro anime fossero confluite nella sua, per darle forza, per dirle: siamo con te, non siamo mai andati via.
Le conferivano una sorta di "mandato celeste" per guidare con saggezza e benevolenza il resto della famiglia, i vivi, anche se non abitavano più con lei : l'ultima sorella che le restava, Ginevra; la cognata nubile, Adriana, che dopo la morte di Ettore si era trasferita in città per stare più vicina al resto della famiglia Ricci; e poi le figlie e i nipoti, che ormai erano cresciuti e avevano la loro vita.
Persino il personale di servizio era ridotto al minimo: la nuova governante, Monica, (molto più discreta di colei che l'aveva preceduta, la terribile Ida Braghiri), non aveva bisogno di collaboratori, perché ormai in casa non c'era molto da fare, e alcune stanze erano state persino chiuse, con i mobili ricoperti da tele contro la polvere.
Pareva di essere in un mausoleo o in una cripta.
Inoltre, a rendere Villa Orsini ancora più tetra e più simile a un maniero inglese era stato il tipo di restauro che il conte Luigi Carlo, trisavolo di Diana, aveva portato a termine a metà Ottocento, in un eccentrico stile neogotico vittoriano già allora piuttosto cupo e minaccioso. A a distanza di un secolo e mezzo pareva un castello abbandonato in preda agli spettri.


Il parco si stava trasformando in un bosco pieno di sterpaglie, che Diana percorreva assorta nei suoi pensieri, riflettendo sulle origini del declino degli Orsini di Casemurate.
Il conte Luigi Carlo conosceva i nomi dei suoi antenati meglio di quelli dei suoi figli e nipoti.
Se ne stava in vecchi saloni con teste di cervo alle pareti, meditando sulle sottigliezze dell'araldica, e saliva nelle sue torri neogotiche per immergersi nel passato e dimenticare il presente.
E fu così che la nostra stirpe andò in rovina e il comando passò, per dirla con Dante, alla "gente nova e' subiti guadagni".
Certo, era tutto molto romantico, e la tentazione di rifugiarsi nel passato era molto forte, e in alcuni casi poteva persino essere giusta, ma a pagare il prezzo di tutto questo erano stati i suoi discendenti.
Le finanze di famiglia non si erano più risollevate, e soltanto il matrimonio di Diana con Ettore Ricci aveva permesso al Feudo Orsini di sopravvivere e persino di prosperare, anche se solo per un breve periodo.
A tal proposito,  Diana ripensava a un colloquio che aveva avuto col nipote Roberto, poco dopo la morte di Ettore.
Mentre passeggiavano sulle rive del Bevano, la Contessa aveva detto al figlio di sua figlia Silvia:
<< Io sono l'ultima degli Orsini di Casemurate. Con me si estinguerà il vincolo che lega il mio cognome a questa terra.  
Dopo di me, il titolo comitale passerà, pro-forma, a tua zia Margherita e quindi alla famiglia Spreti da Serachieda, che era già detentrice della Marca casemuratense ravennate.
Tu avrai in eredità un fondo fiduciario che sono riuscita a mettere al sicuro dalle grinfie dei creditori: ti permetterà di dedicarti a ciò per cui sei portato, e cioè allo studio della storia e della letteratura, e alla tua passione per la scrittura.
Tutto questo per dire che non hai obblighi verso questo luogo .
La manutenzione di questa casa ha costi insostenibili e la gestione del Feudo richiederà l'ingresso di nuovi soci, che prima o poi ci metteranno in minoranza: sic transit gloria mundi.
Ma non importa! Ciò che conta è che non devi sentirti vincolato a una promessa fatta in un momento di debolezza... io so che Ettore ha fatto leva sul tuo profondo senso della famiglia, me l'ha confessato, alla fine, ma non aveva il diritto di far ricadere su di te un simile peso.
Una promessa estorta in quel modo non vale. 
In troppi hanno già pagato per difendere l'onore e il patrimonio dei Ricci-Orsini!
Questo è un mio fardello, a cui dedicherò tutte le mie forze, per tutti i giorni che mi rimangono. 
E i tuoi zii faranno il resto, quando non ci sarò più. 
Voi nipoti potrete vendere tutte le quote e rifarvi una vita>>
Roberto sentiva che nelle parole di sua nonna c'era grande generosità e molto buon senso, ma lui non voleva venir meno alla promessa fatta al nonno morente:
<<"Le radici profonde non gelano". Lo diceva Tolkien e lo diceva anche il nonno, a modo suo, naturalmente. Non puoi chiedermi di agire in maniera non coerente ai miei ideali>>


