venerdì 13 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 94. Lambrugo Bava detto "Mattoncini Lego", catastrofico Amministratore Giudiziario del Feudo Orsini

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Dopo le inevitabili dimissioni del Consiglio di Amministrazione, la gestione del Feudo Orsini fu affidata dal Tribunale ad un Amministratore Giudiziario.
La scelta cadde su un personaggio a dir poco sgradevole.
Si trattava di un certo Lambrugo Bava, detto "Mattoncini Lego" a causa di una similitudine che usava in continuazione, ma che nessuno aveva mai capito ("Un buon investimento è come i mattoncini Lego").
Il dottor Bava era un uomo di mezza età, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto, occhi infossati, un riporto di capelli radi color topo, tendenti alla forfora, la faccia arrossata di chi sembra reduce da un'insolazione senza crema protettiva, la pelle sudaticcia, la voce stridula e nasale e un modo di fare affettato e viscido, come del resto era anche la sua stretta di mano.
Si presentò a Villa Orsini all'ora del tè, con un completo gessato che aveva decisamente visto tempi migliori, e un'orribile cravatta verde elettrico, e fu fatto accomodare nel Salotto Liberty.
Quando Diana Orsini gli chiese se voleva una tazza di tè, lui, con un sorrisetto lezioso e con voce querula in falsetto, dichiarò:
<<Preferirei un caffè doppio, alto e amaro>>
Nel dire questo divenne color lilla in faccia e nelle mani.
Fu a quel punto che tutti i presenti incominciarono a percepire l'odore del suo alito.
Inizialmente rimasero confusi per il fatto che si trattava di un alito diverso da quelli normalmente considerati pesanti, nel senso che quel lezzo era troppo fetido per poter provenire da una bocca umana.
Pertanto incominciarono a formulare mentalmente le più svariate ipotesi.
Come poi emerse, dopo che "Mattoncini Lego" se ne fu andato, tutti i presenti avevano inizialmente pensato che quel fetore rivoltante dovesse provenire dalle feci di un cane pestate dal dottor Lambrugo Bava.
Purtroppo però avevano dovuto ricredersi.
Quell'inequivocabile puzza di merda (perdonateci il francesismo) proveniva altrettanto inequivocabilmente dall'alito del dottor Bava.
Il caffè doppio amaro non fece che peggiorare la situazione.
Ben presto la maggior parte dei presenti lasciò la stanza in preda alla nausea e ai conati di vomito.
Ettore Ricci e sua figlia Isabella resistettero, perché era di vitale importanza capire se quello sgradevole personaggio fosse almeno in grado di gestire un'azienda.

La sua frase d'esordio, che riprendeva il suo cavallo di battaglia, lasciò al riguardo ben poche speranze.

Con un ghigno untuoso e una voce nasale e petulante, emise una zaffata micidiale:
<<Io concepisco l'amministrazione di un'azienda come se fosse, tra virgolette, un insieme di "mattoncini lego">>
Cercando di evitare l'impatto massiccio dell'ultima "emissione gassosa" del signor Mattoncini Lego, Ettore Ricci gli chiese di spiegarsi meglio.
Lambrugo Bava continuò a parlare per un'ora, appestando non solo il Salotto, ma tutta la casa, perché la pesantezza del suo fiato sembrava penetrare attraverso ogni interstizio:
<<Intendo dire che per me un'azienda è, tra virgolette, un investimento fatto di tanti diversi mattoncini da combinare in modo tale che, tra virgolette, risulti tutto ben frazionato>>
Ettore Ricci, asfissiato dalla mancanza d'ossigeno in quella stanza ormai piena di zolfo, si allarmò a tal punto da perdere quasi conoscenza, e solo con grande sforzo alla fine protestò:
<<Frazionato? Vuole forse smembrare il Feudo Orsini?>>
La faccia di Mattoncini Lego divenne color fucsia e il sudore gli colò dalla fronte stempiata:
<<Lei dice "smembrare", ma io preferisco dire "diversificare". E' una prassi comune>>
Ettore, ormai in apnea, ribatté:
<<Lo è nella gestione di un portafoglio azionario! Ma il Feudo Orsini è un'azienda agricola cha già diversificato i propri investimenti in attività industriali legate alle macchine agricole e all'allevamento avicolo e suino. Questa è la natura della nostra azienda che non deve in nessun modo essere trasformata in qualcosa di diverso>>
Mattoncini Lego iniziò a ghignare, emettendo gas mefitico da quella bocca che ricordava una cloaca:
<<Si fidi di me, signor Ricci. Vedrà che un mattoncino dopo l'altro io costruirò un'azienda nuova, con agriturismi, campi da golf, laghi di pesca sportiva, parchi da gioco per bambini e per cani, alberghi, insomma tra virgolette, un "resort di lusso">>
A quel punto Ettore Ricci esplose e scattò in piedi:
<<Ma questa non è una zona turistica! Ci sono porcili e pollai e inceneritori di biomassa! E' tutto piatto, nebbioso d'inverno e afoso d'estate. Non siamo mica la Toscana! E nemmeno sugli Appennini o in Riviera!>>
Lambrugo Bava non si lasciò minimamente scalfire ed emise l'ennesima nube tossica:
<<Ma lei ha una mentalità arcaica. Adesso viviamo in un mondo, tra virgolette, "green", che cerca un divertimento, tra virgolette, "eco", mi verrebbe da dire che la presenza di porcili e pollai, con il loro odore così caratteristico, sia un fattore, tra virgolette "folk" e tra virgolette "etno" che conferisce al tutto quel sapore tra virgolette "vintage" che è così tra virgolette "trendy"...>>
A quel punto Ettore Ricci non riuscì più a contenersi:
<<Basta con queste cazzate! Le ricordo che un Amministratore Giudiziario deve occuparsi solo dell'ordinaria amministrazione e non degli investimenti straordinari! Lo tenga bene a mente! Non le permetterò di buttar via il lavoro di tutta la mia vita! E adesso fuori da casa mia! 
E se vuole un consiglio, si lavi i denti, prima di andare ad appestare la casa della gente!>>
Poco ci mancò che lo prendesse a calci.
La faccia di Mattoncini Lego aveva raggiunto ormai un color prugna e nemmeno la deferenza della Governante-Dittatrice Ida Braghiri riuscì a tranquillizzarlo.
I Braghiri speravano infatti che l'Amministratore Giudiziario avrebbe definitivamente affossato il Feudo Orsini, e Lambrugo Bava era la persona giusta per quel compito.
Dopo che finalmente Mattoncini Lego ebbe preso congedo, salutando con la mano sudaticcia i pochi presenti che si erano avventurati nell'atrio completamente invaso dal gas tossico, fu necessario tenere aperte tutte le finestre di Villa Orsini per tre giorni e tre notti, al fine di cacciare via quel tanfo rivoltante che era penetrato fin nei suoi angoli più reconditi.

venerdì 6 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 93. Après nous le déluge


Forse, in circostanze diverse e meno complesse, la novantottenne Contessa Madre Emilia Orsini, nata Paolucci de' Calboli, avrebbe detto <<Laissez faire, laissez passer, le monde va de lui meme>>, "laciate fare, lasciate passare, il mondo va avanti da sé".
Ma quella volta, quando sua figlia Diana e suo genero Ettore le riferirono i rischi dei processi che stavano per cominciare a carico dei dirigenti del Feudo Orsini, la veneranda matriarca si sentiva ormai come una reliquia della Belle Epoque interminabilmente sopravvissuta a se stessa ed era ben consapevole di avere ormai un piede nella fossa, pertanto il suo distacco dalla realtà contingente e dai beni materiali aveva modificato il suo punto di vista.
La sua risposta, per quanto ancora espressa in francese, fu diversa e più apocalittica.
Rispolverò infatti la frase che Madame de Pompadour disse a Luigi XV dopo la terribile disfatta dell'esercito francese nella battaglia di Rossbach, durante la guerra dei Sette Anni:
<<Il ne faut point s'affliger; vous tomberiez malade. Après nous, le déluge!>>



"Non è il caso di affliggersi; vi ammalereste. Dopo di noi, il diluvio!"
Annuì per ribadire il concetto :
<<Dopo di noi il diluvio!>> ripeté in italiano, a beneficio del genero, e spiegò <<Ora ci criticano, ma un giorno ci rimpiangeranno, perché siamo stati noi a tenere in piedi la baracca per più di mezzo secolo, e quando non ci saremo più, andrà tutto a catafascio, e tanti perderanno il lavoro, i risparmi e il rispetto che noi abbiamo sempre manifestato nei loro confronti>>
Quelle considerazioni non risollevarono però il morale di Ettore Ricci, che già di per sé era consapevole che senza di lui il Feudo Orsini si sarebbe disgregato nel giro di una generazione.
Certo sua suocera non avrebbe visto nulla, di quel diluvio, dal momento che i suoi giorni erano contati.




