lunedì 6 luglio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 75. L'Oracolo

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Fino a pochi decenni fa, nelle campagne della Romagna centrale sopravviveva un approccio quasi animistico alla dimensione del sacro, intriso di superstizioni.
Sotto certi aspetti sopravvive ancora, in simbiosi con il ritorno del folklore celtico, veicolato dai media statunitensi, come nel caso di Halloween, su cui ritorneremo.
Negli anni Settanta del XX secolo, certe zone, come le aree meno popolose della Contea di Casemurate, sembravano distanti dal mondo moderno tanto quanto lo può essere una tribù dell'Amazzonia.
Vi erano, isolate e nascoste, certe case semi-diroccate, circondate da piccole selve cresciute spontaneamente su cortili abbandonati, con un sottobosco spinoso e contorto, in cui risiedevano strani personaggi, in prevalenza donne molto anziane, con la fama di streghe.
Non si trattava necessariamente di "streghe cattive", e a volte la loro reputazione dovuta più che altro al loro modo di vivere arcaico e lontano dalla modernità.
E però, prima di addentrarci nel discorso controverso riguardante queste presunte streghe, bisogna procedere per gradi, partendo quindi dalle semplici credenze superstiziose che ancora resistevano nelle campagne.
Un esempio di superstizione profondamente radicata e che farebbe orrore alle femministe del giorno d'oggi, è quello per cui a Capodanno gli auguri di felice anno nuovo debbano assolutamente essere fatti dagli uomini, perché ("absit iniuria verbis"), le donne porterebbero sfortuna.
Se poi qualcuno si ammala di qualsiasi malattia, non dà la colpa a fattori chimico-biologici (di cui peraltro ignora tutto), ma dichiara senza ombra di dubbio di essere stato "stregato".
Ma torniamo nuovamente agli aspetti animisti, sciamanici e, sotto molti punti di vista, paganeggianti, della spiritualità degli anziani di qualche decennio fa e forse persino dei tempi più vicini a noi.
In questo ci soccorre la storia delle religioni, che, riguardo alla prima diffusione del cristianesimo nelle campagne dell'Impero Romano, ci spiega come fosse una sorta di paganesimo mascherato da venerazione dei santi come sostituto delle divinità politeiste.
A Casemurate tutto era rimasto fermo a quella situazione.
Anzi, forse nella Contea l'antica superstizione era rimasta l'unica forma di spiritualità religiosa sinceramente sentita.
Lo stesso concetto di sacerdozio era qualcosa di sciamanico e pagano, tanto che si verificano fenomeni del tutto eccezionali.
Il culmine di questa sorta di sopravvivenza pagana si ebbe quando, nel 1980, dopo la morte del vecchio parroco, don Pino Ricci, per un lungo periodo, la Curia non riuscì a trovare un sostituto, perché quella zona era talmente "superstiziosa e ostile", che nessun parroco riusciva a reggere l'incarico per più di pochi giorni, sprofondando nella depressione o dicendo che piuttosto avrebbe preferito partire come missionario nel Borneo.
Durante tale periodo in cui la sede parrocchiale rimase vacante, la messa fu sostituita da letture bibliche (senza naturalmente i sacramenti) officiate da una laica, una certa Paola Ragnani, molto devota al culto della Madonna Greca di Ravenna, e figlia di un collaboratore di Ettore Ricci.
Il vescovo, su consiglio del Senatore Leandro Baroni, finì per considerare la Ragnani come una sorta di vice parroco, consapevole del fatto che ciò che accadeva a Casemurate fosse da considerare un unicum irripetibile.
Solo le donne andavano a messa, e principalmente le più vecchie, ma persino tra quelle più devote persisteva un approccio arcaico alla spiritualità.
Questa propensione si estendeva persino alla sfera della salute.
A tal proposito ci si rivolgeva a un certo Zambuten, al secolo Augusto Rotondi, che aveva fama di guaritore, anche in considerazione del fatto che, a detta di molti, era riuscito a curare malattie che persino i medici più rinomati avevano considerato inguaribili.
In sua memoria, oggi, nell'era globale-digitale, c'è persino una pagina di Wikipedia.
Ettore Ricci in persona si era rivolto a lui in diverse occasioni, dalle quali, per lo meno, aveva ricavato aneddoti esilaranti, specialmente riguardo ad alcune pazienti dell'alta società, disperate per non riuscire a guarire dalla "cagarella",
Scherzi a parte, conoscere questi personaggi era un'esperienza oscillante tra l'antropologia culturale e il neo-spiritualismo della New Age.
Roberto Monterovere ebbe modo di conoscere, nella sua infanzia casemuratense, una chiaroveggente di nome Elvira, che viveva in un casolare diroccato nei pressi della confluenza del grande fosso Torricchia nel torrente Bevano.

Torrente Marina (a sinistra nella foto) alla confluenza del Canale ...

Questa Elvira, di cui nessuno ricordava più il cognome o la data di nascita, pareva essere esistita da sempre, dal momento che anche i più anziani l'avevano conosciuta da bambini.
Doveva aver superato i cent'anni, eppure sembrava ancora in salute e attribuiva questa longevità sana alle erbe che coltivava nel suo enorme orto o che raccoglieva nei prati o nei rivali di fossi e torrenti.
Le sue qualità di erborista erano riconosciute da tutti, tanto che la maggior parte del reddito dell'Elvira derivava dalla vendita di spezie curative, pozioni, infusi e decotti, tra cui si sospettava fossero comprese quelle illegali, tipo la cannabis o i funghi allucinogeni, di cui si narrava che lei stessa facesse ampiamente uso.
Affinché le sue erbe fossero più efficaci, le piantava e le raccoglieva in date ben precise, coincidenti con particolari festività.
Per esempio raccoglieva l'iperico nella Notte di San Giovanni, tra il 23 e il 24 giugno, da cui il nome di Erba di San Giovanni, e ne conosceva le proprietà toniche e antidepressive, tanto che molti, persino tra le classi sociali più agiate, la acquistavano da lei come rimedio contro la tristezza.
Ma l'Elvira non si limitava all'attività erboristica.
Celebrava i riti propiziatori nelle date del calendario celtico, da sempre radicato nelle campagne più remote, in memoria delle tradizioni dei Galli Senoni, primi colonizzatori di quelle terre.
Tali date si sovrapponevano perfettamente con alcune del calendario cattolico romano, a riprova della persistenza del paganesimo durante i millenni cristiani.

Equinox & Solstice — △▽

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Per esempio la celebrazione della Candelora con fiaccolate lungo i campi e candele aromatiche fuori dalla finestra, coincideva con l'antica festività celtica di Imbolc, il primo febbraio, che nel calendario cattolico coincide con la ricorrenza di Santa Brigida, la quale aveva sostituito, nell'immaginario dei Celti, la dea Brigid, protettrice dei druidi e dei guaritori.
Allo stesso modo erano festeggiati i solstizi e gli equinozi.
In corrispondenza con la festività celtica di Samhain, divenuta la notte di Ognissanti, si preparavano letti in più per i morti e si mettevano le candele dentro le zucche ben prima che la moda di Halloween arrivasse in Italia.
L'Elvira era in grado di praticare sia la magia bianca che la magia nera: poteva scacciare il malocchio oppure operare una fattura, su richiesta di qualche comare, e dietro lauto pagamento.
Secondo alcuni che si erano rivolti a lei, tra cui Ida Braghiri (che era ritenuta un'apprendista dell'Elvira) la strega aveva persino il potere di evocare i demoni e le anime dei morti, ed era molto abile come medium, specie durante le sedute spiritiche.
Aveva inoltre le classiche abilità di chiaroveggenza, praticate sia in forma oracolare quando era in trance, sia in forma pratica attraverso gli oroscopi, la chiromanzia e la conoscenza dei Tarocchi.
C'era infine una sua peculiare abilità, che le aveva permesso di arricchirsi personalmente, tramite l'interpretazione dei sogni per decidere su quali numeri scommettere per il Lotto.
A volte, quando Roberto la raggiungeva in segreto, l'Elvira gli dava prova dei suoi poteri.
Gli dava un pezzo di carta, gli diceva di strapparlo e poi di tenerlo stretto nel pugno, mentre lei formulava un rituale. Al termine Riccardo apriva la mano e il foglio era tornato intatto.
Gli dava anche dei foglietti con scritti alcuni numeri e se per caso li avesse sognati, allora doveva giocarli al Lotto. La pratica funzionò alcune volte, finché i genitori di Roberto non intervennero vietando al ragazzo ogni contatto con "quella strega".
Ma lui aveva una predisposizione particolare nel cacciarsi nei guai, o comunque nel frequentare personaggi poco raccomandabili.
Una volta osò parlarle con ingenua franchezza:
<<Le mie zie dicono che tu sei una strega e che le streghe vanno tutte all'inferno>>
L'Elvira gli rivolse un sorriso sdentato:
<<Sei un bambino sveglio, e molto schietto. Per cui ti parlerò chiaramente e in piena sincerità.
 L'inferno è già qui. Questo mondo, questa vita, il male ognuno fa agli altri, questo è l'unico inferno che esiste. L'inferno dei viventi>>
Il ricordo più nitido riguardava una delle ultime visite che Roberto aveva fatto, in segreto, all'Elvira, pochi anni prima che lei morisse.
Era più grande quando chiese alla vecchia maga di predirgli il futuro.
Fu un errore dovuto a una sottovalutazione di certi poteri.
<<Ne sei sicuro? Non vorrei spaventarti. Questo non è un gioco...
Il futuro può essere predetto, ma non può essere cambiato. E' un grande peso con cui convivere>>
Roberto, scioccamente illuso che nel suo futuro ci sarebbero state solo cose belle, non aveva paura, e dunque la curiosità prevalse.
<<Sono disposto a sopportare questo peso>>
La strega Elvira annuì:
<<Sia come vuoi tu. Porgimi la mano che usi di più>>
Essendo tendenzialmente mancino, Roberto gli pose la sinistra.
Lei sospirò:
<<La Via della Mano Sinistra è sempre la più oscura. E non è solo questione di essere mancini. Quando si tratta delle arti oscure, io credo in un approccio pratico, perché bisogna imparare a difendersi, naturalmente, ed è necessario essere cauti. Ma intendo neppure demonizzarle.
 Il lato oscuro è la via per acquistare molte capacità da alcuni ritenute ingiustamente non naturali. C'è tutta una tradizione... be', è meglio che per ora tu non lo sappia. Non è mia intenzione fare proselitismo>>
Roberto aveva quasi sei anni, ed era molto curioso di sapere il significato delle parole, ma non osò chiedere nulla.
La maga gli prese la mano, come nella canzone di Iva Zanicchi, ma con un'atmosfera decisamente meno romantica.
Subito aggrottò le sopracciglia, scosse il capo e sospirò.
Rivolse gli occhi chiari verso di lui, con un'espressione di grande tristezza e pena:
Alla fine disse, con voce sconsolata:
<<Mio povero ragazzo, mio caro, caro ragazzo...>> e lo ripeté più volte, prima di esporre il suo oracolo: <<La vita è ingiusta e crudele, per cui bisogna prepararsi a sopportarne i colpi.
Vedi questa linea: è la linea della vita.  E' molto irregolare. Qui c'è l'inizio, vicino al polso. E' nitido e ben definito, segno di un'infanzia felice. Ma non durerà: vedi questi frastagliamenti? Diventano sempre più scomposti, ed è rarissimo, in un bambino della tua età. E' segno di un destino già molto definito, e purtroppo pieno di tribolazioni>> sospirò con autentico dispiacere.
<<Tribolazioni? Cosa succederà? E quanto a lungo vivrò?>>
Elvira gli accarezzò i capelli;
<<Non credo che sia giusto spaventarti oltre>>
Ma Roberto era determinato:
<<Io voglio sapere! Non nascondermi niente!>>
La vecchia annuì:
<<La linea è abbastanza lunga, ma continuamente tagliata da altre linee, per poi scomporsi in maniera irreversibile oltre un certo punto.
In questi casi è difficile stabilire quando esattamente la linea della vita cessa di esistere, il che significa che potresti anche vivere abbastanza a lungo, persino oltre la mezza età, dopo di che, se anche non sarai morto, le tribolazioni saranno talmente tante e dolorose da farti intensamente desiderare di esserlo>>
Per il bambino era un concetto quasi inconcepibile:
<<Desiderare la morte? Non è possibile!>>
L'Elvira parve pentita di aver espresso un simile oracolo:
<<Non voglio spaventarti ancora di più. Sei troppo giovane per queste cose>>
Ma Roberto non mollava l'osso:
<<Sciocchezze! Io sono un bambino sveglio, lo dicono tutti, e imparo molto in fretta, anche le cose che gli adulti non vorrebbero farmi sapere. Ti prometto che non dirò nulla a nessuno, almeno non prima che quello che hai predetto si realizzi. Quindi voglio che tu mi spieghi meglio>>
La profetessa annuì:
<<Ogni volta che la linea della vita viene "tagliata" da una piccola increspatura della pelle, c'è un danno, un dolore in qualche modo. Ma quando questi tagli sono fitti e ravvicinati, allora si tratta di un vero e proprio rovescio di fortuna. La tua sequenza va persino oltre: assume una forma che in chiromanzia viene chiamata il Gramo. Alcuni, sbagliando, lo considerano un presagio di morte, ma non è così. Detto in poche parole: dall'adolescenza in avanti, la vita ti porterà dolore. All'inizio si tratterà di un profondo senso di inadeguatezza e e nessuno ti capirà, poiché solo chi attraversa questo tipo di esperienza può comprendere quanto male faccia. Ma forse un giorno tutto questo dolore ti sarà utile per distinguere in maniera chiara ciò che è opportuno fare per contrastare le avversità.
E purtroppo, di avversità ce ne saranno molte: tradimento da parte di alcuni che tu crederai amici, ostilità da parte di nemici potenti, fallimento in obiettivi importanti, incomprensioni e tempeste in amore, e poi arriverà la Privazione.
Quando sarai adulto e a metà della tua vita, perderai tutto ciò che hai di più caro e sacro : persone, cose e ideali.
E quando non avrai più lacrime e perché ti sentirai prosciugato, allora capirai che è possibile vivere troppo a lungo, eppure sceglierai di vivere, perché sei troppo curioso del futuro. 
La curiosità compensa il dolore, e tu apprenderai tutto ciò che c'è da sapere. 
Se ti può consolare, è successo così anche per me. Succede così a tutti i Sapienti e i Veggenti.
Imparerai tuo malgrado: è la regola>>
Roberto era come pietrificato:
<<Io speravo di essere almeno una persona normale, non chiedevo poteri straordinari...>>
La vecchia si adirò:
<<Non mentire! Ad ogni menzogna l'anima subisce una piccola morte.
Tu sei uno che non si accontenta! Sei come tuo nonno Ettore: ambizioso e insaziabile. 
Ma ciò che otterrai non varrà certo il prezzo che dovrai pagare.
Non sei nato per essere una persona normale, e questo può avere anche un suo lato positivo.
La grandezza passa sempre attraverso il dolore.
Il dolore è il più grande maestro. 
Quando arriverai alla mezza età e al punto in cui ti sembrerà di non avere più alcuna ragione di vita, ricordati di quello che ora ti dico: in quel momento tu sarai alle Porte della Saggezza e potrai diventare un Illuminato.
Spetterà solo a te la scelta: elevarti nello spirito al di sopra di tutti i tuoi antenati o scomparire nel nulla, insieme a ciò che resta della tua stirpe>>