Diana sospirò:
<<I tuoi ideali sono cavallereschi e cortesi, e dunque appartengono a un mondo che non esiste più e che forse non è mai esistito, se non nei poemi e nei romanzi.
Tu citi Tolkien e allora pensa alla sua scelta di vita: studiava e insegnava all'università, scriveva e inventava lingue immaginarie parlate da personaggi immaginari in mondi immaginari. E tutto questo è confluito nelle storie che raccontava ai suoi figli e infine nei suoi romanzi.
Se avesse fatto l'amministratore di un'azienda agricola, non avrebbe avuto il tempo e gli strumenti culturali per creare la sua grande opera letteraria.
Ha valorizzato le sue qualità ed è la stessa cosa che io vorrei per te: preferirei un milione di volte vederti impegnato in un'attività intellettuale, piuttosto che a controllare gli spaventosi bilanci del Feudo Orsini.
Ettore è morto. Tu sei vivo, e hai tutta la vita davanti. Non buttare via la tua giovinezza in queste meschinità. 
E poi sei un Monterovere! Segui l'esempio di tuo padre, che è un grande insegnante, o di tuo zio, che è un docente universitario!
Lascia perdere questa terra amara... troppe lacrime l'hanno irrigata, e troppo sangue... e ormai "altra messe non dà">>
Roberto prese la mano di sua nonna:
<<Io sono cresciuto qui.  Questa casa, questo giardino... sono parte di me. Qui ho trascorso i miei anni più belli. Solo qui mi sento veramente a casa...>>
Diana scosse il capo:
<<Gli anni più belli? Ma tu non hai neanche diciassette anni! Vorresti forse seppellirti vivo in questo "morto viluppo di memorie"? Già ai tempi del mio trisavolo questa casa stava andando a pezzi, ma lui era convinto di poterla trasformare in un castello medievale e si concentrò solo sugli archi a sesto acuto, le bifore, le torrette col tetto a punta, i camini in stile Tudor, le guglie, i gargoyle... e lasciò che tutto il resto continuasse a cadere a pezzi, perché in fondo questo aggiungeva un'aura davvero medievale al tutto, tralasciando però di aggiungere il trascurabile dettaglio che non gli era rimasto un centesimo. 
Ma tanto bastava costringere i figli e le figlie a sposare gente ricca e tutto si risolveva... ebbene sappi che in tutto questo non c'è stato proprio nulla di romantico. Questo non è un castello con una principessa da salvare. Questa è una tomba, un cimitero! 
L'ultima principessa ha ottant'anni, ormai, e per lei è troppo tardi, perché è questo che sono: prigioniera da una vita... prigioniera del sogno dei miei padri e di quello di mio marito.
Una volta che sarò morta anch'io, cosa resterà qui, se non un cumulo di macerie?
Vuoi forse sprecare la tua vita diventando un adoratore di ceneri?>>


Roberto la fissò, ed era come fissare se stesso, perché lei aveva gli stessi occhi che lui aveva ereditato:
<<Il mio compito è mantenere viva la fiamma>>
Lei ricambiò lo sguardo:
<<E lo farai, ma in un altro modo!>>
Lui non capiva:
<<E quale sarebbe?>>
Diana sorrise:
<<Racconta la nostra storia. Tutta la verità, fino in fondo. Ti autorizzo a farlo. Scrivila, se vuoi.
 Fa' in modo che ne resti traccia. In fondo la mia vita è stata come un romanzo. Ti autorizzo a scrivere di me e di queste terre, che verranno ricordate perché tu avrai scritto un romanzo su di loro. Questo è il modo migliore per rendere omaggio al luogo della tua infanzia. E' l'unica immortalità consentita. Certe cose non tornano più, ma possono essere raccontate...
Pensa a Camelot, il centro dell'universo cavalleresco e cortese: tutti sanno la storia di Camelot, è una storia eterna, eppure Camelot non esiste e non è mai esistita, perché se fosse esistita, la sua realtà sarebbe stata molto più deludente rispetto all'immagine che ne abbiamo tratto dai poemi e dai romanzi
Ciò che onorerà al meglio la nostra storia non sarà un cantiere o un bilancio: sarà la magia della parola e il potere creativo dell'immaginazione.
Solo così la tua nonna Diana, anziana principessa di questo castello potrà essere liberata >>



Non era la risposta che Roberto si aspettava:
<<La storia della nostra famiglia attirerebbe molti più lettori se io riportassi il Feudo Orsini e la Villa Orsini agli splendori un tempo. Ma tu non credi che io ne sia capace.
Dimmi la verità: tu pensi che io sia troppo debole per il mondo degli affari. Alla fine è quello che pensano tutti...>>
Diana si accigliò:
<<Non è una questione di forza o di debolezza, è una questione che riguarda i tuoi talenti, che sono di tipo umanistico, e se tu li tradirai, allora sì che sarai un debole! La vera forza sta nel valorizzare ciò che siamo!>>
Roberto sapeva che sua nonna aveva ragione, ma si trovava in quella turbolenta fase dell'adolescenza in cui ancora l'identità delle persone non è del tutto definita, e dunque è arduo conoscere se stessi, se ancora questo Sé non si è definito.
<<Vorresti fare di me un letterato e quindi un insegnante, uno dei tanti. Ma io vedo che i miei insegnanti sono logorati da un lavoro che la società non valorizza. I miei genitori non vedono l'ora di andare in pensione. Gli studenti di oggi, i miei coetanei, sono per lo più persone squallide, a cui non interessa nulla di storia o di letteratura. E per quel che riguarda l'università, si sa come funzionano le cose... dottorati, borse di studio, precariato e poi alla fine vengono assunti solo i raccomandati>>
Lei inarcò le sopracciglia:
<<Ma tuo zio Lorenzo ti aiuterebbe, ne sono certa>>
Il nipote scosse il capo:
<<Io non voglio questo tipo di favori. Non mi piace dover dire troppe volte grazie alla stessa persona. E comunque, che ti piaccia o no, nelle mie vene scorre anche il sangue di Ettore Ricci, e quello delle infinite generazioni di agricoltori che hanno coltivato questa terra fin dalla notte dei tempi.
Lui aveva con la terra un rapporto quasi simbiotico
Io gli assomiglio più di quanto possa sembrare, e questo lui l'aveva capito. Perciò ha scelto me. Non tanto come erede degli Orsini, quanto come successore di Ettore Ricci>>
Diana ponderò a lungo quelle parole, soppesandole nel suo cuore, ma non se ne rallegrò, perché erano presagio di sofferenza e di sventura:
<<Certo Ettore era l'animatore di questa terra, di questa casa e di questa famiglia. E se mai la Contea di Casemurate ha avuto un'anima, quell'anima era lui.
Ettore non era malvagio, aveva soltanto troppa energia dentro di sé e questo fuoco lo ha consumato. Si è lasciato possedere dai suoi istinti predatori, gli stessi che portano alcune persone a sacrificare tutto in nome del profitto e del successo.
Non dare ascolto a questi istinti : non sanno niente e, cosa ancora peggiore, non imparano mai>>