A Villa Orsini, il ruolo della novantottenne Contessa Madre Emilia, era sempre stato quello di rasserenare gli animi, trasmettere calore umano, rassicurare chiunque entrasse nel suo Salotto Liberty, dove lei garantiva la presenza di pasticcini, biscotti, tè, ma anche buon vino pregiato, il tutto accompagnato da battute brillanti, aneddoti spassosi e validi consigli (non potendo più dare cattivi esempi, a causa dell'età e del divieto dei medici sulle quantità di alcool assunte nei bei vecchi tempi).
Quando infine si ammalò, tutti i suoi numerosi interlocutori si trovarono perduti e spaesati.
Il Salotto perdeva la sua coesione, poiché Emilia si era sempre prodigata affinché le sue due figlie supersisti, ossia la Contessa Diana Orsini Balducci di Casemurate e la vedova Ginevra De Gubernatis, continuassero a intrattenere rapporti cordiali, nonostante Ginevra parteggiasse per suo genero, Massimo Braghiri, e per la sua terribile madre, la Governante Ida Braghiri, che era riuscita fino ad allora a dettar legge a Villa Orsini.
La dipartita dell'antica matriarca, nel febbraio del 1988, segnò la fine della tregua armata tra il clan Ricci-Orsini-Monterovere e quello De Gubernatis-Braghiri.
Diana e Ginevra furono le uniche a mantenere una certa compostezza.
Meno diplomatiche furono le loro rispettive figlie.
Silvia Monterovere disse ad Elisabetta Braghiri una frase poi divenuta memorabile; 
<<Senti, facciamo un patto: tu smetti di dire falsità su di me e io smetto di dire la verità su di te>>
I discendenti della defunta, a riprova che, come dice il proverbio, "il denaro non dorme mai", erano già pronti all'ennesima battaglia per l'ennesimo testamento.
Ma c'erano dissapori anche nella generazione più giovane.
Sia Roberto Monterovere che Vittorio Braghiri erano pronipoti della Contessa Madre, ma mentre il primo provava un dolore immenso, perché con la bisnonna se ne andava una parte della sua infanzia, il secondo sembrava del tutto estraneo al lutto.
Pareva persino affascinato e quasi divertito dal manifesto funebre affisso su tutte le strade di Casemurate e Pievequinta, dove il nome della defunta si estendeva per quasi tutto lo spazio.
"E' mancata all'affetto dei suoi cari la contessa Emilia Paolucci de' Calboli vedova Orsini Balducci di Casemurate, di anni 98. Ne danno il triste annuncio le figlie, il genero, le nipoti, i pronipoti e i parenti tutti".
La Chiesa di Casemurate era gremita 
Il nuovo parroco, succeduto a don Pino Ricci, pronunciò un'accorata omelia, concludendo con due citazioni evangeliche:
<<Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. 
Da quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia>> e a quel punto rivolse lo sguardo direttamente ad Ettore Ricci:
<<Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti condurrà dove tu non vorrai>>
Ettore non batté ciglio, ma un brivido di paura lo percorse, e ripensò ai bei tempi, quando il clan Ricci-Orsini controllava anche la nomina del parroco e poteva contare persino sulla benevolenza del vescovo.
Terminata la funzione, il corteo funebre si diresse verso il cimitero di Casemurate.
Diana Orsini e il marito Ettore Ricci camminavano per primi dietro il feretro, tenendosi a braccetto, come se fossero stati per cinquant'anni la coppia più bella del mondo, ma a volte le avversità hanno l'effetto di ricompattare coloro che prima erano in disaccordo, poiché i saggi sanno che, tra compagni di sventura, l'unica speranza è unire le forze, per non fare la fine dei manzoniani "capponi di Renzo"
Infine si giunse al camposanto, dove, alla destra dell'ingresso, incombeva la cappella funebre dei Ricci-Orsini, mentre alla sinistra c'era la tomba comune dei Ricci "di seconda classe": i genitori di Ettore, i suoi fratelli maggiori, i cognati e i cugini, tra cui don Pino.
<<Ecco, lì è dove finiremo tutti>> commentò Ginevra Orsini, vedova De Gubernatis, indicando la cappella dei Ricci-Orsini, come se quel luogo di sepoltura fosse un hotel a cinque stelle.
<<Tranne i tuoi discendenti, cara suocera>> specificò Massimo Braghiri <<ma noi ci costruiremo un mausoleo più grande in città, dove tutti potranno vederci, non solo questi bravi villici casemuratensi>>


Ma i Braghiri non erano gli unici a sentirsi in ombra.
Le sorelle di Ettore Ricci e i loro parenti e affini vari avevano preteso un posto in prima fila.
In primo piano c'erano Caterina, vedova del senatore Baroni e Carolina, vedova del conte Gagni di Montescudo. Le altre sorelle, ossia la vergine Adriana e la battagliera Maria Teresa Tartaglia si erano dovute accontentare della seconda fila, il che era inaudito, considerando la parentela dei Tartaglia con i Visconti di Bertinoro.
E infatti, con una certa virulenza, la signora Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, si fece avanti, con tanto di marito, figlia, sorella e nipote.
E fu in quell'occasione che accadde un evento gravido di conseguenze nefaste, ossia la saldatura di un'alleanza tra due famiglie che nutrivano rivalità verso i Monterovere.
Quando Aurora Visconti fece le condoglianze a Roberto, subito Vittorio Braghiri rimase colpito dalla bellezza della fanciulla dai capelli d'oro e anche dall'ingombrante e massiccia presenza dell'onnipresente cugino, Felice Porcu.
Fu in quel momento che il seme del male, piantato da tempo, incominciò a germogliare nel cuore di Vittorio Braghiri.
Quella rivalità che fino ad allora Vittorio era riuscito a tenere a freno, improvvisamente divenne manifesta.
Alexandre Dumas avrebbe detto: "Cherchez la femme!", anche se al giorno d'oggi quell'antico motto di spirito sarebbe tacciato di sessismo politicamente scorretto.
In ogni caso, si profilava all'orizzonte un ennesimo motivo di scontro tra due famiglie che erano ormai ai ferri corti.
Non era ancora il diluvio preconizzato dalla compianta bisnonna Emilia, ma di certo grandi nuvole cariche di pioggia incominciavano ad addensarsi in un cielo color cenere.
E nella loro stamberga nei pressi della confluenza tra il Bevano e la Torricchia, le tre streghe Iole, Irma ed Ermide tessevano la tela che Eclion ed Elvira avevano disegnato.
Tutto era in movimento, eppure Roberto Monterovere sentiva soltanto il dolore per la perdita della bisnonna e del mondo che lei rappresentava.
Gli tornarono in mente, chissà perché, alcuni versi di Montale che aveva studiato pochi giorni prima.

<<                         ... un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende… ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. 
Ed io non so più chi va e chi resta>>



lunedì 2 novembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 92. L'avvocato Marco Tullio Vanesio, specialista in cause perse.


Il quarto socio dello studio legale Calderisi, Orbace, Rodagni e Vanesio era, per l'appunto, l'illustre penalista Marco Tullio Vanesio, specialista in cause perse, relitti umani e casi disperati.
Ma non era sempre stato così.
I più anziani ricordavano i tempi in cui lo studio era ancora dotato di un certo prestigio, quando era ancora vivo il fondatore, ossia Giulio Cesare Vanesio, un legale di successo, insignito del rango di Cavaliere di Gran Croce, Grand'Ufficiale, Commendatore, Consigliere di Stato, Presidente della Camera Penale e Presidente onorario di una ventina di associazioni e fondazioni.
Suo figlio, che gli subentrò negli anni '80, era fatto di tutt'altra pasta.
Sembrava il ridicolo Miles gloriosus delle commedie plautine, e nei suoi roboanti discorsi con qualunque malcapitato incontrasse mescolava arcaismi, latinismi, millanterie e vere proprie fanfaronate.
Da quando il suo illustre genitore era deceduto, Marco Tullio Vanesio non perdeva occasione di raccontare sul conto del defunto, che lui chiamava dottamente "de cuius"aneddoti inverosimili per esaltare la rispettabilità della propria stirpe:
<<Il mio valoroso padre, poco prima di far fronte eroicamente all'oste avversa, in partibus infidelium , per così dire, ebbe modo di conoscere, quale suo giovine commilitone, il collega avvocato Gianni Agnelli, che manifestava nei suoi confronti una grande e profonda devozione. 
Ebbene mio padre ci raccontava spesso che il collega Agnelli, chiamato alle armi, accettò un 18 nell'esame di Scienza delle Finanze, la cui cattedra, a Torino, era tenuta da Luigi Einaudi. Ebbene, in tale incombenza, il cattedratico economista strigliò il giovane Agnelli esclamando: "Col cognome che porta, lei dovrebbe vergognarsi di accettare un 18 proprio in Scienza delle Finanze", e allora il caro Gianni rispose: "E lei, illustre Professor Einaudi, col cognome che porta, dovrebbe vergognarsi di insegnare in un'università che richiede l'iscrizione al Partito Fascista".
Eh, quelli sì che erano tempi! Pensate... mio padre e il collega Agnelli, tra le nevi della taiga, si confidavano i segreti delle loro vite. E poiché dulce et decorum est pro Patria mori, è opportuno e decente affermare che il mio caro padre si sarebbe sacrificato senza fallo contro l'orda sovietica, ma ahimè fu ordinata la ritirata. Mio padre si conquistò comunque numerose medaglie al valor militare, mente il collega Agnelli si dovette accontentare di tornarsene a Villar Perosa, a vendere macchine di terza categoria, serbando, come unico ricordo della sua esperienza di milite, una gamba tinca, che lo costrinse, come voi m'insegnate, a servirsi di un bastone di malacca per il resto dei suoi giorni>>
Già da questo primo aneddoto, possiamo dedurre che l'eloquio di Marco Tullio Vanesio non godesse del dono della sintesi e men che meno di quello della modestia.



Fisicamente aveva l'aria di chi, in un lontanissimo giorno di gioventù, dovesse aver goduto di una qualche forma di prestanza, ben presto trasformatasi, tuttavia, in qualcosa di ambiguo, nel contempo ampolloso e stucchevole.
I capelli color avorio erano fissati con la brillantina, le sopracciglia depilate "ad ali di gabbiano", la pelle cadente era carica di fondotinta, le labbra carnose e turgide suggerivano il ricorso a qualche "ritocco" di chirurgia estetica, gli occhi celesti brillavano febbrilmente, la dentiera dondolava un po' troppo... tutto insomma contribuiva a comunicare l'immagine di un vecchio gagà diventato la caricatura di se stesso.



Nonostante volesse dare l'idea di essere un uomo estremamente ricco, l'avvocato Vanesio navigava da molto tempo in pessime acque.
L'inflazione aveva divorato i risparmi degli avi, così come un contenzioso legale con alcuni parenti l'aveva privato di gran parte dei beni immobili paterni e materni. E questo a riprova del fatto che Vanesio perdeva non solo le cause dei suoi clienti, ma anche quelle che lo riguardavano in prima persona.
Altre calamità si erano poi abbattute sui suoi beni ereditari.
Sua madre, che apparteneva alla facoltosa famiglia dei Marangoni, gli aveva lasciato in eredità un'intera vallata, nell'Appennino, con una villa, che sfortunatamente era andata distrutta durante un terremoto.
Gli rimaneva una vecchia e cadente dimora di campagna nei dintorni di Pievequinta, dove risiedeva insieme a una dozzina di cani.
Questa debacle finanziaria traspariva dalle condizioni stesse dei locali in cui era domiciliato il suo studio legale, condiviso con i decrepiti soci Calderisi, Orbace e Rodagni.
Calderisi non esercitava più: in compenso dedicava il suo tempo alla predicazione evangelica sull'immediatezza della fine del mondo.
Orbace era afflitto da bronchite cronica, flatulenza e meteorismo, il che aveva incominciato a creare imbarazzo tra i colleghi e i clienti.
L'unico presentabile era Rodagni, il quale tuttavia non brillava per genialità.
Rimaneva dunque Marco Tullio Vanesio, il cui ufficio, ai più istruiti, avrebbe potuto ricordare quello del dottor Azzeccagarbugli di manzoniana memoria.
I clienti "non letterati", invece, si limitavano a notare le macchie e gli strappi nella carta da parati e nella fodera delle poltrone, le ragnatele negli angoli del soffitto, i pavimenti sbeccati, i tappeti lisi, i legni tarlati, i tomi di diritto romano sfasciati e scomposti, le bottiglie di liquori inaciditi e i bicchierini sparsi in giro, con file di formiche ubriache intorno.
Tutto questo però sembrava al di fuori della consapevolezza dell'illustre Principe del Foro, che si comportava come se quelle "superbe ruine", per usare un termine a lui caro, fossero motivo di vanto e di giustificato orgoglio.
Era sempre stato molto pomposo.
Si faceva dare del Lei da tutti, anche dagli amici più intimi, che erano tenuti a chiamarlo Avvocato in ogni circostanza.
Parlava di se stesso usando spesso il pluralis maiestatis, a cui ormai non ricorreva più nemmeno la regina Elisabetta.
Una delle sue caratteristiche più ridicole era il fatto che millantasse con la massima convinzione amicizie altolocate inesistenti, specie quelle rare volte in cui si recava a Roma, alla Corte di Cassazione (almeno così diceva lui).
<<L'altro giorno in Cassazione ho incontrato il Ministro Martelli, che ha studiato su uno dei miei libri di diritto romano, ed ha voluto una dedica personale pro bono publico>>
E qui merita di essere aperta una parentesi sul suo eloquio classicheggiante.
Le sue citazioni latine, a dire il vero, non erano sempre del tutto appropriate. Anzi, a volte sembravano messe lì più che altro per gettare fumo negli occhi a quei "bravi villici" che si rivolgevano alle sue illustri consulenze.
In effetti la sua clientela era composta più che altro da sprovveduti totali conosciuti in piazza o in treno e attirati nella trappola della sua ragnatela dalle citazioni latine e dai continui riferimenti alle conoscenze in alto loco.
Fortuna volle, però, che un giorno bussasse alla sua porta nientemeno che (parole sue) "quella vecchia canaglia di Ettore Ricci".
E poiché, quanto ad essere una vecchia canaglia, l'avvocato Vanesio non era secondo a nessunosi rese conto che se fosse riuscito, per una incredibile concomitanza di casi, a far assolvere Ettore, il suo studio legale sarebbe tornato ai fasti dei tempi del padre, e lui avrebbe potuto aspirare a quello che riteneva "il minimo" che gli fosse dovuto, ossia un seggio in Senato, a vita.
Questo sogno ad occhi aperti di Vanesio era giunto alle orecchie dello stesso Ettore Ricci, il quale dichiarò:
<<Se mi fa vincere la causa, di seggi in Senato gliene faccio avere anche due, uno per ogni chiappa!>>

martedì 27 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 91. "Erano i capei d'oro a l'aura sparsi"


Tra Aurora Visconti e Roberto Monterovere non ci fu, almeno nei primi tempi, il classico "colpo di fulmine" alla Petrarca, e a dire il vero nessuno sa esattamente quando e come ebbe inizio la tormentata vicenda dell'amore devastante che Roberto provò per Aurora, che fu sua compagna di classe dalla prima media fino all'ultimo anno del Liceo.
Per quanto tutti i loro conoscenti, col senno di poi, si siano sbizzarriti nell'inventare ipotesi assurde e situazioni improbabili, nessuno di loro si avvicinò mai, nemmeno lontanamente, alla verità.
Soltanto molti anni dopo, quando Roberto, ormai uomo di mezza età, fece ritorno al "natio borgo selvaggio", ci fu l'occasione per rievocare i vecchi tempi con gli "happy few", i pochi confidenti di antichi data che erano miracolosamente sopravvissuti alle periodiche epurazioni con "damnatio memoriae" con cui l'ultimo dei Monterovere scandiva implacabilmente il passaggio da una fase all'altra della sua vita.
Non che Roberto abbia mai avuto intenzione di rivelare tutto, ma c'era qualcosa che andava detto, perché per troppi anni si era preso lui la colpa di tutto, e questo non era giusto.
Bisognava spiegare il perché di alcune decisioni, e soprattutto di alcune omissioni: il motivo delle cose non dette e non fatte, che fu così gravido di sofferenze.


A costo di apparire sentimentale, Roberto rivelò solo allora che "Mille giorni di te e di me" di Baglioni era stata <<la nostra canzone, mia e di Aurora, non fosse altro perché lei me la fece ascoltare almeno un milione di volte, non immaginando che io avrei preso quelle parole così sul serio>>.
In particolare una strofa della canzone fu applicata alla lettera, quando lui decise di fare dolorosissimo passo indietro, per il bene di lei:

"Non ti lasciai un motivo né una colpa
Ti ho fatto male per non farlo alla tua vita
Tu eri in piedi contro il cielo e io così
Dolente mi levai, imputato alzatevi!"

