venerdì 1 gennaio 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 101. La sopravvissuta e l'erede


Diana vagava sola nella casa dei suoi antenati.
I loro ritratti la fissavano dalle pareti con sguardo corrucciato. L'unica Orsini che aveva osato accennare un sorriso, nel "ritratto ufficiale", era stata lei stessa, ed ora le due Diane, quella del passato e quella del presente, si osservavano a vicenda. La prima, dal ritratto, osservava la "se stessa" reale con aria indulgente, e gli occhi scuri e profondi come abissi sembravano intravvedere, con malinconia dignitosa e maestoso coraggio, tutte le avversità che l'attendevano in agguato nella seconda parte della sua vita.
E adesso cosa mi resta?
"Che ne fu del re don Juan? E degli Infanti di Aragona, che ne è stato? Cosa resta di tanta nobiltà? Le giostre ed i tornei, i cimieri e le armature... Nient'altro fu che vento? Che cosa sono stati se non erbe di campo"
Della sua grande famiglia, era rimasta soltanto lei a presidiare Villa Orsini.
Per tre rami fiorì la mia stirpe, per sette manieri silvani, ma presto fu stanca del fiero blasone, piegò sotto il peso degli anni, l'antico retaggio degli avi è tutto ciò che io conquisto ed apporto: sono ormai senza patria nel mondo...
Villa Orsini non era mai stata così silenziosa.
Se n'erano andati via tutti.
Il valzer degli addii si era concluso e ognuno era partito per la sua strada.
I più si trovavano sotto la volta nera della cappella di famiglia, riuniti nel sonno eterno.
Suo padre, sua madre, i suoi fratelli Eugenio e Arturo, (il primo morto di meningite quando era solo un bambino), le sue sorelle Giovanna (morta per l'influenza spagnola) e Isabella.
E infine suo marito.
Tutti continuavano a vivere in lei, come se nel momento della dipartita le loro anime fossero confluite nella sua, per darle forza, per dirle: siamo con te, non siamo mai andati via.
Le conferivano una sorta di "mandato celeste" per guidare con saggezza e benevolenza il resto della famiglia, i vivi, anche se non abitavano più con lei : l'ultima sorella che le restava, Ginevra; la cognata nubile, Adriana, che dopo la morte di Ettore si era trasferita in città per stare più vicina al resto della famiglia Ricci; e poi le figlie e i nipoti, che ormai erano cresciuti e avevano la loro vita.
Persino il personale di servizio era ridotto al minimo: la nuova governante, Monica, (molto più discreta di colei che l'aveva preceduta, la terribile Ida Braghiri), non aveva bisogno di collaboratori, perché ormai in casa non c'era molto da fare, e alcune stanze erano state persino chiuse, con i mobili ricoperti da tele contro la polvere.
Pareva di essere in un mausoleo o in una cripta.
Inoltre, a rendere Villa Orsini ancora più tetra e più simile a un maniero inglese era stato il tipo di restauro che il conte Luigi Carlo, trisavolo di Diana, aveva portato a termine a metà Ottocento, in un eccentrico stile neogotico vittoriano già allora piuttosto cupo e minaccioso. A a distanza di un secolo e mezzo pareva un castello abbandonato in preda agli spettri.


Il parco si stava trasformando in un bosco pieno di sterpaglie, che Diana percorreva assorta nei suoi pensieri, riflettendo sulle origini del declino degli Orsini di Casemurate.
Il conte Luigi Carlo conosceva i nomi dei suoi antenati meglio di quelli dei suoi figli e nipoti.
Se ne stava in vecchi saloni con teste di cervo alle pareti, meditando sulle sottigliezze dell'araldica, e saliva nelle sue torri neogotiche per immergersi nel passato e dimenticare il presente.
E fu così che la nostra stirpe andò in rovina e il comando passò, per dirla con Dante, alla "gente nova e' subiti guadagni".
Certo, era tutto molto romantico, e la tentazione di rifugiarsi nel passato era molto forte, e in alcuni casi poteva persino essere giusta, ma a pagare il prezzo di tutto questo erano stati i suoi discendenti.
Le finanze di famiglia non si erano più risollevate, e soltanto il matrimonio di Diana con Ettore Ricci aveva permesso al Feudo Orsini di sopravvivere e persino di prosperare, anche se solo per un breve periodo.
A tal proposito,  Diana ripensava a un colloquio che aveva avuto col nipote Roberto, poco dopo la morte di Ettore.
Mentre passeggiavano sulle rive del Bevano, la Contessa aveva detto al figlio di sua figlia Silvia:
<< Io sono l'ultima degli Orsini di Casemurate. Con me si estinguerà il vincolo che lega il mio cognome a questa terra.  
Dopo di me, il titolo comitale passerà, pro-forma, a tua zia Margherita e quindi alla famiglia Spreti da Serachieda, che era già detentrice della Marca casemuratense ravennate.
Tu avrai in eredità un fondo fiduciario che sono riuscita a mettere al sicuro dalle grinfie dei creditori: ti permetterà di dedicarti a ciò per cui sei portato, e cioè allo studio della storia e della letteratura, e alla tua passione per la scrittura.
Tutto questo per dire che non hai obblighi verso questo luogo .
La manutenzione di questa casa ha costi insostenibili e la gestione del Feudo richiederà l'ingresso di nuovi soci, che prima o poi ci metteranno in minoranza: sic transit gloria mundi.
Ma non importa! Ciò che conta è che non devi sentirti vincolato a una promessa fatta in un momento di debolezza... io so che Ettore ha fatto leva sul tuo profondo senso della famiglia, me l'ha confessato, alla fine, ma non aveva il diritto di far ricadere su di te un simile peso.
Una promessa estorta in quel modo non vale. 
In troppi hanno già pagato per difendere l'onore e il patrimonio dei Ricci-Orsini!
Questo è un mio fardello, a cui dedicherò tutte le mie forze, per tutti i giorni che mi rimangono. 
E i tuoi zii faranno il resto, quando non ci sarò più. 
Voi nipoti potrete vendere tutte le quote e rifarvi una vita>>
Roberto sentiva che nelle parole di sua nonna c'era grande generosità e molto buon senso, ma lui non voleva venir meno alla promessa fatta al nonno morente:
<<"Le radici profonde non gelano". Lo diceva Tolkien e lo diceva anche il nonno, a modo suo, naturalmente. Non puoi chiedermi di agire in maniera non coerente ai miei ideali>>


Diana sospirò:
<<I tuoi ideali sono cavallereschi e cortesi, e dunque appartengono a un mondo che non esiste più e che forse non è mai esistito, se non nei poemi e nei romanzi.
Tu citi Tolkien e allora pensa alla sua scelta di vita: studiava e insegnava all'università, scriveva e inventava lingue immaginarie parlate da personaggi immaginari in mondi immaginari. E tutto questo è confluito nelle storie che raccontava ai suoi figli e infine nei suoi romanzi.
Se avesse fatto l'amministratore di un'azienda agricola, non avrebbe avuto il tempo e gli strumenti culturali per creare la sua grande opera letteraria.
Ha valorizzato le sue qualità ed è la stessa cosa che io vorrei per te: preferirei un milione di volte vederti impegnato in un'attività intellettuale, piuttosto che a controllare gli spaventosi bilanci del Feudo Orsini.
Ettore è morto. Tu sei vivo, e hai tutta la vita davanti. Non buttare via la tua giovinezza in queste meschinità. 
E poi sei un Monterovere! Segui l'esempio di tuo padre, che è un grande insegnante, o di tuo zio, che è un docente universitario!
Lascia perdere questa terra amara... troppe lacrime l'hanno irrigata, e troppo sangue... e ormai "altra messe non dà">>
Roberto prese la mano di sua nonna:
<<Io sono cresciuto qui.  Questa casa, questo giardino... sono parte di me. Qui ho trascorso i miei anni più belli. Solo qui mi sento veramente a casa...>>
Diana scosse il capo:
<<Gli anni più belli? Ma tu non hai neanche diciassette anni! Vorresti forse seppellirti vivo in questo "morto viluppo di memorie"? Già ai tempi del mio trisavolo questa casa stava andando a pezzi, ma lui era convinto di poterla trasformare in un castello medievale e si concentrò solo sugli archi a sesto acuto, le bifore, le torrette col tetto a punta, i camini in stile Tudor, le guglie, i gargoyle... e lasciò che tutto il resto continuasse a cadere a pezzi, perché in fondo questo aggiungeva un'aura davvero medievale al tutto, tralasciando però di aggiungere il trascurabile dettaglio che non gli era rimasto un centesimo. 
Ma tanto bastava costringere i figli e le figlie a sposare gente ricca e tutto si risolveva... ebbene sappi che in tutto questo non c'è stato proprio nulla di romantico. Questo non è un castello con una principessa da salvare. Questa è una tomba, un cimitero! 
L'ultima principessa ha ottant'anni, ormai, e per lei è troppo tardi, perché è questo che sono: prigioniera da una vita... prigioniera del sogno dei miei padri e di quello di mio marito.
Una volta che sarò morta anch'io, cosa resterà qui, se non un cumulo di macerie?
Vuoi forse sprecare la tua vita diventando un adoratore di ceneri?>>