 



giovedì 17 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 100. La guerra continua



Massimo Braghiri aveva goduto nell'assistere alla caduta in disgrazia e alla morte di Ettore Ricci, ma il suo "grande disegno di vendetta" non era ancora compiuto.
Sua madre Ida aveva lasciato Villa Orsini con una liquidazione di tutto rispetto, con la quale si era comprata una palazzina di fianco "ar Condominio de Lusso" (come il condomino cavalier Semenzana, "romano de Roma" esule in Romagna, chiamava il palazzo abitato dal ramo forlivese dei Monterovere e dalle famiglie di Massimo e Floriana Braghiri, i figli della signora Ida.
Francesco Monterovere, sua moglie Silvia Ricci-Orsini e il loro unico figlio ed erede Roberto Monterovere, presero atto di una evidenza innegabile: "Ci hanno circondati. Siamo sotto assedio da parte della famiglia Braghiri. Non si daranno pace finché non ci avranno rovinati, screditati e seppelliti".
I rimanenti condomini si erano mantenuti neutrali, e dunque nessuna delle due famiglie rivali era in grado, da sola, di avere la maggioranza dei voti per eleggere l'amministratore e prendere le decisioni principali.
Il prestigio, ormai decaduto, del clan Ricci-Orsini-Monterovere, aveva fatto sì che tutti i vicini nel quartiere residenziale "de Lusso" (sempre a giudizio del Semenzana, il quale dasseriva che "qua se sta mejo che ai Parioli"), si fossero sempre riferiti a quell'imponente ed eccentrico edificio, munito di torri con tetti a punta, abbaini vittoriani, bifore neogotiche, comignoli in stile Tudor e un ampio parco con pini, abeti e querce, chiamandolo Palazzo Monterovere, il che era ovviamente inaccettabile per Massimo Braghiri.
Questa volta però non era più possibile far ricorso alle sorelle della signora Ida, le streghe di Casemurate, perché a quanto pare i Monterovere avevano un protettore più potente, a livello delle "arti oscure", il cosiddetto Iniziato agli Arcani Supremi, di cui era cosa saggia persino tacere il nome.
A dire il vero, a quei tempi, ossia gli Anni Novanta del XX secolo, che oggi ci sembrano distanti come l'età dei Faraoni, i Monterovere non erano ancora consapevoli dell'identità dell'Iniziato che li proteggeva, e del fatto che tale protezione si limitava alle questioni, se ci si passa il termine, di tipo "soprannaturale".
Dunque la guerra tra i Braghiri e i Monterovere si svolse, nei successivi dieci anni, a un livello più terreno, basato su congiure, tradimenti, veleni, alleanze strategiche, colpi di scena, che avrebbero fatto apparire i Borgia, gli Este e i Gonzaga come dei dilettanti.

Va precisato che i Monterovere avrebbero volentieri fatto a meno di quella faida, ma i Braghiri desideravano che in futuro quella residenza diventasse il Palazzo Braghiri, forti anche del fatto che la moglie di Massimo, Elisabetta De Gubernatis, era figlia di Ginevra Orsini, sorella minore della Contessa di Casemurate, e dunque apportatrice di quel "quarto di nobiltà" che rendeva i rampolli Vittorio Braghiri e Roberto Monterovere "di pari grado".
Anche prescindendo dal fatto che non era così (dal momento che i Monterovere discendevano molto alla lontana dai Conti di Querciagrossa, località preappenninica vicino a Pavullo, nel modenese, con tanto di castello, detto di Montecuccolo), a Roberto Monterovere era dispiaciuto moltissimo il fatto che la sua antica amicizia con Vittorio Braghiri fosse stata definitivamente troncata dallo scoppio di quella specie di Guerra delle Due Rose.