Ma per capire come si arrivò a quella fine, bisogna raccontare le cose fin dall'inizio, almeno quelle che col tempo trapelarono, tanto che solo allora parve chiaro che Roberto aveva raggiunto, in conclusione, la condizione petrarchesca e ne aveva compreso le conseguenze:

 "Ma ben veggio or sì come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno"

E in effetti Aurora aveva molto della Laura petrarchesca, compresi i "capei d'oro a l'aura sparsi".
Tutti concordano nel dire che Aurora aveva la classica bellezza angelica : capelli biondi, occhi azzurri, lineamenti dolci e nel contempo raffinati, corpo longilineo e quasi etereo, voce flautata, portamento armonioso e abbigliamento da "brava ragazza acqua e sapone" con qualche dettaglio di gran classe.


Ma non era solo una questione di aspetto fisico!
Aurora era intelligente, sensibile, colta, raffinata : si vedeva che la sua istruzione era stata, fino a quel momento, quella tipica di una fille rangée. una"ragazza di buona famiglia".
Ed in effetti la sua famiglia era una tra le più eminenti nella "buona società" forlivese.
I Visconti di Bertinoro erano veramente visconti della località collinare bertinorese, la Beverly Hills della Romagna Centrale e lì possedevano ancora la principesca dimora degli antenati, restaurata a dovere. In mezzo ad una valle dove nasceva il Bevano, che poi, scendendo, arrivava a Casemurate e quindi al Feudo Orsini.
E forse era proprio destino che tra Bertinoro e Casemurate potesse nascere un'alleanza ideale che controllasse l'intera valle del Bevano fino alla sua foce.
Il padre di Aurora, l'illustre Bartolomeo Visconti-Ordelaffi di Bertinoro, aveva sposato infatti Maria Antonietta Tartaglia. Quest'ultima era figlia di Paride Tartaglia, fratello dell'ex ispettore Onofrio Tartaglia, marito di Maria Teresa Ricci, sorella di Ettore Ricci, marito di Diana Orsini.
Paride era inizialmente un benzinaio che però col tempo aveva aperto molti distributori e si era enormemente arricchito.
Strapiove sul bagnato, fu il commento di tutti quando i due rampolli convolarono a nozze.
Meno bene andò alla sorella minore di Maria Antonietta, ossia Maria Carolina, poco bella (sembrava un barbagianni) , che si dovette accontentare di un tarchiato ragioniere di origine che lavorava per i Visconti.
Questi riguardanti le due sorelle Tartaglia sono di estrema importanza ai fini della nostra storia, poiché coinvolsero due personaggi determinanti nella rovina dei Ricci-Orsini prima e dei Monterovere poi.
Il primo è una nostra vecchia conoscenza, ossia l'onnipresente Massimo Braghiri, che aveva corteggiato invano Maria Antonietta, e si era ritrovato invece nel circolo degli amici di Maria Carolina e del marito ragionier Taddeo Porcu.
Ed è proprio dall'unione del suddetto Porcu con Maria Carolina Tartaglia che nacque il secondo acerrimo di Roberto Monterovere, e cioè il coetaneo Felice Porcu, un personaggio che Svetonio avrebbe descritto con la formula "omni parte vitae detestabilis" , riservato a Gneo Domizio Enobarbo, il padre naturale di Nerone.
Per quanto incredibile potesse essere la cosa, Felice Porcu era il cugino di primo grado di Aurora Visconti e si comportava, nei confronti di lei, come una specie di cane da guardia, essendo in classe con lei dalle elementari al Liceo.
Nella logica dei "gruppetti" all'interno delle medie, Porcu si collocava nella zona mediana, quella di coloro che aspiravano al ruolo di pretoriani del Bullo e alla fine riuscì in qualche modo ad entrare nelle grazie di Martino Aspide, interessato a sua volta alla "principessa Aurora, bella più che mai".
Fu forse la sgradevole presenza di Felice Porcu e di Martino Aspide nell'orbita di Aurora Visconti ciò che inizialmente convinse Roberto a tenersi alla larga da lei, arrivando persino a rifiutare un invito alla sua festa di compleanno.
Questo gran rifiuto fu causa di un "incidente diplomatico" che coinvolse tutta la ragnatela di parentele e affinità che necessiterebbe di vari alberi genealogici per essere ben chiarita al lettore.
La madre di Aurora, Maria Antonietta Visconti, telefonò a Silvia Monterovere ed espresse la sua delusione: <<Mi dispiace che tuo figlio non sia venuto>>
Silvia Monterovere, che non sapeva nemmeno dell'esistenza di quella dannata festa di compleanno, cadde dalle nuvole: <<Io non sapevo niente dell'invito. Forse lui si è dimenticato, sai com'è, ha sempre la le nuvole>>
<<Ah, allora la prossima volta vi mando un invito scritto, puoi venire anche tu, è tanto tempo che non ci vediamo>>
Silvia interruppe quel profluvio di parole senza senso:
<<Volentieri, Maria Antonietta>>
La signora Visconti non aspettava altro:
<<Mi chiedo se per caso Roberto non sia venuto perché il cugino di Aurora è amico di quel Martino Aspide, il bullo...>>
Silvia Monterovere non era molto informata, perché all'epoca Roberto non si confidava con nessuno:
<<Può essere. Con me non ha detto niente, però. E se io gli faccio delle domande, lui si chiude a riccio>>
Maria Antonietta Visconti, nata Tartaglia, interpretò quella risposta come se fosse un messaggio in codice o addirittura un ultimatum:
<<Ma sì, l'avevo detto con Maria Carolina che tenesse suo figlio alla larga da quell'Aspide, che oltretutto è un mezzo teppista, figlio di un ubriacone che lavora alla Cantina Sociale. 
Avrei dovuto capirlo subito...>>
Silvia era confusa:
<<E' un'età difficile per i ragazzi. A volte non so cosa fare, cosa dire, cosa pensare...>>
La viscontessa era d'accordo:
<<Ai nostri tempi era più facile. C'erano delle regole ben precise, dei codici di comportamento... ti ricordi com'eravamo quando andavamo a ballare a Pievequinta?>>
Silvia confermò e per un po' entrambe si abbandonarono ai ricordi.
Poi, dopo alcuni convenevoli, si salutarono.
Silvia si rese conto di un dato di fatto inquietante.
"Non riesco a liberarmi del passato. Più cerco di fuggire e più m'insegue. E temo che sarà mio figlio a pagare questo prezzo più di tutti gli altri. La cosa sta già accadendo, e lo colpirà proprio dove è più indifeso: negli affetti familiari, nelle amicizie e nell'amore"
Si ricordò di una canzone in inglese, una specie di inno patriottico risalente alla prima età elisabettiana e poi rispolverato durante l'ultima guerra.
"She stands and goes alone, ally nor friends has she, old England stands alone" 
Forse era questo il destino che attendeva la sua famiglia, e ogni suo componente, soprattutto il più giovane?
Alla fine decise soltanto di chiedergli perché non era andato alla festa di Aurora.
Roberto fu sincero:
<<Aurora si circonda delle persone sbagliate. Spero che un giorno se ne renda conto. Fino ad allora io preferisco stare alla larga>>
Sua madre era preoccupata:
<<La vita è piena di persone "sbagliate". Non puoi fuggire in eterno: a volte un po' di diplomazia può evitarci molte spiacevoli conseguenze>>
Lui la guardò con un'espressione incredibilmente matura per la sua giovane età:
<<Me ne rendo conto. Ma in questo caso sento che è meglio mantenere le distanze. C'è un legame malsano tra Aurora e suo cugino, e non ne verrà fuori niente di buono>>
Col senno di poi, possiamo dire che aveva ragione e che, se avesse mantenuto con fermezza quel proposito, gran parte dei suoi guai sarebbe potuta essere evitata.
Ma quando ci si innamora, la saggezza si disperde.
Succede così negli affari di cuore: la ragione cerca di frenarlo, ma lui fa quel che vuole.





 



giovedì 22 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 90. Il Bullo, i gruppetti, le ragazze e il Triangolo delle Bermuda


Nell'autunno del 1986, Roberto Monterovere incominciò le scuole medie e fu subito una doccia fredda, per non dire gelida.
La maggior parte dei compagni di classe provenivano da altre scuole elementari e dunque lui non conosceva quasi nessuno, a parte poche persone che comunque avrebbero avuto un grande rilievo negli anni seguenti.
Ma prima di parlare di questi personaggi, è bene mettere in chiaro che tipo di "clima" si respirava in quella classe.
All'epoca il termine "bullismo" era poco diffuso, anche se fu chiaro fin dall'inizio chi era il bulletto e quali erano i suoi complici.