Roberto la fissò, ed era come fissare se stesso, perché lei aveva gli stessi occhi che lui aveva ereditato:
<<Il mio compito è mantenere viva la fiamma>>
Lei ricambiò lo sguardo:
<<E lo farai, ma in un altro modo!>>
Lui non capiva:
<<E quale sarebbe?>>
Diana sorrise:
<<Racconta la nostra storia. Tutta la verità, fino in fondo. Ti autorizzo a farlo. Scrivila, se vuoi.
 Fa' in modo che ne resti traccia. In fondo la mia vita è stata come un romanzo. Ti autorizzo a scrivere di me e di queste terre, che verranno ricordate perché tu avrai scritto un romanzo su di loro. Questo è il modo migliore per rendere omaggio al luogo della tua infanzia. E' l'unica immortalità consentita. Certe cose non tornano più, ma possono essere raccontate...
Pensa a Camelot, il centro dell'universo cavalleresco e cortese: tutti sanno la storia di Camelot, è una storia eterna, eppure Camelot non esiste e non è mai esistita, perché se fosse esistita, la sua realtà sarebbe stata molto più deludente rispetto all'immagine che ne abbiamo tratto dai poemi e dai romanzi
Ciò che onorerà al meglio la nostra storia non sarà un cantiere o un bilancio: sarà la magia della parola e il potere creativo dell'immaginazione.
Solo così la tua nonna Diana, anziana principessa di questo castello potrà essere liberata >>



Non era la risposta che Roberto si aspettava:
<<La storia della nostra famiglia attirerebbe molti più lettori se io riportassi il Feudo Orsini e la Villa Orsini agli splendori un tempo. Ma tu non credi che io ne sia capace.
Dimmi la verità: tu pensi che io sia troppo debole per il mondo degli affari. Alla fine è quello che pensano tutti...>>
Diana si accigliò:
<<Non è una questione di forza o di debolezza, è una questione che riguarda i tuoi talenti, che sono di tipo umanistico, e se tu li tradirai, allora sì che sarai un debole! La vera forza sta nel valorizzare ciò che siamo!>>
Roberto sapeva che sua nonna aveva ragione, ma si trovava in quella turbolenta fase dell'adolescenza in cui ancora l'identità delle persone non è del tutto definita, e dunque è arduo conoscere se stessi, se ancora questo Sé non si è definito.
<<Vorresti fare di me un letterato e quindi un insegnante, uno dei tanti. Ma io vedo che i miei insegnanti sono logorati da un lavoro che la società non valorizza. I miei genitori non vedono l'ora di andare in pensione. Gli studenti di oggi, i miei coetanei, sono per lo più persone squallide, a cui non interessa nulla di storia o di letteratura. E per quel che riguarda l'università, si sa come funzionano le cose... dottorati, borse di studio, precariato e poi alla fine vengono assunti solo i raccomandati>>
Lei inarcò le sopracciglia:
<<Ma tuo zio Lorenzo ti aiuterebbe, ne sono certa>>
Il nipote scosse il capo:
<<Io non voglio questo tipo di favori. Non mi piace dover dire troppe volte grazie alla stessa persona. E comunque, che ti piaccia o no, nelle mie vene scorre anche il sangue di Ettore Ricci, e quello delle infinite generazioni di agricoltori che hanno coltivato questa terra fin dalla notte dei tempi.
Lui aveva con la terra un rapporto quasi simbiotico
Io gli assomiglio più di quanto possa sembrare, e questo lui l'aveva capito. Perciò ha scelto me. Non tanto come erede degli Orsini, quanto come successore di Ettore Ricci>>
Diana ponderò a lungo quelle parole, soppesandole nel suo cuore, ma non se ne rallegrò, perché erano presagio di sofferenza e di sventura:
<<Certo Ettore era l'animatore di questa terra, di questa casa e di questa famiglia. E se mai la Contea di Casemurate ha avuto un'anima, quell'anima era lui.
Ettore non era malvagio, aveva soltanto troppa energia dentro di sé e questo fuoco lo ha consumato. Si è lasciato possedere dai suoi istinti predatori, gli stessi che portano alcune persone a sacrificare tutto in nome del profitto e del successo.
Non dare ascolto a questi istinti : non sanno niente e, cosa ancora peggiore, non imparano mai>>

 



giovedì 17 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 100. La guerra continua



Massimo Braghiri aveva goduto nell'assistere alla caduta in disgrazia e alla morte di Ettore Ricci, ma il suo "grande disegno di vendetta" non era ancora compiuto.
Sua madre Ida aveva lasciato Villa Orsini con una liquidazione di tutto rispetto, con la quale si era comprata una palazzina di fianco "ar Condominio de Lusso" (come il condomino cavalier Semenzana, "romano de Roma" esule in Romagna, chiamava il palazzo abitato dal ramo forlivese dei Monterovere e dalle famiglie di Massimo e Floriana Braghiri, i figli della signora Ida.
Francesco Monterovere, sua moglie Silvia Ricci-Orsini e il loro unico figlio ed erede Roberto Monterovere, presero atto di una evidenza innegabile: "Ci hanno circondati. Siamo sotto assedio da parte della famiglia Braghiri. Non si daranno pace finché non ci avranno rovinati, screditati e seppelliti".
I rimanenti condomini si erano mantenuti neutrali, e dunque nessuna delle due famiglie rivali era in grado, da sola, di avere la maggioranza dei voti per eleggere l'amministratore e prendere le decisioni principali.
Il prestigio, ormai decaduto, del clan Ricci-Orsini-Monterovere, aveva fatto sì che tutti i vicini nel quartiere residenziale "de Lusso" (sempre a giudizio del Semenzana, il quale dasseriva che "qua se sta mejo che ai Parioli"), si fossero sempre riferiti a quell'imponente ed eccentrico edificio, munito di torri con tetti a punta, abbaini vittoriani, bifore neogotiche, comignoli in stile Tudor e un ampio parco con pini, abeti e querce, chiamandolo Palazzo Monterovere, il che era ovviamente inaccettabile per Massimo Braghiri.
Questa volta però non era più possibile far ricorso alle sorelle della signora Ida, le streghe di Casemurate, perché a quanto pare i Monterovere avevano un protettore più potente, a livello delle "arti oscure", il cosiddetto Iniziato agli Arcani Supremi, di cui era cosa saggia persino tacere il nome.
A dire il vero, a quei tempi, ossia gli Anni Novanta del XX secolo, che oggi ci sembrano distanti come l'età dei Faraoni, i Monterovere non erano ancora consapevoli dell'identità dell'Iniziato che li proteggeva, e del fatto che tale protezione si limitava alle questioni, se ci si passa il termine, di tipo "soprannaturale".
Dunque la guerra tra i Braghiri e i Monterovere si svolse, nei successivi dieci anni, a un livello più terreno, basato su congiure, tradimenti, veleni, alleanze strategiche, colpi di scena, che avrebbero fatto apparire i Borgia, gli Este e i Gonzaga come dei dilettanti.

Va precisato che i Monterovere avrebbero volentieri fatto a meno di quella faida, ma i Braghiri desideravano che in futuro quella residenza diventasse il Palazzo Braghiri, forti anche del fatto che la moglie di Massimo, Elisabetta De Gubernatis, era figlia di Ginevra Orsini, sorella minore della Contessa di Casemurate, e dunque apportatrice di quel "quarto di nobiltà" che rendeva i rampolli Vittorio Braghiri e Roberto Monterovere "di pari grado".
Anche prescindendo dal fatto che non era così (dal momento che i Monterovere discendevano molto alla lontana dai Conti di Querciagrossa, località preappenninica vicino a Pavullo, nel modenese, con tanto di castello, detto di Montecuccolo), a Roberto Monterovere era dispiaciuto moltissimo il fatto che la sua antica amicizia con Vittorio Braghiri fosse stata definitivamente troncata dallo scoppio di quella specie di Guerra delle Due Rose.