Il paradosso, in questa situazione, era che Roberto e Vittorio, sotto molti aspetti, erano simili: entrambi nati nel 1975, entrambi mancini, entrambi legati a un'infanzia trascorsa a Villa Orsini, nella Contea di Casemurate, entrambi iscritti al primo anno del Liceo Scientifico "Fulcieri Paolucci de' Calboli (che era pure parente della loro defunta bisnonna Emilia).
Roberto era nella sezione A, suo padre insegnava nella sezione B, e Vittorio era nella sezione C.
Il fatto che Roberto avesse voti più alti di quelli di Vittorio, era visto da Massimo Braghiri come una chiara questione di favoritismo da parte dei colleghi di Francesco Monterovere verso il di lui figlio.
E purtroppo i Braghiri non erano gli unici a pensarla così, per cui se Roberto prendeva un voto alto, tutti gli invidiosi dicevano: <<Per forza, è figlio di Monterovere!>> e nei rari casi in cui lo stesso Roberto prendeva un brutto voto, le stesse persone commentavano: <<Avete visto, pur essendo il figlio di Monterovere, è talmente stupido da non riuscire a prendere un buon voto!>>
Roberto era esasperato da quella situazione.
Sua nonna Diana allora gli raccontò la famosa favola classica intitolata "Il contadino, il figlio e l'asino": Senex cum adulescente filio agebat iter...
La morale è nota: qualunque scelta facessero, la gente avrebbe sempre avuto qualcosa da ridire.
<<Posso anche infischiarmene di quel che dice la gente>> rispose Roberto <<ma qui la situazione è un po' diversa. Qui c'è la regia di un pazzo lucido il cui unico scopo, nella vita, è rovinare la nostra famiglia. Massimo vuole farci fare la stessa fine del nonno, e non avrà pace finché non ci sarà riuscito>>
Diana Orsini lo sapeva fin troppo bene:
<<Non gli daremo questa soddisfazione. Andremo avanti per la nostra strada, con la schiena dritta, la testa alta e la coscienza limpida, poiché il passato è stato sepolto e ora è tempo di voltare pagina>>
In teoria Diana aveva ragione, ma nella pratica la situazione era molto più complessa.
Roberto in realtà non voleva cambiare pagina, non era pronto ad archiviare la sua meravigliosa infanzia per avventurarsi in un terreno sconosciuto, in un mondo così diverso dalla sua amata Contea di Casemurate: il suo cuore era ancora lì, e sarebbe rimasto lì per sempre, poiché sentiva che niente e nessuno al mondo sarebbe mai stato in grado di procurargli una felicità così grande, così pura e così completa.


venerdì 11 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 99. Il Leone in Inverno


Il suo corpo martoriato, la sua casa fatiscente, la sua azienda colpita al cuore, la sua Contea sconfitta: questo era bilancio che Ettore Ricci si trovò davanti quando finalmente, dopo interminabili mesi di ospedale, riuscì a tornare a Casemurate, nel dicembre del 1990.
Cosa restava, dopo una vita di lavoro, di sacrificio, ma anche di ambizione e di desiderio?
Un cumulo di macerie.


Ma Villa Orsini era decorata con le luminarie di Natale, e la famiglia al completo lo attendeva come un re ferito in battaglia e tornato per l'ultima volta nella sua patria, a morire.
Ettore sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Diana lo aspettava sulla soglia, come la fata Morgana che accoglie Artù morente nell'isola di Avalon, da dove un giorno tornerà, secondo la speranza dei Bretoni, la speranza vana...
Accennò un mezzo sorriso, mentre sua figlia Silvia lo faceva accomodare sulla sedia a rotelle, il regalo natalizio che mai avrebbe pensato di poter gradire.
Tutta la sua famiglia era lì, il clan Ricci-Orsini al completo, riunito per l'ultima volta nella sua interezza, per onorare il patriarca e nel contempo prendere congedo da lui.
Lo guardavano come se fosse già morto, come avessero davanti una statua o un fantasma, ma la realtà era ancora peggiore: ciò che vedevano era un relitto.
Di fronte all'improvvisa coscienza del fatto che ormai tutto si era compiutoEttore non poté fare a meno di provare quel senso di rimpianto tipico di coloro che, soltanto in extremis rebus, si rendono conto di aver dedicato troppo tempo a cose vane e troppo poco a tutto il resto.
La vita è ciò che accade mentre noi pensiamo ad altro.
Quante cose si era perso!
Pensò ai luoghi che non avrebbe visto mai, ai viaggi che avrebbe voluto fare con Diana, ed aveva sempre rimandato, perché c'erano questioni più urgenti,  a come sarebbero diventati i suoi nipoti da adulti e a come sarebbe stato bello poter conoscerli meglio...
Non aveva saputo apprezzare abbastanza ciò che già era suo, affannandosi sempre a desiderare qualcosa di più.
Gli anni erano trascorsi veloci, rincorrendosi freneticamente come falene intorno al lume della sua vita, un fuoco che aveva scottato tutti coloro che si erano avvicinati troppo. 
Ed ora quel fuoco si stava spegnendo...
Ma c'era quell'ultimo Natale, quell'ultima occasione per stare con i suoi cari.
Si concentrò sul momento presenteperché alla fine aveva compreso che il presente è l'unica cosa che abbiamo, l'unica occasione sicura per fare ciò che va fatto, finché siamo in tempo, finché ne abbiamo le forze, finché ne abbiamo la possibilità.
Un giorno anche suo nipote Roberto avrebbe imparato quella lezione, quando però gran parte delle occasioni più importanti erano andate perdute irreparabilmente.



Le questioni pratiche erano già state sistemate, in un modo o nell'altro.
Aveva saldato i debiti col Fisco e aveva fatto testamento in maniera scrupolosa, discutendolo con i familiari.
La Villa Orsini e un terzo del Feudo sarebbero andati in eredità a Diana Orsini, che per la prima volta in vita sua sarebbe diventata proprietaria di ciò che un tempo era stato dei suoi antenati.
I rimanenti due terzi del Feudo Orsini dovevano essere ripartiti tra le figlie di Ettore e Diana.
Il Consiglio di Amministrazione sarebbe stato composto nella maniera seguente: Presidente Diana Orsini Balducci di Casemurate, Vicepresidente e Amministratore Delegato Amilcare Spreti di Serachieda, Tesoriere e Direttore Generale Saverio Zanetti Protonotari Campi, Consiglieri con diritto di voto e gettone di presenza gli altri soci: Francesco Monterovere, Adriana Ricci, Carolina Gagni di Montescudo, Maria Teresa Tartaglia, Cassio Baglioni detto "la Marmotta", Sebastiano Luciani detto "Bastcianò" e altri due eventualmente nominati dalla Bancaccia e dai soci di minoranza.