Martino Aspide, il bullo della 1° E era un prepotente e il suo atteggiamento era arrogante, presuntuoso e strafottente: si divertiva moltissimo a umiliare tutti coloro che non gli andavano a genio, prendendoli in giro in maniera costante e persecutoria.
La cosa incredibile era che gli altri non solo lo lasciavano fare, ma provavano una certa ammirazione nei suoi confronti. 
Roberto non riusciva a capire come fosse possibile che un simile personaggio potesse comportarsi in quel modo senza che nessuno si ribellasse.
All'inizio il giovane Monterovere aveva cercato di sondare il terreno per vedere se era possibile creare una maggioranza che si opponesse al gruppetto di Aspide e dei suoi fedelissimi, ma quasi tutti avevano paura di farselo nemico.
La cosa si sarebbe anche potuta comprendere se Aspide fosse stato un violento a livello fisico, ma non essendo questo il caso, l'omertà generale che gli permetteva di esercitare la sua leadership bullistica era in gran parte fondata sul fatto che tutti cercavano di farselo amico.
Perché accadeva questo?
La domanda tormentava Roberto.
Molto dipendeva dalla composizione di quella classe "pollaio": un'accozzaglia di trenta alunni che si era subito frammentata in gruppetti omogenei, reciprocamente diffidenti, ma soprattutto già stratificati secondo una gerarchia di caste che andava, dal basso verso l'altro, dal "Club degli sfigati" al "Circolo dei Fighi".


Il gruppetto a cui apparteneva Roberto era intermedio, e per essere sinceri, l'unico motivo perché lui e i suoi amici non erano precipitati nel "Club degli Sfigati" stava nel fatto che ognuno di loro poteva contare su una famiglia potente alle spalle e su numerosi appoggi all'interno del corpo insegnante.
Per esempio, l'insegnante di italiano era Anna De Gubernatis, moglie del Sommo Poeta Adriano Trombatore e cugina di primo grado di Silvia Ricci-Orsini.
A differenza di sua sorella Elisabetta, moglie di Massimo Braghiri, la professoressa Anna Trombatore era in ottimi rapporti con i Monterovere e stravedeva per Roberto.
Il secondo componente del gruppetto era Ludovico Corzani, figlio di un illustre ingegnere (dirigente del Rotary Club) e di una brillante pittrice, entrambi frequentatori assidui del salotto di Silvia Monterovere. Ludovico era simpatico, ma molto suscettibile e se si convinceva che qualcuno lo prendesse in giro per via dei capelli rossastri arruffati, non esitava a passare "alle vie di fatto", e nel menare fendenti era un asso. 


L'amicizia di Ludovico, che fu suo compagno di banco sia alle medie che al liceo, garantiva a Roberto un valido appoggio e una protezione efficace contro i tipi maneschi.
Ma nel gruppo vi era anche un terzo componente, Daniele Destri, un biondino esile e riccioluto, figlio di un alto funzionario statale e della professoressa di educazione fisica, che in gioventù era stata in collegio con Silvia Ricci-Orsini. Daniele era un ragazzo oggettivamente effeminato, che nutriva nei confronti di Roberto un'adorazione che suscitava l'ilarità e le maldicenze dei bulli.



La cosa suscitò sorpresa e sgomento nel giovane Monterovere, che era arrivato all'età di 11 anni senza sapere, né sospettare, né mai lontanamente immaginare l'esistenza stessa degli omosessuali.
Fino a quel momento le sue conoscenze in materia di educazione sessuale erano quasi zero, e quelle poche derivavano dal fatto che in campagna aveva visto gli accoppiamenti dei galli con le galline e aveva ipotizzato che qualcosa di altrettanto bestiale accadesse agli umani quando volevano generare un figlio.
Al contrario l'amore, per come lo percepiva Roberto, era avvolto in un'aura di sacralità quasi stilnovistica, per cui le compagne di classe nei confronti delle quali, alla fine delle elementari, aveva provato i suoi primi innamoramenti, erano come angeli irraggiungibili, di fronte a cui si doveva abbassare rispettosamente lo sguardo, e dunque esse non potevano nemmeno immaginare i sentimenti del loro dantesco ammiratore.



Nella classe 1° E , a destare subito l'attenzione di Roberto fu una certa Aurora Visconti, molto bella, intelligente e raffinata, di cui peraltro conosceva alcuni familiari materni: la madre di Aurora era infatti una parente acquisita di Maria Teresa Ricci, una delle sorelle di Ettore.
Questo dettaglio si rivelerà molto importante in seguito, e dunque ci ritorneremo più avanti. Per ora basti pensare che Roberto, per timidezza e senso di inadeguatezza, nascondeva così bene il suo sentimento per Aurora, da apparire del tutto disinteressato nei confronti delle ragazze.


Tutto ciò non fece altro che alimentare le prese in giro di Martino Aspide, che si avvaleva di una terminologia brutalmente volgare che pose fine in maniera sudicia e rivoltante all'ingenuità gentile di un'infanzia che al giorno d'oggi, nell'era di internet, sarebbe del tutto inimmaginabile.
La reazione di Roberto e di Daniele fu quella di riferire il tutto ai genitori, i quali a loro volta fecero presente la questione a chi di dovere per far rispettare la disciplina.
Diversa fu invece la reazione di Ludovico, che aspettò Martino Aspide sotto casa e lo prese a pugni.
Questa duplice rappresaglia conferì una certa rispettabilità al trio Corzani, Destri e Monterovere, che venne soprannominato "il Triangolo delle Bermuda", in relazione alle innumerevoli calamità che accadevano a chi si inoltrava a navigare all'interno del triangolo stesso.


giovedì 15 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 89. Scacco al Re