giovedì 2 luglio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 74. Il Canale Emiliano Romagnolo arriva a Casemurate

Siccità: il Canale Emiliano-Romagnolo anticipa l'irrigazione - L ...

Nell'estate del 1980 i lavori di scavo del Canale Emiliano Romagnolo (soprannominato CER) raggiunsero le frontiere del Feudo Orsini di Casemurate.
Come si è detto, la principale impresa appaltatrice dei lavori era l'Azienda Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere.
Non c'è dunque da meravigliarsi se Roberto Monterovere, che era anche nipote dei titolari del Feudo Orsini, avesse sviluppato un'ossessiva passione per i fiumi e i canali, compresi i più piccoli fossi e torrentelli.
In particolare gli sembrava straordinario il fatto che il CER riuscisse a passare sotto i fiumi per mezzo di certe strutture dette sifoni.
Quell'estate l'alveo del canale era vuoto e pertanto era possibile camminarvi in tutta tranquillità, persino nei sottopassaggi.
Solo chi ha visto questi lavori può rendersi conto della poderosità e maestosità di tale progetto.
Il CER era stato concepito fin dall'inizio come un canale di irrigazione: un ramo artificiale del Po, un collettore delle acque del grande fiume che, diramandosi dal Cavo Napoleonico a sud di Bondeno, presso Sant'Agostino, arrivasse, in salita, per mezzo di idrovore, fino alla pianura romagnola, che in estate soffriva periodi di vera e propria siccità, e sfociasse infine nel torrente Uso, poco prima di Rimini.

Il Canale Emiliano Romagnolo, una risorsa in continua evoluzione

Il sogno dell'ingegner Lanni, il Profeta delle Acque, bisnonno di Roberto, si stava realizzando.
A dirigere i lavori c'era Enrichetta Monterovere in persona, con tutta la sua mole imponente e il suo carattere vulcanico.
Nella pausa pranzo, Enrichetta era ospitata a Villa Orsini, su invito personale della contessa Diana, che sperava ancora di mantenere i buoni rapporti con la famiglia di suo genero. 
Era un'impresa disperata, poiché le ragioni del contendere riguardavano questioni materiali molto importanti, che arrivavano fino alle rispettive fazioni politiche di riferimento.
Ettore Ricci non partecipava quasi mai a quei pranzi, inventandosi ogni tipo di scusa.
Sotto molti aspetti era meglio così, dal momento che Enrichetta mangiava per quattro persone, nella sua insaziabilità tipicamente monteroveriana.
Tuttavia accadde che, in un assolato mezzogiorno di luglio, essendo troppo caldo per andare in giro, Ettore decise di rimanere a pranzo, convincendosi che forse questo era un modo per valutare con più attenzione quanto fossero forti i sostenitori politici dell'Azienda Monterovere.
Quel giorno l'appetito di Enrichetta era ancora più smodato, il che la rendeva più aggressiva del solito.
La presenza di Ettore, con i suoi modi bruschi, non fece che esacerbare la situazione.
<<Il Feudo Orsini è molto famoso>> concesse Enrichetta, dopo aver sorseggiato uno dei famosi vini rossi della Contessa Madre Emilia  <<ma la mia proprietà agricola di Casal Borsetti è molto più ampia>>
Ettore Ricci, che non voleva essere secondo a nessuno, ribatté:
<<Quella terra è salata. Non vale niente>>
Enrichetta, che era già minacciosa quando era calma, diventava una furia quando le prendevano quelli che lei chiamava "i cinque minuti" e che Ettore soprannominava sprezzantemente "una botta di faentino":
<<Quando ci arriveranno i nuovi canali di immigrazione, che l'Azienda Monterovere sta contribuendo a realizzare, il valore di quei terreni raddoppierà. E' stato un grande affare!>>
Anche ad Ettore saltò "la mosca al naso":
<<Non ci cresceranno neanche i cactus.
Signora Monterovere, lei doveva investire i suoi soldi in altro modo. Se mi avesse chiesto consiglio, io sarei stato ben felice...>>
Enrichetta divenne paonazza dalla rabbia:
<<Sciocchezze! Le mie terre produrranno le migliori barbabietole da zucchero della regione. L'Eridania verrà in ginocchio da me! Tutte le aziende di Ravenna si consorzieranno con la mia impresa>>
A quel punto Ettore giocava il suo poker d'assi:
<<Se dovessero farlo, sarà solo per motivi politici. Nascerà l'ennesima cooperativa rossa patrocinata da quel suo zio comunista, l' "onorevole" Edoardo Monterovere>>
Enrichetta non spendeva neanche una mezza parola per smentire quell'ovvietà, ma anzi la usava a suo vantaggio:
<<Siamo in Romagna: questa è terra rossa, ci siamo capiti? Converrebbe anche a lei, signor Ricci, aderire al Partito>>
Ettore sapeva che era vero:
<<Non posso certo negarlo, ma ho dei doveri di lealtà nei confronti dei miei alleati storici. 
Si tratta di una questione di fiducia, persino di amicizia. Ci sono vincoli profondi. 
Non c'è solo la politica, a questo mondo>>
Enrichetta Monterovere scosse il capo:
<<Ai nostri livelli, c'è solo la politica. E si tratta di una politica pragmatica, senza vincoli ideologici.
L'ideologia è soltanto una formula che l'Elite usa per naturalizzare agli occhi delle masse l'assoluta arbitrarietà del proprio potere. E la cosa più bella è che la maggioranza ci crede.
E' in questo modo che tuteliamo i nostri interessi>>
Ettore Ricci si rese conto che colei che aveva davanti lo superava di gran lunga in fatto di cinismo e di spregiudicatezza:
<<E pensare che dicevano che il cattivo ero io>>
Si sentì improvvisamente vecchio e stanco, e per la prima volta in vita sua, ebbe paura.
Cosa sarebbe rimasto dell'Ancien Regime, ora che l'ondata rossa stava per dilagare sul Feudo Orsini?
Ettore pensò al Canale, che come un intruso si insinuava nelle sue terre, e immaginò che le sue acque fossero rosse, sempre più scure, fino ad assumere il colore del sangue.
Enrichetta sbranava una coscia di coniglio con un tale accanimento che si sarebbe potuto dire che la povera bestiola le avesse fatto un torto personale.
Mentre masticava con ferocia, continuò il suo discorso:
<<Qui non è questione di buoni o cattivi, signor Ricci. Si tratta soltanto di affari. Il CER porterà ricchezza in queste terre aride e dimenticate da Dio. L'irrigazione vale molto di più delle terre che saranno espropriate o dei disagi per il raccolto in questi anni di costruzione>>
Ettore scosse il capo vigorosamente:
<<Quanto mi costerà attingere l'acqua? Quanta benzina sarà necessaria per attivare gli irrigatori? Avete pensato a questo, nel calcolare i miei indennizzi?>>
Enrichetta scrollò le spalle:
<<Le assicuro che le spese saranno irrisorie>>
Il vecchio Ricci non era d'accordo:
<<I miei generi, Amilcare Spreti e Silvio Zanetti, non condividono affatto questa ottimistica previsione>>
Enrichetta assunse un'espressione schifata:
<<Quei due sono fermi all'età della pietra! Non capiscono niente di innovazione e grandi opere pubbliche. Pensi piuttosto al fatto che anche mio fratello è suo genero, e se lei lo trattasse un po' meglio, l'Azienda Monterovere avrebbe un occhio di riguardo nei confronti del Feudo Orsini>>
Ettore, reso ostinato dall'età, dal caldo e dal vino, esplose:
<<Io non accetto ricatti! Il mio interlocutore istituzionale sarà la Regione Emilia-Romagna, non la famiglia Monterovere! Ho amici anch'io nella Giunta... tra i repubblicani, i socialisti... >>
Enrichetta parve divertita:
<<Gli equilibri sono cambiati. Lei ha avuto le spalle coperte per tutta la vita e crede di averle ancora, ma i suoi amici sono vecchi e compromessi. Cadranno come mele mature, uno dietro l'altro, e lei rimarrà senza protettori. E a quel punto la mia offerta di collaborazione sarà la sua unica speranza di salvezza>>
Era vero, ed Ettore lo sapeva, ma non voleva cedere.
Si alzò di scatto e se ne andò, lasciando l'intero dolce alle fauci insaziabili della sua interlocutrice.

giovedì 25 giugno 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 73. Il salotto giallo di Silvia Ricci-Orsini Monterovere

10 idee per il colore delle pareti in soggiorno | Salotto giallo ...