Signoria Rurale medievale


Erano tempi di crisi economica per tutti. 
Una volta Roberto gli aveva chiesto: <<Stiamo per fallire?>> ed Ettore aveva risposto <<Ti stai ponendo la domanda sbagliata>> E allora il nipote gli aveva chiesto <<Quale sarebbe la domanda giusta?>> Ettore aveva abbozzato un mezzo sorriso, con la mezza faccia non paralizzata: <<La domanda giusta, mio caro ragazzo, è : "Chi non fallirà?">>
Roberto non capiva: <<Cosa intendi dire?>>
Il vecchio allora allora alzava l'indice della mano buona, toccandosi la tempia e ruotando il dito orizzontalmente: <<Dicono che sei intelligente, e allora usalo quel cervello! La crisi ci mostra subito chi detiene il potere reale e qual è il suo disegno: chi ci guadagna, chi viene salvato e chi viene sacrificato. E poi c'è chi deve imparare a rimanere a galla da solo, senza più aiuti e salvagenti>>
Roberto comprese:
<<E questi siamo noi>>
Il vecchio gratificò il nipote con un mezzo sorriso:
<<Oh, ecco il mio ragazzo!>>






Ogni tanto Ettore rimaneva in silenzio, e contemplava sua moglie, chiedendosi se alla fine fosse riuscita davvero ad amarlo.
Non avevano più parlato del processo. Lei aveva testimoniato a suo favore con grande convinzione.
Ma lo aveva fatto per salvare lui o per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia?
Tante volte avrebbe voluto parlarle liberamente di tutto ciò che per una vita intera non si erano detti. Ma quelle parole rimasero sempre e soltanto nel pensiero.
"Diana, gli occhi tuoi pieni e lucenti mi hanno incantato un pomeriggio lontano più di cinquant'anni fa. 
Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea delle malefatte che un uomo di potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo della sua azienda e della sua famiglia.
Per troppi anni, nel Feudo Orsini, il Potere sono stato io. 
Io, con la mia mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te.
 Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità...
 La responsabilità diretta o indiretta per tutte le malefatte che sono state commesse sotto questo tetto dal 1935 in avanti.
La responsabilità nell'aver permesso che un folle, di sua iniziativa, eliminasse chiunque poteva costituire una minaccia per il nostro sistema di potere.
Sì, io avrei potuto fermare Michele e non l'ho fatto. Questo mi rende suo connivente.
Pertanto ho sulla coscienza la vita di un numero di persone maggiore persino di quello che la gente pensa.
Isabella, Arturo, il Conte Achille avvelenato, Federico, mio fratello Oreste che voleva confessare troppe cose alle autorità in cambio della salvezza finanziaria, tutti loro, per vocazione o per bisogno, irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. 
Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e io non potevo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. 
"
Questi pensieri, che lo terrorizzavano, non li aveva confessati a nessuno, nemmeno ai sacerdoti che più volte gli avevano somministrato l'Estrema Unzione.

Ettore Ricci si spense un mese dopo, nel sonno, all'età di 81 anni.
Fu castigo o fu misericordia?
A Roberto piacque pensare che in fondo, alla fine, suo nonno avesse trovato la pace.
I funerali si tennero in forma strettamente privata e la notizia della morte venne data solo, come si dice in questi casi, "a esequie avvenute".
Mentre i resti mortali di Ettore Ricci venivano tumulati nella lugubre cappella dei Ricci-Orsini, nel cimitero di Casemurate, "sotto la volta nera", più buia dell'avello dell'Escoriale più istoriata del Mausoleo di Galla Placidia, a Roberto parve che anche la sua lunga e dorata infanzia, in quel preciso istante, fosse stata sepolta definitivamente insieme al nonno.







Poi lo sguardo di Roberto andò verso sua nonna, bellissima e solenne, resa ancora più nobile e distinta dal lutto e dalla saggezza degli anni.
Diana Orsini Balducci, vedova Ricci, diciottesima Contessa di Casemurate, si stagliava come una statua davanti all'abisso.
Il suo volto era immobile, il suo sguardo imperscrutabile, mentre fissava il sepolcro del marito, avvolta nei veli neri del lutto sollevati dal vento.




Che cosa stava pensando del suo defunto marito? Di quel marito che era stata costretta a sposare contro la sua volontà, per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini, e che aveva continuato a difendere a spada tratta fino all'ultimo, tra processi e scandali, sempre per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini!



Diana forse aveva preferito credere che Ettore, pur essendo capace di atti deplorevoli, non fosse un uomo pericoloso
Forse spericolato, questo sì, ma non malvagio.
Diana, come tutti coloro che erano cresciuti con la consapevolezza di doversi dedicare alla conservazione di ciò che era stato loro trasmesso per tradizione e forse per Mandato Celeste, temeva il Caos al di sopra di ogni cosa.
Ed Ettore, sotto molti aspetti, era stato la personificazione del Caos. Ma lei era riuscita a fare in modo che quell'uragano generasse anche energia utile e costruttiva. 
Aveva preferito non sapere la verità, perché ci sono cose nella vita che è meglio non vedere, non sentire, neppure pensare.
Aveva circonfuso la memoria di suo marito in un'aura di mistero.
E questo mistero sarebbe diventato per lei qualcosa da mettere a posto, nella galleria dei ritratti, dove non mancavano gli sguardi oscuri e minacciosi.
E avrebbe conservato tutto questo con la stessa infinita ed eterna devozione nei confronti della sua villa vittoriana fatiscente, della sua antica ed eccentrica famiglia e della sua Contea, meravigliosa e sconfitta: solo così Ettore avrebbe potuto ancora trovare posto tra i "buoni",  ed essere annoverato nella gloriosa compagnia degli illustri antenati di una grande stirpe.