La Procura di Forlì non tardò a seguire l'esempio di quella di Ravenna e sguinzagliò la Guardia di Finanza a controllare tutte le attività commerciali riconducibili ad Ettore Ricci.
Furono sequestrati tutti i bilanci che il defunto Michele Braghiri aveva sistematicamente redatto con "eccessiva creatività".
 Ne emerse un primo procedimento per "evasione fiscale".
Poi incominciarono gli interrogatori di tutti i pubblici ufficiali legati in qualche modo al clan Ricci-Orsini.
Nonostante questi ultimi avessero dichiarato di aver soltanto accettato qualche cesto di Natale con salumi e formaggi, qualche bottiglia di vino e ogni tanto un cartoccio con delle uova, un pollo o un coniglio, ci si accorse che il loro tenore di vita era eccessivo rispetto al misero stipendio che percepivano.
E così fu aperto un secondo fascicolo, sempre a carico di Ettore Ricci, per concussione.
Il terzo fascicolo riguardò invece l'accusa di utilizzo di lavoratori "in nero", non denunciati all'Inps.
Seguì poi una miriade di accuse minori, riguardanti l'abuso edilizio e il mancato rispetto di regole di tutela ambientale e paesaggistica.
Una di queste accuse era talmente dettagliata da risultare tragicamente ridicola.
Si segnalava infatti la presenza non dichiarata al catasto di un "bacino di deposito di deiezioni fisiche prodotte da adiacente struttura per allevamento di pollame".
Tradotto dal burocratese ci si riferiva, di fatto, ad un vero e proprio lago di merda (ci si perdoni il "francesismo") vicino ad un enorme pollaio.
E a quel punto, accadde l'inevitabile.
Il Giudice per le Indagini Preliminari confermò la richiesta della Procura, ossia l'ordine degli arresti domiciliari per Ettore Ricci.
La reazione di Ettore a tutto questo fu tipica rispetto a quanto sarebbe accaduto, pochi anni dopo nelle inchieste di Mani Pulite e nello scandalo di Tangentopoli, per quanto, ci sia concesso almeno questa difesa, l'entità delle colpe dei politici fosse molto superiore a quella degli imprenditori.
<<Ha fatto tutto Michele Braghiri, io non ne sapevo niente! E poi non capisco perché se la prendono con me, quando so che ci sono altri che hanno fatto molto peggio!>>
A rispondergli a tono fu Enrichetta Monterovere: <<Lo fanno perché lei è di destra, non l'ha ancora capito? Anni fa io le avevo consigliato di iscriversi al Partito Comunista, come abbiamo fatto noi Monterovere sin dall'inizio, e nel caso di mio nonno Enrico si trattò addirittura di un'adesione ideale. Mio padre si è visto aprire tutti i Salotti Buoni di Faenza, Forlì e Ravenna. Oltre tutto lei ha una figlia sposata ad un intellettuale di sinistra del calibro di mio fratello Francesco: sarebbe bastato farsi vedere ogni tanto nel suo Salotto Buono e nessuno avrebbe mai osato sfiorarla>>
Ettore non poté negare che il discorso di Enrichetta poggiava su presupposti non arbitrari.
<<Può anche darsi che le Procure e i Tribunali, specie in una Regione Rossa come l'Emilia-Romagna, siano stati presi d'assalto dai post-sessantottini, ma io sono certo che in Appello o in Cassazione ci sia ancora la vecchia guardia democristiana>>
Enrichetta sorrise:
<<Per il momento. Ma non ci conterei troppo, signor Ricci. Sarà meglio che si trovi un buon avvocato, meglio se di sinistra>>
Ettore sgranò gli occhi:
<<Ma esistono, secondo lei, avvocati di sinistra?>>
La Monterovere annuì:
<<Il mio defunto zio Umberto lo era. E così tutti gli avvocati del suo studio, tra cui i suoi figli. Ma lavorano solo come collaboratori esterni dell'Azienda Fratelli Monterovere. In ogni caso mi rendo conto che a Forlì gli avvocati sono solo missini o democristiani di destra, nel qual caso non sarà facile per lei avere un buon rapporto con il Tribunale>>
Ettore si sentì con le spalle al muro:
<<Finirò in galera?>>
Enrichetta scosse il capo:
<<Non credo. La giustizia in Italia è molto lenta e i reati vanno in prescrizione. E poi lei è anziano. Se saprà giocare bene le sue carte se la caverà. Ma il suo impero economico potrebbe comunque subire danni, se la gestione fosse commissariata. Anche qui, tutto dipende dall'avvocato che sceglierà>>
Ettore si rabbuiò ulteriormente:
<<Quelli più quotati hanno rifiutato di difendermi, e non perché mi ritengano colpevole, ma perché mi sono inimicato i loro clienti più illustri e potenti, oppure i loro protettori politici, e così alla fine mi sono dovuto rivolgere allo studio Calderisi, Orbace, Rodagni e Vanesio. 
Il vecchio Calderisi, fervente cattolico e democristiano doc, ha ottantasette anni e ormai si dedica quasi completamente all'esegesi del Libro del Profeta Ezechiele e crede che la Fine dei Giorni sia imminente. Forse quella dei suoi giorni lo è sul serio. 
E incomincio a pensare che anche il mio tempo sia finito, ma non è finito il mio impegno in difesa di tutto ciò che ho edificato in mezzo secolo di duro lavoro>>
Enrichetta annuì, più che altro per educazione:
<<E gli altri avvocati dello studio, come sono?>>
Ettore Ricci sollevò gli occhi al cielo:
<<Non valgono la corda per impiccarli, dico io, ma secondo i miei soci hanno importanti agganci in Tribunale. Orbace è il classico fascistone di Predappio, Rodagni è un aristocratico liberale che va a cavallo ed è iscritto alla Massoneria e poi c'è Marco Tullio Vanesio, un repubblicano che crede di essere Cicerone redivivo ed è sicuramente un personaggio piuttosto bizzarro, su cui si potrebbe scrivere un romanzo, o almeno un capitolo tragicomico>>
La Monterovere capì l'antifona:
<<In primo grado perderete di sicuro. In secondo grado la condanna sarà ridotta al minimo e in Cassazione lei sarà assolto, e le auguro di vivere così a lungo da vedersi scagionato da tutte le accuse>>
Ricci scosse il capo:
<<Ah, mi fa un bel coraggio. Comunque non credo che arriverò fino alla Cassazione. Ho settantacinque anni, sono agli arresti domiciliari, anche se la notizia non è trapelata, e incomincio a sentirmi braccato. E' partita la caccia al cinghiale e i miei nemici non si fermeranno finché non mi vedranno in ginocchio, sul lastrico, a implorare un tozzo di pane per la mia famiglia.
Ma giuro su tutto ciò che ho di più caro che io non darò mai a nessuno questa soddisfazione!
Se questa è la mia fine, sarà allora una "Grande Fine", degna di essere cantata per generazioni e generazioni!>>


mercoledì 7 ottobre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 88. Una realtà più grande


<<Sono in arrivo tempi duri, e avremo bisogno delle voci di scrittori capaci di vedere alternative al modo in cui viviamo ora; capaci di vedere, al di là di una società stretta dalla paura e dall'ossessione tecnologica, altri modi di essere, e immaginare persino nuove basi per la speranza. Abbiamo bisogno di scrittori che si ricordino la libertà. Poeti, visionari, realisti di una realtà più grande>>
Queste furono le parole pronunciate da Ursula K. Le Guin, nel suo ultimo e memorabile discorso al National Book Award di New York, nel ricevere il prestigioso premio alla carriera letteraria.
Fu la consacrazione di una forma di narrativa per troppo tempo discriminata e fraintesa, e cioè quella che può rientrare nei due generi del fantasy e della fantascienza.
L'accusa rivolta a tali generi dalla critica e dai lettori prevenuti è che questa letteratura lasci troppo spazio all'invenzione, a discapito della realtà e del realismo. Questo può forse valere se il romanzo non è di buona qualità, ma "tutti i buoni libri sono simili nel fatto che sono più veri di quanto avrebbe potuto essere la realtà", come sosteneva Ernest Hemingway, cogliendo un aspetto creativo essenziale della magia intrinseca alla letteratura e alle grandi narrazioni.
Chi ama leggere romanzi o poemi ha scoperto questo aspetto nel momento in cui ha incontrato il libro che lo ha fatto innamorate della lettura e ha inciso più profondamente nella sua vita e nella sua visione del mondo.
Per Roberto Monterovere questo incontro avvenne nell'autunno del 1985 e gli tenne compagnia fino alla primavera del 1986: si trattava di uno dei romanzi più "visionari", creativi, colossali, ambiziosi ed onnicomprensivi della letteratura inglese contemporanea, ossia Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, anche se all'epoca la critica, specie quella italiana, non si era resa conto della profondità culturale e della portata rivoluzionaria di quell'opera.
Non è questa la sede per spiegare la ragione per cui il Professore di Oxford riuscì a trasformare le sue immense conoscenze filologiche, linguistiche, letterarie, storiche, mitologiche, araldiche e naturalistiche in un' "opera mondo" che ha entusiasmato intere generazioni.
Qui ci limiteremo a raccontare perché, a soli dieci anni, Roberto Monterovere decise di immergersi completamente nella lettura di un testo di oltre 1300 pagine, (comprese le appendici cartografiche, cronologiche, genealogiche e lessicali) trovando in esso tutto ciò di cui in quel momento aveva bisogno per salvarsi da una crisi che altrimenti avrebbe potuto spazzare via tutta la felicità della sua infanzia.
Va detto, innanzitutto, che le prime cose che erano balzate all'occhio di Roberto quando suo padre gli aveva regalato il libro, in occasione del suo decimo compleanno, erano state la mappa e gli alberi genealogici.
E quando poi vide che in quel romanzo c'era una Contea, quella degli Hobbit, che sotto molti aspetti gli ricordava la Contea di Casemurate, gli parve di aver riconosciuto un segno del destino.
Roberto andava pazzo per le rappresentazioni cartografiche di ogni genere: all'origine di questa passione c'erano stati il Canale Emiliano Romagnolo, da un lato, e il torrente Bevano dall'altro.
Il primo era in parte una realizzazione della sua famiglia paterna, e lui stesso aveva ereditato la passione per l'idraulica dal compianto ingegner Lanni, il padre della sua nonna paterna.
Il Bevano, invece, era il fiumiciattolo che raccoglieva spontaneamente le acque di tutti i torrentelli e i fossati della Contea di Casemurate e dintorni, ed era pertanto amato e quasi venerato dalla nonna materna Diana e dalla bisnonna Emilia, che ogni giorno cercava di trascinare le sue vecchie ossa da novantaseienne fino alle rive dell'amato corso d'acqua.
I primi disegni di Roberto, oltre a quelli che rappresentavano gli animali e le piante, furono, con grande stupore di tutti, delle mappe che cercavano di stabilire il tracciato di tutti i corsi d'acqua che solcavano il Feudo Orsini, sia quelli naturali legati al Bevano, sia quelli artificiali legati al Canale Emiliano Romagnolo.
Tutti i parenti erano ammirati da questa precoce capacità e furono ancora più colpiti dal fatto che ben presto quelle mappe incominciarono a comprendere anche i tracciati di tutti i sentieri e le strade, le indicazioni dei toponimi, i disegni dei centri abitati o dei boschetti che ancora punteggiavano quella dolce campagna.
In quella prima forma di creatività visiva c'erano state varie fasi: quella dei fiumi, quella delle strade e degli atlanti, fino ad arrivare a disegnare persino le piantine di ogni appartamento in cui andava.
Il nonno Romano Monterovere, di solito totalmente disinteressato a qualsiasi cosa facesse il nipote, arrivò persino a ventilare l'ipotesi che Roberto potesse diventare un ingegnere e prendere il posto del venerato bisnonno Lanni.
Ma non aveva tenuto conto dell'altra influenza determinante, e cioè quella della nonna Diana e della bisnonna Emilia riguardo alla gloriosa storia degli Orsini di Casemurate, fatta di cavalieri, castelli, alberi genealogici, cronologie e biografie dei vari Conti che si erano succeduti dal 1278 in avanti, quando papa Niccolò III Orsini aveva mandato i suoi due nipoti Bertoldo e Bernardo alla conquista delle Romagne.
E c'era anche da tener conto di un particolare apparentemente frivolo, ma in realtà molto fecondo, per quel che riguardò gli interessi storici futuri di Roberto, ossia il fatto che, nelle riviste mondane che la nonna e la bisnonna leggevano nel Salotto Liberty, c'era tutta la cronistoria della Famiglia Reale Inglese, con i cappellini della Regina Madre, i cani di Elisabetta II, le gaffe del principe Filippo e i burrascosi matrimoni dei Principi del Sangue.
La bisnonna Emilia, che aveva una straordinaria somiglianza con la Regina Madre Elizabeth Bowes-Lyon, si accalorava a spiegare al pronipote, come se da queste informazioni fosse dipesa la sua salvezza, le origini del cognome Windsor e gli alberi genealogici che erano confluiti in quella famiglia: i Sassonia-Coburgo-Gotha, gli Hannover, gli Stuart, i Tudor, i Plantageneti, i Normanni, gli anglosassoni del Wessex e via dicendo.
Ma su quelle riviste erano anche raccontate, con pathos fiabesco, le vicissitudini dei Principi di Monaco, o quelle dei Savoia esuli, con la Regina di Maggio, Maria José, nel magnifico sfondo svizzero della sua residenza di Merlinge.
Tutti questi elementi si erano stratificati nella memoria e nella fantasia di Roberto per poi risvegliarsi immediatamente quando sfogliò, per la prima volta, Il Signore degli Anelli.
Certo, c'era già stata La Storia Infinita a preparare il terreno, e prima ancora c'erano state tutte le fiabe tradizionali, ambientate in una specie di Medioevo idealizzato, specie quelle rivisitate in chiave disneyana, ma il romanzo di Tolkien era infinitamente di più di tutto questo.
In fondo, il libro fagocitava la realtà e la rendeva più vera del vero.
Più la Contea di Casemurate si indeboliva a causa dei problemi giudiziari di Ettore Ricci, che avevano inferto un durissimo colpo a quello che era stato fino ad allora l'inviolato Paradiso Terrestre del giovane Monterovere, più la Contea degli Hobbit incominciava a farne ne veci, nell'immaginazione, nelle ore perdute nei solai di Villa Orsini, mentre tutto franava intorno.