Il paradosso, in questa situazione, era che Roberto e Vittorio, sotto molti aspetti, erano simili: entrambi nati nel 1975, entrambi mancini, entrambi legati a un'infanzia trascorsa a Villa Orsini, nella Contea di Casemurate, entrambi iscritti al primo anno del Liceo Scientifico "Fulcieri Paolucci de' Calboli (che era pure parente della loro defunta bisnonna Emilia).
Roberto era nella sezione A, suo padre insegnava nella sezione B, e Vittorio era nella sezione C.
Il fatto che Roberto avesse voti più alti di quelli di Vittorio, era visto da Massimo Braghiri come una chiara questione di favoritismo da parte dei colleghi di Francesco Monterovere verso il di lui figlio.
E purtroppo i Braghiri non erano gli unici a pensarla così, per cui se Roberto prendeva un voto alto, tutti gli invidiosi dicevano: <<Per forza, è figlio di Monterovere!>> e nei rari casi in cui lo stesso Roberto prendeva un brutto voto, le stesse persone commentavano: <<Avete visto, pur essendo il figlio di Monterovere, è talmente stupido da non riuscire a prendere un buon voto!>>
Roberto era esasperato da quella situazione.
Sua nonna Diana allora gli raccontò la famosa favola classica intitolata "Il contadino, il figlio e l'asino": Senex cum adulescente filio agebat iter...
La morale è nota: qualunque scelta facessero, la gente avrebbe sempre avuto qualcosa da ridire.
<<Posso anche infischiarmene di quel che dice la gente>> rispose Roberto <<ma qui la situazione è un po' diversa. Qui c'è la regia di un pazzo lucido il cui unico scopo, nella vita, è rovinare la nostra famiglia. Massimo vuole farci fare la stessa fine del nonno, e non avrà pace finché non ci sarà riuscito>>
Diana Orsini lo sapeva fin troppo bene:
<<Non gli daremo questa soddisfazione. Andremo avanti per la nostra strada, con la schiena dritta, la testa alta e la coscienza limpida, poiché il passato è stato sepolto e ora è tempo di voltare pagina>>
In teoria Diana aveva ragione, ma nella pratica la situazione era molto più complessa.
Roberto in realtà non voleva cambiare pagina, non era pronto ad archiviare la sua meravigliosa infanzia per avventurarsi in un terreno sconosciuto, in un mondo così diverso dalla sua amata Contea di Casemurate: il suo cuore era ancora lì, e sarebbe rimasto lì per sempre, poiché sentiva che niente e nessuno al mondo sarebbe mai stato in grado di procurargli una felicità così grande, così pura e così completa.


venerdì 11 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 99. Il Leone in Inverno


Il suo corpo martoriato, la sua casa fatiscente, la sua azienda colpita al cuore, la sua Contea sconfitta: questo era bilancio che Ettore Ricci si trovò davanti quando finalmente, dopo interminabili mesi di ospedale, riuscì a tornare a Casemurate, nel dicembre del 1990.
Cosa restava, dopo una vita di lavoro, di sacrificio, ma anche di ambizione e di desiderio?
Un cumulo di macerie.


Ma Villa Orsini era decorata con le luminarie di Natale, e la famiglia al completo lo attendeva come un re ferito in battaglia e tornato per l'ultima volta nella sua patria, a morire.
Ettore sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo Natale.
Diana lo aspettava sulla soglia, come la fata Morgana che accoglie Artù morente nell'isola di Avalon, da dove un giorno tornerà, secondo la speranza dei Bretoni, la speranza vana...
Accennò un mezzo sorriso, mentre sua figlia Silvia lo faceva accomodare sulla sedia a rotelle, il regalo natalizio che mai avrebbe pensato di poter gradire.
Tutta la sua famiglia era lì, il clan Ricci-Orsini al completo, riunito per l'ultima volta nella sua interezza, per onorare il patriarca e nel contempo prendere congedo da lui.
Lo guardavano come se fosse già morto, come avessero davanti una statua o un fantasma, ma la realtà era ancora peggiore: ciò che vedevano era un relitto.
Di fronte all'improvvisa coscienza del fatto che ormai tutto si era compiutoEttore non poté fare a meno di provare quel senso di rimpianto tipico di coloro che, soltanto in extremis rebus, si rendono conto di aver dedicato troppo tempo a cose vane e troppo poco a tutto il resto.
La vita è ciò che accade mentre noi pensiamo ad altro.
Quante cose si era perso!
Pensò ai luoghi che non avrebbe visto mai, ai viaggi che avrebbe voluto fare con Diana, ed aveva sempre rimandato, perché c'erano questioni più urgenti,  a come sarebbero diventati i suoi nipoti da adulti e a come sarebbe stato bello poter conoscerli meglio...
Non aveva saputo apprezzare abbastanza ciò che già era suo, affannandosi sempre a desiderare qualcosa di più.
Gli anni erano trascorsi veloci, rincorrendosi freneticamente come falene intorno al lume della sua vita, un fuoco che aveva scottato tutti coloro che si erano avvicinati troppo. 
Ed ora quel fuoco si stava spegnendo...
Ma c'era quell'ultimo Natale, quell'ultima occasione per stare con i suoi cari.
Si concentrò sul momento presenteperché alla fine aveva compreso che il presente è l'unica cosa che abbiamo, l'unica occasione sicura per fare ciò che va fatto, finché siamo in tempo, finché ne abbiamo le forze, finché ne abbiamo la possibilità.
Un giorno anche suo nipote Roberto avrebbe imparato quella lezione, quando però gran parte delle occasioni più importanti erano andate perdute irreparabilmente.



Le questioni pratiche erano già state sistemate, in un modo o nell'altro.
Aveva saldato i debiti col Fisco e aveva fatto testamento in maniera scrupolosa, discutendolo con i familiari.
La Villa Orsini e un terzo del Feudo sarebbero andati in eredità a Diana Orsini, che per la prima volta in vita sua sarebbe diventata proprietaria di ciò che un tempo era stato dei suoi antenati.
I rimanenti due terzi del Feudo Orsini dovevano essere ripartiti tra le figlie di Ettore e Diana.
Il Consiglio di Amministrazione sarebbe stato composto nella maniera seguente: Presidente Diana Orsini Balducci di Casemurate, Vicepresidente e Amministratore Delegato Amilcare Spreti di Serachieda, Tesoriere e Direttore Generale Saverio Zanetti Protonotari Campi, Consiglieri con diritto di voto e gettone di presenza gli altri soci: Francesco Monterovere, Adriana Ricci, Carolina Gagni di Montescudo, Maria Teresa Tartaglia, Cassio Baglioni detto "la Marmotta", Sebastiano Luciani detto "Bastcianò" e altri due eventualmente nominati dalla Bancaccia e dai soci di minoranza.

Signoria Rurale medievale


Erano tempi di crisi economica per tutti. 
Una volta Roberto gli aveva chiesto: <<Stiamo per fallire?>> ed Ettore aveva risposto <<Ti stai ponendo la domanda sbagliata>> E allora il nipote gli aveva chiesto <<Quale sarebbe la domanda giusta?>> Ettore aveva abbozzato un mezzo sorriso, con la mezza faccia non paralizzata: <<La domanda giusta, mio caro ragazzo, è : "Chi non fallirà?">>
Roberto non capiva: <<Cosa intendi dire?>>
Il vecchio allora allora alzava l'indice della mano buona, toccandosi la tempia e ruotando il dito orizzontalmente: <<Dicono che sei intelligente, e allora usalo quel cervello! La crisi ci mostra subito chi detiene il potere reale e qual è il suo disegno: chi ci guadagna, chi viene salvato e chi viene sacrificato. E poi c'è chi deve imparare a rimanere a galla da solo, senza più aiuti e salvagenti>>
Roberto comprese:
<<E questi siamo noi>>
Il vecchio gratificò il nipote con un mezzo sorriso:
<<Oh, ecco il mio ragazzo!>>






Ogni tanto Ettore rimaneva in silenzio, e contemplava sua moglie, chiedendosi se alla fine fosse riuscita davvero ad amarlo.
Non avevano più parlato del processo. Lei aveva testimoniato a suo favore con grande convinzione.
Ma lo aveva fatto per salvare lui o per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia?
Tante volte avrebbe voluto parlarle liberamente di tutto ciò che per una vita intera non si erano detti. Ma quelle parole rimasero sempre e soltanto nel pensiero.
"Diana, gli occhi tuoi pieni e lucenti mi hanno incantato un pomeriggio lontano più di cinquant'anni fa. 
Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sapevano, non sanno e non sapranno, non hanno idea delle malefatte che un uomo di potere deve commettere per assicurare il benessere e lo sviluppo della sua azienda e della sua famiglia.
Per troppi anni, nel Feudo Orsini, il Potere sono stato io. 
Io, con la mia mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. La contraddizione mostruosa che fa di me un uomo cinico e indecifrabile anche per te.
 Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità...
 La responsabilità diretta o indiretta per tutte le malefatte che sono state commesse sotto questo tetto dal 1935 in avanti.
La responsabilità nell'aver permesso che un folle, di sua iniziativa, eliminasse chiunque poteva costituire una minaccia per il nostro sistema di potere.
Sì, io avrei potuto fermare Michele e non l'ho fatto. Questo mi rende suo connivente.
Pertanto ho sulla coscienza la vita di un numero di persone maggiore persino di quello che la gente pensa.
Isabella, Arturo, il Conte Achille avvelenato, Federico, mio fratello Oreste che voleva confessare troppe cose alle autorità in cambio della salvezza finanziaria, tutti loro, per vocazione o per bisogno, irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. 
Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e io non potevo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. 
"
Questi pensieri, che lo terrorizzavano, non li aveva confessati a nessuno, nemmeno ai sacerdoti che più volte gli avevano somministrato l'Estrema Unzione.

Ettore Ricci si spense un mese dopo, nel sonno, all'età di 81 anni.
Fu castigo o fu misericordia?
A Roberto piacque pensare che in fondo, alla fine, suo nonno avesse trovato la pace.
I funerali si tennero in forma strettamente privata e la notizia della morte venne data solo, come si dice in questi casi, "a esequie avvenute".
Mentre i resti mortali di Ettore Ricci venivano tumulati nella lugubre cappella dei Ricci-Orsini, nel cimitero di Casemurate, "sotto la volta nera", più buia dell'avello dell'Escoriale più istoriata del Mausoleo di Galla Placidia, a Roberto parve che anche la sua lunga e dorata infanzia, in quel preciso istante, fosse stata sepolta definitivamente insieme al nonno.







Poi lo sguardo di Roberto andò verso sua nonna, bellissima e solenne, resa ancora più nobile e distinta dal lutto e dalla saggezza degli anni.
Diana Orsini Balducci, vedova Ricci, diciottesima Contessa di Casemurate, si stagliava come una statua davanti all'abisso.
Il suo volto era immobile, il suo sguardo imperscrutabile, mentre fissava il sepolcro del marito, avvolta nei veli neri del lutto sollevati dal vento.




Che cosa stava pensando del suo defunto marito? Di quel marito che era stata costretta a sposare contro la sua volontà, per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini, e che aveva continuato a difendere a spada tratta fino all'ultimo, tra processi e scandali, sempre per salvare l'onore e il patrimonio della famiglia Orsini!



Diana forse aveva preferito credere che Ettore, pur essendo capace di atti deplorevoli, non fosse un uomo pericoloso
Forse spericolato, questo sì, ma non malvagio.
Diana, come tutti coloro che erano cresciuti con la consapevolezza di doversi dedicare alla conservazione di ciò che era stato loro trasmesso per tradizione e forse per Mandato Celeste, temeva il Caos al di sopra di ogni cosa.
Ed Ettore, sotto molti aspetti, era stato la personificazione del Caos. Ma lei era riuscita a fare in modo che quell'uragano generasse anche energia utile e costruttiva. 
Aveva preferito non sapere la verità, perché ci sono cose nella vita che è meglio non vedere, non sentire, neppure pensare.
Aveva circonfuso la memoria di suo marito in un'aura di mistero.
E questo mistero sarebbe diventato per lei qualcosa da mettere a posto, nella galleria dei ritratti, dove non mancavano gli sguardi oscuri e minacciosi.
E avrebbe conservato tutto questo con la stessa infinita ed eterna devozione nei confronti della sua villa vittoriana fatiscente, della sua antica ed eccentrica famiglia e della sua Contea, meravigliosa e sconfitta: solo così Ettore avrebbe potuto ancora trovare posto tra i "buoni",  ed essere annoverato nella gloriosa compagnia degli illustri antenati di una grande stirpe.

Sulla lapide, per volontà di Diana Orsini, venne inciso il sonetto "Memoria inmortal de don Pedro Girón, duque de Osuna, muerto en la prisión", di Francisco De Quevedo, in spagnolo e con traduzione in italiano

Faltar pudo su patria al grande Osuna,
Pero no a su defensa sus hazañas;
Diéronle muerte y cárcel las Españas,
De quien él hizo esclava la Fortuna.
    Llloraron sus envidias una a una
Con las propias naciones las extrañas;
Su tumba son de Flandes las campañas,
Y su epitafio la sangrienta luna.
    En sus exequias encendió el Vesubio
Parténope, y Trinacria al Mongibelo;
El llanto militar creció en diluvio.
    Diole el mejor lugar Marte en su cielo;
La Mosa, el Rhin, el Tajo y el Danubio
Murmuran con dolor su desconsuelo.

Venir men poté la patria al grande Osuna,
ma non alla difesa le sue imprese;
morte e carcer gli diedero le Spagne,
cui egli schiava aveva fatto la fortuna.
Pianser le loro invidie a una a una,
con la propria nazione le straniere.
Sua tomba son di Fiandra le campagne,
e il suo epitaffio la sanguigna Luna.
S'incendiò per le sue esequie anche il Vesuvio,
Partenope e Trinacria al Mongibello;
il pianto militar crebbe a diluvio.
Di Marte avrà in ciel luogo migliore;
la Mosa, il Reno, il Tago ed il Danubio
mormoran con lamento il lor dolore.


Risultati immagini per entierro del duque de orgaz

Note dell'Autore 
1) Il quadro è "La Sepoltura del conte di Orgaz" (El Entierro del conde de Orgaz), dipinto a olio su tela realizzato nel 1586 da El Greco. È conservato nella Chiesa di Santo Tomé (Toledo), Castiglia, Regno di Spagna.
2) Il monologo di Ettore Ricci è ispirato a quello di Giulio Andreotti nel film "Il Divo" di Paolo Sorrentino, con Toni Servillo.
3) Il titolo del capitolo si ispira al film Il leone d'inverno (The Lion in Winter) del 1968 diretto da Anthony Harvey, tratto dall'omonima opera teatrale del 1966 di James Goldman, ambientato negli ultimi anni di regno di Enrico II Plantageneto, che riunisce la sua famiglia per ultimo Natale, dovendo constatare però che la moglie Eleonora d'Aquitania e i figli superstiti Riccardo Cuor di Leone, Goffredo di Bretagna e Giovanni Senzaterra, tramano continuamente per impadronirsi del trono e del potere.
Il personaggio di Eleonora fu magistralmente interpretato da Katharine Hepurn, che ottenne così il terzo Oscar.
Nel 2003 fu realizzata una versione televisiva per la regia di Andrei Konchalowskj, con Glenn Close nel ruolo di Eleonora d’Aquitania, la quale per questa interpretazione si aggiudicò il suo primo Golden Globe (categoria “Miglior attrice in una mini-serie o film per la televisione”).



martedì 8 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 98. L' Autunno del Patriarca


Dopo l'ictus che l'aveva colto al termine del suo memorabile discorso alla Corte, Ettore Ricci fu ricoverato all'ospedale Morgagni di Forlì.
La metà destra del corpo era paralizzata, ma nonostante la emi-paresi facciale, riusciva ancora a parlare e a farsi capire fin troppo bene, rispolverando persino il linguaggio "colorito" della sua lontana giovinezza.
Il temperamento istrionico e sanguigno dei Ricci sembrava quasi essere la sua estrema difesa contro la decadenza fisica.
Dopo tre giorni di sedazione farmacologica, il patriarca del clan Ricci-Orsini si svegliò e incominciò subito a protestare perché non lo lasciavano tornare a casa.
 I medici gli spiegarono che, oltre all'ictus, erano stati rilevate altre patologie, tra cui fibrillazione atriale, embolia polmonare, broncopneumatia cronica ostruttiva, edema polmonare, infezione da streptococco, erisipela, calcolosi colecistica grave, ernia inguinale pronunciata e ipertrofia prostatica.
Il primario di medicina generale lo informò riguardo alla terapia e alla degenza:
<<Le somministreremo farmaci anti-ipertensivi, emo-fluidificanti, diuretici, antibiotici, mucolitici, antispastici, anti-infiammatori, alfa-bloccanti e beta-bloccanti.
 Poi valuteremo se intervenire prima sulla cistifellea, oppure sull'ernia inguinale e/o la prostata>>
Ettore non aveva capito pressoché nulla, se non che volevano fargli un intervento in una zona piuttosto imbarazzante, e reagì male:
<<Poche pugnette! Io... io... ho da fare! Devo sistemare le cose, per quando io...  dopo che io...>>
Poi si fermò, consapevole che, in ogni caso, quello era l'inizio della fine.
Il giorno successivo, in mancanza di miglioramenti, l'Iniziato (la cui identità sarà svelata in seguito), convinse la famiglia a chiamare un prete per l'Unzione degli Infermi.
Ettore non la prese bene.
<<Infermi? Quali infermi? Io... io... sto benissimo... >>
Il sacerdote venne comunque e con infinita pazienza riuscì a ignorare le vivaci proteste del malato:
<<Figliolo, forse la tua fede ha vacillato, ma sei ancora in tempo per confessare i tuoi peccati. La tua anima può ancora librarsi in Cielo>>
Ettore sorrise a mezza bocca:
<<Non ci giurerei. E poi... la lista dei peccati è... troppo lunga... e io... sono già stanco>>
Il sacerdote lo incoraggiò:
<<Incomincia dai più gravi, ce la puoi fare. Del resto, come dico sempre ai miei fedeli, nessuno sa veramente che cosa è in grado di fare, fino a quando non osa saltare>>
Ettore fece un cenno vago:
<<La finestra è lì. Salti pure...>>
Il reverendo si rabbuiò:
<<Sei almeno pentito per i tuoi peccati?>>
Ettore si fece serio:
<<Sì... e il rimorso mi tormenta più di questo letto.
Ma io... io ho già scontato la mia pena... ho già... come si dice... espiato...>>
Il sacerdote comprese:
<<In segno di penitenza, reciterai almeno le preghiere?>>
Ettore sospirò:
<<Le reciti lei... per me...  Io ormai ho dimenticato le parole...
Succede, sa... quando si soffre troppo... e per troppo tempo>>
Il prete valutò quella risposta, poi, annuì e recitò ad alta voce Pater, Ave e Gloria, e poi, insieme a lui, recitò l'Atto di Dolore.
Infine, intuendo che il pentimento era sincero, prese una decisione :
<<E' sufficiente>> e poi <<Ego te absolvo peccatis tuis...>>
Poi gli segnò la croce sulla fronte con l'olio benedetto e prese congedo.

Il rito e il sacramento respinsero il demone Eclion che era stato evocato contro di lui, ed annullarono la maledizione delle streghe di Casemurate, ossia Ida Braghiri, nata Paludi, e le sue sorelle Elvira, Iole, Irma ed Ermide.
L'intervento dell'Iniziato e del Sacerdote-Esorcista da lui chiamato, aveva sconfitto la malvagità delle cinque sorelle Paludi, le streghe della confluenza tra Bevano e Torricchia.
Quella notte Ettore dormì sereno e per la prima volta dopo tanto tempo non sentì il peso della sua coscienza.

Nei giorni successivi, i familiari si alternarono al capezzale del malato.
La moglie Diana Orsini parlò con lui più tempo in quei giorni che nei precedenti cinquantacinque anni di matrimonio.
Quello che si dissero appartiene soltanto a loro, e alla loro memoria.
Possiamo comunque testimoniare che la malattia li aveva riavvicinati a tal punto che sembravano essere la coppia più unita del mondo.
Talvolta il dolore unisce più della felicità.
Diversi furono i ruoli delle tre figlie.
La prima figlia, la marchesa Margherita Spreti di Serachieda, per i suoi look ricercati con tanto di cappelli in stile Royal Ascot, oltre che per i suoi modi da gran dama, era stata soprannominata da medici e infermieri "la Principessa di Galles".


Questo suo ascendente le consentì di ottenere per il padre un trattamento di riguardo.
Da quel momento fu incaricata di mantenere le pubbliche relazioni.
La seconda figlia, la professoressa Silvia Monterovere, che era stata insegnante di almeno una dozzina di medici ospedalieri, e riceveva nel suo salotto un'altra dozzina che erano stati studenti del marito, riuscì ad avere informazioni più precise sulla condizione del padre.
Le notizie purtroppo non erano incoraggianti.
Per quanto il quadro clinico si fosse stabilizzato, il paziente non sarebbe più tornato a camminare e avrebbe dovuto cambiare radicalmente stile di vita e alimentazione. Inoltre, considerando l'instabilità cardio-respiratoria e gli interventi chirurgici che dovevano essere fatti, la prognosi rimaneva infausta. 
Comunicarlo al resto della famiglia non fu facile.
La terza figlia, la contessa Isabella Zanetti Protonotari Campi, che era sempre stata la più pragmatica delle tre, fece subito chiamare il notaio per definire le questioni ereditarie e l'avvocato e il commercialista per capire se era ancora possibile salvare il Feudo Orsini dalla bancarotta.
C'era ancora qualche speranza, ammesso che, naturalmente, i processi si concludessero, almeno per la causa civile sui danni erariali, in maniera positiva.
Bisognava trovare nuovi soci e fare modifiche allo statuto della società in accomandita.
I due nipoti maggiori, Fabrizio Spreti e Alessio Zanetti, all'epoca studenti universitari, si alternarono a fare compagnia al nonno, che predisse loro una carriera accademica brillante e un avvenire da luminari della scienza in odore di Nobel.
Questo accadeva nelle ore diurne.
Quando però giungeva la sera, ad Ettore Ricci sembrava che tutta la sua vita fosse sul punto di contrarsi e le pareti dell'ospedale gli si stringessero addosso, come le sbarre di una gabbia volta a imprigionare qualcosa di selvaggio, ecco che chiedeva la presenza del nipote più giovane, l'allora quattordicenne Roberto Monterovere.
Per qualche motivo, che a tutti sfuggiva, Ettore riponeva in quel ragazzo le sue speranze di rivalsa contro coloro che l'avevano tradito e contro un'intera città che sembrava avergli voltato le spalle.
<<Ti ricordi quando ti ho portato a caccia? Quando ti ho detto che per intrappolare i lupi bisogna intingere il coltello nel miele? Ecco, il momento è arrivato. 
Come vedi, i lupi ci circondano, e presto o tardi, quando io non ci sarò più, attaccheranno la nostra famiglia per fare a brandelli tutto ciò che ne resta.
 Prenderanno di mira tua nonna, tua madre, le tue zie, forse anche i tuoi cugini, ma risparmieranno te, perché sei ancora minorenne. Ecco perché sarai tu a doverti fare carico della nostra rivincita>>
Quanto possono valere le promesse fatte ad un parente in condizioni così gravi?
Quanto potranno condizionare la vita successiva di chi ha giurato di mantenere quegli impegni?
Anche se alcuni potranno addurre la giovane età di Roberto, all'epoca, come un'attenuante, lui non riuscì mai a perdonare se stesso per essersi vincolato ad una promessa che, realisticamente, era al di là delle sue forze   e per aver ceduto su tutte le richieste, in quella notte interminabile al capezzale del nonno.
<<Devi promettermi e giurarmi che mai e poi mai il Feudo Orsini o la Villa Orsini saranno venduti. Naturalmente finché vivrà tua nonna nessuno avrà il coraggio di cacciarla dalla casa dei suoi avi, ma dopo le cose potrebbero mettersi male. Confido però nel fatto che gli Orsini hanno una vita lunga e che tua nonna Diana vivrà almeno un'altra ventina d'anni. Nel frattempo tu ti laureerai in Economia Aziendale in un'università prestigiosa, a Milano o a Roma, e farai tutti i master che servono per conoscere il mondo degli affari. A quel punto sarai in grado di prendere in mano la situazione e di riportare il nostro patrimonio al valore di un tempo>>
La faccia di Roberto non dovette apparire molto convinta agli occhi del nonno, il quale tese la mano buona verso di lui e gli intimò:
<<Prometti, Roberto!>>
E il nipote promise e giurò, e le conseguenze di quella promessa lo perseguitarono per il resto dei suoi giorni.

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giovedì 3 dicembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 97. Apologia e apoplessia


La procedura penale italiana è molto diversa da quella americana,  a cui siamo stati abituati a partire dai tempi di Perry Mason fino ad arrivare ai legal thriller.
I processi americani sono molto teatrali, perché l'obiettivo è quello di convincere una giuria popolare, non esperta di diritto penale o di medicina legale, a emettere una sentenza sull'onda dell'emozione del momento.
Niente di tutto questo nei processi italiani, prevalentemente burocratici, basati per lo più sul lavoro d'ufficio, sulle scartoffie, sull'esame meticoloso delle perizie e poco sul dibattimento in aula, che nei tribunali italiani è privo di tutta la drammatizzazione che si vede nei film americani.

Ciò non toglie che, data l'importanza dell'imputato e l'attenzione dei mass-media, il processo ad Ettore Ricci abbia finito per costituire un'eccezione alla regola.
Nel suo caso ci furono testimonianze di alto valore drammatico, nel senso teatrale del termine, dove tutti i testimoni cercarono di recitare, con la massima perizia, una parte degna di una nomination al Premio Oscar.
Riporteremo qui soltanto alcuni passaggi.
Diana Orsini si presentò all'udienza in modo sobrio e dimesso, comunicando a tutti l'immagine di una semplice madre di famiglia e di una moglie affranta:

<<Non è mia intenzione dubitare della buona fede dei testimoni dell'accusa, ma è mio dovere rilevare che si è trattato di un terribile equivoco. 
La loro ricostruzione dei fatti si basa su un completo fraintendimento. 
Mio marito ha aiutato finanziariamente molte famiglie in difficoltà, e lo ha fatto con la massima discrezione, perché gli è stato insegnato che il bene va fatto senza vantarsene e senza compromettere la rispettabilità di coloro che sono stati aiutati. Se poi qualcuno si è sentito in dovere di sdebitarsi in qualche modo, non è stato certo dietro nostra sollecitazione.
Riguardo alle questioni contabili l'unica colpa di mio marito è di essersi fidato di persone che in apparenza si comportavano da amici, mentre in realtà non lo erano affatto.
Non voglio spingermi oltre, nel parlare di queste persone, ma credo che avessero da tempo l'intenzione di nuocerci.
Noi, in questa situazione, siamo la parte lesa, non certo i mandanti.
In considerazione di tutto ciò che ho detto, mi permetto di invitare la Corte a tenere presente la nostra buona fede.
Le uniche colpe di mio marito sono state la generosità e l'ingenuità>>

Quando il Pubblico Ministero le chiese se aveva le prove per sostenere quanto affermava, Diana Orsini sospirò:
<<So che la mia parola non è sufficiente, ma confido che le sia attribuito quantomeno lo stesso peso di chi, in maniera anonima, ha cercato di dimostrare il contrario>>
La risposta piacque all'uditorio, ma l'avvocato Vanesio  rischiò di rovinare tutto con un commento fuori luogo:
<<Ecco il discorso di una donna innamorata! Del resto è noto che ogni donna sceglie l'uomo che la sceglierà>>
Le cose non erano andate affatto così, ma non era quello il momento di sottilizzare. Si era creato un clima nuovo in aula.

Naturalmente, Ettore Ricci, da par suo, volle rilasciare una focosa deposizione spontanea, destinata a rimanere impressa nella memoria dei presenti, non fosse altro che per il suo clamoroso finale:
Quando prese la parola tutti tremavano, compreso l'avvocato Vanesio.
<<Vostro Onore>> esordì Ettore Ricci rivolto al Presidente del Tribunale <<Signori della Corte, come è emerso da questo dibattimento, la mia unica colpa è stata quella di aver riposto la mia fiducia nelle persone sbagliate, che hanno approfittato della mia generosità, della mia ingenuità e della mia ignoranza a livello contabile.
Si è detto che io "non potevo non sapere", ma mi si fa troppo onore: io non sono un uomo istruito e come tale, se anche determinati documenti fossero passati per il mio ufficio, non ero in grado di capire le insidie che celavano,

Si è obiettato che l'ignoranza della legge non può essere addotta come scusante: ma ciò che io ignoravo era la contabilità, non la legge. 
Michele Braghiri era un ragioniere ben preparato, ed io credevo che fosse anche un amico.
Per questo, in buona fede, ho firmato documenti di cui non comprendevo il significato.
Se l'ignoranza è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Ma la mia ignoranza non deriva da una negligenza, o da una mancanza di volontà.
Il fatto è che io vengo da una famiglia povera, di braccianti, di contadini. 
Quando ero bambino, mio padre non aveva ancora avviato le attività che in seguito portarono la famiglia Ricci alla prosperità, cosa che avvenne quando io avevo più di vent'anni, ed avevo lavorato nei campi per almeno due lustri.
Se la povertà che mi ha impedito di studiare è una colpa, allora sì, ammetto questa colpa.
Sono sempre stato fiero delle mie origini umili.
E forse magari agli occhi di molti è questa la mia vera colpa: essere quello che l'elite chiamerebbe un "arricchito", o come avrebbe detto mio suocero, "un parvenu".
Scommetto che molti, tra i banchi dell'accusa, ridono di me e dei miei modi contadini, e vogliono punirmi perché ai loro occhi sono rozzo e volgare. Ma questo non è un reato!
Posso aver commesso delle leggerezze, per le quali io chiedo di essere giudicato tenendo conto della bontà delle intenzioni e della sincera volontà di rimediare, se sono state commesse delle irregolarità.
Ma chiedo umilmente questa Corte di riconoscere che il mio successo negli affari non è frutto di un crimine, ma solo ed esclusivamente del mio duro lavoro e delle fatiche di una vita.
E' questo il punto, Signori della Corte...>> e qui fu travolto dalla commozione e dallo sdegno, come Julien Sorel alla fine de Il Rosso e il Nero. <<... sì, questo è il punto. E cioè il fatto che coloro che mi accusano vogliono punire in me tutti coloro i quali, nati in una condizione sociale inferiore, hanno avuto l'audacia di mescolarsi a quella che l'orgoglio dei ricchi di antica data chiama altezzosamente "la Buona Società">>

Quelle parole colpirono nel segno la platea, che, pur essendo inizialmente ostile ad Ettore Ricci, alla fine lo applaudì calorosamente come se fosse un martire della causa del proletariato.
A prescindere dalle decisioni del Tribunale, quell'applauso stava a significare che la famiglia Ricci-Orsini aveva ritrovato la simpatia e il rispetto dei concittadini.
Ma su Ettore pendeva comunque una maledizione potente, e Ida Braghiri in persona si era recata dalle sue sorelle streghe delle paludi, Iole, Irma ed Ermide, che le garantirono ciò che era stato pattuito: "Due sacrifici sono stati compiuti, e una vita è già stata spezzata. Ora tocca alla seconda. Non sarà una cosa breve, perché ci sono altre forze in gioco"
Ida Braghiri capì a chi alludevano le sue sorelle, quando parlarono dell'Iniziato, e si rese conto che la situazione era diventata assai più complessa.
Tutto era divenuto evidente quel giorno, al Tribunale.
Mentre la platea applaudiva, Ida notò con fastidio che l'Iniziato si stava recando al telefono più vicino, perché sapeva che ce ne sarebbe stato bisogno.
E infatti, proprio nel momento dell'apparente redenzione, un malore colpì Ettore Ricci non appena ebbe finito di parlare. 
Era ancora in piedi, al termine della propria apologia, con la faccia paonazza e il respiro affannato, quando si manifestarono i sintomi dell'ictus ischemico.
Dopo alcuni istanti di esitazione, Ettore barcollò, si aggrappò al microfono, che cadde.
Si accasciò infine sul banco degli imputati, sentendo che metà del suo corpo perdeva i sensi, e scrutando le tenebre che s'infittivano davanti ai suoi occhi, pensò:
"Non ancora. Non è il momento. Lontano è il mio destino, ed io farò ritorno nella mia terra da uomo libero". 








giovedì 26 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 96. Il mondo sa tutto di noi


Nemmeno la famiglia reale inglese dovette subire da parte della stampa una curiosità così morbosa come quella che fu riservata alla famiglia Ricci-Orsini quando alle redazioni dei giornali locali arrivarono buste piene di documenti potenzialmente scottanti contro Ettore Ricci.
La maggior parte concerneva questioni analoghe a quelle di cui Ettore era già stato accusato, ma ce n'erano altri che si riferivano al presunto insabbiamento, da parte dell'ispettore Onofrio Tartaglia e del giudice Guglielmo De Gubernatis, riguardante le morti sospette di Isabella Orsini, Arturo Orsini e Federico Traversari. 
Era la vendetta di Ida Braghiri nei confronti dei suoi ex datori di lavoro, sui quali faceva ricadere l'ombra del sospetto riguardo a eventi che, in realtà, erano stati provocati dallo stesso marito dell'accusatrice, il defunto Michele Braghiri.
Tutti gli scandali che per oltre mezzo secolo erano stati scrupolosamente, faticosamente e dolorosamente evitati, esplosero come bombe a orologeria, uno dietro l'altro e coinvolsero tutte le famiglie di rilievo della Contea di Casemurate.
Doppiamente colpita da questo scandalo fu Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, in quanto era nel contempo sorella delle vittime, moglie del giudice che aveva insabbiato le indagini, cognata del principale accusato e consuocera della "anonima" accusatrice (e del suo famigerato marito).
Non sapendo bene da che parte le conveniva stare, in questa faida tra parenti e affini, Ginevra si limitò a manifestare, alle sue amiche della canasta (tutte appartenenti all'alta società) <<incredulità e sdegno per il modo in cui la stampa lucra sul dolore e sull'onore dei miei familiari>>.
Quella frase riuscì ad accontentare tutte le parti in causa, senza accusare specificamente nessuno.
Ben diversa era la situazione di sua sorella maggiore, Diana, Contessa di Casemurate, riguardo alla quale i documenti anonimi dicevano: "Non poteva non sapere, o quantomeno non avere dei sospetti che le indagini fossero state insabbiate".
Nel leggere quelle frasi, Diana pensò subito che a scriverle doveva essere stato Massimo Braghiri, il figlio della signora Ida, che con una sola mossa era riuscito a stornare le colpe lontano da suo padre Michele, facendole ricadere su Ettore Ricci.
Quest'ultimo cercò di mantenere i nervi saldi, osservando che <<A parte i documenti sulle questioni finanziare, che comunque erano gestite da Michele, non esiste alcuna prova a sostegno delle illazioni sull'insabbiamento. E' tutta spazzatura>>
Tecnicamente Ettore aveva ragione, ma non teneva conto di una finezza che solo la mente astuta di Massimo Braghiri poteva partorire, e fu Diana ad accorgersene:
<<Il problema è che la veridicità delle prove sulle questioni finanziarie fornisce credibilità all'anonimo mittente. E' per questo che i giornali hanno dato credito anche alle accuse più gravi>>
Ettore ne convenne, ma fece comunque notare che: <<Non hanno niente in mano e nessuno che possa inventarsi testimonianze credibili. L'unico sopravvissuto è Onofrio Tartaglia, che preferirebbe auto-evirarsi piuttosto che ammettere di avere delle colpe>>
Anche questo era vero, ma non bastava a rincuorare Diana Orsini:
<<Nella testa di chi legge i giornali noi siamo già colpevoli. La gente è colpevolista per natura, vuole il capro espiatorio e soprattutto gode nel vedere infangato il nome di coloro che invidia>>
Ettore annuì, ma formulò un'obiezione significativa:
<<Abbiamo dato troppo peso all'opinione della gente, ed è proprio per questo che Michele è riuscito a farla franca. Avrei dovuto accusarlo subito. Alla fine l'insabbiamento è servito solo a lui>>
Diana annuì a sua volta:
<<Volevamo proteggere la memoria dei  miei fratelli e il cognome delle nostre figlie, ma alla fine, come hai detto tu, abbiamo solo aiutato il vero assassino>>
Ettore cercò di sdrammatizzare:
<<Be', esiste anche un lato positivo, e cioè che, almeno dalle nostre parti, Diana Orsini fa più notizia di Diana Spencer>>
La Contessa sorrise:
<<Oh, non è affatto una consolazione! Mio padre diceva che il nome di una nobildonna onesta deve comparire sui giornali soltanto tre volte: quando nasce, quando si sposa e quando muore.
Mi era stato insegnato che, come contrappeso ai privilegi di nascita, il nobile doveva mantenere un certo contegno, una riservatezza mista a sobrietà e cortesia.
Credevo che fosse questo che ci si aspettava da me.
E invece mi ritrovo al centro dei riflettori, e senza averlo voluto, con la stampa che passa al vaglio la mia vita, la nostra vita, e la gente che si diverte a inventare versioni sempre più fantasiose riguardo alla storia della nostra famiglia.
E adesso il mondo sa tutto di noi. 
O meglio, crede si sapere tutto.
Tutto, tranne la verità>>

Ettore fu colpito da questa frase e formulò una propria ipotesi al riguardo:
<<A nessuno interessa la verità: vogliono qualcosa di più romanzesco, vogliono gli incesti, le gelosie, i tradimenti. Vogliono che i membri della "famiglia reale" si sbranino tra di loro, perché se i delitti li commette qualcun altro, meno illustre, allora tutto diventa più banale e quindi meno interessante>>
Diana si trovò molto d'accordo su quel punto:
<<E' vero: vogliono che noi recitiamo il copione scritto da altri. A questo siamo ridotti!
All'inizio eravamo signori feudali, e tutta la Contea era sotto la nostra giurisdizione, e la nostra parola era legge. Poi siamo diventati dei meri proprietari del Feudo Orsini, il quale però è andato sempre più frazionandosi e disperdendosi, fino a sfuggirci di mano. 
E adesso cosa siamo? Marionette! Commedianti di una telenovela che deve divertire il pubblico, un pubblico che ci permette di sopravvivere solo a questa condizione.
Ecco quello che siamo! Ecco come ci siamo ridotti...>>

giovedì 19 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 95. La caduta di Ida Braghiri, la Governante-Dittatrice di Villa Orsini


Riguardo alla cosiddetta "dialettica servo-padrone", Hegel aveva già detto quasi tutto: col passare del tempo e delle generazioni, i proprietari perdono dimestichezza con le abilità pratiche, le quali vengono delegate ai dipendenti, in misura sempre maggiore, e se il dipendente è così abile da rendersi necessario, allora il rapporto si ribalta e il dipendente assume il comando.
Qualcosa di molto simile, e sotto certi aspetti anche peggiore, era accaduto nel rapporto tra la famiglia la famiglia Ricci-Orsini-Monterovere e la famiglia Braghiri.
Sembrava quasi una riedizione in piccolo della tecnica con cui i Carolingi, maggiordomi di palazzo, avevano soppiantato gli antichi re Merovingi, bollati poi impietosamente dalla storia come "re fannulloni".
Diana Orsini, che amava molto la storia, si avvaleva spesso di quell'esempio, ogni volta che metteva in guardia suo nipote, evocando poi, con terrore, lo spettro di Childerico III, deposto, umiliato e bollato dalla storia come "l'Idiota" o "il re fantasma", pace all'anima sua.
Questa inquietante similitudine divenne ancor più minacciosa quando, dopo la tempesta giudiziaria che aveva travolto il Feudo Orsini, la famiglia Braghiri continuò, come se niente fosse, a esercitare il suo potere sulla Villa, tramite il rango della matriarca, la settantacinquenne signora Ida, Governante da più di cinquant'anni.
Quella permanenza era, agli occhi di tutti, non solo scandalosa, ma anche sospetta, poiché appariva come una prova evidente del fatto che Ettore Ricci fosse ricattato e dunque che avesse molte cose da nascondere, e di non poco conto.
Si favoleggiava persino che la signora Ida avesse ereditato dal defunto marito, ex Amministratore del Feudo Orsini, un archivio contenente le prove dei più scabrosi segreti della "dinastia" che per ottocento anni aveva detenuto il potere nella Contea di Casemurate.
Ogni volta che Roberto Monterovere cercava di capire se in quelle voci ci fosse un briciolo di verità, suo nonno Ettore si offendeva con sdegno, mentre la nonna Diana, che sembrava reggere sulle esili spalle il peso di tutte le diciotto generazioni degli Orsini di Casemurate, sospirava e ripeteva, con pazienza non priva di afflizione, che: <<La situazione è un po' più complessa>>.
Roberto se n'era reso conto da un pezzo, e sentiva la necessità di sapere qualcosa di più.
La sua insistenza, però, produceva l'effetto opposto, tanto che, una volta, Diana lo ammonì severamente scandendo le seguenti parole: <<Imparerai che nella vita ci sono cose che è meglio non sapere>>.
Era l'eterna storia delle tre scimmiette che si coprivano occhi, orecchi e bocca, a significare: "non vedo, non sento e non parlo". Alcuni la chiamavano omertà, ma Diana sosteneva che, sempre in piccolo, era lo stesso metodo della Royal Family britannica: "Never complain, never explain", mai lamentarsi, mai dare spiegazioni.
Roberto allora le faceva notare che quel metodo si era rivelato disastroso nella gestione della crisi, ormai sotto gli occhi di tutti, del matrimonio tra il Principe e la Principessa di Galles.
Diana rideva: <<Loro hanno riflettori di tutto il mondo puntati addosso. Noi no. L'unica cosa che ho in comune con la Principessa di Galles è il nome, che temo diventerà infausto>>.
Fu così che Roberto, preso dalla disperazione nel vedere che tutto il mondo della sua infanzia gli si stava sbriciolando sotto gli occhi, incominciò a indagare per conto suo, ricostruendo le radici della faida tra i Ricci-Orsini e i Braghiri.
Ida Braghiri e suo marito Michele erano entrati al servizio del defunto conte Achille Orsini dietro raccomandazione dell'altrettanto defunto usuraio Giorgio Ricci, detto "Zuarz", il padre di Ettore, che deteneva tutte le cambiali firmate dal conte Achille in decenni di folli spese.
Inizialmente Ida era una normale cameriera e Michele un semplice fattore, ma la loro abilità era consistita nel guadagnarsi fin dall'inizio l'ingenua simpatia e la malriposta fiducia sia di Ettore Ricci che di Diana Orsini.
Questo fu possibile perché in fondo, mentre Ettore e Diana pensavano in grande e delegavano i dettagli ai dipendenti, Michele e Ida avevano i piedi saldamente ancorati a terra, ed erano estremamente felici di accumulare le deleghe su deleghe, incarichi su incarichi, poteri su poteri, ben oltre l'ordinaria amministrazione.
In particolare, questo tipo di dinamica era risultato facilissimo per la signoraa Ida.
Tutto quello che per Diana Orsini rappresentava una terribile seccatura, per Ida Braghiri era invece un modo piacevolissimo per esercitare il potere e consolidate la propria autorità.
Diana non amava le questioni pratiche: era uno spirito poetico, che viveva nel mondo dei sogni e dell'immaginazione, un universo fatto di letteratura, di musica, di arte, di spiritualità: tutto il resto le pareva un'imperdonabile perdita di tempo.
Citando, con una punta di snobismo, una celebre battuta di Villiers De L’Isle-Adam, Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, giustificava così ai parenti la propria inerzia e il proprio orrore per le questioni pratiche: <<Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici>>
Mentre pronunciava questa frase in stile Ancien Regime, che pareva uscita dalla bocca della compianta regina di Francia, Maria Antonietta, non immaginava che la Governante stesse origliano dietro la porta del Salotto Liberty, e decidesse di prendere quelle parole alla lettera, tanto da sentirsi moralmente autorizzata a impadronirsi sul serio della vita della sua datrice di lavoro.
Ida Giorgini divenne, per tutti, l' "Arzdora", per usare un termine romagnolo, ossia "colei che regge la casa e la famiglia". 
Ed era un'Arzdora tirannica, una vera e propria dittatrice.
Del resto Ida Braghiri aveva, come si suol dire, le physique du rôle.
C'era un tale piglio autoritario, nel suo sguardo freddo e minaccioso, da far soggezione a tutti, compresi i suoi stessi datori di lavoro.
Era quasi peggio della spaventosa governante del film Rebecca, la prima moglie.
Decisa, sicura di sé, inflessibile e implacabile, aveva esercitato, specialmente nei riguardi delle tre figlie di Ettore e Diana, il ruolo della severa educatrice, approfittando delle continue emicranie e crisi esistenziali della loro romantica madre.


Col tempo non si curò nemmeno di nascondere il sadico piacere che traeva dall'aver instillato nelle figlie dei padroni una sorta di sudditanza psicologica.
Nessuno si meravigliò quando la Governante tentò di ripetere quell'operazione con i tre nipoti di Ettore e Diana, ma qui le cose non funzionarono egualmente bene.
In particolare Alessio e Roberto non sopportavano la presenza asfissiante e ingombrante di quella donna terribile. il cui cipiglio ancora faceva tremare le loro madri e la loro nonna.
Resasi conto che con Alessio e Roberto le sole maniere forti non funzionavano, passò al metodo del bastone e della carota, alternando i rimproveri con le lusinghe.
<<Per me siete come figli, anzi nipoti, e vi voglio bene come ai miei stessi nipoti>>
Roberto non ci credette neanche per un decimo di secondo, ma finse di stare al gioco, per riuscire a trovare un punto debole, una "maglia rotta nella rete", un anello cedevole della catena con cui la signora Ida teneva avvinghiata la famiglia Ricci-Orsini.
Alla fine si convinse che l'unica debolezza di Ida Braghiri era l'eccesso di autostima, che la portava, a volte, ad abbassare la guardia.
Era talmente sicura del proprio potere che non si prendeva più nemmeno la briga di nascondere le proprie emozioni, in particolare la vile tendenza a gioire delle disgrazie altrui.
La cosa era fin troppo evidente. Quegli occhi gelidi improvvisamente scintillavano di una gioia sadica e la bocca si incurvava in un ghigno malefico.
Un giorno, durante una riunione di famiglia, la Governante si spinse troppo oltre.
Il casus belli fu una conversazione tra Ida Braghiri e Margherita Ricci-Orsini, coniugata Spreti, la figlia maggiore di Ettore e Diana. L'argomento era un esame universitario che il figlio di Margherita, Fabrizio, non era riuscito a superare.
Si vedeva chiaramente che Margherita era molto dispiaciuta, e Ida si divertiva ad agitare il coltello nella piaga, con domande tese a conoscere tutti i particolari di quell'umiliazione. 
Fabrizio era presente, ma a un certo punto lasciò la stanza. Gli altri due cugini, Alessio e Roberto, si scambiarono un segnale, come a dire che era venuto il momento di fare qualcosa.
Fu così che Alessio Zanetti, che dei tre cugini era il più coraggioso e ruspante, nel vedere sua zia torturata in quel modo e suo cugino così vilipeso, se ne uscì con parole che di certo il Salotto Liberty non aveva mai sentito:
<<Zia, perché le rispondi? Non vedi come gioisce per i nostri fallimenti? Guardala bene: non vedi che le ride anche il culo?>>
Il gelo calò nella stanza.
Anche le altre conversazioni si spensero. 
Era come se qualcuno finalmente avesse gridato che il re era nudo.
Ida Braghiri rimase stupefatta, con gli occhi sgranati e la bocca aperta, nel dubbio di come reagire a quella mossa imprevista.


Improvvisamente, e in maniera del tutto inaspettata, Margherita Spreti di Serachieda incominciò a ridere e la risata si estese a tutti gli altri presenti.
Ida Braghiri divenne paonazza per la rabbia e mollò un ceffone sulla faccia di Alessio Zanetti Protonotari Campi, cadendo così nella trappola che il ragazzo le aveva teso.
In quel momento Diana Orsini si alzò e tutti tacquero:
<<Signora Ida, c'è un limite a tutto e lei lo ha superato ampiamente e da molto tempo.
Non sono disposta a tollerare oltre. La sollevo da tutti gli incarichi che ricopre e la invito a lasciare al più preso questa casa>>
Ida Braghiri non si mosse di un millimetro:
<<Questa casa è di suo marito: solo lui ha il potere di licenziarmi e credo che gli convenga farlo>>
Ettore Ricci, che era stato avvertito della situazione, intervenne:
<<Questa casa appartiene alla famiglia Ricci-Orsini, a cui lei ha mancato di rispetto, in maniera pubblica e plateale. Per cui confermo ciò che ha detto mia moglie: lei è licenziata per giusta causa. La invito a seguirmi nel mio studio per informarla riguardo al trattamento di fine rapporto. Potrà rimanere nel suo appartamento fino a quando non avrà trovato una nuova sistemazione>>
Ida Braghiri lo fissò con sguardo omicida e abbandonando ogni forma di cortesia, urlò:
<<Sarai tu a dovertene andare, Ettore! E lo sai dove? In galera!>> poi si rivolse al resto della famiglia <<E voi altri, non durerete nemmeno mezza giornata, senza di me. Non siete capaci nemmeno di svuotare un pitale! Verrete a supplicarmi in ginocchio di ritornare a mettere ordine in questa gabbia di matti!>>
Ettore le si parò davanti:
<<Non peggiori la sua situazione>>
Ida rimase immobile:
<<Se no cosa mi fai, Ettore? Chiami la polizia? Il grand'uomo agli arresti domiciliari che chiama la polizia... sembra una barzelletta>>
Ettore si sentì stranamente sollevato, come se finalmente, dopo tanto tempo, fosse libero da un peso che lo stava schiacciando:
<<Io sono innocente fino a sentenza definitiva. Nel frattempo ho tutto il diritto di chiamare chi di dovere per difendere la mia casa e la mia famiglia>>
Ida Braghiri si rese conto di aver perso, per la prima volta in vita sua, una battaglia:
<<E va bene, Ettore, mi ritiro, ma non finisce qui, puoi scommetterci!>>
Ettore le lasciò l'ultima parola, purché se ne andasse.
Quando finalmente la Governante-Dittatrice abbandonò il campo di battaglia, tutti si sentirono leggeri come non erano mai stati.
Diana abbracciò Ettore e gli sussurrò all'orecchio una parola che non gli aveva detto quasi mai, in cinquant'anni di matrimonio: <<Grazie>>

Roberto, sconvolto dagli eventi, si chiese se le minacce di Ida Giorgini potessero avere un qualche fondamento.
Per cinquant'anni, la Governante aveva saputo nascondere bene sia i suoi reali sentimenti che le sue trame. Per tutti quei decenni, dietro alla maschera di una apparente e rigorosa professionalità, Ida Braghiri si era mantenuta fredda, livida, divorata dall'invidia, chiusa nel suo cupo disegno di rivalsa, valutando, ponderando, prendendo la mira, aggiustando il tiro come un cacciatore esperto.
Per quanto Ettore fosse stato generoso con lei e con la sua famiglia, questo non bastava.
Mentre fingeva di accettare con ritrosia sdegnosa i premi per la sua presunta fedeltà, Ida era rimasta, nel suo intimo, una regista gelida, impenetrabile, indifferente ai valori dell'amicizia, senza dubbi, senza palpiti , senza un briciolo di pietà umana.  
Aveva agito nell'ombra, come certi ragni velenosi di cui non ci si accorge se non quando sono diventati troppo pericolosi per poterli sfidare.
E infine, dopo la morte di suo marito Michele, Ida aveva consumato il tradimento che meditava da anni, diffondendo documenti riservati, mettendo in giro voci allarmanti, ma soprattutto tessendo una ragnatela di alleanze in grado di infliggere allo stesso Ettore un colpo decisivo.
E tutto questo per cosa?
Invidia e odio, poiché lei apparteneva a quella miserabile schiatta di individui che desiderano soltanto distruggere tutto ciò che non appartiene a loro, traendo il massimo piacere nell'assistere alla rovina altrui.
Per lei l'intero clan Ricci-Orsini rimaneva, anche dopo una vita di convivenza sotto lo stesso tetto, un nemico da distruggere.
Tutte le malefatte del suo defunto marito dovevano essere scontate da Ettore Ricci, che ne era venuto a conoscenza soltanto a posteriori, e poi costretto ad insabbiare tutto per evitare uno scandalo nel momento in cui il Feudo Orsini doveva ancora riprendersi dalla cattiva gestione del conte Achille.
Diana l'aveva capito subito e dentro di sé pensava: "Ettore e Achille, come nell'Iliade, e il Feudo Orsini rischia di fare la fine di Troia".
Ed era proprio ciò che Ida Braghiri e suo figlio Massimo incominciarono a desiderare nel momento in cui le figlie di Ettore rifiutarono di sposare Massimo stesso.
Isa e Massimo chiamavano quel piano di distruzione "il Grande Disegno", lo scopo di una vita intera: una vita dedicata al Male.
E tutto questo senza alcuno scrupolo di coscienza.
Cosa significava, per Ida Braghiri, la rovina di uomo, della sua anziana sposa, lo sfascio di una famiglia già danneggiata, l'ostracismo della sedicente "buona società", una volta che fossero stati accusati ingiustamente di tremendi delitti? 
Perché era questo il punto: gettare su Ettore l'ombra della responsabilità della morte di tre persone: Isabella Orsini, Arturo Orsini e Federico Traversari, in realtà uccisi da Michele Braghiri.
Che significava tutto questo per Ida Braghiri, una volta esercitato il potere per fare il Male come sempre aveva fatto nella sua vita?
La risposta era semplice e sconcertante nello stesso tempo.
Tutto questo non significava niente.
Non è nostra intenzione rievocare ulteriormente la sua grigia freddezza. Non è questa una colpa.
Si può essere grigi, ma buoni; grigi, ma onesti; grigi, ma sinceri nel rendere conto del proprio operato di fronte al tribunale della coscienza. 
Ebbene, a Ida Braghiri era proprio questo che mancava: una coscienza morale.
Le mancava quell’insieme di lealtà, rettitudine, sincerità e coraggio che rendono una persona degna di fiducia, di amicizia e di ammirazione.