Sulla lapide, per volontà di Diana Orsini, venne inciso il sonetto "Memoria inmortal de don Pedro Girón, duque de Osuna, muerto en la prisión", di Francisco De Quevedo, in spagnolo e con traduzione in italiano

Faltar pudo su patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle muerte y cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
    Llloraron sus envidias una a una
Con las propias naciones las extrañas;
Su tumba son de Flandes las campañas,
Y su epitafio la sangrienta luna.
    En sus exequias encendió el Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
    Diole el mejor lugar Marte en su cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.

Venir men poté la patria al grande Osuna,
ma non alla difesa le sue imprese;
morte e carcer gli diedero le Spagne,
cui egli schiava aveva fatto la fortuna.
Pianser le loro invidie a una a una,
con la propria nazione le straniere.
Sua tomba son di Fiandra le campagne,
e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
S'incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio,
Partenope e Trinacria al Mongibello;
il pianto militar crebbe a diluvio.
Di Marte avrà in ciel luogo migliore;
la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio
mormoran con lamento il lor dolore.


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Note dell'Autore 
1) Il quadro è "La Sepoltura del conte di Orgaz" (El Entierro del conde de Orgaz), dipinto a olio su tela realizzato nel 1586 da El Greco. È conservato nella Chiesa di Santo Tomé (Toledo), Castiglia, Regno di Spagna.
2) Il monologo di Ettore Ricci è ispirato a quello di Giulio Andreotti nel film "Il Divo" di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo.
3) Il titolo del capitolo si ispira al film Il leone d'inverno (The Lion in Winter) del 1968 diretto da Anthony Harvey, tratto dall'omonima opera teatrale del 1966 di James Goldman, ambientato negli ultimi anni di regno di Enrico II Plantageneto, che riunisce la sua famiglia per ultimo Natale, dovendo constatare però che la moglie Eleonora d'Aquitania e i figli superstiti Riccardo Cuor di Leone, Goffredo di Bretagna e Giovanni Senzaterra, tramano continuamente per impadronirsi del trono e del potere.
Il personaggio di Eleonora fu magistralmente interpretato da Katharine Hepurn, che ottenne così il terzo Oscar.
Nel 2003 fu realizzata una versione televisiva per la regia di Andrei Konchalowskj, con Glenn Close nel ruolo di Eleonora d’Aquitania, la quale per questa interpretazione si aggiudicò il suo primo Golden Globe (categoria “Miglior attrice in una mini-serie o film per la televisione”).



martedì 8 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 98. L' Autunno del Patriarca


Dopo l'ictus che l'aveva colto al termine del suo memorabile discorso alla Corte, Ettore Ricci fu ricoverato all'ospedale Morgagni di Forlì.
La metà destra del corpo era paralizzata, ma nonostante la emi-paresi facciale, riusciva ancora a parlare e a farsi capire fin troppo bene, rispolverando persino il linguaggio "colorito" della sua lontana giovinezza.
Il temperamento istrionico e sanguigno dei Ricci sembrava quasi essere la sua estrema difesa contro la decadenza fisica.
Dopo tre giorni di sedazione farmacologica, il patriarca del clan Ricci-Orsini si svegliò e incominciò subito a protestare perché non lo lasciavano tornare a casa.
 I medici gli spiegarono che, oltre all'ictus, erano stati rilevate altre patologie, tra cui fibrillazione atriale, embolia polmonare, broncopneumatia cronica ostruttiva, edema polmonare, infezione da streptococco, erisipela, calcolosi colecistica grave, ernia inguinale pronunciata e ipertrofia prostatica.
Il primario di medicina generale lo informò riguardo alla terapia e alla degenza:
<<Le somministreremo farmaci anti-ipertensivi, emo-fluidificanti, diuretici, antibiotici, mucolitici, antispastici, anti-infiammatori, alfa-bloccanti e beta-bloccanti.
 Poi valuteremo se intervenire prima sulla cistifellea, oppure sull'ernia inguinale e/o la prostata>>
Ettore non aveva capito pressoché nulla, se non che volevano fargli un intervento in una zona piuttosto imbarazzante, e reagì male:
<<Poche pugnette! Io... io... ho da fare! Devo sistemare le cose, per quando io...  dopo che io...>>
Poi si fermò, consapevole che, in ogni caso, quello era l'inizio della fine.
Il giorno successivo, in mancanza di miglioramenti, l'Iniziato (la cui identità sarà svelata in seguito), convinse la famiglia a chiamare un prete per l'Unzione degli Infermi.
Ettore non la prese bene.
<<Infermi? Quali infermi? Io... io... sto benissimo... >>
Il sacerdote venne comunque e con infinita pazienza riuscì a ignorare le vivaci proteste del malato:
<<Figliolo, forse la tua fede ha vacillato, ma sei ancora in tempo per confessare i tuoi peccati. La tua anima può ancora librarsi in Cielo>>
Ettore sorrise a mezza bocca:
<<Non ci giurerei. E poi... la lista dei peccati è... troppo lunga... e io... sono già stanco>>
Il sacerdote lo incoraggiò:
<<Incomincia dai più gravi, ce la puoi fare. Del resto, come dico sempre ai miei fedeli, nessuno sa veramente che cosa è in grado di fare, fino a quando non osa saltare>>
Ettore fece un cenno vago:
<<La finestra è lì. Salti pure...>>
Il reverendo si rabbuiò:
<<Sei almeno pentito per i tuoi peccati?>>
Ettore si fece serio:
<<Sì... e il rimorso mi tormenta più di questo letto.
Ma io... io ho già scontato la mia pena... ho già... come si dice... espiato...>>
Il sacerdote comprese:
<<In segno di penitenza, reciterai almeno le preghiere?>>
Ettore sospirò:
<<Le reciti lei... per me...  Io ormai ho dimenticato le parole...
Succede, sa... quando si soffre troppo... e per troppo tempo>>
Il prete valutò quella risposta, poi, annuì e recitò ad alta voce Pater, Ave e Gloria, e poi, insieme a lui, recitò l'Atto di Dolore.
Infine, intuendo che il pentimento era sincero, prese una decisione :
<<E' sufficiente>> e poi <<Ego te absolvo peccatis tuis...>>
Poi gli segnò la croce sulla fronte con l'olio benedetto e prese congedo.