Ma poiché tutti i bei sogni hanno una fine, anche il romanzo di Tolkien, a un certo punto, terminò, e per Roberto fu come morire.
Pianse, e non solo perché si trattava di un finale commovente o perché, come suggeriva lo stesso autore "non tutte le lacrime sono un male", ma anche e soprattutto, perché gli veniva a mancare il suo mondo alternativo in cui rifugiarsi, e improvvisamente la sua vita reale gli parve piccola, meschina, inutile, prosaica e soprattutto fragile e vulnerabile.
Si era forse perduto per sempre in una dimensione alternativa, sacrificando la vita reale?
Ma erano sempre le parole di Tolkien a rassicurarlo: "Non tutti coloro che vagano si sono perduti",
che in inglese aveva un suono ancora più evocativo:
Not all who wander are lost.
Quelle parole erano destinate ad accompagnare Roberto per tutta la vita, una vita che, tra i 20 e i 40 anni, fu quella di un Ramingo, salvo poi tornare al punto di partenza e vedere chiaramente che nulla era perduto, fintanto che la mente poteva conservarne il ricordo e rievocarne la bellezza e la bontà.
"Neanche la sconfitta finale trasforma ciò che è giusto in qualcosa di sbagliato" aveva sostenuto il Professore di Oxford in una delle sue conferenze più appassionate, ricordando a tutti, in un mondo in cui l'economia stava diventando l'unico parametro di giudizio, la differenza tra ciò che è giusto e ciò che è utile. 
A dieci anni, Roberto Monterovere ne aveva preso consapevolezza proprio grazie alle scelte coraggiose dei personaggi del romanzo del Professore, ma soltanto quando divenne un uomo di mezza età, disilluso e disgustato da tutto, realizzò pienamente quanto quelle parole potessero riscattare la sua vita da quello che soltanto agli occhi di persone superficiali poteva apparire un fallimento.
Là dove la logica utilitaristica poteva decretare un fallimento, la contemplazione e l'etica potevano rilevare una scelta consapevole e filosoficamente giusta.
Forse fu proprio per questa considerazione che alla fine, nel voltarsi indietro "alla ricerca del tempo perduto", Roberto si rese conto che la propria vocazione contemplativa e la propria rettitudine erano ciò che lo aveva in qualche modo innalzato al di sopra di quei roboanti antenati che lo osservavano con piglio autoritario dai ritratti di famiglia.
Alla loro Contea agonizzante egli opponeva una Contea eterna.


E questo l'aveva appreso da un romanzo che per anni la critica aveva snobbato come "evasione dalla realtà".
Ma Tolkien si era difeso anche da questo con la consueta perspicacia, smascherando la pusillanimità di certi critici con una delle sue frasi più famose:
 <<Non solo essi confondono l’evasione del prigioniero con la fuga del disertore, ma sembrerebbero preferire l’acquiescenza del collaborazionista alla resistenza del patriota>>
Ecco, il punto era questo, e i suoi lettori, compresi i bambini, avevano appreso questa lezione: non siamo disertori, ma custodi di qualcosa di più grande dell'edonismo vacuo dei nostri tempi.
Non era moralismo, era una rivendicazione di dignità per chi cercava "qualcosa di più", "una realtà più grande".
Roberto intuì solo allora, per la prima volta, che nella lettura e nella scrittura avrebbe potuto ritrovare ciò che la realtà gli stava sottraendo.
Continuò dunque a leggere con grande passione, scoprendo tutti gli altri capolavori del genere fantasy, e poi di tutti gli altri generi letterari.
Certo gli fu d'aiuto il fatto che Tolkien avesse scritto altri libri, alcuni pubblicati in vita, come Lo Hobbit, e altri pubblicati postumi a cura del figlio Christopher, come Il Silmarillion, altro grande capolavoro, e poi tutta la serie de "I racconti incompiuti", "I racconti ritrovati", "I racconti perduti" e, come ebbe a ironizzare Francesco Monterovere, <<I racconti mai scritti>>.
A quel punto Roberto aveva undici anni, aveva concluso la scuola elementare e aveva preso atto anche degli eventi del "macrocosmo", che in quel pazzo 1986 aveva visto, tra le altre cose, il passaggio della cometa di Halley, l'esplosione della centrale nucleare di Chernobyl e quella dello Space Shuttle Challenger e due missili libici lanciati contro Lampedusa come ritorsione, da parte di Gheddafi, di un attacco aereo statunitense su Tripoli.
Ma cos'era tutto questo in confronto all'epica guerra tra il Bene e il Male che si era combattuta nella Terra di Mezzo?
E così per la prima volta Roberto Monterovere si trovò di fronte all'immenso potere della parola come suprema forma di creazione.
Lo disse a nonna Diana e lei, come era nel suo stile, rispose con una citazione, una delle più famose in assoluto: <<In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio, e la Parola era Dio>>

mercoledì 30 settembre 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 87. Presagi di tempesta.


"Nessuna creatura sulla terra è tanto spaventosa quanto un uomo integerrimo", così George Martin fa dire a Lord Varys in riferimento all'inflessibile Stannis Baratheon.
Ettore Ricci sarebbe stato assolutamente d'accordo, e del resto, una delle affermazioni che esprimeva più spesso era la seguente"Se qualcuno volesse rispettare tutte le leggi esistenti in Italia, non riuscirebbe più a muovere un dito". 
E in questo non aveva tutti i torti. La Repubblica Italiana, già a metà degli anni '80 del XX secolo, era un paese sommerso da un profluvio immane di leggi, regolamenti, direttive, circolari, codicilli, consuetudini, obblighi e divieti che, in maniera pletorica, farraginosa e con un linguaggio a dir poco incomprensibile, asserivano tutto e il contrario di tutto su qualsiasi cosa, dando vita a un mostro burocratico tale da disincentivare sul nascere ogni iniziativa privata.
Non diciamo questo per giustificare gli errori di Ettore Ricci, alcuni dei quali furono commessi con tale ingenuità da farlo sembrare più che altro uno sprovveduto di un ladro di polli, ma per ricordare che i procedimenti giudiziari in cui si trovò coinvolto, suo malgrado, gli offrirono un palcoscenico dal quale egli, grazie alle sue innate doti istrioniche, diede vita ad una sferzante satira a sfondo socio-politico che non risparmiò nessuno di quelli (e furono tanti) che, pur essendo molto più colpevoli di lui, scagliarono infinite pietre nel tentativo di lapidarlo.
Ma procediamo per gradi.
La prima grana legale, nel 1985, fu una questione relativamente di poco conto e cioè una denuncia per abuso edilizio riguardo alla costruzione delle tre ville di Cervia (una per figlia) su una specie di collinetta artificiale che oscurava la visuale dei vicini, in particolare quella del signor Mario Strambelli, noto alcolista, che si era già vendicato versando, nottetempo, secchi pieni di deiezioni liquide innominabili nel giardino della villa adiacente, quella di Margherita Spreti di Serachieda, provocando olezzi nauseabondi e una moria di ortensie  di tale entità da causare dolorose afflizioni alla figlia primogenita di Ettore Ricci, e una rabbia incontenibile in suo padre.
Oltre alla questione della "collina abusiva", c'erano altri elementi "non a norma", passibili al massimo dell'accusa di "pacchianeria da parvenu", come ad esempio alcuni garages adibiti a dependances, una fontana con sirene a seno scoperto dai cui capezzoli si sprigionavano cascatelle di acqua "salsobromoiodica", un gazebo fisso a cupola fatto passare come pergolato grazie a una ricopertura di glicini fronzuti,e infine l'immancabile piscinetta fuori terra in PVC rivestita di legno.

Il regno dei glicini - Recensioni su Ashikaga Flower Park, Ashikaga -  Tripadvisor

Rinascita dopo il degrado, la fontana del Grand hotel di Cervia torna a  zampillare | CorriereRomagna

All'epoca tutto questo era la norma, non l'eccezione, ma lo scopo della denuncia di Strambelli quasi sicuramente istigato da Massimo Braghiri, era attirare l'attenzione della Guardia di Finanza su quello che ormai, anche a Cervia, era noto come "il clan Ricci-Orsini".
La cosa più sorprendente fu che la Finanza, mentre perquisiva il famoso garage adibito a dependance, trovò una serie di contratti di locazione di appartamenti situati in alcuni immobili nelle vicinanze, che risultavano di proprietà di Ettore Ricci.
Tali contratti riportavano, oltre alla firma dei locatari, quella di Michele Braghiri in qualità di amministratore e mediatore, ma la cosa più rilevante fu che il reddito di tali locazioni non era stato denunciato al Fisco.
La Procura di Ravenna aprì dunque un secondo fascicolo a carico di Ettore Ricci, il quale cadde dalle nuvole:
<<Io non sono un evasore! Delle questioni fiscali si occupava quella canaglia di Michele Braghiri! Lui aveva le deleghe su tutto, compresa la denuncia dei redditi! Io ho solo firmato delle deleghe, ed è stato in buona fede... insomma, non ci si capiva un accidente in quei documenti. E poi come hanno fatto quelle carte a finire in quel garage? E' ovvio che qualcuno mi vuole screditare! Qui sono io la parte lesa!>>
Ma purtroppo le brutte sorprese non erano finite.
Da quegli stessi contratti rinvenuti nel garage/dependance, risultò che le locatarie erano per lo più ragazze, di professione massaggiatrici in un centro estetico aperto solo d'estate, le quali d'inverno vivevano con un sussidio di disoccupazione insufficiente per pagare l'affitto, che comunque risultava regolarmente versato in un conto riconducibile ad Ettore Ricci.
Anche qui non mancarono malevole illazioni dello stesso Mario Strambelli, riguardo ad "un insolito via vai" di distinti signori di mezza età nel condominio di proprietà del signor Ricci.
Questo fu sufficiente per un terzo procedimento di indagine per presunto "favoreggiamento della prostituzione".
Ettore era fuori di sé dalla rabbia: <<Ma questo è ridicolo! Io sono un imprenditore di alto livello, non ho certo bisogno di fare il magnaccia a tempo perso! E' stato quel bastardo di Michele Braghiri ad architettare tutto per rovinarmi! E quell'altro pendaglio da forca di Strambelli non aspettava altro per incastrarmi con una falsa testimonianza!>>
Lo diceva rivolto alle sorelle, ma con voce sufficientemente alta affinché lo sentisse anche la Governante, sospettata di essere "la talpa" o la "gola profonda" della situazione.
<<Dobbiamo licenziare Ida Braghiri e denunciare lei e suo figlio per diffamazione!>> esclamò la sorella nubile Adriana, che viveva con lui a Villa Orsini.
Ettore annuì:
<<Sì, è arrivato il momento della resa dei conti>>
Ma l'altra sorella presente, Maria Teresa, non era d'accordo:
<<E credi che i giudici ti daranno ragione? Guarda che non hai più nessun protettore politico. Non avresti dovuto rifiutarti di pagare i debiti di Oreste e Roderico. In quel modo hai perso il sostegno del Senatore Baroni>>
Ettore batté un pugno sulla scrivania del suo studio:
<<Quegli idioti di Oreste e Roderico se la sono cercata, nonostante io li avessi avvertiti mille volte di vendere le loro quote del Banco Ambrosiano. E se anche gli avessi concesso quel prestito, si sarebbero messi nei guai di nuovo, buttando nel cesso i miei soldi e la mia fatica.
Quanto a Baroni, la cosa meno sgradevole che posso dire di lui è che è un gran figlio di puttana>>
Adriana sospirò:
<<Sì, ma era il "nostro" figlio di puttana. La politica funziona così. Me l'hai insegnato tu>>
Ettore le congedò e rimase fisso con lo sguardo nel vuoto, in attesa di un miracolo.
E il miracolo arrivò. Inaspettatamente, infatti, a schierarsi in modo immediato e totale dalla parte di Ettore fu sua moglie Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, che pure avrebbe avuto milioni di motivi per dubitare di lui, ma c'era in gioco l'onore, l'unità e la sopravvivenza stessa della dinastia e del Feudo:
<<Vogliono infangare il buon nome dei Ricci-Orsini e distruggere la nostra famiglia. Ma noi dimostreremo a tutti di essere uniti, compatti e soprattutto innocenti. 
Avrai tanti difetti Ettore, ma non sei un criminale. Io so chi sei. Non si passa tutta la vita accanto a un uomo senza sapere chi è.
Io so chi sei. E ci difenderemo!>>
Lui si commosse:
<<Oh, Diana... le mie vere e uniche colpe sono verso di te: non sono stato capace di meritarmi il tuo amore, né di difendere la tua famiglia, la nostra famiglia...>>
Diana gli rivolse uno sguardo incredibilmente benevolo:
<<Queste sono anche le mie colpe. Mi sono rintanata nella mia stanza per anni, a leggere, a vivere la vita di altre persone che nemmeno esistevano e ho fatto di tutto per sfuggire alla realtà e alle mie responsabilità.
Tu avevi bisogno di una moglie che ti comprendesse, che ti sostenesse, che ricambiasse i tuoi sentimenti. 
Se io fossi stata quel tipo di moglie, forse molto dolore si sarebbe potuto evitare
Ma siamo ancora in tempo, Ettore... 
Non so quanto ci resta da vivere, ma ti prometto che d'ora in avanti sarò per te quello che avrei dovuto essere fin dall'inizio>>
Ettore era confuso e farfugliava:
<<Ma io non sono mai stato alla tua altezza. Tu hai avuto con me fin troppa pazienza. Non merito il tuo perdono...>>
Lei sorrise, ed era una cosa talmente rara da essere meravigliosa a vedersi, come l'apparizione di una dea:
<<Qualunque possano essere state le tue responsabilità, hai già scontato la tua pena in questi lunghi anni di tormento. Io ho visto quanto soffrivi, e non ho fatto niente per alleviare quella sofferenza. Ora è tempo di dimenticare i fantasmi del passato
Dimentichiamo i morti, le loro tombe sprofondano nella cenere. 
Pensiamo ai vivi, alle nostre figlie, ai nostri nipoti... se ci vogliono così bene, vorrà pur dire che qualcosa di buono l'abbiamo fatto, non trovi?>>
Ettore le prese la mano, quella mano ancora così bianca e diafana, come quella di una fata:
<<, senza nemmeno rendercene conto, qualcosa di buono l'abbiamo fatto davvero>>