Ogni sabato sera, Silvia Ricci-Orsini e il marito Francesco Monterovere invitavano a cena il fior fiore dell'Intellighenzia forlivese, tra cui il Sommo Poeta Adriano Trombatore e la moglie Anna De Gubernatis; la sorella di quest'ultima, Elisabetta, col marito, professor Massimo Braghiri (finto amico e acerrimo rivale di Francesco); la Signorina Mariuccia De Toschi, detta la Grande Mademoiselle, che ancora, a ottantacinque anni, impartiva lezioni di latino e greco; il professor Piero Giovannelli, matematico e metafisico, e la compagna Carla Gatti; il Giudice Guglielmo De Gubernatis, grande latinista e francesista, e la moglie Ginevra Orsini, zia materna di Silvia; il Senatore democristiano Leandro Baroni e la moglie Caterina Ricci, zia paterna di Silvia; la professoressa Dea Vermiglioni, col suo neo di ampiezza spropositata; il vice-preside professor Paride Marchesi, illustre studioso di lingua e letteratura inglese; il preside, lo storico Fernando Rocca Rossellino, esperto della Mesopotamia Sumera e Presidente del Rotary Club oltre che del circolo degli Amanti della Lirica; più altri notabili che variavano a seconda delle serate, come "ospiti a sorpresa", tra cui, ogni tanto, l'ìllustrissimo docente universitario Prof. Lorenzo Monterovere, fratello minore di Francesco e studioso di Storia delle Religioni e di Esoterismo e Iniziazioni misteriche. Si mormorava che lui stesso facesse parte di una Setta Segreta.
Silvia sapeva che, nonostante i "grandi nomi" che figuravano tra i suoi ospiti, non sarebbe stato facile competere col "Salotto Liberty" di sua madre, presso la Villa Orsini di Casemurate, dove si riuniva l'Aristocrazia, ossia, i marchesi Spreti di Serachieda, i conti Zanetti Protonotari Campi, i nobili della secolare stirpe dei Paolucci de' Calboli, dei Traversari di Ravenna, dei Gagni di Montescudo e degli Orsi-Mangelli.
Ogni tanto, qualche illustre esponente di quelle antiche casate si degnava di partecipare ad una serata presso il salotto dei Monterovere.
Certo non era stato facile convincerli, e anzi si era resa necessaria una forte moral suasion della madre di Silvia, la leggendaria Diana Orsini Balducci, diciottesima Contessa di Casemurate.
La quale Diana, tuttavia, quando partecipò per la prima volta ad uno dei sabati sera organizzati da sua figlia, ebbe da ridire sugli ospiti fissi, commentando la lista con una citazione di Shakespeare:
<<Vuoto è l'inferno, tutti i diavoli sono qui!>>
Si trattava di un giudizio lungimirante, tenuto conto di ciò che avvenne molti anni dopo, ma all'epoca appariva troppo severo.
L'altra obiezione di Diana, che invece risultò valida fin dall'inizio, riguardava il fatto che c'erano "troppi galli in un pollaio, e anche troppe galline, per non parlare delle oche, con tutto il rispetto per i pennuti".
In effetti a contendersi il ruolo di "primo attore, regista e capocomico" del dotto cenacolo di casa Monterovere c'erano troppe personalità istrioniche: la Signorina De Toschi, per le citazioni classicheggianti, anche se l'età le aveva fatto perdere qualche colpo; il Sommo Poeta per la voce da baritono che affascinava le donne, quando declamava i versi di Dante o di Montale; il professor Giovannelli, il cui cavallo di battaglia era la capacità di raccontare con grande ironia qualunque tipo di aneddoto, pettegolezzo o stroncatura di film e opere liriche; Massimo Braghiri, a cui andava riconosciuta un'estrema erudizione per quanto riguardava la storia dell'arte, i musei (li aveva visitati tutti, almeno in Italia) e le mostre. La rivalità tra questi personaggi (esclusa la De Toschi, che era stata docente di tutti gli altri), si estendeva anche alle rispettive mogli o compagne, provocando accese discussioni che spesso rischiavano di degenerare in risse da osteria.
Memorabile e mai del tutto sopita fu la cosiddetta "Questione di Fellini".
Tutto ebbe origine quando Francesco Monterovere dichiarò apertamente, davanti a quel pubblico di sapienti e Maîtres à penser, che il suo regista preferito era Federico Fellini, di cui adorava tutti i film, per il loro stile visionario e surrealista.
Questa affermazione, espressa con ingenuo entusiasmo, provocò nella sala un effetto pari a quello che avrebbe potuto scaturire da una volgare bestemmia.
In quel primo momento di sdegno, tutti i vari Soloni si trovarono concordi nel condannare l'affermazione di Francesco, contrapponendo a Fellini i propri personali idoli.
Massimo Braghiri fu il primo a scattare, furibondo, dichiarando che Fellini era un bieco reazionario, nemico dei lavoratori e del popolo, e gli contrappose Rossellini, Vittorio De Sica, Pasolini ed Eduardo De Filippo.
La De Toschi e Giovannelli, di gusti più estetizzanti, ma in senso classico, dichiararono che Luchino Visconti era incommensurabilmente superiore a tutti gli altri, e citarono "Senso", "Ludwig" e naturalmente "Il Gattopardo".
Giovannelli poi si lasciò trasportare e spaziò oltralpe e molto indietro nel tempo, citando Jean Renoir e "La grande illusione".
Il Sommo Poeta condannò il cinema come diavoleria moderna, di cui salvava soltanto l'espressionismo tedesco e sovietico, e in particolare "Dies irae" di Carlo Teodoro Dryer, "Der Kabinett des Doctor Caligari" di Murnau e naturalmente il classico dei classici, "La corazzata Potëmkin", del maestro Sergej M. Eisenstein.
A questo punto si sentì in dovere di dire la sua anche il preside Fernando Rocca Rossellino, che dichiarò che, a costo di suscitare l'ilarità dei presenti, lui giudicava impareggiabili le regie d'opera del maestro Zeffirelli.
Nessuno ebbe il coraggio di contraddirlo, ma il silenzio che seguì tale affermazione fu una risposta adeguatamente significativa.
A questo punto intervennero le signore.
La professoressa Gatti ammise che di Fellini, comunque, si poteva salvare "Lo sceicco bianco", e in questo trovò concorde il compagno Giovanelli.
La professoressa Vermiglioni concedeva che "tutto sommato "I Vitelloni" è spassoso e "La strada" è profondo, ma non si può andare oltre".
A quel punto interveniva la prof. Elisabetta Braghiri, nata De Gubernatis, dicendo che lei, per quanto riguardava Fellini, poteva arrivare fino a "La dolce vita".
Suo marito Massimo Braghiri annuì.
Non volendo essere da meno della gemella, la signora Anna Trombatore, nata De Gubernatis, dichiarò che a suo parere anche "Otto e mezzo" era guardabile, mentre "Giulietta degli spiriti" era stata per lei una cocente delusione.
A quel punto tutti gli sguardi si rivolsero alla padrona di casa, per una sentenza definitiva sulla vexata quaestio, e dunque Silvia Monterovere, nata Ricci-Orsini, azzardò un parere scandaloso, tale da épater le bourgeois : <<Pensatela come vi pare, ma a me Amarcord è piaciuto tantissimo. Mi ha ricordato la mia infanzia in campagna>>
Apriti cielo!
Tutti i notabili presenti nella sala si sentirono in dovere di dissociarsi immediatamente da tale incresciosa affermazione.
Sua zia Ginevra Orsini De Gubernatis, sdegnata, dichiarò: <<Fai un grande torto alla nostra famiglia quando parli della vita di campagna come se noi Orsini fossimo degli zotici villici>>
Anche il Senatore Baroni, con aria solenne, espresse tutto il suo sdegno:
<<Noi non ci confondiamo con quei villani che si mettono le dita nel naso!>> e annuì, approvando la propria stessa sentenza.
Chiuse la questione la Signorina De Toschi:
<<Silvia, te lo dico con affetto, non insistere su questo punto. Non farti del male...>>
Ed espirò una nube mefitica di fumo di sigaretta.
In quel momento i due Monterovere, Silvia e Francesco, si guardarono negli occhi e si sentirono accomunati dal desiderio di prendere a calci nel sedere quei ridicoli snob che frequentavano a sbafo, ogni sabato, il loro salotto, dispensando disprezzo verso tutto e verso tutti.
E tuttavia non lo fecero mai, perché Forlì era ed è ancora una piccola città, dove tutti conoscono tutti e dove, se ti fai un nemico, questo nemico te la farà pagare, in un modo o nell'altro, avvalendosi della rete delle cosiddette "amicizie comuni", che non erano mai vere amicizie, poiché tutta quella ragnatela di relazioni era intrisa nel veleno dell'invidia e della volontà di rivalsa contro la figlia e il genero del potente Ettore Ricci e della sua aristocratica consorte.
Silvia e Francesco lo sapevano, e si rendevano conto che se non si era in grado di sconfiggere un nemico era meglio farselo amico e tenerlo sotto controllo.
Ma non sempre questa massima è efficace, perché certi nemici sanno infiltrarsi nelle vite delle loro vittime fino a scoprirne i punti deboli e a colpirli senza pietà.
Il punto debole di Silvia e Francesco era loro figlio Roberto, che secondo i pediatri era un bambino "mentalmente dotato, ma fragile, con una bassa soglia di sopportazione dello stress e una tendenza alla ripetitività e all'asocialità, e potrebbe darvi dei problemi, andando avanti".
Mai diagnosi si rivelò più fondata.

giovedì 18 giugno 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 72. L'anno dei tre Papi


Come si è detto all'inizio, il ramo romagnolo della famiglia Orsini, quello dei Conti di Casemurate, ebbe origine da Bernardo Orsini, fratello di Bertoldo (1230-1319), il quale, come è scritto persino su Wikipedia, fu Conte di Romagna a partire dal 1278, nominato da papa Niccolò III Orsini (che Dante collocò all'Inferno per simonia).
A differenza di quanto erroneamente mostrato da alcuni atlanti storici, la dominazione pontificia sulla Romagna incominciò, de iure, soltanto in quell'anno 1278, l'imperatore Rodolfo d'Asburgo rinunciò formalmente alla sovranità su quelle terre, che tuttavia, de facto, furono annesse allo Stato Pontificio soltanto nel Cinquecento, con papa Giulio II.
Per questa ragione gli Orsini di Casemurate conservarono per cinque secoli un ligio e decoroso rispetto per la Santa Sede, pur godendo di un ampio margine di autonomia, a loro concesso dal Cardinale Legato Bessarione e dai suoi successori.
Quando però Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, sposò Ettore Ricci, già impadronitosi del Feudo tramite prestiti ad usura al diciassettesimo Conte, il clan Ricci-Orsini assunse una posizione più vicina a quella degli "indigeni" locali di stirpe gallo-italica.
Va detto che Romagnoli, forse a causa di cinque secoli di dominazione pontificia, hanno sviluppato un anticlericalismo trasversale, presente in diverse coloriture politiche e ancor più disparati ceti sociali, con l'eccezione delle donne, generalmente incaricate di presenziare alla Santa Messa, perché "non si sa mai".
E' raro che un Romagnolo di genere maschile possa essere avvistato in una chiesa a meno che non sia egli stesso il prete, oppure lo sposo o il defunto, o al limite qualche parente o amico dei suddetti. 
Ogni regola ha comunque le sue eccezioni, e quindi ci sono tutt'ora alcune famiglie che partecipano al completo ai riti cattolici con grande fervore, altre con una sfumatura vagamente apotropaica, del tipo: "Non ci credo del tutto, però dicono che funzioni anche per chi non ci crede".
Nell'ambito della famiglia Ricci, per quanto prevalesse lo scetticismo, c'erano alcuni ferventi cattolici, devoti alla Chiesa e a Nostro Signore, in particolare una delle sorelle di Ettore, Caterina Ricci, la moglie del Senatore democristiano Leandro Baroni, uno dei più influenti protettori politici dell'impero economico dei Ricci-Orsini.
Ma Caterina era l'unica, tra i Ricci, ad essere sinceramente devota.
Gli altri erano politicamente più vicini al Movimento Sociale Italiano, che era forte nel forlivese, e in certuni casi conservava lo spirito del fascismo delle origini, che era anticlericale.
Diana Orsini votava per il Partito Liberale Italiano, che era sostanzialmente laico.
Ettore Ricci, per quanto formalmente iscritto alla Democrazia Cristiana, mostrava simpatie anche per il Partito Repubblicano Italiano, fieramente laico, e non andava quasi mai a messa, accampando come scusa il fatto che, pure nei fine settimana, doveva lavorare, studiando i contratti nel suo "ufficio" a Villa Orsini, il che non era del tutto falso, ma non era neanche del tutto vero.
Questo era in sintonia con uno dei suoi motti: "Il mentitore abile non dice bugie, ma soltanto mezze verità".
Su sententiae come queste aveva costruito un impero ed anche una reputazione da "simpatica canaglia" (per essere onesti, anche questa era una mezza verità, perché non era poi sempre una canaglia, ma non era neanche sempre simpatico).
Diana gli aveva consigliato di leggere l'Arte della guerra di Sun Tzu, e lui, stranamente, aveva seguito il consiglio della moglie: uno degli aforismi che più gli piacevano era quello secondo cui "chi ha la pazienza di attendere un nemico che non è un nemico, sarà vincitore", ma non tenne conto del fatto che poteva essere vero anche il contrario, ossia che "chi non ha il coraggio di affrontare un amico che non è un amico, sarà sconfitto". Naturalmente il falso amico era Michele Braghiri.
A volte Ettore aveva impegni di lavoro improrogabili, riguardo ai quali non transigeva.
Il caso più clamoroso, ma vero, fu quando, trovandosi ospite di Serafino Ferruzzi al Park Hotel Sole Paradiso di Ravenna, per valutare un'ipotesi di acquisizione congiunta dello zuccherificio Eridania, si dichiarò "desolato" di non poter partecipare, causa impegni di lavoro improrogabili, al funerale di sua madre, la maestra Clara Torricelli, spentasi a metà marzo del 1978 a 95 anni.
Al telefono, dal Park Hotel di Ravenna, si raccomandò tuttavia con grande severità e fermezza che il resto della famiglia partecipasse al completo manifestasse un adeguato cordoglio.
Fu obbedito, per quanto il parroco, suo cugino don Pino Ricci, la cui sfericità aveva raggiunto livelli allarmanti, manifestasse un certo disagio per l'assenza del "grand'uomo" alle esequie di "nonna Clara".
Don Pino era anche preoccupato per il fatto che, in assenza di Ettore, i suoi fratelli e sorelle, noti per il carattere sanguigno e l'estrema rivalità, potessero, data l'alta concentrazione di membri della famiglia Ricci nello stesso luogo e l'attesa per l'apertura del testamento della defunta, dare libero sfogo ai propri istinti predatori.
In effetti Oreste e Alberico si guardarono torvo, Maria Teresa non rivolse la parola a nessuno, ma lanciò occhiate di fuoco; l'unica scenata si ebbe tra Carolina e Adriana, che si presero vicendevolmente a male parole, borsettate ed unghiate in faccia, per la questione dell'eredità e per una rivalità sorta in un tempo così remoto che esse stesse non sarebbero state in grado di spiegarne l'origine.
Fortunatamente l'episodio fu breve e isolato, grazie anche alla presenza di uomini delle istituzioni come il giudice De Gubernatis, il commissario Tartaglia e il Senatore Leandro Baroni, che tenne l'orazione funebre, mentre la Signorina De Toschi si esibiva in uno dei suoi ruoli preferiti: quello della prefica. La Grande Mademoiselle arrivò a rimproverare Diana Orsini per "non aver pianto abbastanza".
Al termine del funerale la tensione era palpabile, ma a distogliere l'attenzione di tutti dalla tumulazione del feretro fu l'arrivo di un'automobile blu, che trasportava il segretario personale del Senatore, che gli si avvicinò per comunicargli una notizia sconvolgente.
Si trattava del rapimento di Aldo Moro.
Quell'evento rappresentò il più antico ricordo politico di Roberto Monterovere, cosa che, molti decenni dopo, lo faceva apparire "vecchio" nei confronti di persone poco più giovani di lui.
E come introduzione alla politica non fu proprio il massimo della positività, tanto che molti in seguito attribuirono a questo "imprinting" la colpa del suo pessimismo storico.
Alcuni si potrebbero chiedere come sia stato possibile che un bambino di tre anni potesse ricordare così distintamente quegli eventi.
Il fatto è che in famiglia tutti seguirono gli sviluppi del caso Moro con grande attenzione.
Ettore Ricci, di ritorno da Ravenna, punzecchiò il senatore Baroni con un riferimento alla linea della fermezza del Presidente del Consiglio e al suo Ministro dell'Interno:  <<Secondo te Andreotti e Cossiga si daranno da fare sul serio per salvare Moro?>>.
Il Senatore si accigliò: <<Certo! Perché non dovrebbero?>>
Ettore abbozzò un mezzo sorriso sornione: <<Be', alcune idee io ce le avrei, e scommetto che le hai anche tu. E del resto, Andreotti stesso dice sempre: a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca>> e non aggiunse altro.
Il clan Ricci-Orsini per intero si commosse invece nell'ascoltante il discorso di papa Paolo VI all'epoca anziano e già malato: "Uomini delle Brigate Rosse, lasciate a me, interprete di tanti vostri concittadini, la speranza che ancora nei vostri animi alberghi un vittorioso sentimento di umanità. Io ne aspetto pregando, e pur sempre amandovi, la prova". 
Così dichiarò il Pontefice in data 21 aprile 1978.
Il 9 maggio il cadavere di Moro fu ritrovato nel bagagliaio della famigerata Renault 4.
Cossiga si dimise e fu forse l'unico atto dignitoso di tutta la sua carriera. Andreotti, com'era nel suo stile, tirò a campare ("sempre meglio che tirare le cuoia").
Chi invece seguì Moro nella tomba, poco tempo dopo, fu lo stesso Paolo VI, che si spense in data 6 agosto 1978.
Molti anni dopo, Roberto avrebbe stupito gli amici dicendo: "Pensate che io mi ricordo della morte di Paolo VI", cosa gli dava un'ulteriore aura di uomo d'esperienza, testimone di eventi considerati molto lontani nel passato.
Il Conclave successivo fu seguito con molto interesse.
L'ascesa del Patriarca di Venezia, cardinale Albino Luciani, al soglio pontificio, col nome di Giovanni Paolo I, suscitò nel senatore Melandri un vaghissimo, quasi impalpabile dispiacere, di cui però Ettore Ricci non parve meravigliato.
Qualche settimana dopo se ne capì il motivo, quando negli ambienti romani si seppe che il nuovo Papa voleva controllare i conti dell'Istituto per le Opere Religiose.
Ettore Ricci, dopo un lungo colloquio col senatore Baroni, convocò i fratelli:
<<Ho venduto tutte le azioni del Banco Ambrosiano e se fossi in voi farei la stessa cosa. Non si sa mai...>>
Alberico pareva quasi convinto, ma Oreste non ne voleva sapere:
<<Ettore, questa volta tu e Leandro avete torto. Io sono certo che Calvi e Sindona non permetteranno a nessuno, nemmeno al Papa, di sollevare un polverone su... tu sai a cosa mi riferisco...>>
Ettore allargò le braccia:
<<Può anche darsi, visti gli interessi in ballo. Ma credo che prima o poi tutti i nodi verranno al pettine. Perché rischiare oltre?>>
Oreste, aggressivo come sempre, sbatté un pugno sul tavolo:
<<E' il Papa l'unico che rischia, in questa faccenda!>>
I fatti sembrarono dargli ragione.
Il 28  settembre 1978, mentre Roberto Monterovere trascorreva gli ultimi giorni di vacanza in campagna, prima di iniziare l'asilo a Forlì', fu comunicata la notizia della morte di papa Giovanni Paolo I.
Roberto corse a dare la notizia al nonno, che si trovava nel suo "ufficio" al piano di sopra.
Ettore Ricci non parve sorpreso:
<<Qualcuno deve averlo aiutato>>
<<Aiutato? Non capisco>> chiese Roberto senza capire.
Ettore Ricci sospirò:
<<Un giorno capirai. 
Sì, un giorno ti spiegherò tutto quello che penso su argomenti come questo. Ti insegnerò anche i rudimenti della finanza e della politica. 
Dei miei nipoti, pur essendo un Monterovere, tu mi sembri quello più sveglio.
Potrei fare di te il mio erede nella gestione di tutta la baracca: sei meno fighetto dei tuoi cugini e sei quello che mi assomiglia di più. Si sente che hai sangue caldo nelle vene! 
Se vivrò abbastanza da vederti crescere e se tu mi rimarrai fedele, potrei addestrarti per diventare il nuovo capofamiglia, l'erede maschio che ho sempre desiderato!>>

venerdì 12 giugno 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 71. Il valzer degli addii

Famosa scena del ballo in Il Gattopardo di Luchino Visconti con ...


C'è stato un tempo in cui i balli dell'alta società si concludevano col valzer degli addii.
Per la famiglia Monterovere, che da molte generazioni non apparteneva più a quel tipo di alta società, il valzer degli addii ci fu in maniera diversa, ma incominciò troppo presto e ad aprire le danze non furono i più vecchi, perché spesso le cose non vanno secondo quello che sarebbe il loro ordine naturale.
E infatti una delle ingiustizie più difficili da accettare è quando qualcuno più giovane muore prima di qualcun altro più anziano, a meno che la morte non ponga fine ad una inguaribile e dolorosa malattia.
Nell'agosto del 1977 morì, a sessantaquattro anni, in seguito ad un aneurisma all'aorta, Giulia Lanni Monterovere, moglie di Romano, madre di Francesco e nonna paterna di Roberto.
Da tempo era ricoverata in clinica per gravi problemi cardiocircolatori, all'epoca inoperabili.
Alcuni giorni prima aveva ricevuto la visita dei figli e dei nipoti.
Roberto aveva due anni e di lei avrebbe portato con sé un ricordo frammentato, fatto di immagini dai contorni sfumati, da cui traspariva il ritratto di una donna gentile, dolce e affettuosa, di aspetto ancora giovane.
La sua era stata una vita relativamente breve, ma sostanzialmente felice. Lei stessa aveva detto di sé: "Ho avuto tutto, tranne il tempo".
Per il marito invece avvenne il contrario: sopravvisse di venticinque anni alla moglie, ma fu una lenta agonia.
Romano Monterovere, pur non essendo stato un marito modello, aveva amato Giulia in maniera più grande di quanto avesse dato a vedere, e dopo la morte di lei si sentì perso.
Il suo era stato un sentimento in linea col resto della personalità, e dunque riservato, privo di quelle che lui definiva "smancerie romanticheggianti".
I familiari si accorsero di quanto le volesse bene proprio nel momento in cui, essendo lei venuta meno, lui divenne preda delle nevrosi che per tutta la vita erano state in agguato, pronte a colpire al primo segnale di debolezza.
Senza la mediazione di Giulia, Romano cadde vittima delle proprie ossessioni.
La parte migliore di Romano era Giulia, e tutto ciò che era buono in lui morì con lei, e giacque sepolto insieme a lei.
Non si rassegnò mai alla scomparsa dell'amata consorte.
E così per lui incominciarono gli anni dell'afflizione.
Aveva sempre avuto una predisposizione all'austerità, alla parsimonia e all'ipocondria: dopo la morte della moglie divenne gelido e scostante, avaro e quasi paranoico.
Come padre era stato severo e inflessibile, come nonno distante e disinteressato: come suocero divenne apertamente ostile a Silvia, aderendo in pieno alla fazione di sua sorella Anita, la grande nemica di Diana Orsini.
Silvia ricambiava in pieno quell'ostilità: <<Per il matrimonio di suo figlio, il regalo di Romano è stato una pentola a pressione. Basta questo per capire che tipo di uomo è>>

Sua figlia Enrichetta, al contrario, reagì in maniera fin troppo resiliente alla dipartita di sua madre, liquidando la questione con una lapidaria sentenza:
«La morte non accetta un "No" come risposta».
Va precisato che a quei tempi Enrichetta era molto diversa da ciò che sarebbe diventata in seguito, e dunque le sue caratteristiche di allora erano destinate ad andare via via sfumandosi con l'età, quando una maggiore empatia e comprensione l'avrebbe resa più malleabile.
Ma all'epoca Enrichetta era un vero e proprio carro armato, anche nell'aspetto fisico: robusta e poderosa come un armadio, vorace e insaziabile, caparbia e irascibile (come tutti i Monterovere peraltro) e a volte persino aggressiva, era capace di terrorizzare sia il marito che i dipendenti dell'Azienda, ma non solo.
Per la cognata Silvia, Enrichetta rappresentò per anni quel tipo di inevitabile antagonista che, se non ci fosse, bisognerebbe inventarselo, non fosse altro che per mettersi in discussione e definire, per contrasto, la propria identità.
Riguardo alla famiglia, Enrichetta riteneva che non bisognasse mai investire troppo sul rapporto di coppia (lei stessa infatti trattava il marito come una pezza da piedi) perché in fondo, a suo parere, l'amore non era altro che una dipendenza psicologica, a volte persino tossica.
I figli dovevano essere lasciati "liberi di esprimersi" e con questa scusa se ne disinteressò in maniera pressoché totale.
Dopo aver seppellito la madre, Enrichetta prese il posto del padre in Azienda, mentre i suoi fratelli Francesco e Lorenzo vennero di fatto estromessi, grazie all'alleanza che lei aveva concluso con la zia Anita, lo zio Edoardo e il prozio Carlo Bassi-Pallai, oltre che con quelli che lei chiamava "i soci invisibili", di cui era meglio non chiedere e non sapere.
Francesco e Lorenzo erano troppo addolorati per la scomparsa della madre e non capirono che quello era il primo passo per essere totalmente e definitivamente esclusi dagli affari di famiglia.

La dipartita di Giulia Lanni Monterovere fu il primo cedimento nel castello di alleanze costruito da quella che era stata la "gens" allargata dei Ricci-Orsini.
Diana ne era stata preavvertita dalla stessa Giulia e aveva cercato di preparare gradualmente Ettore alla doccia fredda che presto sarebbe calata sul Feudo Orsini, con l'arrivo del Canale e dell'Azienda Monterovere.
Come sempre, nelle situazioni di crisi, era stata mandata avanti la Signorina Mariuccia De Toschi, la Grande Mademoiselle, che nonostante i suoi 85 anni e la sua mole da ippopotamo sovrappeso, era ancora forte e coriacea come una roccia di granito.
La Signorina si presentò alla camere ardente come se avesse perduto una parente strettissima.
Vestita interamente di viola e nero (anticipando le Blackpink di mezzo secolo), si esibì in un numero indimenticabile.
Appena entrata, si fece il segno della croce e, con grande meraviglia di tutti, si inginocchiò sotto l'atrio. Poi, a metà del tragitto, si rifece il segno della croce e si inginocchiò nuovamente. L'operazione fu ripetuta una terza volta di fronte al feretro, accompagnata da un pianto dirotto e da lamenti che avrebbero fatto invidia a una prefica. Infine, baciò la fronte della defunta e recitò il Requiem in latino suscitando lo sbigottimento dei presenti.

File:Maria de' Medici by Anthony van Dyck - particolare.jpg ...

Ma tutto questo non fu nemmeno lontanamente sufficiente per blandire l'ostilità di Romano e Anita, che si manifestò già al funerale. In compenso l'esibizione della De Toschi suscitò l'ilarità fuori posto di Carlo Bassi-Pallai, che Manzoni avrebbe etichettato come un "vecchio mal vissuto".

Due mesi dopo, la cupa musica del valzer degli addii riemerse dallo sfondo, quando
peggiorarono le condizioni di salute di Eleonora Bonaccorsi Monterovere, madre di Romano, nonna di Francesco e bisnonna di Roberto.
In questo caso, almeno, le cose stavano rispettando l'ordine naturale, eppure tutti erano addolorati, nel sentire che la ferrea salute della matriarca stava cedendo.
Nella memoria del pronipote bambino rimase una sola, ma ben definita immagine di questa vegliarda quasi centenaria, che camminava appoggiandosi a un deambulatore, e alternava momenti di confusione con altri di improvvisa lucidità.
Tra questi ricordi il più chiaro fu l'ultimo, quando Eleonora, sentendo che la fine era prossima, volle parlare col nipote preferito.
Cercò di metterlo in guardia:
<<Francesco, devi stare attento. Anita ed Enrichetta ti porteranno via tutto>>
Lui ci rimase male:
<<No, non credo. Mi hanno sempre assicurato che avrò quel che mi spetta secondo la legge>>
Eleonora rise:
<<Come sei ingenuo! Tu credi ancora che le persone pensino veramente quello che dicono, e viceversa... sei rimasto un bambino...>>
Francesco scuoteva la testa:
<<Io ho fiducia in loro. Non credo che mi deluderanno>>
Eleonora sospirò:
<<Francesco, sveglia! Hai quasi quarant'anni e ancora idealizzi le persone! Eppure dovresti aver imparato che la causa della delusione è proprio l'idealizzazione. Tu vivi di aspettative infondate!
In generale, le aspettative sono nemiche della felicità e le tue sono decisamente troppo alte>>
Era vero, ma lui non voleva ammetterlo a se stesso:
<<Nonna, come puoi chiedermi di dubitare di loro? Sono la mia famiglia e anche la tua famiglia! I tuoi figli e nipoti!>>
Proprio perché erano la sua famiglia, Eleonora li conosceva bene, e aveva scelto con esattezza da che parte stare:
<<La mia famiglia sei tu, Francesco, con tua moglie e tuo figlio. E loro sono la tua unica famiglia. Silvia e Roberto, e basta! Questi sono gli unici Monterovere di cui sei responsabile. 
Non dimenticarlo mai!>>
Il nipote era ancora troppo legato a una visione patriarcale della famiglia per rendersi conto del fatto che sua nonna, con la lungimiranza di chi è prossimo all'ultimo addio, aveva detto qualcosa di molto importante.
Francesco, a dispetto della sua intelligenza, si ostinò a difendere ciò che rimaneva della sua famiglia di origine. Forse era un modo di rimanere legato al ricordo della madre e all'illusione che lei ci fosse ancora a sostenerlo nei momenti difficili.
C'era un cordone ombelicale che non si era mai del tutto staccato e che lui non aveva nessuna intenzione di staccare, soprattutto ora che sua madre era venuta meno.
<<Non posso credere che mia sorella e i miei zii mi stiano ingannando, con la tacita complicità di mio padre>>
L'anziana matriarca se ne uscì con uno dei suoi proverbi preferiti:
<<E' più facile ingannare la gente che convincerla di essere stata ingannata>>
Il nipote riconobbe l'insegnamento, ma continuò a resistere all'idea:
<<L'inganno da parte di un familiare è un tradimento troppo difficile da accettare>>
Eleonora lo guardò fisso, con i suoi occhi chiari che avevano visto troppe cose:
<<E' difficile, ma è la verità e bisogna avere il coraggio di guardarla in faccia, ma tu preferisci mettere la testa sotto la sabbia. 
Non devi cedere a questa tentazione, o a rimetterci saranno tua moglie e tuo figlio.
Perderanno tutto, se non sarai vigile, e tu vivrai il resto dei tuoi giorni nel rimpianto di non averli saputi proteggere>>
Questo fu il suo monito, che aveva il valore di un oracolo.
Con il senno di poi, possiamo dire che Eleonora Bonaccorsi Monterovere aveva previsto tutto con inquietante esattezza, prima di lasciare questo mondo nel gennaio del 1978.

sabato 6 giugno 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 70. L'ultimo giorno di primavera.

Late spring on the Canal du Midi in Toulouse, Haute-Garonne, Midi ...

Tutti a Faenza si sarebbero ricordati per molto tempo del giorno in cui Diana Orsini, diciottesima Contessa di Casemurate, si recò di persona, con tanto di autista e Mercedes, alla clinica Villa Cecilia, dov'era ricoverata la consuocera Giulia Lanni Monterovere, a causa di problemi cardiocircolatori che l'avrebbero portata alla tomba poche settimane dopo.
Il rapporto tra Diana e Giulia era molto buono, anche se si conoscevano da breve tempo e ormai, purtroppo, di quel tempo ne restava assai poco.
Era il 21 giugno, l'ultimo giorno di primavera dell'anno 1977.
Era una giornata calda, ma instabile: tirava vento e il cielo sembrava indeciso se volgere al bello o al brutto, con prevalenza di quest'ultimo, però.
Oh, la piagata primavera è pur festa se raggela in morte questa morte...
Giulia sapeva di avere i giorni contati e aveva organizzato quell'incontro per poter parlare, in confidenza, di questioni molto delicate.
<<Grazie per essere venuta, Diana>>
Avevano abolito da tempo ogni formalità: erano solo due donne, due mogli sposate ad uomini difficili, due madri preoccupate per i loro figli.
<<Era il minimo. Vorrei poter fare di più, Giulia... >> e le prese la mano.
La signora Monterovere strinse forte quella mano, come se da quel legame dipendesse qualcosa di molto importante, e forse era proprio così:
<<Non mi resta molto, ormai. Il mio cuore è stanco. Ma prima di andarmene, vorrei parlarti di alcune questioni importanti per il futuro delle nostre famiglie. Purtroppo, quando io verrò meno, Francesco non avrà più alleati su cui contare qui a Faenza: sua zia Anita... be', tu la conosci, è più velenosa del cianuro. E mio marito, per quanto mi voglia bene, come padre non vale un gran che...>>
<<Anche il mio, se è per questo>> disse Diana sorridendo.
<<Me n'ero resa conto, ma tu ci sarai sempre, a tenergli testa. Io invece non ci sarò più a difendere Francesco e a garantire i buoni rapporti tra le nostre famiglie.
Fino ad ora, infatti, la pace tra i Monterovere e i Ricci-Orsini si è basata sulla nostra capacità di mediazione e persuasione.
Ultimamente sono emerse tuttavia molte difficoltà, e non parlo solo della mia salute.
Mia figlia Enrichetta, che erediterà la guida dell'Azienda Fratelli Monterovere, non prova alcuna simpatia per Silvia: forse un giorno cambierà idea, ma per il momento sta dalla parte di Anita, quella serpe che ha approfittato della mia malattia per cercare di sostituirsi a me, riuscendoci, purtroppo... e "ciò mi tormenta più che questo letto".
L'unico ben disposto verso Francesco e Silvia è il mio figlio più giovane, Lorenzo, che vive a Bologna, insegna all'università ed è sempre occupato. Viaggia molto, soprattutto in Germania, e non è rintracciabile con facilità. 
Forse anche mia suocera Eleonora sta dalla parte di Francesco, ma pure lei è, come si suol dire, "alle ventitré e tre quarti". Non si ricorda più i nomi, fatica a distinguere i volti... che cosa terribile è la vecchiaia non è vero? Come diceva il buon Giacomo:"Se di vecchiezza la detestata soglia evitar non impetro". Io avrò la grazia. Gli Orsini invece sono longevi, mi pare di capire>>
Diana non ne era del tutto convinta:
<<Mia madre dà l'impressione di essere immortale. Ma è una Paolucci de' Calboli e sono loro ad essere longevi. E dire che beve come una spugna da una vita ed ha sofferto le pene dell'inferno: le sono morti quattro figli in età giovane. Oltre a me le rimane mia sorella Ginevra, che sarà anche una testa vuota, come dice Anita, non del tutto a torto, ma è la moglie del giudice De Gubernatis, uno dei pezzi da novanta del nostro Salotto Liberty>>
Giulia rise come non faceva da tempo:
<<Ah, quanto mi mancherà, quel tuo Salotto Liberty! E' sempre stato così accogliente. Si sente che c'è una secolare tradizione di ospitalità, nella tua casa>>
Diana sospirò:
<<La mia famiglia ha una lunga storia, non sempre piacevole...
Comunque, avrei voluto che Francesco e Silvia rimanessero a vivere con me, a Villa Orsini, ma mio marito, sai com'è fatto...>>
Giulia annuì:
<<Non importa. Tu ed Ettore avete fatto molto per Francesco: gli avete dato una nuova casa e una nuova famiglia. So che ha fatto amicizia con i tuoi generi, si trova bene con loro.
Questo mi conforta, perché, vedi, io all'inizio avevo un po' paura, perdonami, ma avevo sentito alcune voci... alcune storie... intendo dire...>>
Diana capì al volo e la sollevò dall'imbarazzo:
<<"Alcune voci" è un gentile eufemismo: si potrebbero scrivere interi romanzi sulla mia famiglia, e prima o poi qualcuno lo farà. Le voci girano, si amplificano e si crea una specie di "leggenda nera". Vorrei dire che è tutto inventato, ma non posso. Spero solo che il peggio sia passato. La gente pensa che io sia una privilegiata, e non sa quanti sacrifici ci sono voluti per tenere insieme i pezzi di questo mosaico così usurato dal tempo che è la famiglia Orsini.
Il tempo può logorare oppure consolidare. Non so ancora cosa prevarrà, alla fine>>
Giulia sembrava leggerle negli occhi, con la chiaroveggenza che a volte si manifesta nelle persone che stanno per morire:
<<E' anche di questo che volevo parlarti. Abbiamo un nipote in comune, Roberto, ed io tengo molto a quel bambino e al suo futuro, come so che ci tieni anche tu. 
Per questo voglio confidarmi con te su alcune questioni che potrebbero creare problemi nel rapporto tra le nostre famiglie e quindi nel 
futuro dei nostri figli e di nostro nipote. 
Occorre fare una premessa su alcuni grandi interessi che ci sono in gioco.
Mia figlia Enrichetta rivendicherà il suo ruolo facendosi forza non solo dell'appoggio di suo padre e dei suoi zii, ma anche del fatto che si è fatta le ossa occupandosi dei piani per la ristrutturazione del Canale in Destra di Reno, in particolare di tutta l'area di idrovore tra Argenta e Casal Borsetti. 
Era un sub-appalto del Consorzio di Bonifica della Romagna Occidentale, che ha inglobato tutti i canali di scolo che si impaludavano nella zona sud del fiume, dopo le inondazioni del '66.

Mappa Voltana - Cartina Voltana ViaMichelin

C'è poi da tener conto del fatto che mio cognato Edoardo, l'Assessore alle Opere Pubbliche della Regione e i suoi "apprendisti" nella giunta provinciale di Ravenna, di fatto controllano l'operato del Consorzio. 
Tutte queste premesse per dire che ormai, dietro agli affari dell'Azienda Monterovere, c'è una montagna di capitali, di svariata origine, per lo più esterna alla nostra ditta. 
Mi vergogno a dirlo, ma ho constatato che chi prova ad opporsi, finisce male.
A questo siamo arrivati... e il saperlo mi ha spezzato il cuore, letteralmente.
Mio padre, l'ingegner Lanni, era un vir integer scelerisque purus, e non avrebbe mai permesso una cosa simile, ma quelli erano altri tempi. 
Enrichetta ha un approccio più, come dire, "pragmatico" nei confronti degli affari, e questo emergerà anche per la principale opera pubblica a cui l'azienda Fratelli Monterovere sta collaborando in questo momento>>
Diana capì subito dove Giulia voleva andare a parare:
<<Il Canale Emiliano-Romagnolo>>
La consuocera annuì:
<<Esatto. Ho voluto parlarti di persona, e in via del tutto confidenziale, per metterti in guardia su ciò che potrebbe accadere. 
Come ben sai, l'accordo tra le nostre famiglie è stato raggiunto anche grazie alla mediazione di mio padre, che non era accecato dalla brama di facili profitti, era un visionario, un "Profeta delle Acque": tutto ciò che è bonifica, irrigazione, diga, acquedotto, depurazione e navigazione interna, faceva parte del suo grande sogno.
E' stato lui a concepire il progetto del Canale Emiliano-Romagnolo: portare le acque del Po, in salita, verso le zone aride romagnole, passando sotto i fiumi e sopra i fossi: nessuno gli credeva all'inizio, ma ora quel sogno sta diventando realtà.
L'agricoltura ne trarrà un grande giovamento, e tutta la nostra regione dovrà essergli grata, un giorno.
Ma c'è un problema.
Ti sto per confidare un segreto: se Enrichetta lo sapesse sfascerebbe questa clinica con le sue stesse mani, ma ormai mi resta pochissimo tempo, ed è giusto che tu sappia cosa bolle in pentola. 
Mio padre mi confidò, prima di morire, che i costi sono stati superiori al previsto e il Consorzio e gli Enti che lo controllano, hanno meno fondi per pagare le aziende collaboratrici e rimborsare i proprietari dei terreni espropriati>>
Fece una pausa per riprendere fiato. Si vedeva che era molto stanca, ma nel contempo intenzionata a dire tutto.
Diana si rese subito conto delle implicazioni:
<<Quindi alla fine i soldi dovranno essere trovati o riducendo i profitti dell'Azienda Monterovere o tagliando i rimborsi per le confische nel Feudo Orsini>>
Giulia le rivolse uno sguardo d'intesa:
<<Se mio padre fosse stato ancora in vita, avrebbe convinto mio marito a rispettare i patti, ma adesso che anche io ho un piede nella fossa, prevarrà la linea dura: scaricare il peso sugli espropriati, con la giustificazione che saranno loro a beneficiare dell'opera pubblica.
Tieni conto che il peso di Anita Monterovere è notevole tra i soci. Influenza i voti dei Bassi-Pallai, gli zii materni di mio marito. Anche qui abbiamo avuto sfortuna: la zia Valentina sarebbe stata dalla parte di Francesco, ma è morta, e il vedovo sta tutto dalla parte di Anita... dicono che ci vada persino a letto... deve avere dello stomaco, e anche delle energie particolari, alla sua età... Ma lasciamo da parte queste bassezze, e veniamo al sodo.
Ormai manca poco: hanno terminato il passaggio sotto il fiume Montone e presto inizierà quello sotto il Ronco. Tra pochi mesi gli scavi del C.E.R. arriveranno al Feudo Orsini, e io non ci sarò più.
 Ci sarà una battaglia colossale, sicuramente, dai risvolti anche politici: i Monterovere sono di sinistra, i Ricci-Orsini sono di destra... e sappiamo bene fino a che punto sono arrivate le tensioni tra le parti, negli ultimi anni, in Italia. 
Sarebbe un bellum omnium contra omnes. 
Finirebbe nel sangue di tutti, senza né vincitori né vinti, soltanto vittime... e per cosa?>>
Diana annuì gravemente. I giorni si erano inaspriti e gli anni erano diventati di piombo.
Il 1977 era stato già sufficientemente funestato, anche in Emilia-Romagna.
<<Ti ringrazio, Giulia, per tutte queste confidenze.
Se fossi io la proprietaria del Feudo che porta il mio cognome, ti garantirei subito e completamente la mia rinuncia ad ogni azione legale per ottenere rimborsi a prezzo di mercato.

Del resto, come tu hai detto, i benefici di quest'opera sono notevoli e tutte le coltivazioni ne trarranno vantaggio.
Purtroppo io, pur essendo "la Contessa", non conto assolutamente niente sulle questioni economiche e politiche.
Il socio di maggioranza assoluta è Ettore e le decisioni finali vengono prese da lui e dal suo amministratore delegato, Michele Braghiri, che non è certo un gentiluomo>>
Al solo sentir pronunciare quel nome, Giulia si agitò:
<<Ho sentito delle storie sul conto di quell'uomo e della sua famiglia... ti confesso che mi fanno paura>>
Diana avrebbe tanto voluto tranquillizzare la consuocera malata, ma si sarebbe trattato di una menzogna troppo grande:
<<Fanno paura anche a me.
E' una vita che i Braghiri si comportano come dei parassiti nella mia casa e nella mia famiglia. Ettore non vuole parlarne, ma è ovvio che Michele lo ricatta: non c'è altra spiegazione che giustifichi l'insolenza con cui quell'individuo e la sua famiglia ci trattano, facendo i padroni in casa nostra>>
Giulia sospirò:
<<Vorrei tanto poterti assicurare l'appoggio dei Monterovere, ma anch'io conto così poco, e adesso meno che mai>>
Diana strinse di nuovo la mano della consuocera:
<<Non temere. Ti prometto che farò il possibile e anche l'impossibile sia per una mediazione con tra tuo marito e mio marito, sia per tenere a bada Michele Braghiri. 
Non scaricherò su altri questa incombenza: è il mio fardello, e mio soltanto... 
Non permetterò che altri miei familiari vengano coinvolti nelle loro meschinità>>
Giulia annuì:
<<Io ti credo. Tu li conosci meglio di tutti e sai come tenerli a bada. Quello che mi chiedo è cosa può averli spinti ad un odio così grande. E' possibile che sia solo l'ambizione a renderli così crudeli?>>
Era una domanda di non poco conto, a cui Diana non era mai riuscita, fino a quel momento, a dare una risposta esauriente. Prese quindi l'argomento alla lontana:
<<Mio padre diceva: il peggio va dove si fanno i soldi. Ma questo era il pregiudizio antiborghese di un aristocratico squattrinato. E però non aveva tutti i torti.
Michele Braghiri era un truffatore: quando era un semplice mezzadro, al momento di consegnare la presunta metà del raccolto, metteva dei sassi nei sacchi e si teneva quasi tutto per sé. I miei illustri antenati non si sono mai accorti di nulla, salvo quando Michele, diventato amministratore, ha incominciato a vantarsene apertamente. Ormai mio padre non poteva più punirlo. Questo è stato l'inizio e forse era anche comprensibile, da un punto di vista di "giustizia sociale". Alcuni lo chiamerebbero un "esproprio proletario" contro il padrone.
Poi il padrone è diventato Ettore, e le cose sono cambiate. Michele si riteneva un suo pari, ma Ettore ha sempre voluto essere il primo. Ha fatto pesare molto la sua autorità, e questo ha generato un feroce senso di rivalsa in tutta la famiglia Braghiri, soprattutto in Massimo, il figlio di Michele>>
Giulia inarcò le sopracciglia, con aria complice:
<<Dicono che questo Massimo sia peggio del padre, è davvero così?>>
Diana annuì:
<<Massimo è uno psicopatico. Una pazzo furbo, però, e quindi molto pericoloso. Sa recitare bene, ma non può ingannare me.
Io credo di aver capito cosa è successo dentro di lui.
Mio marito era crudele con lui, lo trattava come un garzone di bottega. Ce l'aveva con lui per un solo motivo: era il figlio maschio che la sorte aveva donato a Michele Braghiri e negato a Ettore Ricci. Non ci siamo accorti quanto questo atteggiamento lo facesse soffrire: Massimo era orgoglioso e nascondeva bene le sue ferite. Ma le ferite della mente non si rimarginano mai del tutto, neanche se dopo sembra andare tutto bene, neppure se si ha successo. Alla prima crisi, quelle ferite si riaprono, e possono generare reazioni mostruose. Ogni reazione spropositata, ha le sue vere cause in qualcosa che si trova molto indietro nel tempo, e molto in profondità nella psiche. Non c'è cura risolutiva, solo trattamenti sintomatici, che non fanno altro che aggiungere ingiustizie alle ingiustizie già subite. L'unica risposta giusta a tutto questo sarebbe un trattamento di riguardo, il che risulterebbe politicamente improponibile. Pertanto la persona danneggiata, se non vuole a sua volta fare danni, non ha altra scelta che l'esilio o l'isolamento, o entrambe le cose. Chi ha subito un grave danno ha insomma il dovere ulteriore di tenere gli altri a distanza di sicurezza, sempre, onde evitare che il danno si trasferisca, moltiplicato, trasformando la vittima in un carnefice.
Ogni storia di odio inizia con il dolore, e il dolore non ha limite, è inesauribile: sono le persone che alla fine si esauriscono>>
Giulia comprese che quel lungo monologo non riguardava soltanto Massimo Braghiri: aveva una valenza universale.
Ha parlato di se stessa, dell'inferno che ha attraversato. Ed ora io le sto lasciando in eredità tutta la mia paura e la mia solitudine.
Era molto stanca, le mancava il respiro: bisognava congedarsi.
<<Sono d'accordo, e mi fido di te, Diana. Veglia su mio figlio come se fosse tuo. Francesco è ingenuo, non si accorge della cattiveria degli altri. Ha bisogno di una vera famiglia e tu gliela puoi offrire>>
Diana sentì l'importanza di quella responsabilità, che gravava soltanto sulle sue spalle. Lei, da sola, contro tutto, come sempre.
Le vennero in mente, chissà perché, alcuni versi di un certo Theodore Watts-Dunton, di cui il Conte suo padre, da liberale anglofilo qual era, le aveva regalato una raccolta, tantissimi anni prima.
"She stands alone, ally nor friends has she, old England stands alone"
Prese nuovamente la mano a Giulia:
<<Ti ringrazio per la fiducia. Difenderò i nostri cuccioli con tutte le mie forze>>
Giulia sapeva che non erano parola vane, e si sentì sollevata:
<<Lo so. Addio, Diana. E come disse Socrate: "È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che alla Divinità">>
E Diana, che era donna di cultura al pari della morente, fece proprio il parere di Socrate stesso:
<<E non è possibile che abbia ragione chi di noi pensa che morire sia un male>>

oh how lovely is the morning, radiant beam the sun above

vicino a casa mia c'è un campo intero e quando mio figlio era piccolo raccoglieva i papaveri per la nonna!



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Cosa vedere in Provenza: campi di lavanda e non solo

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lunedì 1 giugno 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 69. Il Rivale

Riverdale - Poster serie TV "Jughead Jones - Cole Sprouse ...

Non tutti sanno che la parola "rivale" deriva dal termine latino rivalis , che designava il vicino di casa, specie nelle campagne, dove le proprietà erano separate da un fosso, detto rivus.
Questa etimologia si rivelò particolarmente valida nel caso delle famiglie dirimpettaie del secondo piano del condominio Astor ("er condominio de lusso", secondo il giudizio del dottor Semenzana), e cioè i Monterovere e i Braghiri.
Dei Monterovere sappiamo già tutto, mentre dei Braghiri conosciamo più che altro la prima generazione, e cioè il patriarca Michele, amministratore delegato del Feudo Orsini e delle aziende della Società Ricci-Orsini, Spreti & Zanetti, e la moglie Ida, onnipotente e temutissima (persino dai proprietari) governante di Villa Orsini.
Conosciamo in parte anche il figlio Massimo, professore di matematica alle scuole medie (dopo aver perso il posto all'istituto tecnico) e sua moglie Elisabetta De Gubernatis, insegnante di inglese nella stessa scuola media del marito, dopo aver perso anch'ella il posto nel suddetto istituto tecnico (dove insegnava anche sua cugina Silvia Ricci-Orsini, moglie di Francesco Monterovere).
Sia Massimo che Elisabetta erano cresciuti nell'invidia verso il clan Ricci-Orsini, di cui erano, in un certo senso, comprimari di secondo piano, poiché Elisabetta era figlia di Ginevra Orsini, sorella minore della leggendaria Diana, diciottesima Contessa di Casemurate.
In particolare Massimo aveva molto sofferto per il fatto di provenire da una famiglia di umili origini, ed il suo matrimonio con Elisabetta rappresentava il primo gradino di una scalata sociale che avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, essere coronata da suo figlio. Per questo gli aveva dato una sfilza di nomi alquanto impegnativi, ossia Vittorio Augusto Carlo Cesare Alessandro Napoleone.
Già da questo si può intuire che  il piccolo Vittorio fosse destinato, nelle speranze dei genitori, a vincere, a primeggiare, a diventare una sorta di condottiero e conquistatore del mondo.
Le aspettative troppo grandi dei genitori sono quasi sempre una delle cause dei problemi dei figli, e per quanto Vittorio Braghiri fosse dotato di notevoli abilità in vari settori, non ultimo quello dello sport, le medaglie non bastarono mai alla brama di rivincita che suo padre gli aveva caricato sulle spalle, specialmente nei confronti del coetaneo Roberto Monterovere.
Va detto inoltre che prima di diventare il Rivale numero uno di Roberto, Vittorio Braghiri fu, per molti anni, e con grande costernazione di Massimo ed Elisabetta, il migliore amico d'infanzia del giovane Monterovere.
Quell'amicizia era nata dalle tante caratteristiche comuni della loro fanciullezza: erano coetanei e cugini di secondo grado, molto simili nell'aspetto, tanto che spesso venivano scambiati per gemelli. Erano vicini di casa, dirimpettai di pianerottolo e dunque compagni di giochi prima in cortile e poi all'asilo. I loro nonni e parenti vivevano a Villa Orsini e condividevano lo stesso forte legame con la Contea di Casemurate.
Fin dall'inizio di questa amicizia fu comunque chiaro che , mentre Roberto Monterovere era più portato per la vita contemplativa, Vittorio era decisamente più orientato verso la vita attiva.
Con riferimento alla famosa parabola evangelica, potremmo dire che Vittorio era Marta e Roberto era Maria, colei che, secondo Gesù, aveva "scelto la parte migliore, quella che non le sarà tolta".
Massimo Braghiri si rese conto di tutto questo e cercò fin dall'inizio di allontanare suo figlio dalla perniciosa amicizia col giovane Monterovere.
Innanzi tutto cercò di trovare per Vittorio nuovi compagni di giochi che non gli facessero ombra dal punto di vista intellettivo.
Aveva capito infatti che la caratteristica principale di Vittorio era quella di abbandonare qualunque campo dove egli non fosse indiscutibilmente il primo e disprezzare tutto ciò in cui riusciva peggio di qualcun altro.
Massimo capiva il pericolo insito in quella propensione, e cioè che suo figlio finisse per disprezzare ciò in cui Roberto eccelleva, ossia le abilità intellettuali.
Era dunque essenziale, secondo Massimo Braghiri, che, quando i due bambini avessero incominciato la scuola, frequentassero classi diverse e farsi amici diversi, in modo che così Vittorio avrebbe potuto primeggiare in tutto e offuscare sotto ogni aspetto Roberto, arrivando auspicabilmente a disprezzarlo.
Questo piano a lunga scadenza doveva essere attuato già all'inizio delle elementari.
Bisognava però attendere la fine della materna o, come si dice adesso, "scuola dell'infanzia" (in Italia le riforme si fanno cambiando i nomi).
In quei due anni, l'unica alternativa a Roberto furono, per Vittorio, i cugini Ivan e Igor Pesaresi, grandi sportivi, che però erano soliti picchiarlo, come del resto picchiavano tutti, all'asilo, senza che nessuno muovesse un dito: il bullismo era la norma, e da noi non gli era stato dato neppure un nome.
Vittorio Braghiri non divenne mai un picchiatore, ma sviluppò comunque il culto della forza fisica.
Fare a botte era considerato, all'epoca, una sorta di "attività formativa" che temprava il corpo e lo spirito e dunque chi non voleva essere né un violento, né una vittima, doveva trovarsi qualche posto sicuro: Roberto Monterovere si rifugiava in un tunnel dove passava il fosso Ausa, in cui si scaricavano i liquami di un impianto di raffinazione della barbabietola da zucchero, appartenente, guarda caso, al Gruppo Ricci-Orsini, e dunque era "nel proprio territorio". Vittorio trovava invece rifugio sugli alberi e la sua abilità di scalatore fu la premessa di una delle sue grandi passioni sportive: l'alpinismo.
Questa diversa modalità di sfuggire ai guai compiaceva Massimo Braghiri, poiché, mentre suo figlio Vittorio ascendeva verso le vette, il figlio dei Monterovere finiva per rintanarsi "nelle fogne come un ratto".
E lì Massimo avrebbe voluto rinchiuderlo a vita, e ricacciarlo ogni volta che avesse tentato di evadere.
Ma ancora i tempi non erano maturi. Tutto era rimandato a quando il patriarca della famiglia Braghiri, il vecchio Michele, avrebbe sferrato il colpo per rovinare Ettore Ricci e di conseguenza la famiglia Ricci-Orsini-Monterovere: quel giorno il "Grande Disegno" di vendetta si sarebbe compiuto, e i Braghiri avrebbero assaggiato il dolce frutto della vittoria.
C'era un unico problema, e cioè che il vecchio Michele e sua moglie Ida avevano incominciato a dubitare della fattibilità, per non dire della convenienza, del suddetto "Grande Disegno".
I due anziani nonni di Vittorio vedevano loro nipote giocare insieme a Roberto, a cui, loro malgrado, avevano finito per affezionarsi, ed ora che i due bambini erano diventati così amici da sembrare fratelli, non se la sentivano più di rivangare il passato.
<<Pensaci bene, Massimo>> aveva detto Michele a suo figlio <<ormai anche noi siamo ricchi. Ettore mi inonda letteralmente di denaro e immobili. I nostri discendenti saranno come quelle rispettabili famiglie di cui ormai nessuno si chiede più come siano riuscite a fare i soldi.  Se invece procedessimo col piano della vendetta per questioni che sono ormai acqua passata, rischieremmo di perdere tutto anche noi, e sarebbe molto sciocco>>
Massimo aveva gli occhi sbarrati per l'ira:
<<La vecchiaia ti ha rammollito, padre! Io non dimentico tutte le offese di Ettore, lo snobismo delle sue figlie e dei suoi generi e tanto meno il rischio costituito da Roberto Monterovere!>>
Ida Braghiri, pur stravedendo per Massimo, osò dissentire:
<<E' solo un bambino! Ed è anche simpatico!>>
Massimo era fuori di sé:
<<Ma non capite che Roberto sta ingannando anche voi? Con quella sua parlantina maledetta!>>
La signora Ida scosse il capo:
<<Ma cosa dici? Ha soltanto tre anni! E la sua venerazione per il nostro adorato Vittorio ci pone già allo stesso piano dei Ricci-Orsini. E pensa una cosa: se tu avessi una figlia, magari potrebbe un giorno sposarsi con Roberto e...>>
<<Mai! Mai! >> sbottò Massimo <<dovrebbe passare sul mio cadavere! No, noi saliremo ancora più in alto, ma potremo farlo solo se Vittorio non sarà intralciato da quel piccolo lord viziato e saputello! No! Io vi giuro su tutto ciò che ho di più caro, voi compresi, che schiaccerò quel piccolo verme, i suoi genitori e i suoi nonni fino a ridurli in poltiglia! Lo giuro, e nulla e nessuno al mondo potrà farmi cambiare idea!>>



Riverdale TV Series, Jughead Jones Poster (con immagini)

mercoledì 27 maggio 2020

Vite quasi parallele. Capitolo 68. Il bambino della campagna

Map of the Shire | The Laurelin Archives

Era nato con i doni della curiosità e della fantasia, e l'impressione che la conoscenza fosse la cosa più importante. E questo fu tutto il suo patrimonio, o almeno l'unica parte che il futuro non gli avrebbe mai tolto.
<<Poiché nella vita ho incontrato molte avversità, preferisco raccontare storie divertenti>> così diceva spesso Roberto Monterovere, riferendosi alla sua "lust zu fabulieren", il piacere di narrare.
Il suo più antico ricordo era legato, ovviamente, alla campagna di Casemurate, alla Contea e a Villa Orsini, dove trascorse gran parte della sua infanzia, insieme ai cugini Fabrizio e Alessio, anche loro figli unici, e non c'è da meravigliarsi se i tre cugini crebbero insieme come fratelli.
Ma Roberto era un po' diverso dagli altri due.
Fabrizio e Alessio erano dei "piccoli lord", molto seri e giudiziosi, mentre Roberto aveva in sé qualcosa di selvaggio: era irrequieto e imprevedibile, con un'indole umorale e ruspante di matrice celtica e gallico-romagnola  che lo rendeva, sotto certi aspetti, simile al famigerato nonno materno, il vulcanico Ettore Ricci.
E questo aspetto non passò inosservato.
Ettore se ne compiaceva, vedendo in lui quel tanto sospirato "erede maschio" che desiderava da una vita, e di tanto in tanto dava un buffetto alle guance del nipote, dicendo, in un dialetto affettuoso: "E mi zgalì" il mio cicalino).
Va detto che, per quanto selvatico, il bambino della campagna sapeva essere molto affettuoso con chi gli voleva bene, cioè quasi tutti, nella fiabesca Contea di Casemurate.
Chi lo amava di più, nella Contea, era naturalmente la Contessa, la nonna Diana, l'unica in famiglia ad aver compreso che quello strano bambino aveva molti più tratti caratteriali in comune con lei che con tutti gli altri.
Ne aveva notato immediatamente l'ipersensibilità, che era una caratteristica ambivalente, nel senso che poteva amplificare tutto, sia il bene che il male, e poiché quest'ultimo era prevalente, almeno nel mondo materiale, era chiaro che la sofferenza avrebbe prevalso.
Per questo, prima ancora di costruire con lui un rapporto privilegiato, Diana donò a Roberto più amore di quanto ne avesse mai riservato a qualunque altra persona, nella sua lunga vita.
Era un sentimento che lui percepiva ancor prima di sviluppare una piena coscienza del mondo e delle persone. Un amore quasi pari a quello dei suoi genitori, ma a differenza di quest'ultimo, si trattava di un sentimento libero da ogni intento educativo: la vita avrebbe dato al nipote fin troppi maestri, e non era necessario fagli sapere fin da subito quanto fosse dura ogni lezione da imparare.
Il loro rapporto fu impostato fin dall'inizio su un piano di massima e reciproca comprensione, e nei momenti difficili, al rimprovero si sostituì un dialogo profondo, seguito da un aiuto a tirarsi fuori dai guai.
A volte non c'era nemmeno bisogno di parlare: ciò che c'era tra loro poteva esistere anche senza parole, persino senza un nome.
Diana percepì, per la prima volta in sessantacinque anni di vita, che la sua esistenza aveva un senso e che i sacrifici fatti fino ad allora erano stati compensati da un dono in grado di cambiare la sua stessa personalità.
Lei non era mai stata amata abbastanza, e aveva smesso di sperare, ma ciò che le accadde col suo terzo nipote è la prova che nella vita non è mai troppo tardi per amare ed essere pienamente ricambiati.
Alcuni scrittori della neoavanguardia, specie il defunto Arbasino, ironizzano sui ricordi d'infanzia: forse non hanno letto Proust o l'hanno letto male.
L'immaginaria Combray della Recherche è la prova che le memorie d'infanzia possono essere nel contempo un soggetto magico e avventuroso e un oggetto di ironica e disincantata analisi dell'animo umano.
Immagino che ognuno di noi abbia avuto la sua Combray, il suo "posto delle fragole", il suo "giardino dei ciliegi", e che magari al posto della campagna ci siano il mare o i monti, o un parco, un giardino, un cortile, un luogo che abbia conservato un posto speciale nella nostra memoria.
La Contea di Casemurate, con le sue campagne che si stendevano a perdita d'occhio, i suoi torrentelli e fiumiciattoli, i boschetti di gelso, pioppo, betulla, quercia e robinia, disseminati qua e là, aveva ancora, negli anni Settanta del Novecento, un carattere arcaico, senza tempo, quasi da romanzo fantasy, tale per cui non ci sarebbe meravigliati di veder spuntare, da un buco nel terreno, un Hobbit dalle orecchie a punta e dai piedi ricoperti di morbido pelo.
E così, quando Roberto incominciò a muovere i primi passi, mostrò subito un grande interesse per la natura e gli animali, di cui fu sempre amico per tutta la vita.
Con una similitudine "zoologica", potremmo dire che, sotto tanti aspetti, il piccolo Monterovere era come un gatto: sapeva essere buffo e nel contempo avere un suo stile.
Gli si poteva rimproverare una notevole mancanza di riservatezza, anche se, in fin dei conti, fu proprio grazie a questo suo piacere di raccontare che gli altri, conoscendolo, riuscirono perdonargli i suoi eccessi di stravaganza.
Una mente creativa può salvarsi anche quando tutto il resto è disastroso, e può addirittura fare del bene agli altri.
Per esempio, quello strano bambino riuscì in un'impresa dove ogni altro aveva fallito, e cioè favorire la riappacificazione dei nonni Ettore e Diana, e creare un clima di allegria e spensieratezza a Villa Orsini.
Roberto seguiva la nonna in giardino, dove lei gli insegnava il nome dei fiori, delle piante e degli alberi, e affiancava il nonno nei campi e tra gli animali di allevamento.
Il fatto di essere in buoni rapporti con entrambi i nonni fece sì che loro tornassero a parlarsi più spesso e finissero per scoprire reciprocamente quei lati positivi che avevano rifiutato di vedere per tutta la vita.
Diana era tornata a sorridere.
In seguito avrebbe detto del nipote: <<E' stato come un raggio di sole dopo una lunga notte>>
Dopo essere stato fuori tutto il giorno, Roberto faceva il bagno e cercava di rendersi presentabile per avere l'accesso al Salotto Liberty con le due bisnonne: la maestra Clara Torricelli, vedova Ricci, gli insegnava il disegno, la "Contessa Madre" Emilia Paolucci de' Calboli, vedova Orsini, gli raccontava, tra un bicchiere di vino e l'altro, le storie dei Re, delle dinastie e degli alberi genealogici, che sarebbero diventati la sua fissazione, complice anche, in età scolare, la lettura delle opere di Tolkien.
Si può anzi dire che quella vita di "bambino di campagna", in una Contea agricola ancora molto legata alle tradizioni, e in una famiglia con un quarto di nobiltà e una venerazione per i propri antenati, lo predispose ad apprezzare tutti gli aspetti del mondo creato dalla grande mente del Professore di Oxford.
Persino Michele e Ida Braghiri, per quanto prevenuti e invidiosi, finirono per affezionarsi a lui.
Gli insegnarono a giocare a briscola e a marafone, e lui si sarebbe ricordato per sempre le storpiature romagnole delle varie carte: l'asse al posto dell'asso, la bastona al posto dei bastoni, le danara al posto dei denari, le carti al posto delle carte, lissio al posto di liscio e così via.
Michele arrivò a dire che: <<Quel bambino è simpatico! E' l'unico della sua famiglia che non si dà delle arie>>
La stessa signora Ida dovette ammettere che <<E' affettuoso con tutti, persino con gli animali da allevamento. Non ha certo paura di sporcarsi le mani>>
Il contatto con gli animali era una delle cose che più lo rendevano felice.
E fu lì che nacque il suo amore per i gatti, specie quelli di sua nonna, che discendevano tutti da una "aristogatta" di nome Duchessa, della razza Maine Coon, che Diana aveva acquistato in una fiera. Duchessa era una gatta molto corteggiata, che sfornava almeno quattro cucciolate all'anno, tanto che si può dire che ogni gatto di Casemurate e dintorni discenda da lei.
Ovviamente anche i gatti ebbero il loro albero genealogico e le loro dinastie, a seconda delle varie cucciolate e dei differenti padri.
Con un atto di illuminato progressismo, Roberto conferì dignità dinastica anche alla prole delle galline, dei conigli e persino dei maiali, che al contrario di quel che si pensa, sono animali molto intelligenti.
Ormai tutti questi animali venivano allevati senza più la condanna a diventare cibo per gli umani.
Persino Ettore si lasciò commuovere e in breve tempo il Feudo Orsini e tutti i suoi campi e allevamenti si trasformarono in un'oasi naturalistica (anche su pressione di Fabrizio Spreti di Serachieda, che aveva la vocazione di zoologo e botanico).
Tutti questi elementi illuminati contribuirono a far sì che Casemurate diventasse, nell'immaginario collettivo della Romagna Centrale, una nuova Camelot, con al centro una Dama del Lago, la Contessa Diana Orsini.
E tutto era già pervaso da un alone di leggenda.
L'unica ombra era in un futuro che ancora non aveva manifestato alcun presagio.
Certo, col senno di poi si può capire che c'erano buone possibilità che una simile gioia non sarebbe mai potuta tornare in un modo così pieno, assoluto e nel contempo puro e innocente.
Già si è detto che un'infanzia troppo bella può essere, a modo suo, un "trauma", nel senso che finisce per generare aspettative troppo alte nei confronti delle persone, del mondo e della vita stessa.
Mai più Roberto avrebbe ritrovato un simile amore incondizionato, al di fuori della sua famiglia di origine.
Chi ha avuto una famiglia sinceramente amorevole e affettuosa, potrà forse anche donare ai propri figli e nipoti un simile amore, ma non ne riceverà mai uno più grande.
E' possibile essere troppo amati?
Una nota canzone dice che "chi è troppo amato amore non dà": c'è del vero in questo teorema?
Gli eccessi, in un senso o nell'altro, possono condurre a conseguenze paradossali.
Ma tali conseguenze si sarebbero rivelate soltanto molto più tardi: il bambino della campagna rimase il baricentro della sua personalità, nel bene e nel male, e le accuse di infantilismo, che da adulto le donne, come spesso accade, gli avrebbero rivolto, potevano avere un qualche fondamento. Ma se un corpo solido si sbilancia troppo rispetto al proprio baricentro, allora rischia di cadere, ed è per questo che il bambino della campagna continuò sempre ad essere un prezioso alleato, soprattutto nei momenti di crisi.


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