Il rito e il sacramento respinsero il demone Eclion che era stato evocato contro di lui, ed annullarono la maledizione delle streghe di Casemurate, ossia Ida Braghiri, nata Paludi, e le sue sorelle Elvira, Iole, Irma ed Ermide.
L'intervento dell'Iniziato e del Sacerdote-Esorcista da lui chiamato, aveva sconfitto la malvagità delle cinque sorelle Paludi, le streghe della confluenza tra Bevano e Torricchia.
Quella notte Ettore dormì sereno e per la prima volta dopo tanto tempo non sentì il peso della sua coscienza.

Nei giorni successivi, i familiari si alternarono al capezzale del malato.
La moglie Diana Orsini parlò con lui più tempo in quei giorni che nei precedenti cinquantacinque anni di matrimonio.
Quello che si dissero appartiene soltanto a loro, e alla loro memoria.
Possiamo comunque testimoniare che la malattia li aveva riavvicinati a tal punto che sembravano essere la coppia più unita del mondo.
Talvolta il dolore unisce più della felicità.
Diversi furono i ruoli delle tre figlie.
La prima figlia, la marchesa Margherita Spreti di Serachieda, per i suoi look ricercati con tanto di cappelli in stile Royal Ascot, oltre che per i suoi modi da gran dama, era stata soprannominata da medici e infermieri "la Principessa di Galles".


Questo suo ascendente le consentì di ottenere per il padre un trattamento di riguardo.
Da quel momento fu incaricata di mantenere le pubbliche relazioni.
La seconda figlia, la professoressa Silvia Monterovere, che era stata insegnante di almeno una dozzina di medici ospedalieri, e riceveva nel suo salotto un'altra dozzina che erano stati studenti del marito, riuscì ad avere informazioni più precise sulla condizione del padre.
Le notizie purtroppo non erano incoraggianti.
Per quanto il quadro clinico si fosse stabilizzato, il paziente non sarebbe più tornato a camminare e avrebbe dovuto cambiare radicalmente stile di vita e alimentazione. Inoltre, considerando l'instabilità cardio-respiratoria e gli interventi chirurgici che dovevano essere fatti, la prognosi rimaneva infausta. 
Comunicarlo al resto della famiglia non fu facile.
La terza figlia, la contessa Isabella Zanetti Protonotari Campi, che era sempre stata la più pragmatica delle tre, fece subito chiamare il notaio per definire le questioni ereditarie e l'avvocato e il commercialista per capire se era ancora possibile salvare il Feudo Orsini dalla bancarotta.
C'era ancora qualche speranza, ammesso che, naturalmente, i processi si concludessero, almeno per la causa civile sui danni erariali, in maniera positiva.
Bisognava trovare nuovi soci e fare modifiche allo statuto della società in accomandita.
I due nipoti maggiori, Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, all'epoca studenti universitari, si alternarono a fare compagnia al nonno, che predisse loro una carriera accademica brillante e un avvenire da luminari della scienza in odore di Nobel.
Questo accadeva nelle ore diurne.
Quando però giungeva la sera, ad Ettore Ricci sembrava che tutta la sua vita fosse sul punto di contrarsi e le pareti dell'ospedale gli si stringessero addosso, come le sbarre di una gabbia volta a imprigionare qualcosa di selvaggio, ecco che chiedeva la presenza del nipote più giovane, l'allora quattordicenne Roberto Monterovere.
Per qualche motivo, che a tutti sfuggiva, Ettore riponeva in quel ragazzo le sue speranze di rivalsa contro coloro che l'avevano tradito e contro un'intera città che sembrava avergli voltato le spalle.
<<Ti ricordi quando ti ho portato a caccia? Quando ti ho detto che per intrappolare i lupi bisogna intingere il coltello nel miele? Ecco, il momento è arrivato. 
Come vedi, i lupi ci circondano, e presto o tardi, quando io non ci sarò più, attaccheranno la nostra famiglia per fare a brandelli tutto ciò che ne resta.
 Prenderanno di mira tua nonna, tua madre, le tue zie, forse anche i tuoi cugini, ma risparmieranno te, perché sei ancora minorenne. Ecco perché sarai tu a doverti fare carico della nostra rivincita>>
Quanto possono valere le promesse fatte ad un parente in condizioni così gravi?
Quanto potranno condizionare la vita successiva di chi ha giurato di mantenere quegli impegni?
Anche se alcuni potranno addurre la giovane età di Roberto, all'epoca, come un'attenuante, lui non riuscì mai a perdonare se stesso per essersi vincolato ad una promessa che, realisticamente, era al di là delle sue forze   e per aver ceduto su tutte le richieste, in quella notte interminabile al capezzale del nonno.
<<Devi promettermi e giurarmi che mai e poi mai il Feudo Orsini o la Villa Orsini saranno venduti. Naturalmente finché vivrà tua nonna nessuno avrà il coraggio di cacciarla dalla casa dei suoi avi, ma dopo le cose potrebbero mettersi male. Confido però nel fatto che gli Orsini hanno una vita lunga e che tua nonna Diana vivrà almeno un'altra ventina d'anni. Nel frattempo tu ti laureerai in Economia Aziendale in un'università prestigiosa, a Milano o a Roma, e farai tutti i master che servono per conoscere il mondo degli affari. A quel punto sarai in grado di prendere in mano la situazione e di riportare il nostro patrimonio al valore di un tempo>>
La faccia di Roberto non dovette apparire molto convinta agli occhi del nonno, il quale tese la mano buona verso di lui e gli intimò:
<<Prometti, Roberto!>>
E il nipote promise e giurò, e le conseguenze di quella promessa lo perseguitarono per il resto dei suoi giorni.

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giovedì 3 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 97. Apologia e apoplessia


La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana,  a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria popolare, non esperta di diritto penale o di medicina legale, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.

Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte degna di una nomination al Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:

<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco. 
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento. 
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati. Se poi qualcuno si è sentito in dovere di sdebitarsi in qualche modo, non è stato certo dietro nostra sollecitazione.
Riguardo alle questioni contabili l'unica colpa di mio marito è di essersi fidato di persone che in apparenza si comportavano da amici, mentre in realtà non lo erano affatto.
Non voglio spingermi oltre, nel parlare di queste persone, ma credo che avessero da tempo l'intenzione di nuocerci.
Noi, in questa situazione, siamo la parte lesa, non certo i mandanti.
In considerazione di tutto ciò che ho detto, mi permetto di invitare la Corte a tenere presente la nostra buona fede.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>

Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<So che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quantomeno lo stesso peso di chi, in maniera anonima, ha cercato di dimostrare il contrario>>
La risposta piacque all'uditorio, ma l'avvocato Vanesio  rischiò di rovinare tutto con un commento fuori luogo:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare. Si era creato un clima nuovo in aula.

Naturalmente, Ettore Ricci, da par suo, volle rilasciare una focosa deposizione spontanea, destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità, della mia ingenuità e della mia ignoranza a livello contabile.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore: io non sono un uomo istruito e come tale, se anche determinati documenti fossero passati per il mio ufficio, non ero in grado di capire le insidie che celavano,

Si è obiettato che l'ignoranza della legge non può essere addotta come scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge. 
Michele Braghiri era un ragioniere ben preparato, ed io credevo che fosse anche un amico.
Per questo, in buona fede, ho firmato documenti di cui non comprendevo il significato.
Se l'ignoranza è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Ma la mia ignoranza non deriva da una negligenza, o da una mancanza di volontà.
Il fatto è che io vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini. 
Quando ero bambino, mio padre non aveva ancora avviato le attività che in seguito portarono la famiglia Ricci alla prosperità, cosa che avvenne quando io avevo più di vent'anni, ed avevo lavorato nei campi per almeno due lustri.
Se la povertà che mi ha impedito di studiare è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Posso aver commesso delle leggerezze, per le quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità.
Ma chiedo umilmente questa Corte di riconoscere che il mio successo negli affari non è frutto di un crimine, ma solo ed esclusivamente del mio duro lavoro e delle fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte...>> e qui fu travolto dalla commozione e dallo sdegno, come Julien Sorel alla fine de Il Rosso e il Nero. <<... sì, questo è il punto. E cioè il fatto che coloro che mi accusano vogliono punire in me tutti coloro i quali, nati in una condizione sociale inferiore, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che l'orgoglio dei ricchi di antica data chiama altezzosamente "la Buona Società">>

Quelle parole colpirono nel segno la platea, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
A prescindere dalle decisioni del Tribunale, quell'applauso stava a significare che la famiglia Ricci-Orsini aveva ritrovato la simpatia e il rispetto dei concittadini.
Ma su Ettore pendeva comunque una maledizione potente, e Ida Braghiri in persona si era recata dalle sue sorelle streghe delle paludi, Iole, Irma ed Ermide, che le garantirono ciò che era stato pattuito: "Due sacrifici sono stati compiuti, e una vita è già stata spezzata. Ora tocca alla seconda. Non sarà una cosa breve, perché ci sono altre forze in gioco"
Ida Braghiri capì a chi alludevano le sue sorelle, quando parlarono dell'Iniziato, e si rese conto che la situazione era diventata assai più complessa.
Tutto era divenuto evidente quel giorno, al Tribunale.
Mentre la platea applaudiva, Ida notò con fastidio che l'Iniziato si stava recando al telefono più vicino, perché sapeva che ce ne sarebbe stato bisogno.
E infatti, proprio nel momento dell'apparente redenzione, un malore colpì Ettore Ricci non appena ebbe finito di parlare. 
Era ancora in piedi, al termine della propria apologia, con la faccia paonazza e il respiro affannato, quando si manifestarono i sintomi dell'ictus ischemico.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco degli imputati, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero".