Guardandosi allo specchio, il giorno del suo cinquantesimo compleanno, Diana Orsini, Contessa di Casemurate, constatò che il suo aspetto esteriore conservava ancora, nonostante tutto, una buona dose di fascino e carisma, ma a chi con galanteria spergiurava che che la sua immagine era ancora quella di una donna giovane, lei scuoteva il capo : <<Sono una donna di mezza età. Può anche darsi che non lo sembri del tutto, ma incomincio a sentirlo nel cuore>>
Si sentiva invecchiare dentro, ma senza essere nel contempo altrettanto maturata.
Invecchio senza crescere? E' una mia particolarità, oppure riguarda anche gli altri?
Sapeva che per poter vivere bisognava crescere, ma non era sicura di volere né l'una né l'altra cosa.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma non si fidava di nessuno.
Ogni volta che aveva aperto il suo cuore ad un'altra persona, quest'ultima si era servita delle confidenze come di un'arma di ricatto, anche con le migliori intenzioni.
Per tutta la vita gli altri hanno cercato di manovrarmi, di ammansirmi, di zittirmi, di privarmi della libertà e della dignità. Alcuni l'hanno fatto persino credendo che fosse per il mio bene.
Fino a quel momento Diana aveva reagito a questi tentativi di addomesticamento in un unico modo: ritirandosi in camera sua a leggere, e delegando agli altri tutto il resto.
Per quanto tempo riuscirò a sopportare che siano altri a decidere al mio posto? Dovrò vivere per sempre in questa clausura che mi sono auto-imposta pur di non affrontare i mille nodi irrisolti della mia vita?
Il giro di boa dei cinquant'anni era più che simbolico.
Correva l'anno 1963 ed era da poco diventata nonna.
L'arrivo del primo nipote è sempre un evento che segna uno spartiacque nella vita di una persona.
Nel caso di Diana Orsini si trattò di uno spartiacque completamente positivo, perché il rapporto che la legò ai suoi numerosi nipoti e pronipoti fu così speciale che continuò a vivere nella memoria e nell'immaginario di ognuno di loro per molto tempo, assumendo a lungo andare quei contorni mitici che erano presenti in embrione nella storia romanzesca di una famiglia a cui ci si sentiva fieri di appartenere.
Il primo nipote di Diana ed Ettore Ricci si chiamava Fabrizio Spreti, nato dal matrimonio di Margherita Ricci-Orsini con Amilcare Spreti, proprietario terriero e fratello minore del marchese Vittorio Spreti di Serachieda.
I due si erano sposati nel giugno del 1961 e la festa si era tenuta a Villa Spreti, molto più sfarzosa e imponente di Villa Orsini, per sancire l'alleanza tra le due nobili casate che per secoli si erano contese il controllo di Casemurate.
E così, nello stesso anno in cui cadeva il confine tra la Marca di Casemurate Est (in provincia di Ravenna) e la Contea di Casemurate Ovest (in provincia di Forlì), separate per tanti secoli dal torrentello chiamato Serachieda, veniva eretto il Muro di Berlino, di cui i casemuratensi non sapevano nulla (a parte pochi politicizzati con un minino di alfabetizzazione) e a cui, sostanzialmente, non sarebbe comunque importato nulla.
Margherita ed Amilcare andarono a vivere in una tenuta che era parte del Feudo Spreti, convalidando così, anche dal punto di vista residenziale ed economico, l'alleanza degli Spreti con i Ricci-Orsini, che si concretizzò poi con la creazione della Società in Accomandita Semplice Feudi Uniti, la cui presidenza e amministrazione fu affidata ad Ettore Ricci.
Per Ettore fu il coronamento di una scalata sociale che durava da una vita.
Diana aveva assistito al matrimonio della primogenita con un senso di liberazione.
Si chiudeva infatti un ciclo, iniziato trent'anni prima con le sue stesse nozze.
Allora si era trattato di sacrificarsi per salvare la famiglia dalla rovina economica.
Ora, dopo decenni di sofferenze, i sopravvissuti e i nuovi nati raccoglievano i frutti di quel sacrifico.
Certo, Diana era un caso a sé, dal momento che il suo primato formale in quanto Contessa di Casemurate, non aveva alleviato minimamente le sue sofferenze private, ma non poteva certo ignorare il fatto che i Ricci-Orsini fossero al centro di una rete di alleanze che estendeva la loro influenza ben oltre i confini angusti della Villa, del Feudo e della Contea.
Forse non c'era più bisogno di ricorrere alla decrepita Signorina De Toschi per ottenere una raccomandazione.
Forse...
In ogni caso, le tre figlie di Diana ed Ettore erano ormai adulte e con una loro vita.
Margherita aveva una sua propria famiglia, Silvia si era laureata e Isabella si era fidanzata con un altro rampollo aristocratico, Silvio Zanetti Protonotari Campi, proprietario di ampi vigneti di Trebbiano.
Ettore era completamente assorbito dal lavoro e non si prendeva nemmeno più la briga di nascondere le sue avventure extraconiugali.
La vecchia Contessa Madre Emilia aveva trovato un suo equilibrio, passando il tempo nel Salotto Liberty ad assaporare i suoi vini pregiati e i suoi pasticcini, leggendo romanzi rosa e riviste di gossip.
Il suo rapporto con Diana era cambiato.
Ora non era più lei a rimproverare la figlia, anzi.
L'attempata Emilia aveva un certo timore di sua figlia Diana, del suo carattere imprevedibile, delle sue reazioni, di quella durezza di fondo che si era fatta strada in lei insieme al risentimento per tutte le cose che i genitori l'avevano costretta a fare.
Diana a volte provava tenerezza per quella madre resa fragile e vulnerabile dall'età, dai tanti lutti e da decenni di alcolismo.
Un giorno, in salotto, provò a riprendere un dialogo interrotto da ormai troppo tempo:
<<Mamma, tu pensi che dovrei far sentire di più la mia autorità, ad Ettore. Chiedergli di essere un po' meno tirchio con me e le ragazze, di lasciarci più libertà, di ascoltarci di più almeno sulle questioni fondamentali, come l'eccessiva fiducia che dà alla famiglia Braghiri... tu che ne pensi?>>
<<Quando tu sposasti Ettore, ti dissi, ricordo bene la frase: "ci sono momenti in cui per arrivare alla libertà bisogna passare dalla prigione". Ecco, ora credo che la fase della prigione debba avere termine>>
Diana annuì:
<<Lo credo anch'io, eppure continuo ad avere paura di lui e soprattutto della gente che gli sta attorno>>
Emilia sapeva bene che i sospetti di Diana erano fondati:
<<E' proprio per questo che, con la dovuta prudenza, devi prendere le distanze da quella gente. E se Ettore non ascolterà i tuoi consigli, forse dovrai prendere più apertamente le distanze anche da lui>>
Diana era incerta:
<<Ettore non mi ascolterà, ma non è lui il nostro nemico. E' per questo che voglio evitare una guerra. Non per il rischio di perdere, ma per quel quello di pentirmi>>
Emilia la fissò dai suoi occhi celesti pieni di fragili capillari:
<<Pentirti di cosa?>>
Diana contemplò il proprio ritratto appeso alla parete tra due quadri di Alphonse Mucha in stile Art Nuveau.
<<Di tutto...>>
Emilia fissò invece il calice di vino che soppesava tra le mani, cercando di trarne ispirazione:
<<Come sei complicata, figlia mia. Cerchi la libertà, però in fondo mi sembra che in questi anni tu ti sia un po' innamorata del tuo carceriere>>
Diana scosse il capo:
<<Non è amore, mamma, è una questione di lealtà.
Io e lui siamo a capo della stessa famiglia, e se vogliamo salvarla dagli sciacalli, dobbiamo trovare il modo di unire le nostre forze.
Ancora non so quale sia, concretamente, questo modo, ma sento che devo dimostrargli che sono in grado di analizzare le situazioni in modo più sottile di quanto lui faccia.
Se voglio il suo rispetto devo guadagnarmelo, e per guadagnarmelo devo modificare alcune cose della mia vita>>
<<Ne sei davvero in grado?>>
<<Non lo so, ma devo provare. Per troppo tempo sono stata "Diana la pazza" ed occorre che, per età e necessità, io diventi "Diana la saggia" e torni a rivolgermi a lui da pari a pari, ora, al mutare della marea>>
Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
mercoledì 22 gennaio 2020
domenica 19 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 46. Le finte amiche di Silvia Ricci-Orsini
Fin da bambina, Silvia aveva dimostrato di essere piena di buone intenzioni e capace di slanci di socievolezza (che sua madre Diana Orsini, Contessa di Casemurate e donna solitaria, faticava a comprendere) e di autentica generosità (che lasciavano interdetto suo padre Ettore Ricci, padrone del Feudo Orsini, notoriamente afflitto, come gran parte delle persone ricche, da una taccagneria patologica), e pertanto non le erano mai mancate le amicizie.
Il punto di partenza era stata la presenza di un numero consistente di ragazze della sua stessa età, o di età simile, all'interno dello stesso clan dei Ricci-Orsini.
Al centro del clan vi era poi un nucleo inscindibile, composto da Silvia e dalle sorelle Margherita e Isabella: una sorta di "triade" o di "trinità" destinata a rimanere saldamente unita e compatta, a salvaguardia dell'unità familiare nella buona e nella cattiva sorte.
E molte cause della futura cattiva sorte provenivano da personaggi che in quegli anni vivevano ancora a Villa Orsini, dividendo con i proprietari "il pane e il sale".
Si trattava, come il lettore attento ricorderà, dei componenti della famiglia Braghiri.
La governante Ida Braghiri suo marito Michele, amministratore del Feudo, avevano, oltre all'ambizioso e vanitoso figlio maschio, Massimo, due figlie: Oriana, che aveva l'età di Margherita, mentre Olimpia aveva la stessa età di Silvia.
Poi incominciava la sfilza delle cugine.
Applicando il criterio del noblesse oblige, era data più importanza alle cugine "di sangue Orsini".
Le figlie di Ginevra Orsini e del giudice De Gubernatis erano quasi una sorta di guardia del corpo, per Silvia, nel senso che stavano costantemente al suo fianco, ovunque.
Le gemelle Anna ed Elisabetta De Gubernatis erano destinate a lasciare una traccia indelebile (per lo più negativa) nella vita di Silvia e della sua futura famiglia.
Erano state sue compagne di scuola alle elementari, alle medie, al Ginnasio, al Liceo e infine si erano iscritte entrambe a Lettere Classiche, insieme a lei, a Bologna.
Delle due, Anna era quella più intraprendente, tanto che appena iniziata l'università, si trovò il ragazzo, un giovane poeta che rispondeva al nome piuttosto singolare di Adriano Trombatore (in seguito quel cognome si rivelò degno dei presagi che suscitava).
Ma i maggiori pericoli, come si vedrà in seguito, erano destinati a provenire da Elisabetta, più fredda, calcolatrice e incline al pettegolezzo, e innamorata di Massimo Braghiri, che a Bologna studiava matematica e aveva ancora altri progetti.
Infatti Massimo, che era stato rifiutato da Margherita Ricci-Orsini, aveva ripiegato su Silvia, sperando di diventare cognato dei Conti di Casemurate e magari futuro dirigente delle loro proprietà.
Silvia, che era molto rispettosa della sensibilità altrui, cercò, pur essendo irritata dall'atteggiamento narcisistico e megalomane di Massimo, di non infliggere al suo smisurato ego una ferita simile a quella già provocata dal secco rifiuto della sorella maggiore.
Fu così che accettò di uscire insieme a Massimo, a patto che ci fosse con loro anche Elisabetta De Gubernatis, intenzionata, quest'ultima, ad assumere ben presto il ruolo di primadonna.
Ma l'elenco delle finte amiche invidiose di lei era molto lungo.
C'erano infatti le innumerevoli cugine dalla parte dei Ricci.
Ognuna di loro, per quanto figlia di un notabile, invidiava il fatto che Silvia fosse figlia della Contessa del Feudo dove tutte loro erano nate e cresciute, e appartenesse alla gloriosa e antichissima famiglia Orsini, imparentata con i duchi di Bracciano e di Gravina.
La zia Caterina, le cui ambizioni erano notevoli, moglie di Edoardo Leandri, senatore democristiano, anzi "Il Senatore" per antonomasia, all'interno del clan Ricci-Orsini, aveva avuto oltre a vari figli maschi, una figlia dal carattere burrascoso e tendente all'isteria, di nome Marianna, anche lei iscritta al gruppo di Lettere Classiche, e quindi al codazzo di cugine-studentesse che tallonavano Silvia ovunque andasse, bagni compresi.
Un'altra, zia Maria Teresa Ricci e suo marito, l'ormai commissario di polizia Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, avevano avuto un figlio, oltre a un figlio dal nome inquietante di Arido, altre due figlie, Luciana e Giuditta.
Arido era enorme: un armadio ambulante, di poche parole e dai modi spicci.
Luciana e Giuditta erano già molto sovrappeso nei loro anni migliori e non brillavano per acume, ma la loro ambizione era comunque sfrenata.
Luciana, diplomata all'Istituto Tecnico Femminile per l'Economia Domestica, aveva già ottenuto una cattedra di educazione tecnica alle scuole medie e aveva sposato un certo Gaspare Maciullini, appartenente a una famiglia benestante di latifondisti, che aspiravano a diventare soci della famiglia Ricci e quindi del Feudo Orsini.
L'altra sorella, Giuditta, diplomatasi alle magistrali, era coetanea di Silvia e spesso usciva con lei e le altre cugine per andare a ballare, sotto l'attenta supervisione di Ida Braghiri, che si portava dietro le proprie orrende figlie, nella speranza di trovar loro qualche buon partito.
Durante un ballo destinato a rimanere nella leggenda familiare, Giuditta fu corteggiata e contesa dai due uomini della sua vita, il futuro marito Felice Mazza e l'ingegner Nullo Nullini, il cui nome era già tutto un programma.
La contesa avvenne a suon di balli, e la tecnica di Mazza, falegname dal fisico possente e dalla voce roca, che si avvinghiava al seno debordante di Giuditta, risultò vincente, rispetto alla presa molle e indecisa di Nullo.
Fu così che il falegname, contro ogni previsione, sconfisse l'ingegnere.
Nullo e Giuditta rimasero comunque amici per tutta la vita, e le loro telefonate, in cui si scambiavano pettegolezzi su tutti i loro conoscenti, duravano ore.
Ettore Ricci, che spesso si era trovato ad essere al centro dei pettegolezzi di Nello e Giuditta, un giorno ebbe a dire, con la sua lapidaria incisività:
<<Lui è la curiosità in persona e lei è falsa come l'ottone>>
Tra i fratelli di Ettore Ricci, Oreste e Roderico, continuava ad esistere una faida, dal famoso giorno in cui si erano presi a coltellate, così come c'era una contesa insanabile tra le altre due sorelle, la zitella Adriana, fascistissima, e la democristiana Carolina, vedova del ricchissimo conte Leopoldo Gagni di Montescudo, la cui unica figlia, Anna, era un donnone dai modi spicci, che faceva fuggire ogni possibile pretendente alla sua considerevole mano.
Esaurito l'elenco delle cugine, incominciava l'esercito delle "compagne di classe", dominato dall'elite delle "compagne di banco", anch'esse poi divenute compagne di università e future insegnanti e quindi colleghe di lavoro di Silvia.
Sarebbe troppo lungo e del tutto inutile farne l'elenco: parleremo in seguito di quelle false amiche che tra invidia ed ambizione roteavano come avvoltoi intorno a Silvia e alla sua famiglia, pronte a fare di esse la loro preda, al primo segnale di debolezza.
Ma dovettero aspettare a lungo, perché per molto tempo Silvia agì con estrema prudenza, e anche quando commise quello che in prospettiva era destinato a diventare il seme della sua rovina, dovettero passare decenni, prima che quel seme facesse germogliare fiori malati e frutti marci.
Per il momento basti dire che da questa prima panoramica è possibile farsi un'idea dell'intelaiatura di base di quello che sarebbe diventato il Salotto Buono più esclusivo di Forlì, fondato da Silvia Ricci-Orsini dopo aver sposato un uomo che all'epoca non conosceva, ma che è una nostra vecchia conoscenza: il ribelle studente e futuro geniale professore Francesco Monterovere.
Il punto di partenza era stata la presenza di un numero consistente di ragazze della sua stessa età, o di età simile, all'interno dello stesso clan dei Ricci-Orsini.
Al centro del clan vi era poi un nucleo inscindibile, composto da Silvia e dalle sorelle Margherita e Isabella: una sorta di "triade" o di "trinità" destinata a rimanere saldamente unita e compatta, a salvaguardia dell'unità familiare nella buona e nella cattiva sorte.
E molte cause della futura cattiva sorte provenivano da personaggi che in quegli anni vivevano ancora a Villa Orsini, dividendo con i proprietari "il pane e il sale".
Si trattava, come il lettore attento ricorderà, dei componenti della famiglia Braghiri.
La governante Ida Braghiri suo marito Michele, amministratore del Feudo, avevano, oltre all'ambizioso e vanitoso figlio maschio, Massimo, due figlie: Oriana, che aveva l'età di Margherita, mentre Olimpia aveva la stessa età di Silvia.
Poi incominciava la sfilza delle cugine.
Applicando il criterio del noblesse oblige, era data più importanza alle cugine "di sangue Orsini".
Le figlie di Ginevra Orsini e del giudice De Gubernatis erano quasi una sorta di guardia del corpo, per Silvia, nel senso che stavano costantemente al suo fianco, ovunque.
Le gemelle Anna ed Elisabetta De Gubernatis erano destinate a lasciare una traccia indelebile (per lo più negativa) nella vita di Silvia e della sua futura famiglia.
Erano state sue compagne di scuola alle elementari, alle medie, al Ginnasio, al Liceo e infine si erano iscritte entrambe a Lettere Classiche, insieme a lei, a Bologna.
Delle due, Anna era quella più intraprendente, tanto che appena iniziata l'università, si trovò il ragazzo, un giovane poeta che rispondeva al nome piuttosto singolare di Adriano Trombatore (in seguito quel cognome si rivelò degno dei presagi che suscitava).
Ma i maggiori pericoli, come si vedrà in seguito, erano destinati a provenire da Elisabetta, più fredda, calcolatrice e incline al pettegolezzo, e innamorata di Massimo Braghiri, che a Bologna studiava matematica e aveva ancora altri progetti.
Infatti Massimo, che era stato rifiutato da Margherita Ricci-Orsini, aveva ripiegato su Silvia, sperando di diventare cognato dei Conti di Casemurate e magari futuro dirigente delle loro proprietà.
Silvia, che era molto rispettosa della sensibilità altrui, cercò, pur essendo irritata dall'atteggiamento narcisistico e megalomane di Massimo, di non infliggere al suo smisurato ego una ferita simile a quella già provocata dal secco rifiuto della sorella maggiore.
Fu così che accettò di uscire insieme a Massimo, a patto che ci fosse con loro anche Elisabetta De Gubernatis, intenzionata, quest'ultima, ad assumere ben presto il ruolo di primadonna.
Ma l'elenco delle finte amiche invidiose di lei era molto lungo.
C'erano infatti le innumerevoli cugine dalla parte dei Ricci.
Ognuna di loro, per quanto figlia di un notabile, invidiava il fatto che Silvia fosse figlia della Contessa del Feudo dove tutte loro erano nate e cresciute, e appartenesse alla gloriosa e antichissima famiglia Orsini, imparentata con i duchi di Bracciano e di Gravina.
La zia Caterina, le cui ambizioni erano notevoli, moglie di Edoardo Leandri, senatore democristiano, anzi "Il Senatore" per antonomasia, all'interno del clan Ricci-Orsini, aveva avuto oltre a vari figli maschi, una figlia dal carattere burrascoso e tendente all'isteria, di nome Marianna, anche lei iscritta al gruppo di Lettere Classiche, e quindi al codazzo di cugine-studentesse che tallonavano Silvia ovunque andasse, bagni compresi.
Un'altra, zia Maria Teresa Ricci e suo marito, l'ormai commissario di polizia Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, avevano avuto un figlio, oltre a un figlio dal nome inquietante di Arido, altre due figlie, Luciana e Giuditta.
Arido era enorme: un armadio ambulante, di poche parole e dai modi spicci.
Luciana e Giuditta erano già molto sovrappeso nei loro anni migliori e non brillavano per acume, ma la loro ambizione era comunque sfrenata.
Luciana, diplomata all'Istituto Tecnico Femminile per l'Economia Domestica, aveva già ottenuto una cattedra di educazione tecnica alle scuole medie e aveva sposato un certo Gaspare Maciullini, appartenente a una famiglia benestante di latifondisti, che aspiravano a diventare soci della famiglia Ricci e quindi del Feudo Orsini.
L'altra sorella, Giuditta, diplomatasi alle magistrali, era coetanea di Silvia e spesso usciva con lei e le altre cugine per andare a ballare, sotto l'attenta supervisione di Ida Braghiri, che si portava dietro le proprie orrende figlie, nella speranza di trovar loro qualche buon partito.
Durante un ballo destinato a rimanere nella leggenda familiare, Giuditta fu corteggiata e contesa dai due uomini della sua vita, il futuro marito Felice Mazza e l'ingegner Nullo Nullini, il cui nome era già tutto un programma.
La contesa avvenne a suon di balli, e la tecnica di Mazza, falegname dal fisico possente e dalla voce roca, che si avvinghiava al seno debordante di Giuditta, risultò vincente, rispetto alla presa molle e indecisa di Nullo.
Fu così che il falegname, contro ogni previsione, sconfisse l'ingegnere.
Nullo e Giuditta rimasero comunque amici per tutta la vita, e le loro telefonate, in cui si scambiavano pettegolezzi su tutti i loro conoscenti, duravano ore.
Ettore Ricci, che spesso si era trovato ad essere al centro dei pettegolezzi di Nello e Giuditta, un giorno ebbe a dire, con la sua lapidaria incisività:
<<Lui è la curiosità in persona e lei è falsa come l'ottone>>
Tra i fratelli di Ettore Ricci, Oreste e Roderico, continuava ad esistere una faida, dal famoso giorno in cui si erano presi a coltellate, così come c'era una contesa insanabile tra le altre due sorelle, la zitella Adriana, fascistissima, e la democristiana Carolina, vedova del ricchissimo conte Leopoldo Gagni di Montescudo, la cui unica figlia, Anna, era un donnone dai modi spicci, che faceva fuggire ogni possibile pretendente alla sua considerevole mano.
Esaurito l'elenco delle cugine, incominciava l'esercito delle "compagne di classe", dominato dall'elite delle "compagne di banco", anch'esse poi divenute compagne di università e future insegnanti e quindi colleghe di lavoro di Silvia.
Sarebbe troppo lungo e del tutto inutile farne l'elenco: parleremo in seguito di quelle false amiche che tra invidia ed ambizione roteavano come avvoltoi intorno a Silvia e alla sua famiglia, pronte a fare di esse la loro preda, al primo segnale di debolezza.
Ma dovettero aspettare a lungo, perché per molto tempo Silvia agì con estrema prudenza, e anche quando commise quello che in prospettiva era destinato a diventare il seme della sua rovina, dovettero passare decenni, prima che quel seme facesse germogliare fiori malati e frutti marci.
Per il momento basti dire che da questa prima panoramica è possibile farsi un'idea dell'intelaiatura di base di quello che sarebbe diventato il Salotto Buono più esclusivo di Forlì, fondato da Silvia Ricci-Orsini dopo aver sposato un uomo che all'epoca non conosceva, ma che è una nostra vecchia conoscenza: il ribelle studente e futuro geniale professore Francesco Monterovere.
venerdì 17 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 45. La ribellione di Francesco Monterovere e le ossessioni di suo padre Romano
Romano Monterovere compì 50 anni nel 1961. Da quel momento in avanti, nella sua lunga vita, rimase più o meno uguale. Era di quei tipi molto alti, magri, dai capelli chiari, che più che invecchiare tendono a rinsecchirsi, quasi a mummificarsi, senza però altri segni particolari di cedimento.
Il suo aspetto severo e austero, con l'età divenne vagamente arcigno, pur mantenendo un'imponenza che oggi si potrebbe ritrovare in attori come Charles Dance.
Ma un cambiamento interiore significativo era avvenuto in lui dopo la morte del fratello Ferdinando, Romano era diventato ipocondriaco.
Per prevenire le malattie, aveva adottato uno stile di vita ancora più spartano.
Mangiava poco, prediligeva le verdure, camminava spedito almeno due ore tutti i giorni, non beveva alcolici, non fumava, andava a letto presto e dormiva regolarmente almeno otto ore.
Ciononostante viveva nel terrore di poter contrarre qualche malattia, in particolare la tubercolosi, di cui erano morti due sorelle e un fratello, oppure l'ipertensione, per la quale andava tutti i giorni dal farmacista a farsi misurare la pressione.
Ogni volta che entrava in farmacia, ne usciva con medicinali generici e autoprescritti di tutti i generi: aspirina in compresse effervescenti, caramelle balsamiche e antisettiche (che consumava con gusto, come se fossero cioccolatini), vitamine, tachipirina, citrosodina, sali minerali, supposte, colliri, spray nasali, microclismi, digestivi, soluzione Schoum, colluttori, pomate di ogni genere e per ogni evenienza, acqua ossigenata, disinfettanti vari, cerotti, garze, bende, cotone idrofilo ed emostatico. tappi per le orecchie, lozioni per i capelli, amaro medicinale Giuliani, gocce di valeriana e altre pozioni che lo attraevano anche solo per il colore o per il gusto.
E quello fu solo l'inizio della sua esperienza di "impasticcato", che lo portò col tempo a disporre di un vero e proprio laboratorio chimico-farmaceutico finalizzato alla creazione dell'Elisir di lunga vita.
Era preciso e puntiglioso in ogni cosa che facesse, in particolare sul lavoro.
Da quando era diventato direttore dell'Azienda Fratelli Monterovere (il presidente era suo suocero, l'ingegner Lanni), aveva imposto ai dipendenti un regime quasi militare ed un'efficienza svizzera, o meglio ancora teutonica e prussiana, da far invidia a Federico il Grande e a tutta la dinastia degli Hohenzollern.
Il suo perfezionismo, così come la sua abitudinarietà, assunsero i contorni di un disturbo ossessivo-compulsivo: rispettava gli orari con tale precisione che la gente metteva a punto l'orologio ogni volta che lo vedeva passare: era più affidabile del meridiano di Greenwitch.
Naturalmente sua moglie e i suoi figli erano tenuti a rispettare la stessa vita da caserma, il che non era affatto facile.
Giulia fumava, come anche la figlia Enrichetta. Il figlio Francesco aveva orari opposti a quelli del padre. Il terzogenito Lorenzo, di carattere timidissimo e remissivo, subiva ramanzine continue per la sua goffaggine,"mollezza" e pigrizia.
Romano distribuiva equamente rimproveri e scappellotti, ma l'effetto che otteneva era il contrario di ciò che si era prefisso.
In particolare lo preoccupava il primogenito Francesco, ribelle per natura e studente presso la Facoltà di Matematica e Fisica dell'Università Bologna.
Ovviamente Francesco non aveva avuto il permesso di prendere alloggio nella città universitaria, per cui faceva su e giù da Faenza, in treno, tutti i giorni.
Non era una cosa particolarmente piacevole, e non era nemmeno l'unico motivo di attrito tra padre e figlio, opposti quasi in tutto.
Un grande scandalo avvenne quando, Francesco. precorrendo i tempi e le mode della Contestazione, si face crescere i capelli lunghi fino alle spalle.
Romano non si dava pace:
<<E' questo che ti insegnano all'università? A diventare un capellone e uno scansafatiche? Io alla tua età...>> ed elencava una serie di lavori mai svolti.
Francesco il più delle volte non si degnava nemmeno di rispondere.
Allora Romano mandava avanti il figlio minore, Lorenzo, in avanscoperta.
Francesco riconosceva i famigliari dal modo in cui bussavano alla porta.
Mentre Enrichetta era come un treno in corsa, Lorenzo si limitava ad una timida grattatina.
<<Il babbo è molto preoccupato per te>>
<<Ma dai? Non me n'ero accorto!>>
<<Se solo accettassi di tagliarteli almeno un po'...>>
<<Non se ne parla>>
<<Però almeno potresti evitare di andare in giro con le mollette e la coda di cavallo>>
<<Lorenzo, perché non ti fai gli affari tuoi? Ti ha promesso qualcosa, il vecchio?>
<<Io non so come hanno fatto a sopportarti i Salesiani per sette anni>>
<<E' per colpa loro che sono un ribelle>>
<<Ma ribelle contro cosa?>>
<<Contro tutto, contro la società, contro il sistema...>>
<<Ma quale sistema? Io non capisco proprio di cosa tu stia parlando>>
<<Perché sei un patacca, Lorenzo, scusami tanto!>>
<<Sì sì, vedremo. Ci rivediamo tra trent'anni, e poi mi saprai dire chi è il patacca>>
<<Non illuderti Lorenzo, tu sei nato così, non ci puoi far niente. Ma se ti allei con me, potremmo fare grandi cose. Va' a dire al babbo che se mi trova una stanza a Bologna, mi taglio i capelli subito>>
<<Allora tanto vale che te li faccia arrivare fino ai piedi. Il babbo non sgancerà un centesimo>>
<<Ecco, ora capisci cosa intendo per "il sistema". Il babbo rappresenta il prototiopo dell'autorità borghese reazionaria, nonché seguace del Capitalismo>>
<<Mi sembra di sentir parlare il nonno Enrico, pace all'anima sua>>
<<Enrico era un grande, e anche zio Edoardo è un grande. Faremo la rivoluzione un giorno!>>
Quando Romano venne a sapere di quella frase, si infuriò come un leone:
<<Vuoi fare la rivoluzione? Te la do io la rivoluzione! Io faccio la rivoluzione tutti i giorni lavorando! Ma se ti metti nei guai, Francesco, non bussare alla mia porta.
Che tempi! Che cosa mi tocca vedere!>>
Francesco era galvanizzato da quelle prediche: gli sembrava di essere già una specie di Che Guevara:
<<E questo è solo l'inizio babbo... aspetta qualche anno e succederà di tutto! Gli Anni Sessanta resteranno nella storia. Aspetta e vedrai!>>
Il suo aspetto severo e austero, con l'età divenne vagamente arcigno, pur mantenendo un'imponenza che oggi si potrebbe ritrovare in attori come Charles Dance.
Ma un cambiamento interiore significativo era avvenuto in lui dopo la morte del fratello Ferdinando, Romano era diventato ipocondriaco.
Per prevenire le malattie, aveva adottato uno stile di vita ancora più spartano.
Mangiava poco, prediligeva le verdure, camminava spedito almeno due ore tutti i giorni, non beveva alcolici, non fumava, andava a letto presto e dormiva regolarmente almeno otto ore.
Ciononostante viveva nel terrore di poter contrarre qualche malattia, in particolare la tubercolosi, di cui erano morti due sorelle e un fratello, oppure l'ipertensione, per la quale andava tutti i giorni dal farmacista a farsi misurare la pressione.
Ogni volta che entrava in farmacia, ne usciva con medicinali generici e autoprescritti di tutti i generi: aspirina in compresse effervescenti, caramelle balsamiche e antisettiche (che consumava con gusto, come se fossero cioccolatini), vitamine, tachipirina, citrosodina, sali minerali, supposte, colliri, spray nasali, microclismi, digestivi, soluzione Schoum, colluttori, pomate di ogni genere e per ogni evenienza, acqua ossigenata, disinfettanti vari, cerotti, garze, bende, cotone idrofilo ed emostatico. tappi per le orecchie, lozioni per i capelli, amaro medicinale Giuliani, gocce di valeriana e altre pozioni che lo attraevano anche solo per il colore o per il gusto.
E quello fu solo l'inizio della sua esperienza di "impasticcato", che lo portò col tempo a disporre di un vero e proprio laboratorio chimico-farmaceutico finalizzato alla creazione dell'Elisir di lunga vita.
Era preciso e puntiglioso in ogni cosa che facesse, in particolare sul lavoro.
Da quando era diventato direttore dell'Azienda Fratelli Monterovere (il presidente era suo suocero, l'ingegner Lanni), aveva imposto ai dipendenti un regime quasi militare ed un'efficienza svizzera, o meglio ancora teutonica e prussiana, da far invidia a Federico il Grande e a tutta la dinastia degli Hohenzollern.
Il suo perfezionismo, così come la sua abitudinarietà, assunsero i contorni di un disturbo ossessivo-compulsivo: rispettava gli orari con tale precisione che la gente metteva a punto l'orologio ogni volta che lo vedeva passare: era più affidabile del meridiano di Greenwitch.
Naturalmente sua moglie e i suoi figli erano tenuti a rispettare la stessa vita da caserma, il che non era affatto facile.
Giulia fumava, come anche la figlia Enrichetta. Il figlio Francesco aveva orari opposti a quelli del padre. Il terzogenito Lorenzo, di carattere timidissimo e remissivo, subiva ramanzine continue per la sua goffaggine,"mollezza" e pigrizia.
Romano distribuiva equamente rimproveri e scappellotti, ma l'effetto che otteneva era il contrario di ciò che si era prefisso.
In particolare lo preoccupava il primogenito Francesco, ribelle per natura e studente presso la Facoltà di Matematica e Fisica dell'Università Bologna.
Ovviamente Francesco non aveva avuto il permesso di prendere alloggio nella città universitaria, per cui faceva su e giù da Faenza, in treno, tutti i giorni.
Non era una cosa particolarmente piacevole, e non era nemmeno l'unico motivo di attrito tra padre e figlio, opposti quasi in tutto.
Un grande scandalo avvenne quando, Francesco. precorrendo i tempi e le mode della Contestazione, si face crescere i capelli lunghi fino alle spalle.
Romano non si dava pace:
<<E' questo che ti insegnano all'università? A diventare un capellone e uno scansafatiche? Io alla tua età...>> ed elencava una serie di lavori mai svolti.
Francesco il più delle volte non si degnava nemmeno di rispondere.
Allora Romano mandava avanti il figlio minore, Lorenzo, in avanscoperta.
Francesco riconosceva i famigliari dal modo in cui bussavano alla porta.
Mentre Enrichetta era come un treno in corsa, Lorenzo si limitava ad una timida grattatina.
<<Il babbo è molto preoccupato per te>>
<<Ma dai? Non me n'ero accorto!>>
<<Se solo accettassi di tagliarteli almeno un po'...>>
<<Non se ne parla>>
<<Però almeno potresti evitare di andare in giro con le mollette e la coda di cavallo>>
<<Lorenzo, perché non ti fai gli affari tuoi? Ti ha promesso qualcosa, il vecchio?>
<<Io non so come hanno fatto a sopportarti i Salesiani per sette anni>>
<<E' per colpa loro che sono un ribelle>>
<<Ma ribelle contro cosa?>>
<<Contro tutto, contro la società, contro il sistema...>>
<<Ma quale sistema? Io non capisco proprio di cosa tu stia parlando>>
<<Perché sei un patacca, Lorenzo, scusami tanto!>>
<<Sì sì, vedremo. Ci rivediamo tra trent'anni, e poi mi saprai dire chi è il patacca>>
<<Non illuderti Lorenzo, tu sei nato così, non ci puoi far niente. Ma se ti allei con me, potremmo fare grandi cose. Va' a dire al babbo che se mi trova una stanza a Bologna, mi taglio i capelli subito>>
<<Allora tanto vale che te li faccia arrivare fino ai piedi. Il babbo non sgancerà un centesimo>>
<<Ecco, ora capisci cosa intendo per "il sistema". Il babbo rappresenta il prototiopo dell'autorità borghese reazionaria, nonché seguace del Capitalismo>>
<<Mi sembra di sentir parlare il nonno Enrico, pace all'anima sua>>
<<Enrico era un grande, e anche zio Edoardo è un grande. Faremo la rivoluzione un giorno!>>
Quando Romano venne a sapere di quella frase, si infuriò come un leone:
<<Vuoi fare la rivoluzione? Te la do io la rivoluzione! Io faccio la rivoluzione tutti i giorni lavorando! Ma se ti metti nei guai, Francesco, non bussare alla mia porta.
Che tempi! Che cosa mi tocca vedere!>>
Francesco era galvanizzato da quelle prediche: gli sembrava di essere già una specie di Che Guevara:
<<E questo è solo l'inizio babbo... aspetta qualche anno e succederà di tutto! Gli Anni Sessanta resteranno nella storia. Aspetta e vedrai!>>
mercoledì 8 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 44. L'Antagonista
In ogni narrazione che si rispetti, a contrapporsi ai protagonisti, devono esserci degli antagonisti, e tra questi deve essercene uno che rappresenti, in un certo qual modo, l'incarnazione del Male.
Ecco, costui è l'Antagonista per antonomasia.
Nel nostro romanzo si potrebbe pensare che questo ruolo spetti al traditore pluriomicida Michele Braghiri, o alla sua diabolica moglie Ida, una sorta di Lady Macbeth "de' noantri", come si direbbe in romanesco.
Ma ai coniugi Braghiri mancava il carisma: erano cattivi, capaci di tutto, ma rimanevano comunque troppo rozzi, ridicoli, quasi caricaturali, per poter ricoprire il ruolo elevato dell'Antagonista.
Quest'ultimo deve avere una personalità più complessa, una mente più sottile, una cultura più ampia e un'astuzia più raffinata, capace di compiere anche cose grandi: terribili, certo, ma grandi.
E dunque il ruolo di Antagonista, nel nostro romanzo, spetta a un personaggio malvagio e odioso quanto loro, ma più sottile, erudito e subdolo, e cioè il loro adorato figlio, Massimo Braghiri, nato nel 1938, cresciuto a Villa Orsini quasi come un familiare dei padroni.
Ed era proprio quel "quasi" a rendere così totalizzante la sua invidia nei confronti del potente clan Ricci-Orsini, i Conti di Casemurate, proprietari del Feudo e della Villa, imparentati con tutti gli aristocratici e i notabili dell'alta società.
Massimo aveva maturato un'altissima considerazione di sé, dovuta alla venerazione che gli tributavano i genitori, che con tutti gli altri avevano un atteggiamento duro e sprezzante, e anche alla predilezione che aveva mostrato nei suoi confronti nientemeno che la Signorina De Toschi.
In realtà quest'ultima "corrispondenza di amorosi sensi" era una conseguenza della spontanea tendenza di Massimo Braghiri ad adulare i personaggi influenti, salvo poi pugnalarli alle spalle quando non servivano più ai suoi scopi.
Le lusinghe verso la De Toschi avevano una duplice motivazione: in primo luogo l'attempata Signorina, ora che il Generale suo padre era stato "assunto in Cielo" dopo un funerale solenne con tanto di banda, canti bersaglieri e squilli di fanfara, aveva ereditato un patrimonio immenso e una serie di "clientele" in alto loco da far concorrenza al ministro Andreotti; in secondo luogo la suddetta De Toschi era anche sua insegnante di ripetizione di latino, dal momento che Massimo, studente del Liceo Scientifico, aveva qualche difficoltà in quella materia.
In realtà, tutti coloro che ambivano a diventare "qualcuno" nell'alta società andavano a lezione privata dalla Signorina, le cui raccomandazioni erano un passepartout senza eguali.
Persino i suoi parenti si sentivano in soggezione nei suoi confronti, a tal punto che la stessa Silvia Ricci-Orsini, che pure andava benissimo in tutte le materie, compreso il latino e il greco, era stata obbligata da sua nonna Emilia a prendere lezioni dalla De Toschi, con la motivazione che "è sempre meglio avere la Signorina dalla nostra parte".
La madre di Silvia, Diana Orsini, che ai suoi tempi era stata una vittima delle trame della Signorina, si era opposta in tutti i modi, ma suo marito Ettore Ricci, di solito assai tirchio, si era mostrato estremamente prodigo in quella circostanza, vincendo così le resistenze della figlia.
La pensava allo stesso modo di Ettore anche Ginevra Orsini, l'unica sorella superstite di Diana, nonché moglie del giudice De Gubernatis, che aveva insistito perché anche le sue figlie Anna ed Elisabetta frequentassero quella "centrale di ripetizioni greco-latine" che era il Villino De Toschi.
E così, tutti questi allievi, si incontravano spesso nell'anticamera del salottino a piano terra, dove la Signorina educava i suoi discepoli all'ossequio del classicismo canonico e dell'ordine costituito.
E qui, nell'anticamera, Massimo Braghiri, con voce altissima, si prodigava a dipingere la signorina, oltre che come la persona più colta sulla faccia della terra, anche come una Venere del Botticelli, con "capelli dorati e occhi color acquamarina".
Anna ed Elisabetta De Gubernatis ascoltavano in silenzio stupefatto quelle lodi sperticate, mentre Silvia un giorno osò replicare che la vecchia De Toschi sembrava piuttosto "un vecchio ippopotamo imbellettato e catarroso".
Sfortuna volle che la Signorina, a causa di una abbondante evacuazione dell'intestino, si trovasse nel minuscolo bagno con scarico a catenella e porta sottilissima, adiacente alla sala d'aspetto.
Pertanto Mariuccia De Toschi, mentre produceva il meglio di sé sulla tazza, ebbe modo di ascoltare quel colloquio e molti fanno risalire proprio a questa spiacevolissima circostanza la sua ostilità nei confronti di Silvia e la sua adorazione nei riguardi di Massimo Braghiri.
Quando uscì con aria burbanzosa dal cubicolo trasformato in una letale camera a gas, la De Toschi sorrise a Massimo, accennò un saluto alle sorelle De Gubernatis ed ignorò completamente Silvia Ricci-Orsini.
Massimo Braghiri sentì di aver segnato un punto a suo favore, e ancora non sapeva di aver guadagnato un altro importantissimo sostegno, ovvero quello di Elisabetta De Gubernatis, che in quel "romantico" contesto incominciò a sviluppare per lui un sentimento d'amore destinato ad assumere un ruolo molto importante all'interno del nostro romanzo.
All'epoca però Massimo puntava molto più in alto: il suo stesso nome lo spingeva a puntare al "vertice", anche in ambito di progetti matrimoniali.
Fin dalla più tenera età i suoi genitori lo avevano convinto di avere tutte le carte in regola per aspirare alla mano della primogenita di Ettore Ricci e Diana Orsini, ossia la bella, ma capricciosa Margherita Ricci-Orsini.
Peccato per Massimo che Ettore Ricci avesse per la sua figlia prediletta ben altri progetti, peraltro sostenuti dalla stessa Margherita, che ambiva a un matrimonio prestigioso.
Fu così che, quando Michele Braghiri osò proporre ad Ettore Ricci di sancire l'alleanza delle loro famiglie con un matrimonio dinastico tra Massimo e Margherita, Ettore, sorpreso e quasi divertito, pronunciò una frase che gli sarebbe costata molto cara nei decenni a venire:
<<Mio caro Michele, tu sei il mio miglior servitore, ma un uomo non fa sposare la propria erede al figlio di un servitore. >>
Nell'udire quella risposta, Michele Braghiri divenne verde di rabbia e giurò vendetta nel suo cuore.
Massimo, che ascoltava dietro una porta, si sentì trafitto da parte a parte nel suo orgoglio, che già allora era notevole e maturò dentro di sé propositi ancora peggiori di quelli a cui pensava suo padre.
"Giuro che non avrò pace finché non vedrò la completa rovina di Ettore Ricci, di sua moglie Diana Orsini, delle sue tre figlie e dei suoi futuri generi e nipoti. Li farò precipitare nella polvere e nel fango, e non avrò pietà finché non li avrò visti strisciare a terra come vermi, derisi e compatiti da tutti coloro che adesso li omaggiano o li temono. Lo giuro sulla mia stessa vita, e dedico la mia vita a questa impresa, fino a quando non sarò io a prendere tutto ciò che adesso è dei Ricci-Orsini, ed a fondare io stesso una dinastia che farà impallidire le ormai passate glorie di questa stirpe venale e destinata a una fine precoce".
E fu a questo che pensò quando la bellissima contessina Margherita Ricci-Orsini sposò con una cerimonia memorabile, il giovane rampollo Amilcare Spreti di Serachieda, terzogenito del marchese proprietario del Feudo Spreti, che controllava gran parte delle terre della Marca di Casemurate di Ravenna, confinante con la Contea di Casemurate di Forlì.
Inutile dire che Massimo Braghiri si faceva beffe di tutti quei marchesi e quei conti, ostentava una copia de "La rivoluzione francese" del Lefevre e professava idee giacobine.
Ettore Ricci, quando lo venne a sapere, commentò: <<Eccolo là, il nostro rivoluzionario, che vuol fare il comunista con i soldi degli altri!>>
Massimo lo fissò cupamente, senza rispondere, ma dentro di sé rinnovò i suoi giuramenti e ricordò a se stesso che tra lui e la famiglia Ricci-Orsini la divergenza non era tanto una questione politica, quanto, soprattutto, una questione privata.
Ecco, costui è l'Antagonista per antonomasia.
Nel nostro romanzo si potrebbe pensare che questo ruolo spetti al traditore pluriomicida Michele Braghiri, o alla sua diabolica moglie Ida, una sorta di Lady Macbeth "de' noantri", come si direbbe in romanesco.
Ma ai coniugi Braghiri mancava il carisma: erano cattivi, capaci di tutto, ma rimanevano comunque troppo rozzi, ridicoli, quasi caricaturali, per poter ricoprire il ruolo elevato dell'Antagonista.
Quest'ultimo deve avere una personalità più complessa, una mente più sottile, una cultura più ampia e un'astuzia più raffinata, capace di compiere anche cose grandi: terribili, certo, ma grandi.
E dunque il ruolo di Antagonista, nel nostro romanzo, spetta a un personaggio malvagio e odioso quanto loro, ma più sottile, erudito e subdolo, e cioè il loro adorato figlio, Massimo Braghiri, nato nel 1938, cresciuto a Villa Orsini quasi come un familiare dei padroni.
Ed era proprio quel "quasi" a rendere così totalizzante la sua invidia nei confronti del potente clan Ricci-Orsini, i Conti di Casemurate, proprietari del Feudo e della Villa, imparentati con tutti gli aristocratici e i notabili dell'alta società.
Massimo aveva maturato un'altissima considerazione di sé, dovuta alla venerazione che gli tributavano i genitori, che con tutti gli altri avevano un atteggiamento duro e sprezzante, e anche alla predilezione che aveva mostrato nei suoi confronti nientemeno che la Signorina De Toschi.
In realtà quest'ultima "corrispondenza di amorosi sensi" era una conseguenza della spontanea tendenza di Massimo Braghiri ad adulare i personaggi influenti, salvo poi pugnalarli alle spalle quando non servivano più ai suoi scopi.
Le lusinghe verso la De Toschi avevano una duplice motivazione: in primo luogo l'attempata Signorina, ora che il Generale suo padre era stato "assunto in Cielo" dopo un funerale solenne con tanto di banda, canti bersaglieri e squilli di fanfara, aveva ereditato un patrimonio immenso e una serie di "clientele" in alto loco da far concorrenza al ministro Andreotti; in secondo luogo la suddetta De Toschi era anche sua insegnante di ripetizione di latino, dal momento che Massimo, studente del Liceo Scientifico, aveva qualche difficoltà in quella materia.
In realtà, tutti coloro che ambivano a diventare "qualcuno" nell'alta società andavano a lezione privata dalla Signorina, le cui raccomandazioni erano un passepartout senza eguali.
Persino i suoi parenti si sentivano in soggezione nei suoi confronti, a tal punto che la stessa Silvia Ricci-Orsini, che pure andava benissimo in tutte le materie, compreso il latino e il greco, era stata obbligata da sua nonna Emilia a prendere lezioni dalla De Toschi, con la motivazione che "è sempre meglio avere la Signorina dalla nostra parte".
La madre di Silvia, Diana Orsini, che ai suoi tempi era stata una vittima delle trame della Signorina, si era opposta in tutti i modi, ma suo marito Ettore Ricci, di solito assai tirchio, si era mostrato estremamente prodigo in quella circostanza, vincendo così le resistenze della figlia.
La pensava allo stesso modo di Ettore anche Ginevra Orsini, l'unica sorella superstite di Diana, nonché moglie del giudice De Gubernatis, che aveva insistito perché anche le sue figlie Anna ed Elisabetta frequentassero quella "centrale di ripetizioni greco-latine" che era il Villino De Toschi.
E così, tutti questi allievi, si incontravano spesso nell'anticamera del salottino a piano terra, dove la Signorina educava i suoi discepoli all'ossequio del classicismo canonico e dell'ordine costituito.
E qui, nell'anticamera, Massimo Braghiri, con voce altissima, si prodigava a dipingere la signorina, oltre che come la persona più colta sulla faccia della terra, anche come una Venere del Botticelli, con "capelli dorati e occhi color acquamarina".
Anna ed Elisabetta De Gubernatis ascoltavano in silenzio stupefatto quelle lodi sperticate, mentre Silvia un giorno osò replicare che la vecchia De Toschi sembrava piuttosto "un vecchio ippopotamo imbellettato e catarroso".
Sfortuna volle che la Signorina, a causa di una abbondante evacuazione dell'intestino, si trovasse nel minuscolo bagno con scarico a catenella e porta sottilissima, adiacente alla sala d'aspetto.
Pertanto Mariuccia De Toschi, mentre produceva il meglio di sé sulla tazza, ebbe modo di ascoltare quel colloquio e molti fanno risalire proprio a questa spiacevolissima circostanza la sua ostilità nei confronti di Silvia e la sua adorazione nei riguardi di Massimo Braghiri.
Quando uscì con aria burbanzosa dal cubicolo trasformato in una letale camera a gas, la De Toschi sorrise a Massimo, accennò un saluto alle sorelle De Gubernatis ed ignorò completamente Silvia Ricci-Orsini.
Massimo Braghiri sentì di aver segnato un punto a suo favore, e ancora non sapeva di aver guadagnato un altro importantissimo sostegno, ovvero quello di Elisabetta De Gubernatis, che in quel "romantico" contesto incominciò a sviluppare per lui un sentimento d'amore destinato ad assumere un ruolo molto importante all'interno del nostro romanzo.
All'epoca però Massimo puntava molto più in alto: il suo stesso nome lo spingeva a puntare al "vertice", anche in ambito di progetti matrimoniali.
Fin dalla più tenera età i suoi genitori lo avevano convinto di avere tutte le carte in regola per aspirare alla mano della primogenita di Ettore Ricci e Diana Orsini, ossia la bella, ma capricciosa Margherita Ricci-Orsini.
Peccato per Massimo che Ettore Ricci avesse per la sua figlia prediletta ben altri progetti, peraltro sostenuti dalla stessa Margherita, che ambiva a un matrimonio prestigioso.
Fu così che, quando Michele Braghiri osò proporre ad Ettore Ricci di sancire l'alleanza delle loro famiglie con un matrimonio dinastico tra Massimo e Margherita, Ettore, sorpreso e quasi divertito, pronunciò una frase che gli sarebbe costata molto cara nei decenni a venire:
<<Mio caro Michele, tu sei il mio miglior servitore, ma un uomo non fa sposare la propria erede al figlio di un servitore. >>
Nell'udire quella risposta, Michele Braghiri divenne verde di rabbia e giurò vendetta nel suo cuore.
Massimo, che ascoltava dietro una porta, si sentì trafitto da parte a parte nel suo orgoglio, che già allora era notevole e maturò dentro di sé propositi ancora peggiori di quelli a cui pensava suo padre.
"Giuro che non avrò pace finché non vedrò la completa rovina di Ettore Ricci, di sua moglie Diana Orsini, delle sue tre figlie e dei suoi futuri generi e nipoti. Li farò precipitare nella polvere e nel fango, e non avrò pietà finché non li avrò visti strisciare a terra come vermi, derisi e compatiti da tutti coloro che adesso li omaggiano o li temono. Lo giuro sulla mia stessa vita, e dedico la mia vita a questa impresa, fino a quando non sarò io a prendere tutto ciò che adesso è dei Ricci-Orsini, ed a fondare io stesso una dinastia che farà impallidire le ormai passate glorie di questa stirpe venale e destinata a una fine precoce".
E fu a questo che pensò quando la bellissima contessina Margherita Ricci-Orsini sposò con una cerimonia memorabile, il giovane rampollo Amilcare Spreti di Serachieda, terzogenito del marchese proprietario del Feudo Spreti, che controllava gran parte delle terre della Marca di Casemurate di Ravenna, confinante con la Contea di Casemurate di Forlì.
Inutile dire che Massimo Braghiri si faceva beffe di tutti quei marchesi e quei conti, ostentava una copia de "La rivoluzione francese" del Lefevre e professava idee giacobine.
Ettore Ricci, quando lo venne a sapere, commentò: <<Eccolo là, il nostro rivoluzionario, che vuol fare il comunista con i soldi degli altri!>>
Massimo lo fissò cupamente, senza rispondere, ma dentro di sé rinnovò i suoi giuramenti e ricordò a se stesso che tra lui e la famiglia Ricci-Orsini la divergenza non era tanto una questione politica, quanto, soprattutto, una questione privata.
domenica 5 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 43. La terra trema
Ci sono periodi in cui si ha l'impressione, errata, che non succeda mai niente, supportata dai quotidiani che si dilungano sul tempo meteorologico, sugli incidenti stradali e sulle schermaglie politiche di piccolo cabotaggio.
L' "opaca trafila delle cose", scriveva Sereni, e prima di lui Montale, il suo maestro, che parlava della vita come "uno scialo di triti fatti, vano più che crudele".
Eppure è proprio in questi periodi di apparente bonaccia in cui si gettano le basi del futuro, nel bene e nel male.
I fiori del male crescono più rapidamente, ma di tanto in tanto, in qualche orticello protetto dalle intemperie, ecco nascere i germogli di ciò che, negli anni bui, era stata la semina dell'avvenire.
E i risultati si videro per caso, senza nessuna premeditazione, e diedero avvio ad una serie di eventi destinata a influenzare le sorti della Contea.
Questo fatto avvenne verso la fine dei sonnolenti anni 50 e riguardò la diciassettenne Silvia Ricci-Orsini, la figlia "di mezzo" (ossia la secondogenita delle tre) di Ettore Ricci e Diana Orsini, Contessa di Casemurate.
La sua insegnante di latino e greco al Liceo Classico di Forlì, la professoressa Veronica Ottobrini, aveva incontrato per puro caso, in treno, una "personalità" del mondo casemuratense e cioè una certa Lucia Biasoni, titolare del negozio di alimentari, e nota, oltre che per essere una vera e propria centrale del pettegolezzo, anche per il fatto di sfoggiare dei folti baffi castani.
La signora Biasoni apparteneva alla temibile categoria di coloro che in treno attaccano bottone con tutti, in particolare con chiunque si trovi di fianco o davanti a loro.
In quel memorabile viaggio sull'Accelerato delle 15.25 della Romagna Centrale, lungo la paludosa tratta Lugo-Bagnacavallo, la prof. Ottobrini fu vittima della logorroica attenzione della signora Biasoni.
Quando, in quel fiume di parole, in mezzo a quella cacofonia di suoni, la Ottobrini distinse il nome di Casemurate, le venne subito in mente la sua studentessa preferita e non appena fece il nome di Silvia Ricci-Orsini, fu come se fossero state aperte le cateratte del Nilo.
La Biasoni raccontò nei minimi particolari le imprese degli Orsini di Casemurate dalla fondazione della Contea fino al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
La Ottobrini, impressionata da quelle vicende che sembravano appartenere ai tempi dei Borgia, ebbe modo di tessere le lodi di Silvia a tal punto che la Biasoni dimenticò di scendere alla fermata di Godo, e finì poi per perdersi nell'hinterland ravennate.
Chi non è di Ravenna deve sapere che è una città in cui è facile entrare, ma quasi impossibile uscire, a causa di un ginepraio di tangenziali, autostrade, antiche vie romane, paludi e sobborghi che dai tempi dell'imperatore Onorio l'avevano resa una sorta di labirinto in cui anche i barbari più temibili, come Teodorico, finivano per rimanere intrappolati e nel contempo ammaliati.
Quando infine la vecchia Lucia riuscì a tornare a Casemurate, grazie a una cigolante corriera del Dismano, la prima cosa che fece fu di telefonare a tutti i suoi conoscenti per raccontare ogni dettaglio dell'accaduto, non senza preconizzare, per la giovane Silvia Ricci-Orsini, un futuro a tal punto luminoso che <<presto la vedremo in televisione>>
La notizia fece il giro della Contea, passò di bocca in bocca in tutto il Feudo, fino ad arrivare al suo nucleo operativo, la Villa.
Fu l'anziana maestra Clara Ricci, madre di Ettore, a comunicare tutto alla governante della Villa, la signora Ida Braghiri, la quale si era fatta verde in faccia dall'invidia, arrivando persino a dire che, comunque, <<il mio Massimo non è da meno!>> riferendosi all'adorato figlio maschio.
La conversazione fu udita dalla vecchia Contessa Madre Emilia, che per l'occasione si scolò una bottiglia di Nero d'Avola del 1860, un vino talmente pesante che avrebbe corroso migliaia di stomaci e fegati meno robusti e allenati del suo.
Emilia riferì quanto udito alla figlia Diana, la quale telefonò subito al collegio dove alloggiava Silvia.
L'unico che paradossalmente non si rallegrò in alcun modo della cosa fu Ettore Ricci:
<<Mia figlia va bene a scuola? E' il minimo, con tutto quello che pago per mantenerla!>>
Al momento in cui Diana chiamò, Silvia non era ancora tornata dalla biblioteca.
Quando ritornò, le suore riferirono che aveva ricevuto una telefonata da casa.
Considerata la rarità dell'evento, Silvia richiamò subito.
Purtroppo rispose il padre:
<<Qui Ettore Ricci, chi parla?>>
Il tono era ancora più burbero del solito.
<<Ciao babbo, come stai?>>
E lui:
<<Brutte notizie! Non sono ancora schiattato!>>
Era una delle sue risposte più frequenti, ma Silvia non riusciva ad abituarsi:
<<Dai, non fare così. E comunque ho telefonato solo perché mi avete cercato voi>>
E lui, ironico:
<<Ho avuto onori più grandi, ai miei tempi>>
Silvia non poté fare a meno di sorridere:
<<Va be', immagino che non sia stato tu a chiamarmi, nel qual caso sarebbe davvero un evento storico>>
Ettore in fondo si divertiva a punzecchiare le figlie:
<<No, ho da lavorare io! Ci dovrà pur essere qualcuno che tira avanti la baracca mentre tutti gli altri oziano! Ovviamente ti ha chiamato tua madre>>
Ettore e Diana non si parlavano più dai tempi della morte di Federico Traversari.
<<Me la puoi passare, allora?>>
A quel punto avvenne una cosa piuttosto insolita, dovuta ai dissapori tra i coniugi Ricci-Orsini
Marito e moglie, non si rivolgendosi più la parola, comunicavano attraverso il cane.
Ettore, a voce altissima, si rivolse al suo fido levriero:
<<Bill, va' a dire alla tua padrona che sua figlia vuole parlare con lei>>
Silvia sospirò:
<<Babbo, non ricominciare con questa storia del cane>>
Lui sbuffò:
<<Quel cane è più intelligente di tutti voi Orsini messi insieme! Ti saluto e mi raccomando, non ti montare la testa!>>
<<Ma di cosa stai parlando?>>
Si sentì il cane abbaiare e poi silenzio per un po':
<<Pronto Silvia, sono la mamma>>
<<Ciao mamma, mi avevi chiamato tu?>>
<<Sì, volevo dirti che qui a Casemurate tutti parlano di te. La Ottobrini ha incontrato in treno la Lucia Biasoni>> e le raccontò tutto quello che si erano dette.
Silvia si sentiva investita di una responsabilità eccessiva:
<<Uhm, non vorrei che si creassero aspettative troppo alte sul mio conto. Il babbo mi è sembrato più sarcastico del solito>>
Diana rise:
<<Lo sai com'è fatto, ma sono sicura che in cuor suo è orgoglioso di te. Siamo tutti orgogliosi. Di questi tempi abbiamo avuto così pochi motivi per rallegrarci. La nonna Emilia ha festeggiato ubriacandosi e la nonna Clara ha girato in bicicletta fino a Cesena per spargere la notizia>>
Silvia si sentì sprofondare:
<<Immagino che Ida Braghiri si stia mangiando il fegato e stia ricordando a tutti quanto è bravo il suo Massimo>>
Diana confermò:
<<Certe cose non cambieranno mai>>
Silvia aveva una certa soggezione per la Governante e la sua famiglia:
<<Ida Braghiri ci seppellirà tutti, prima o poi. C'è gente che vive solo per assistere alle disgrazie degli altri>>
Diana abbassò la voce:
<<Ne ha già viste abbastanza, di nostre disgrazie, la "cara" Ida.
Dovremo impegnarci molto per cercare di non darle troppe soddisfazioni>>
E si impegnarono notevolmente, al massimo grado, ma come sta scritto nella lapide in mezzo al deserto di El Alamein: "Mancò la fortuna, non il valore".
L' "opaca trafila delle cose", scriveva Sereni, e prima di lui Montale, il suo maestro, che parlava della vita come "uno scialo di triti fatti, vano più che crudele".
Eppure è proprio in questi periodi di apparente bonaccia in cui si gettano le basi del futuro, nel bene e nel male.
I fiori del male crescono più rapidamente, ma di tanto in tanto, in qualche orticello protetto dalle intemperie, ecco nascere i germogli di ciò che, negli anni bui, era stata la semina dell'avvenire.
E i risultati si videro per caso, senza nessuna premeditazione, e diedero avvio ad una serie di eventi destinata a influenzare le sorti della Contea.
Questo fatto avvenne verso la fine dei sonnolenti anni 50 e riguardò la diciassettenne Silvia Ricci-Orsini, la figlia "di mezzo" (ossia la secondogenita delle tre) di Ettore Ricci e Diana Orsini, Contessa di Casemurate.
La sua insegnante di latino e greco al Liceo Classico di Forlì, la professoressa Veronica Ottobrini, aveva incontrato per puro caso, in treno, una "personalità" del mondo casemuratense e cioè una certa Lucia Biasoni, titolare del negozio di alimentari, e nota, oltre che per essere una vera e propria centrale del pettegolezzo, anche per il fatto di sfoggiare dei folti baffi castani.
La signora Biasoni apparteneva alla temibile categoria di coloro che in treno attaccano bottone con tutti, in particolare con chiunque si trovi di fianco o davanti a loro.
In quel memorabile viaggio sull'Accelerato delle 15.25 della Romagna Centrale, lungo la paludosa tratta Lugo-Bagnacavallo, la prof. Ottobrini fu vittima della logorroica attenzione della signora Biasoni.
Quando, in quel fiume di parole, in mezzo a quella cacofonia di suoni, la Ottobrini distinse il nome di Casemurate, le venne subito in mente la sua studentessa preferita e non appena fece il nome di Silvia Ricci-Orsini, fu come se fossero state aperte le cateratte del Nilo.
La Biasoni raccontò nei minimi particolari le imprese degli Orsini di Casemurate dalla fondazione della Contea fino al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
La Ottobrini, impressionata da quelle vicende che sembravano appartenere ai tempi dei Borgia, ebbe modo di tessere le lodi di Silvia a tal punto che la Biasoni dimenticò di scendere alla fermata di Godo, e finì poi per perdersi nell'hinterland ravennate.
Chi non è di Ravenna deve sapere che è una città in cui è facile entrare, ma quasi impossibile uscire, a causa di un ginepraio di tangenziali, autostrade, antiche vie romane, paludi e sobborghi che dai tempi dell'imperatore Onorio l'avevano resa una sorta di labirinto in cui anche i barbari più temibili, come Teodorico, finivano per rimanere intrappolati e nel contempo ammaliati.
Quando infine la vecchia Lucia riuscì a tornare a Casemurate, grazie a una cigolante corriera del Dismano, la prima cosa che fece fu di telefonare a tutti i suoi conoscenti per raccontare ogni dettaglio dell'accaduto, non senza preconizzare, per la giovane Silvia Ricci-Orsini, un futuro a tal punto luminoso che <<presto la vedremo in televisione>>
La notizia fece il giro della Contea, passò di bocca in bocca in tutto il Feudo, fino ad arrivare al suo nucleo operativo, la Villa.
Fu l'anziana maestra Clara Ricci, madre di Ettore, a comunicare tutto alla governante della Villa, la signora Ida Braghiri, la quale si era fatta verde in faccia dall'invidia, arrivando persino a dire che, comunque, <<il mio Massimo non è da meno!>> riferendosi all'adorato figlio maschio.
La conversazione fu udita dalla vecchia Contessa Madre Emilia, che per l'occasione si scolò una bottiglia di Nero d'Avola del 1860, un vino talmente pesante che avrebbe corroso migliaia di stomaci e fegati meno robusti e allenati del suo.
Emilia riferì quanto udito alla figlia Diana, la quale telefonò subito al collegio dove alloggiava Silvia.
L'unico che paradossalmente non si rallegrò in alcun modo della cosa fu Ettore Ricci:
<<Mia figlia va bene a scuola? E' il minimo, con tutto quello che pago per mantenerla!>>
Al momento in cui Diana chiamò, Silvia non era ancora tornata dalla biblioteca.
Quando ritornò, le suore riferirono che aveva ricevuto una telefonata da casa.
Considerata la rarità dell'evento, Silvia richiamò subito.
Purtroppo rispose il padre:
<<Qui Ettore Ricci, chi parla?>>
Il tono era ancora più burbero del solito.
<<Ciao babbo, come stai?>>
E lui:
<<Brutte notizie! Non sono ancora schiattato!>>
Era una delle sue risposte più frequenti, ma Silvia non riusciva ad abituarsi:
<<Dai, non fare così. E comunque ho telefonato solo perché mi avete cercato voi>>
E lui, ironico:
<<Ho avuto onori più grandi, ai miei tempi>>
Silvia non poté fare a meno di sorridere:
<<Va be', immagino che non sia stato tu a chiamarmi, nel qual caso sarebbe davvero un evento storico>>
Ettore in fondo si divertiva a punzecchiare le figlie:
<<No, ho da lavorare io! Ci dovrà pur essere qualcuno che tira avanti la baracca mentre tutti gli altri oziano! Ovviamente ti ha chiamato tua madre>>
Ettore e Diana non si parlavano più dai tempi della morte di Federico Traversari.
<<Me la puoi passare, allora?>>
A quel punto avvenne una cosa piuttosto insolita, dovuta ai dissapori tra i coniugi Ricci-Orsini
Marito e moglie, non si rivolgendosi più la parola, comunicavano attraverso il cane.
Ettore, a voce altissima, si rivolse al suo fido levriero:
<<Bill, va' a dire alla tua padrona che sua figlia vuole parlare con lei>>
Silvia sospirò:
<<Babbo, non ricominciare con questa storia del cane>>
Lui sbuffò:
<<Quel cane è più intelligente di tutti voi Orsini messi insieme! Ti saluto e mi raccomando, non ti montare la testa!>>
<<Ma di cosa stai parlando?>>
Si sentì il cane abbaiare e poi silenzio per un po':
<<Pronto Silvia, sono la mamma>>
<<Ciao mamma, mi avevi chiamato tu?>>
<<Sì, volevo dirti che qui a Casemurate tutti parlano di te. La Ottobrini ha incontrato in treno la Lucia Biasoni>> e le raccontò tutto quello che si erano dette.
Silvia si sentiva investita di una responsabilità eccessiva:
<<Uhm, non vorrei che si creassero aspettative troppo alte sul mio conto. Il babbo mi è sembrato più sarcastico del solito>>
Diana rise:
<<Lo sai com'è fatto, ma sono sicura che in cuor suo è orgoglioso di te. Siamo tutti orgogliosi. Di questi tempi abbiamo avuto così pochi motivi per rallegrarci. La nonna Emilia ha festeggiato ubriacandosi e la nonna Clara ha girato in bicicletta fino a Cesena per spargere la notizia>>
Silvia si sentì sprofondare:
<<Immagino che Ida Braghiri si stia mangiando il fegato e stia ricordando a tutti quanto è bravo il suo Massimo>>
Diana confermò:
<<Certe cose non cambieranno mai>>
Silvia aveva una certa soggezione per la Governante e la sua famiglia:
<<Ida Braghiri ci seppellirà tutti, prima o poi. C'è gente che vive solo per assistere alle disgrazie degli altri>>
Diana abbassò la voce:
<<Ne ha già viste abbastanza, di nostre disgrazie, la "cara" Ida.
Dovremo impegnarci molto per cercare di non darle troppe soddisfazioni>>
E si impegnarono notevolmente, al massimo grado, ma come sta scritto nella lapide in mezzo al deserto di El Alamein: "Mancò la fortuna, non il valore".
mercoledì 1 gennaio 2020
Vite quasi parallele. Capitolo 42. Scene da un matrimonio
Come previsto, anche il caso della scomparsa di Federico Traversari fu insabbiato a dovere dall'ispettore Tartaglia, dal giudice istruttore De Gubernatis e dal senatore Baroni, i potenti cognati di Ettore Ricci, mentre la signorina De Toschi cercava, dal suo salottino, di minimizzare l'accaduto.
Ma questa volta Ettore capì subito di trovarsi in un mare di guai:
<<C'è qualcuno che vuol farsi interprete dei miei desideri, andando troppo oltre. Certo, io odiavo Federico, per forza, era l'amante di mia moglie, ma siccome avevano fatto tutto con grande discrezione, non desideravo certo la sua morte, anche perché io non sono a mia volta un marito esemplare, e Diana ha avuto il buon senso di non fare mai storie per i miei tradimenti.
Ma adesso la gente è convinta che sia stato io a far uccidere Traversari, e credo che ne siano convinti anche molti miei sostenitori. Insomma è uno scandalo, l'ennesimo scandalo, ed io non so nemmeno a chi dare la colpa>>
Il problema è che il colpevole era proprio colui col quale Ettore si stava confidando, il suo apparentemente fedelissimo braccio destro Michele Braghiri, che cercava in segreto di spodestarlo dalla guida del clan Ricci-Orsini, con una strategia mirata a indebolire sia la potenza dei Ricci che la rispettabilità dei Conti Orsini di Casemurate.
Lo scandalo che si era abbattuto sulla moglie di Ettore, la contessa Diana Orsini, era stato devastante, ma era ben poca cosa rispetto al suo dolore.
Un nuovo lutto si era abbattuto su di lei: dopo aver perso la sorella minore, il fratello e il padre, ora aveva perduto l'uomo che amava, e si era ritirata ancora una volta nella sua stanza "di vecchie pietre" a danzare con i suoi fantasmi.
Questa volta il colpo era stato ancora più duro e a farne le spese fu, come era inevitabile, ciò che rimaneva del suo matrimonio con Ettore.
Quando lui si presentò nella stanza di Diana dopo la morte di Federico, capì subito che, almeno nella sostanza, si era giunti alla fine.
Diana lo aveva scrutato in silenzio per un po', poi aveva sentenziato:
<<E' difficile credere che stavolta tu non c'entri per niente. E io non so nemmeno cosa sia meglio credere, perché se veramente non sono stati i tuoi scagnozzi a uccidere Federico dietro tuo ordine, allora vuol dire che tu hai perso il controllo della situazione e che quindi la nostra stessa famiglia è vulnerabile. Ti sei circondato di collaboratori inaffidabili, primi tra tutti i coniugi Braghiri: lui è un invidioso viscido verme e lei una strega spiona e traditrice. Fosse per me li avrei cacciati da un pezzo. Ma tu, nonostante tutte le arie da uomo astuto che ti dai, alla fine sei solo un ingenuo>>
Ettore non aveva mai dubitato della fedeltà dei coniugi Braghiri:
<<Non vedo perché Michele e Ida dovrebbero tradirci! Tutto quello che sono lo devono a noi, e se noi cadiamo, loro cadrebbero con noi!>>
Diana scosse il capo:
<<Ci scommetto la testa che Michele ha alterato la contabilità in modo che, se dovessero esserci delle contestazioni, tu risulteresti colpevole e lui addirittura vittima degna di risarcimento. Sono capaci di tutto. Il loro obiettivo è di far sposare la nostra Margherita con quello sbruffone di loro figlio Massimo, e te lo dico adesso: io non lo permetterò mai! Dovranno passare sul mio cadavere! Margherita, Silvia e Isabella saranno libere di sposare chiunque tranne Massimo Braghiri>>
Ettore sbuffò:
<<Sposeranno chi dico io!>>
A quel punto Diana ebbe una crisi di nervi destinata a passare alla storia.
Si gettò addosso al marito e lo prese a calci, pugni e unghiate.
<<Sposeranno chi vogliono loro! Non ci saranno più matrimoni combinati come il nostro, in questa famiglia! Mai più! Mai! Mai!>>
Quando la governante Ida Braghiri entrò nella stanza, Diana prese un vaso e glielo tirò in testa:
<<Strega! Lo so che tu e tuoi marito ci state ammazzando uno alla volta. Ma ti giuro che non vi prenderete niente: né la mia casa, né la mai famiglia, né la mia Contea. Non ti voglio più tra i piedi, lurida assassina!>>
La Braghiri batté in ritirata.
Ettore Ricci approfittò di quel diversivo per darsela a gambe.
Da quel giorno tutto cambiò.
Diana si vestì a lutto, per onorare la scomparsa dell'amante, e non uscì quasi mai dalla sua stanza, per lunghissimo tempo.
Assunse una cameriera personale del tutto indipendente da Ida Braghiri, che estromise dai piani superiori della Villa.
Ma soprattutto smise di parlare a Ettore, e ammise l'ingresso alla sua stanza soltanto alla cameriera, alle figlie e alla contessa madre Emilia.
Lassù nelle stanze dove erano vissuti gli antichi conti di Casemurate, Diana rimase, ancora una volta, a danzare con i suoi fantasmi, quelli che aveva perduto e quelli che aveva trovato, e quelli che l'avevano amata di più.
Quelli che se se n'erano andati da così tanto tempo che lei non riusciva nemmeno a ricordarne il nome, facevano danzare la sua ombra sulle vecchie pietre umide, e le scrollavano di dosso tutta la sofferenza e il tormento.
E lei non voleva più uscire da lì, lei non voleva più andarsene da lì.
E i fantasmi danzavano per tutto il giorno e la notte, dall'inverno all'estate e dall'estate all'inverno, fino a che le mura stesse della sua casa creparono e si riempirono di muschio.
E lei non voleva uscire, lei non voleva andarsene.
Tutto il suo riscatto dipendeva dalle sue figlie e dalle loro scelte.
Loro avrebbero trovato il coraggio e i mezzi per fare giustizia.
Diana sapeva che avrebbe dovuto attendere che i suoi nemici facessero un passo falso : solo allora avrebbe potuto prendersi la sua rivincita.
Sapeva inoltre che l'attesa sarebbe durata a lungo, e per anni ella attese, e attese, e attese...
Nella vita bisogna saper attendere.
Ma questa volta Ettore capì subito di trovarsi in un mare di guai:
<<C'è qualcuno che vuol farsi interprete dei miei desideri, andando troppo oltre. Certo, io odiavo Federico, per forza, era l'amante di mia moglie, ma siccome avevano fatto tutto con grande discrezione, non desideravo certo la sua morte, anche perché io non sono a mia volta un marito esemplare, e Diana ha avuto il buon senso di non fare mai storie per i miei tradimenti.
Ma adesso la gente è convinta che sia stato io a far uccidere Traversari, e credo che ne siano convinti anche molti miei sostenitori. Insomma è uno scandalo, l'ennesimo scandalo, ed io non so nemmeno a chi dare la colpa>>
Il problema è che il colpevole era proprio colui col quale Ettore si stava confidando, il suo apparentemente fedelissimo braccio destro Michele Braghiri, che cercava in segreto di spodestarlo dalla guida del clan Ricci-Orsini, con una strategia mirata a indebolire sia la potenza dei Ricci che la rispettabilità dei Conti Orsini di Casemurate.
Lo scandalo che si era abbattuto sulla moglie di Ettore, la contessa Diana Orsini, era stato devastante, ma era ben poca cosa rispetto al suo dolore.
Un nuovo lutto si era abbattuto su di lei: dopo aver perso la sorella minore, il fratello e il padre, ora aveva perduto l'uomo che amava, e si era ritirata ancora una volta nella sua stanza "di vecchie pietre" a danzare con i suoi fantasmi.
Questa volta il colpo era stato ancora più duro e a farne le spese fu, come era inevitabile, ciò che rimaneva del suo matrimonio con Ettore.
Quando lui si presentò nella stanza di Diana dopo la morte di Federico, capì subito che, almeno nella sostanza, si era giunti alla fine.
Diana lo aveva scrutato in silenzio per un po', poi aveva sentenziato:
<<E' difficile credere che stavolta tu non c'entri per niente. E io non so nemmeno cosa sia meglio credere, perché se veramente non sono stati i tuoi scagnozzi a uccidere Federico dietro tuo ordine, allora vuol dire che tu hai perso il controllo della situazione e che quindi la nostra stessa famiglia è vulnerabile. Ti sei circondato di collaboratori inaffidabili, primi tra tutti i coniugi Braghiri: lui è un invidioso viscido verme e lei una strega spiona e traditrice. Fosse per me li avrei cacciati da un pezzo. Ma tu, nonostante tutte le arie da uomo astuto che ti dai, alla fine sei solo un ingenuo>>
Ettore non aveva mai dubitato della fedeltà dei coniugi Braghiri:
<<Non vedo perché Michele e Ida dovrebbero tradirci! Tutto quello che sono lo devono a noi, e se noi cadiamo, loro cadrebbero con noi!>>
Diana scosse il capo:
<<Ci scommetto la testa che Michele ha alterato la contabilità in modo che, se dovessero esserci delle contestazioni, tu risulteresti colpevole e lui addirittura vittima degna di risarcimento. Sono capaci di tutto. Il loro obiettivo è di far sposare la nostra Margherita con quello sbruffone di loro figlio Massimo, e te lo dico adesso: io non lo permetterò mai! Dovranno passare sul mio cadavere! Margherita, Silvia e Isabella saranno libere di sposare chiunque tranne Massimo Braghiri>>
Ettore sbuffò:
<<Sposeranno chi dico io!>>
A quel punto Diana ebbe una crisi di nervi destinata a passare alla storia.
Si gettò addosso al marito e lo prese a calci, pugni e unghiate.
<<Sposeranno chi vogliono loro! Non ci saranno più matrimoni combinati come il nostro, in questa famiglia! Mai più! Mai! Mai!>>
Quando la governante Ida Braghiri entrò nella stanza, Diana prese un vaso e glielo tirò in testa:
<<Strega! Lo so che tu e tuoi marito ci state ammazzando uno alla volta. Ma ti giuro che non vi prenderete niente: né la mia casa, né la mai famiglia, né la mia Contea. Non ti voglio più tra i piedi, lurida assassina!>>
La Braghiri batté in ritirata.
Ettore Ricci approfittò di quel diversivo per darsela a gambe.
Da quel giorno tutto cambiò.
Diana si vestì a lutto, per onorare la scomparsa dell'amante, e non uscì quasi mai dalla sua stanza, per lunghissimo tempo.
Assunse una cameriera personale del tutto indipendente da Ida Braghiri, che estromise dai piani superiori della Villa.
Ma soprattutto smise di parlare a Ettore, e ammise l'ingresso alla sua stanza soltanto alla cameriera, alle figlie e alla contessa madre Emilia.
Lassù nelle stanze dove erano vissuti gli antichi conti di Casemurate, Diana rimase, ancora una volta, a danzare con i suoi fantasmi, quelli che aveva perduto e quelli che aveva trovato, e quelli che l'avevano amata di più.
Quelli che se se n'erano andati da così tanto tempo che lei non riusciva nemmeno a ricordarne il nome, facevano danzare la sua ombra sulle vecchie pietre umide, e le scrollavano di dosso tutta la sofferenza e il tormento.
E lei non voleva più uscire da lì, lei non voleva più andarsene da lì.
E i fantasmi danzavano per tutto il giorno e la notte, dall'inverno all'estate e dall'estate all'inverno, fino a che le mura stesse della sua casa creparono e si riempirono di muschio.
E lei non voleva uscire, lei non voleva andarsene.
Tutto il suo riscatto dipendeva dalle sue figlie e dalle loro scelte.
Loro avrebbero trovato il coraggio e i mezzi per fare giustizia.
Diana sapeva che avrebbe dovuto attendere che i suoi nemici facessero un passo falso : solo allora avrebbe potuto prendersi la sua rivincita.
Sapeva inoltre che l'attesa sarebbe durata a lungo, e per anni ella attese, e attese, e attese...
Nella vita bisogna saper attendere.
High in the halls of the kings who are gone
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones who had loved her the most
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones who had loved her the most
The ones who'd been gone for so very long
She couldn't remember their names
They spun her around on the damp old stones
Spun away all her sorrow and pain
She couldn't remember their names
They spun her around on the damp old stones
Spun away all her sorrow and pain
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
They danced through the day
And into the night through the snow that swept through the hall
From winter to summer then winter again
'Til the walls did crumble and fall
And into the night through the snow that swept through the hall
From winter to summer then winter again
'Til the walls did crumble and fall
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
And she never wanted to leave, never wanted to leave
Never wanted to leave, never wanted to leave
High in the halls of the kings who are gone
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones
Who had loved her the most.
Jenny would dance with her ghosts
The ones she had lost and the ones she had found
And the ones
Who had loved her the most.
lunedì 30 dicembre 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 41. Amore e morte
Diana si recava in città nei giorni di mercato. Come scusa non era un gran che, ma l'importante era salvare le apparenze.
L'autista la lasciava all'inizio del Corso.
Federico, il suo amante, la aspettava all'Hotel de Ville.
La cosa andava avanti ormai da tempo, ma l'entusiasmo era sempre grande, come se fosse la prima volta.
Nella vita di Diana, in cui tutto era arrivato tardi: l'amore, la felicità, ogni dono era maggiormente apprezzato e nulla era dato per certo.
Quando erano insieme, lei e Federico perdevano la cognizione del tempo.
Poteva anche crollare il mondo, ma loro non se ne sarebbero accorti.
L'amore in età adulta ha dei vantaggi: l'esperienza, la capacità di concentrarsi sul presente e la consapevolezza che ogni singolo istante va vissuto in sé e per sé, al di fuori da qualsiasi progettualità, perché la maturità è il momento in cui tutto è al suo apice.
Erano entrambi sposati, vincolati a matrimoni di convenienza, che erano stati scelti dalle rispettive famiglie, quando erano giovani.
In una vita che era stata come una tempesta con rari sprazzi di sole, Diana aveva imparato a trarre da quel breve sole la massima gioia possibile.
Certo sapeva che ci sarebbe stata una fine, che prima o poi qualcosa o qualcuno si sarebbe messo nel mezzo, come sempre succede quando un amore è vissuto in clandestinità, ma preferiva non pensarci, perché, quando si ama, il presente è tutto il tempo che esiste.
L'appagamento che le derivava dal tempo trascorso insieme all'uomo che amava, rendeva Diana pienamente tranquilla e lucida, e quindi anche attenta e discreta nel modo di gestire quella situazione.
Non era gelosa, non era possessiva, non era suscettibile.
E del resto non lo si è mai, quando si è felici.
Per tutto il tempo della loro storia, Federico e Diana non parlarono mai di se stessi in termini assoluti, con espressioni logore e iperboliche come "anima gemella" o "unico vero amore". Sapevano entrambi che certe cose si possono sapere soltanto alla fine della vita.
E forse anche questa capacità di non aver bisogno di parole e di etichette per essere felici insieme, derivava dal fatto di essere persone adulte.
Solo gli adulti riescono a tenere insieme amore e saggezza, perché hanno imparato a cogliere le occasioni quando si presentano, e a non rovinarle per futili motivi.
In modo particolare riescono ad essere saggi in amore coloro che in gioventù hanno subito un grave torto. Diana lo sapeva bene, e da questo traeva forza.
Era consapevole del fatto che le persone danneggiate hanno un vantaggio: sanno di poter sopravvivere.
Ci sarebbe stato, dopo, alla fine di tutto, un tempo per le riflessioni e per la rielaborazione del ricordo.
<<Prima si vive, poi si filosofeggia>> era uno dei proverbi preferiti di Diana e uno dei consigli che, in tarda età, avrebbe espresso ai nipoti, soprattutto a quelli che sembravano non imparare mai quella lezione.
Ma vivere significava prima di tutto sopravvivere.
E Federico Traversari non apprese mai quell'arte.
Per quanto fosse stato discreto e prudente, non lo fu abbastanza da sfuggire alle trame della famiglia Braghiri, che per l'ennesima volta decise di colpire una persona cara a Diana Orsini per far ricadere i sospetti sul marito di lei, Ettore Ricci.
Quest'ultimo, pur sapendo che Diana lo tradiva, aveva comunque tollerato la cosa, perché era avvenuta con estrema discrezione e in paese nessuno se n'era accorto.
Se invece fosse accaduto qualcosa di brutto a Federico Traversari, allora sì che un nuovo scandalo si sarebbe abbattuto sul clan Ricci-Orsini, ed era proprio questo che Ettore voleva evitare.
Ma il suo braccio destro Michele Braghiri, roso dall'invidia e dal desiderio di diventare il "numero uno" all'interno della Contea di Casemurate, decise di agire con i suoi consueti metodi, ossia mascherando la morte per un "tragico incidente".
Ancora una volta agì da solo, per assicurarsi di non lasciare tracce.
Bisognava che l'incidente avvenisse nella zona di giurisdizione dei cognati di Ettore, e cioè l'ispettore Onofrio Tartaglia e il giudice istruttore Guglielmo De Gubernatis.
Questa volta però sarebbe stato troppo rischioso manomettere un mezzo di trasporto.
Bisognava che Traversari fosse investito, nel luogo e nel momento opportuno.
Braghiri si procurò un'auto destinata alla demolizione, in un "cimitero" delle macchine che si trovava nelle vicinanze di un grande orto dove in gioventù aveva lavorato come semplice bracciante.
Poi si appostò nel punto in cui la via Ravegnana entrava nella provincia di Forlì, dalle parti di Borgo Sisa, e lì attese il passaggio dell'auto di Federico.
Michele conosceva bene quella zona, avendo trascorso l'infanzia a Durazzanino, un paese nelle vicinanze, che cadeva già nella provincia di Ravenna.
Non c'era ancora molto traffico all'epoca, specie a quell'ora del giorno.
Erano le quattro del pomeriggio, l'ora degli adulteri, e anche degli omicidi.
Quando finalmente la macchina di Traversari si avvicinò al punto in cui la via Ortolani, dove era appostato Braghiri, si immetteva nella via Ravegnana, in aperta campagna, la trappola mortale scattò.
Con velocità sostenuta, Michele Braghiri speronò Federico Traversari, e continuò a spingere sull'acceleratore finché l'automobile di quest'ultimo non precipitò nel fiume Ronco.
Poi Braghiri, illeso grazie al casco e alle altre misure protettive che aveva indossato, uscì dall'auto in fretta e furia, e le lanciò uno zolfanello per darle fuoco.
Infine si diede alla fuga, contando sull'anonimato che gli dava il casco.
A quell'ora tutti i contadini della zona erano ancora a dormire per la "siesta" pomeridiana.
Ancora una volta, Braghiri riuscì a farla franca, dimostrando che, a questo mondo, il male è la regola, non l'eccezione.
L'autista la lasciava all'inizio del Corso.
Federico, il suo amante, la aspettava all'Hotel de Ville.
La cosa andava avanti ormai da tempo, ma l'entusiasmo era sempre grande, come se fosse la prima volta.
Nella vita di Diana, in cui tutto era arrivato tardi: l'amore, la felicità, ogni dono era maggiormente apprezzato e nulla era dato per certo.
Quando erano insieme, lei e Federico perdevano la cognizione del tempo.
Poteva anche crollare il mondo, ma loro non se ne sarebbero accorti.
L'amore in età adulta ha dei vantaggi: l'esperienza, la capacità di concentrarsi sul presente e la consapevolezza che ogni singolo istante va vissuto in sé e per sé, al di fuori da qualsiasi progettualità, perché la maturità è il momento in cui tutto è al suo apice.
Erano entrambi sposati, vincolati a matrimoni di convenienza, che erano stati scelti dalle rispettive famiglie, quando erano giovani.
In una vita che era stata come una tempesta con rari sprazzi di sole, Diana aveva imparato a trarre da quel breve sole la massima gioia possibile.
Certo sapeva che ci sarebbe stata una fine, che prima o poi qualcosa o qualcuno si sarebbe messo nel mezzo, come sempre succede quando un amore è vissuto in clandestinità, ma preferiva non pensarci, perché, quando si ama, il presente è tutto il tempo che esiste.
L'appagamento che le derivava dal tempo trascorso insieme all'uomo che amava, rendeva Diana pienamente tranquilla e lucida, e quindi anche attenta e discreta nel modo di gestire quella situazione.
Non era gelosa, non era possessiva, non era suscettibile.
E del resto non lo si è mai, quando si è felici.
Per tutto il tempo della loro storia, Federico e Diana non parlarono mai di se stessi in termini assoluti, con espressioni logore e iperboliche come "anima gemella" o "unico vero amore". Sapevano entrambi che certe cose si possono sapere soltanto alla fine della vita.
E forse anche questa capacità di non aver bisogno di parole e di etichette per essere felici insieme, derivava dal fatto di essere persone adulte.
Solo gli adulti riescono a tenere insieme amore e saggezza, perché hanno imparato a cogliere le occasioni quando si presentano, e a non rovinarle per futili motivi.
In modo particolare riescono ad essere saggi in amore coloro che in gioventù hanno subito un grave torto. Diana lo sapeva bene, e da questo traeva forza.
Era consapevole del fatto che le persone danneggiate hanno un vantaggio: sanno di poter sopravvivere.
Ci sarebbe stato, dopo, alla fine di tutto, un tempo per le riflessioni e per la rielaborazione del ricordo.
<<Prima si vive, poi si filosofeggia>> era uno dei proverbi preferiti di Diana e uno dei consigli che, in tarda età, avrebbe espresso ai nipoti, soprattutto a quelli che sembravano non imparare mai quella lezione.
Ma vivere significava prima di tutto sopravvivere.
E Federico Traversari non apprese mai quell'arte.
Per quanto fosse stato discreto e prudente, non lo fu abbastanza da sfuggire alle trame della famiglia Braghiri, che per l'ennesima volta decise di colpire una persona cara a Diana Orsini per far ricadere i sospetti sul marito di lei, Ettore Ricci.
Quest'ultimo, pur sapendo che Diana lo tradiva, aveva comunque tollerato la cosa, perché era avvenuta con estrema discrezione e in paese nessuno se n'era accorto.
Se invece fosse accaduto qualcosa di brutto a Federico Traversari, allora sì che un nuovo scandalo si sarebbe abbattuto sul clan Ricci-Orsini, ed era proprio questo che Ettore voleva evitare.
Ma il suo braccio destro Michele Braghiri, roso dall'invidia e dal desiderio di diventare il "numero uno" all'interno della Contea di Casemurate, decise di agire con i suoi consueti metodi, ossia mascherando la morte per un "tragico incidente".
Ancora una volta agì da solo, per assicurarsi di non lasciare tracce.
Bisognava che l'incidente avvenisse nella zona di giurisdizione dei cognati di Ettore, e cioè l'ispettore Onofrio Tartaglia e il giudice istruttore Guglielmo De Gubernatis.
Questa volta però sarebbe stato troppo rischioso manomettere un mezzo di trasporto.
Bisognava che Traversari fosse investito, nel luogo e nel momento opportuno.
Braghiri si procurò un'auto destinata alla demolizione, in un "cimitero" delle macchine che si trovava nelle vicinanze di un grande orto dove in gioventù aveva lavorato come semplice bracciante.
Poi si appostò nel punto in cui la via Ravegnana entrava nella provincia di Forlì, dalle parti di Borgo Sisa, e lì attese il passaggio dell'auto di Federico.
Michele conosceva bene quella zona, avendo trascorso l'infanzia a Durazzanino, un paese nelle vicinanze, che cadeva già nella provincia di Ravenna.
Non c'era ancora molto traffico all'epoca, specie a quell'ora del giorno.
Erano le quattro del pomeriggio, l'ora degli adulteri, e anche degli omicidi.
Quando finalmente la macchina di Traversari si avvicinò al punto in cui la via Ortolani, dove era appostato Braghiri, si immetteva nella via Ravegnana, in aperta campagna, la trappola mortale scattò.
Con velocità sostenuta, Michele Braghiri speronò Federico Traversari, e continuò a spingere sull'acceleratore finché l'automobile di quest'ultimo non precipitò nel fiume Ronco.
Poi Braghiri, illeso grazie al casco e alle altre misure protettive che aveva indossato, uscì dall'auto in fretta e furia, e le lanciò uno zolfanello per darle fuoco.
Infine si diede alla fuga, contando sull'anonimato che gli dava il casco.
A quell'ora tutti i contadini della zona erano ancora a dormire per la "siesta" pomeridiana.
Ancora una volta, Braghiri riuscì a farla franca, dimostrando che, a questo mondo, il male è la regola, non l'eccezione.
domenica 29 dicembre 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 40. Francesco Monterovere fugge dal collegio
Nel 1956, Francesco Monterovere aveva diciassette anni ed una sola granitica certezza: non intendeva rimanere un giorno di più nel rigido collegio dei Salesiani.
La decisione incriminata di evadere dalle recinzioni di quello che per lui era un lager fu presa in seguito ad un susseguirsi di eventi.
In quel periodo tutta la sua famiglia era impegnata a festeggiare l'ottantacinquesimo compleanno di sua nonna Eleonora Bonaccorsi, vedova Monterovere.
Era stata una grande festa di famiglia, a cui tutti i Monterovere, i Bonaccorsi e i Bassi-Pallai avevano partecipato, con abbondanti scorpacciate e libagioni.
Francesco aveva ottenuto il permesso di unirsi alla festa.
Quando era arrivato, prima degli altri invitati, sua zia Anita, a tradimento, gli aveva scattato una foto in cui il ragazzo appariva cupo, tenebroso e ribelle.
La serata era stata pesante. Francesco aveva rivisto tutti gli altri zii, ma soprattutto i suoi genitori Romano e Giulia, sua sorella Enrichetta, che lavorava già come segretaria dell'Azienda Fratelli Monterovere, e suo fratello Lorenzo, che frequentava il ginnasio.
E qui incominciò la maturazione dell'idea della fuga:
<<Se Lorenzo frequenta il Ginnasio da casa, allora anch'io voglio frequentare l'ultimo anno di Liceo Classico da uomo libero>> aveva detto ai genitori e gli zii, suscitando l'ilarità generale.
Nessuno lo aveva preso sul serio.
Alla sera aveva dormito dalla nonna e contava di andare con i genitori a parlare ai Salesiani della sua decisione.
Purtroppo, per una singolare applicazione della Legge di Murphy, il giorno dopo accadde un'imprevista tragedia: suo zio Ferdinando, che aveva mangiato e bevuto con particolare voracità, si sentì male e morì d'infarto a soli cinquantotto anni.
La festa si tramutò subito in lutto, e fu un lutto molto grave, anche perché Nando era il vero dirigente dell'Azienda Fratelli Monterovere, il vero uomo d'affari, e i suoi figli, che pure erano destinati a succedergli in quel ruolo, erano ancora troppo giovani.
Tocco dunque al fratello Romano, seppure non avesse la stoffa del leader, assumere temporaneamente la guida dell'Azienda, insieme al vecchio suocero, il visionario ingegner Lanni, il Profeta delle Acque che sognava di rendere navigabili i fiumi della Romagna.
L'altro fratello, Edoardo, garantì come sempre la "copertura politica" da parte del PCI, specie per garantire i finanziamenti al grande progetto del Canale Emiliano Romagnolo per l'irrigazione agricola.
Quando Romano spiegò al figlio Francesco che gli eventi di quei giorni richiedevano la sua presenza altrove e gli impedivano di recarsi dai salesiani, il ragazzo tornò in collegio, ma con l'intenzione di uscirvi il prima possibile e il momento della fuga fu deciso quando gli arrivò per posta la foto che sua zia Anita gli aveva scattato il giorno del compleanno della nonna.
Vedersi così conciato, quasi come un novizio che avesse fatto voto di povertà, lo fece inorridire.
Francesco mise subito in atto il piano.
Quella notte, quando i suoi compagni di stanza si furono addormentati, prese il suo zaino e si diresse verso una zona dove l'alto cancello acuminato era affiancato da un ciliegio. Si arrampicò sul ciliegio e si trascinò con le mani lungo un ramo che andava oltre il cancello.
Il ramo si piegò sempre di più, anche se all'epoca Francesco, pur essendo già alto più di un metro e ottanta, era talmente magro e denutrito da pesare pochissimo.
Si lasciò andare e se la cavò con qualche graffio e una sbucciatura di cui rimase la una cicatrice a forma di croce: l'ultimo ricordo dei Salesiani.
Si diresse subito dallo zio Edoardo, il quale, essendo comunista, odiava i preti e avrebbe fatto qualunque cosa pur di togliere il nipote dalle loro grinfie.
L'unico prezzo da pagare fu ascoltare per la milionesima volta i racconti puramente inventati da Edoardo riguardo alle sue presunte (per lo più inventate) imprese eroiche durante la Resistenza.
I Salesiani, non appena si accorsero che Francesco era fuggito, si rivolsero alla sua protettrice, la marchesa Zucconi, Dama di San Vincenzo, la quale subito individuò il rischio del pericolo comunista:
<<Quel suo zio è peggio di Lenin!>> dichiarò <<Sarebbe capace di tutto!>>
La delegazione andò ad affrontare il Lenin di Faenza e lo trovò particolarmente bellicoso.
<<Mio nipote non si muove di qua. Garantisco io per lui, e sapete che la mia parola pesa molto, da queste parti>>
Francesco fu irremovibile nel rifiuto di non tornare.
<<Non gli faremo superare l'anno di scuola>> minacciò il prete-vicepreside.
Ma lo zio Tommaso aveva già trovato la soluzione:
<<Darà gli esami di ammissione alla terza Liceo da privatista. E se non sarà presentato bene, sarete voi a fare una brutta figura>>
Alla fine si arrivò ad un compromesso: Francesco sarebbe stato promosso con la media del 6, molto più bassa di quella reale, ma avrebbe potuto accedere all'ultimo anno del Liceo Classico pubblico se, come prevedeva la legge per chi proveniva da scuole confessionali, avesse superato l'esame di ammissione.
Lo superò con la media dell'otto e finalmente, alle soglie dei 18 anni, poté tornare a gustare il sapore della libertà, di cui per troppi anni aveva perso anche il ricordo.
La decisione incriminata di evadere dalle recinzioni di quello che per lui era un lager fu presa in seguito ad un susseguirsi di eventi.
In quel periodo tutta la sua famiglia era impegnata a festeggiare l'ottantacinquesimo compleanno di sua nonna Eleonora Bonaccorsi, vedova Monterovere.
Era stata una grande festa di famiglia, a cui tutti i Monterovere, i Bonaccorsi e i Bassi-Pallai avevano partecipato, con abbondanti scorpacciate e libagioni.
Francesco aveva ottenuto il permesso di unirsi alla festa.
Quando era arrivato, prima degli altri invitati, sua zia Anita, a tradimento, gli aveva scattato una foto in cui il ragazzo appariva cupo, tenebroso e ribelle.
La serata era stata pesante. Francesco aveva rivisto tutti gli altri zii, ma soprattutto i suoi genitori Romano e Giulia, sua sorella Enrichetta, che lavorava già come segretaria dell'Azienda Fratelli Monterovere, e suo fratello Lorenzo, che frequentava il ginnasio.
E qui incominciò la maturazione dell'idea della fuga:
<<Se Lorenzo frequenta il Ginnasio da casa, allora anch'io voglio frequentare l'ultimo anno di Liceo Classico da uomo libero>> aveva detto ai genitori e gli zii, suscitando l'ilarità generale.
Nessuno lo aveva preso sul serio.
Alla sera aveva dormito dalla nonna e contava di andare con i genitori a parlare ai Salesiani della sua decisione.
Purtroppo, per una singolare applicazione della Legge di Murphy, il giorno dopo accadde un'imprevista tragedia: suo zio Ferdinando, che aveva mangiato e bevuto con particolare voracità, si sentì male e morì d'infarto a soli cinquantotto anni.
La festa si tramutò subito in lutto, e fu un lutto molto grave, anche perché Nando era il vero dirigente dell'Azienda Fratelli Monterovere, il vero uomo d'affari, e i suoi figli, che pure erano destinati a succedergli in quel ruolo, erano ancora troppo giovani.
Tocco dunque al fratello Romano, seppure non avesse la stoffa del leader, assumere temporaneamente la guida dell'Azienda, insieme al vecchio suocero, il visionario ingegner Lanni, il Profeta delle Acque che sognava di rendere navigabili i fiumi della Romagna.
L'altro fratello, Edoardo, garantì come sempre la "copertura politica" da parte del PCI, specie per garantire i finanziamenti al grande progetto del Canale Emiliano Romagnolo per l'irrigazione agricola.
Quando Romano spiegò al figlio Francesco che gli eventi di quei giorni richiedevano la sua presenza altrove e gli impedivano di recarsi dai salesiani, il ragazzo tornò in collegio, ma con l'intenzione di uscirvi il prima possibile e il momento della fuga fu deciso quando gli arrivò per posta la foto che sua zia Anita gli aveva scattato il giorno del compleanno della nonna.
Vedersi così conciato, quasi come un novizio che avesse fatto voto di povertà, lo fece inorridire.
Francesco mise subito in atto il piano.
Quella notte, quando i suoi compagni di stanza si furono addormentati, prese il suo zaino e si diresse verso una zona dove l'alto cancello acuminato era affiancato da un ciliegio. Si arrampicò sul ciliegio e si trascinò con le mani lungo un ramo che andava oltre il cancello.
Il ramo si piegò sempre di più, anche se all'epoca Francesco, pur essendo già alto più di un metro e ottanta, era talmente magro e denutrito da pesare pochissimo.
Si lasciò andare e se la cavò con qualche graffio e una sbucciatura di cui rimase la una cicatrice a forma di croce: l'ultimo ricordo dei Salesiani.
Si diresse subito dallo zio Edoardo, il quale, essendo comunista, odiava i preti e avrebbe fatto qualunque cosa pur di togliere il nipote dalle loro grinfie.
L'unico prezzo da pagare fu ascoltare per la milionesima volta i racconti puramente inventati da Edoardo riguardo alle sue presunte (per lo più inventate) imprese eroiche durante la Resistenza.
I Salesiani, non appena si accorsero che Francesco era fuggito, si rivolsero alla sua protettrice, la marchesa Zucconi, Dama di San Vincenzo, la quale subito individuò il rischio del pericolo comunista:
<<Quel suo zio è peggio di Lenin!>> dichiarò <<Sarebbe capace di tutto!>>
La delegazione andò ad affrontare il Lenin di Faenza e lo trovò particolarmente bellicoso.
<<Mio nipote non si muove di qua. Garantisco io per lui, e sapete che la mia parola pesa molto, da queste parti>>
Francesco fu irremovibile nel rifiuto di non tornare.
<<Non gli faremo superare l'anno di scuola>> minacciò il prete-vicepreside.
Ma lo zio Tommaso aveva già trovato la soluzione:
<<Darà gli esami di ammissione alla terza Liceo da privatista. E se non sarà presentato bene, sarete voi a fare una brutta figura>>
Alla fine si arrivò ad un compromesso: Francesco sarebbe stato promosso con la media del 6, molto più bassa di quella reale, ma avrebbe potuto accedere all'ultimo anno del Liceo Classico pubblico se, come prevedeva la legge per chi proveniva da scuole confessionali, avesse superato l'esame di ammissione.
Lo superò con la media dell'otto e finalmente, alle soglie dei 18 anni, poté tornare a gustare il sapore della libertà, di cui per troppi anni aveva perso anche il ricordo.
sabato 28 dicembre 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 39. Io non so l'amore vero che sorriso ha
"Lady Diana" Orsini, contessa di Casemurate, entrò, per sua fortuna, in menopausa molto presto, nel 1955, all'età di soli 42 anni.
Ormai non doveva inventare più scuse per evitare le avances del marito Ettore Ricci, il quale andava a cercare altrove le sue avventure, e non reclamava ormai più l'erede maschio: aveva deciso che le figlie femmine gli sarebbero servite per utili alleanze matrimoniali, sperando che quelle unioni sarebbero andate meglio della sua.
Mentre Ettore era fuori casa, cioè quasi sempre, e le figlie erano a scuola o in compagnia delle nonne, Diana si dedicava al giardinaggio, un passatempo che trovava nel contempo rilassante e salutare.
Un giorno ricevette la visita di Federico Traversari, che non vedeva da tre anni ormai.
Erano stati sul punto di diventare cognati, perché la sorella di lui, Anastasia, era fidanzata col fratello di lei, Arturo.
C'era stata una reciproca attrazione fin da quando si erano conosciuti, ai tempi in cui Federico accompagnava Anastasia a Villa Orsini.
Poi però Arturo era morto in quel maledetto incidente, e poi lo stesso conte Achille si era ammalato e aveva seguito il figlio nella tomba, e per Diana c'era stato soltanto un lungo letargo fatto di sedativi e antidolorifici, da cui si era ripresa soltanto pochi mesi prima.
Federico si era sposato, ma non appariva felice.
Questo non fece altro che rafforzale la convinzione di Diana secondo cui i matrimoni sarebbero dovuti essere aboliti, e puniti con grave sanzione penale.
<<Federico, quanto tempo è passato!>>
Lui annuì:
<<Il tempo può avere invecchiato me, ma non la bellissima Contessa Orsini di Casemurate>>
Diana sorrise:
<<Sempre il solito adulatore. Comunque almeno adesso sto un po' meglio... voglio dire, per quasi vent'anni non ho avuto tregua: il matrimonio con Ettore, le gravidanze, la guerra, la morte di Isabella, di Arturo e di mio padre... c'è stato un momento in cui ho creduto di impazzire. Ma poi ho pensato alle mie figlie: hanno bisogno di me, specialmente Silvia, che vorrebbe proseguire gli studi. Ettore non ne vuol sentir parlare, ma mio padre le ha lasciato un fondo vincolato per pagare il collegio, il ginnasio e tutto il resto. Io farò in modo che lei possa laurearsi, come avrei voluto fare anch'io... ma erano altri tempi...
E tu? Cosa mi racconti?>>
Lui si rabbuiò:
<<Credevo che il matrimonio mi avrebbe permesso di dimenticare... e invece non è stato così>>>
Lei ebbe un sussulto:
<<Dimenticare cosa?>>
Federico la fissò con intensità:
<<Dimenticare te. Quello che provo per te>>
Diana rivolse lo sguardo a terra, confusa:
<<Io non sono niente di speciale. Ho quarantadue anni, se mai c'è stata una qualche bellezza in me, ormai è sfiorita. In compenso il mio naso sembra ancora più lungo... Ettore dice che ormai sembro De Gasperi>>
Federico rise:
<<Ah ah... ma che sciocchezza! Solo a Ettore poteva venire in mente! Lui piuttosto sembra Fanfani>>
Risero entrambi.
<<Mi ricorderò di dirglielo, alla prossima occasione!>>
Federico annuì, poi tornò sull'argomento che gli premeva:
<<Diana, io... riguardo a quello che provo per te... parlavo sul serio, io non ho mai smesso di pensare a te. Ho provato in tutti i modi di dimenticarti, ma c'è qualcosa in te, qualcosa di unico... a me piace tutto di te, l'aspetto, la personalità, il carattere... anche il naso, io adoro il tuo naso... vorrei ricoprirlo di baci>>
Lei sorrise:
<<Oh, avanti, Federico... con tutte le donne che ci sono al mondo!>>
Lui si fece serio:
<<Tu sei mai stata innamorata?>>
Diana socchiuse gli occhi, come se provasse a ricordare qualcosa:
<<L'unico amore che ho conosciuto è quello dei romanzi che ho letto. Un amore per interposta persona. Ma nella vita reale... io non so cosa sia l'amore... non so che volto abbia, che sorriso abbia... forse in passato ho creduto che avesse il tuo volto, il tuo sorriso, ma poi ho saputo che ti eri sposato e da allora...>>
Federico annuì:
<<Ho commesso il più grave errore della mia vita. Ma da allora ogni volta che chiudo gli occhi io vedo te. Ti sogno la notte, parlo con te nei miei pensieri... il primo e l'ultimo pensiero di ogni giornata, sempre...>>
Anche Diana aveva pensato a lui, ma più che altro come a una pura fantasticheria, come uno dei suoi romanzi, e quella dichiarazione la spaventava:
<<Nessuno mi aveva mai detto parole più belle... io... io non ci sono abituata. Capisci, io non ho mai vissuto veramente, se non come riflesso della vita di altre persone, spesso di personaggi inventati.
Ma in realtà sono sempre stata sola, mi sono abituata alla solitudine, in un certo senso mi piace...>>
<<Però non sei felice>>
<<Io non credo alla felicità>>
<<Permettimi di dimostrare il contrario. Sei troppo giovane per rassegnarti a vivere nella solitudine nel rimpianto. Ringraziamo il destino che ci ha fatti incontrare. La vita incomincia adesso>>
Diana si guardò intorno:
<<Ma anche volendo, come potremmo fare? C'è la mia governante che non aspetta altro che cogliermi in flagrante adulterio per farmi cadere in disgrazia>>
Federico abbassò la voce:
<<Tu non mi sembri maldestra e ingenua come Madame Bovary e nemmeno impulsiva e provocatoria come Anna Karenina. Dai romanzi hai appreso quali sono gli errori da non fare.
Il resto, se mi concederai questa possibilità, te lo insegnerò io>>
Ormai non doveva inventare più scuse per evitare le avances del marito Ettore Ricci, il quale andava a cercare altrove le sue avventure, e non reclamava ormai più l'erede maschio: aveva deciso che le figlie femmine gli sarebbero servite per utili alleanze matrimoniali, sperando che quelle unioni sarebbero andate meglio della sua.
Mentre Ettore era fuori casa, cioè quasi sempre, e le figlie erano a scuola o in compagnia delle nonne, Diana si dedicava al giardinaggio, un passatempo che trovava nel contempo rilassante e salutare.
Un giorno ricevette la visita di Federico Traversari, che non vedeva da tre anni ormai.
Erano stati sul punto di diventare cognati, perché la sorella di lui, Anastasia, era fidanzata col fratello di lei, Arturo.
C'era stata una reciproca attrazione fin da quando si erano conosciuti, ai tempi in cui Federico accompagnava Anastasia a Villa Orsini.
Poi però Arturo era morto in quel maledetto incidente, e poi lo stesso conte Achille si era ammalato e aveva seguito il figlio nella tomba, e per Diana c'era stato soltanto un lungo letargo fatto di sedativi e antidolorifici, da cui si era ripresa soltanto pochi mesi prima.
Federico si era sposato, ma non appariva felice.
Questo non fece altro che rafforzale la convinzione di Diana secondo cui i matrimoni sarebbero dovuti essere aboliti, e puniti con grave sanzione penale.
<<Federico, quanto tempo è passato!>>
Lui annuì:
<<Il tempo può avere invecchiato me, ma non la bellissima Contessa Orsini di Casemurate>>
Diana sorrise:
<<Sempre il solito adulatore. Comunque almeno adesso sto un po' meglio... voglio dire, per quasi vent'anni non ho avuto tregua: il matrimonio con Ettore, le gravidanze, la guerra, la morte di Isabella, di Arturo e di mio padre... c'è stato un momento in cui ho creduto di impazzire. Ma poi ho pensato alle mie figlie: hanno bisogno di me, specialmente Silvia, che vorrebbe proseguire gli studi. Ettore non ne vuol sentir parlare, ma mio padre le ha lasciato un fondo vincolato per pagare il collegio, il ginnasio e tutto il resto. Io farò in modo che lei possa laurearsi, come avrei voluto fare anch'io... ma erano altri tempi...
E tu? Cosa mi racconti?>>
Lui si rabbuiò:
<<Credevo che il matrimonio mi avrebbe permesso di dimenticare... e invece non è stato così>>>
Lei ebbe un sussulto:
<<Dimenticare cosa?>>
Federico la fissò con intensità:
<<Dimenticare te. Quello che provo per te>>
Diana rivolse lo sguardo a terra, confusa:
<<Io non sono niente di speciale. Ho quarantadue anni, se mai c'è stata una qualche bellezza in me, ormai è sfiorita. In compenso il mio naso sembra ancora più lungo... Ettore dice che ormai sembro De Gasperi>>
Federico rise:
<<Ah ah... ma che sciocchezza! Solo a Ettore poteva venire in mente! Lui piuttosto sembra Fanfani>>
Risero entrambi.
<<Mi ricorderò di dirglielo, alla prossima occasione!>>
Federico annuì, poi tornò sull'argomento che gli premeva:
<<Diana, io... riguardo a quello che provo per te... parlavo sul serio, io non ho mai smesso di pensare a te. Ho provato in tutti i modi di dimenticarti, ma c'è qualcosa in te, qualcosa di unico... a me piace tutto di te, l'aspetto, la personalità, il carattere... anche il naso, io adoro il tuo naso... vorrei ricoprirlo di baci>>
Lei sorrise:
<<Oh, avanti, Federico... con tutte le donne che ci sono al mondo!>>
Lui si fece serio:
<<Tu sei mai stata innamorata?>>
Diana socchiuse gli occhi, come se provasse a ricordare qualcosa:
<<L'unico amore che ho conosciuto è quello dei romanzi che ho letto. Un amore per interposta persona. Ma nella vita reale... io non so cosa sia l'amore... non so che volto abbia, che sorriso abbia... forse in passato ho creduto che avesse il tuo volto, il tuo sorriso, ma poi ho saputo che ti eri sposato e da allora...>>
Federico annuì:
<<Ho commesso il più grave errore della mia vita. Ma da allora ogni volta che chiudo gli occhi io vedo te. Ti sogno la notte, parlo con te nei miei pensieri... il primo e l'ultimo pensiero di ogni giornata, sempre...>>
Anche Diana aveva pensato a lui, ma più che altro come a una pura fantasticheria, come uno dei suoi romanzi, e quella dichiarazione la spaventava:
<<Nessuno mi aveva mai detto parole più belle... io... io non ci sono abituata. Capisci, io non ho mai vissuto veramente, se non come riflesso della vita di altre persone, spesso di personaggi inventati.
Ma in realtà sono sempre stata sola, mi sono abituata alla solitudine, in un certo senso mi piace...>>
<<Però non sei felice>>
<<Io non credo alla felicità>>
<<Permettimi di dimostrare il contrario. Sei troppo giovane per rassegnarti a vivere nella solitudine nel rimpianto. Ringraziamo il destino che ci ha fatti incontrare. La vita incomincia adesso>>
Diana si guardò intorno:
<<Ma anche volendo, come potremmo fare? C'è la mia governante che non aspetta altro che cogliermi in flagrante adulterio per farmi cadere in disgrazia>>
Federico abbassò la voce:
<<Tu non mi sembri maldestra e ingenua come Madame Bovary e nemmeno impulsiva e provocatoria come Anna Karenina. Dai romanzi hai appreso quali sono gli errori da non fare.
Il resto, se mi concederai questa possibilità, te lo insegnerò io>>
venerdì 27 dicembre 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 38. La lista nera di Enrico Monterovere
Quando Enrico Monterovere compì 86 anni, nel 1953, gli rimaneva un solo desiderio, piuttosto stravagante, tanto che ben pochi lo prendevano sul serio: voleva vivere almeno un'ora in più di Stalin. Non gli aveva perdonato l'assassinio di Trotsky,
Ma c'era anche un'altra ragione, ancora più singolare.
Anni prima infatti Enrico, mentre era in osteria con gli amici, ubriaco fradicio, aveva dichiarato solennemente che sarebbe morto contento se fosse riuscito a sopravvivere a un certo numero di persone, di cui aveva persino stilato l'elenco.
Non c'erano solo suoi conoscenti, ma anche personaggi pubblici nei confronti dei quali, per motivi ignoti a tutti e forse persino a lui stesso, nutriva del risentimento: tra questi, per esempio, oltre al già citato Baffone, c'erano l'ex Re d'Italia Vittorio Emanuele III, il re d'Inghilterra Giorgio VI e molti altri capi di stato che avevano avuto un ruolo nella devastazione dell'Europa durante la guerra.
Li aveva seppelliti tutti tranne uno: Stalin.
Non dovette però aspettare a lungo.
All'alba del 5 marzo 1953 in seguito alle complicazioni di un ictus, il leader sovietico si avvicinava alla fine. Drammatici furono i suoi ultimi istanti di vita: convinto di essere vittima di una congiura, Stalin maledisse i capi comunisti riuniti attorno al divano sul quale giaceva, e poi morì.
Naturalmente questa versione dei fatti, narrata dalla figlia Svetlana, venne fuori soltanto molti decenni dopo.
Già il fatto stesso che Stalin fosse morto risultava difficile da comunicare.
Nel tardo pomeriggio, alla fine, la radio confermò a tutto il mondo la notizia.
Ognuno reagì a modo suo, a seconda del proprio credo, ma quasi certamente la reazione più singolare fu quella del vecchio Enrico Monterovere, che dichiarò: <<Trotsky, sei vendicato!>> e provvide subito a depennare il nome di Stalin dalla propria lista, ma nel farlo, accorgendosi che era l'ultimo, fu assalito da un lugubre presagio.
Poche ore dopo, appena finito di cenare, Enrico avvertì un leggero malessere.
Si misurò la febbre, aveva 38.
Si mise a letto.
Prese una medicina, ma la temperatura continuò a salire.
Sua moglie Eleonora gli portò una pezza intrisa di acqua fresca, ma Enrico vaneggiava.
Nel delirio gli parve di vedere un cavaliere in un bosco di montagna.
Era suo padre, il leggendario Ferdinando, morto quarant'anni prima disarcionato da cavallo presso l'Orma del Diavolo.
I folletti dei boschi erano con lui.
<<Sono venuti a prendermi>> sussurrò <<torno dai miei padri, nei boschi di Monterovere>>
Furono le sue ultime parole.
Poco dopo, nel momento del trapasso, assunse un'espressione serena, come se veramente le montagne boscose della sua gioventù lo stessero accogliendo con un coro di fronde fruscianti, percorse da una brezza leggera.
martedì 24 dicembre 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 37. Il potere del Trio
Nei suoi ultimi giorni di vita, il vecchio conte Achille Orsini di Casemurate, da tempo ricoverato in una clinica, ebbe la consolazione di essere vegliato dalle sue nipoti preferite, le tre considerevoli sorelle Ricci-Orsini, figlie della primogenita Diana e di Ettore Ricci.
Era il giugno del 1952, il clima era mite e l'aria profumata dall'aroma dei fiori di tiglio.
Si ricordò i versi di un poeta americano, che Diana gli aveva letto in un giorno simile a quello, tantissimi anni prima, quando ancora tra loro c'era una reciproca adorazione:
"Cosa c'è di più raro di una giornata di giugno?"
What is so rare as a day in June? Il nome del poeta era Lowell... James Russell Lowell di Boston.
La Visione di Sir Launfall, o qualcosa del genere...
Il solo ricordo di quel giorno lontano gli confermava la verità di quel verso: allora e solo allora lui e sua figlia erano stati pienamente felici. Lui si era illuso che quello fosse solo l'inizio, solo il preludio di una vita felice, e non si era accorto che era quella la felicità, in quella lontana, rara giornata di giugno. Era quella, e non era più tornata.
Lui aveva rovinato la vita a Diana e gli altri suoi figli, per non parlare di sua moglie.
Ma grazie al cielo c'era il sollievo di quelle tre nipoti, che arrivavano sempre insieme, accompagnate dal severo autista dei Ricci-Orsini, e portavano le scuse da parte degli altri parenti.
Erano diverse e complementari tra loro, tanto da costituire una sorta di piccola trinità.
Margherita, la più grande e la più bella, che a tredici anni era come un fiore appena sbocciato, cercava di recitare con compostezza la parte che aveva imparato a memoria: "La nonna è andata a pregare alla tomba di Arturo e Isabella, la mamma ha l'emicrania e il babbo ha avuto un contrattempo sul lavoro".
Il Conte, naturalmente, non credeva a una mezza parola e puntava lo sguardo verso la nipote di mezzo, Silvia, che aveva dodici anni, e pur essendo la più intelligente delle tre e la più portata per gli studi, era del tutto incapace di mantenere un segreto:
<<Be', a dire il vero la nonna è ubriaca fradicia, la mamma sta dormendo e non vuole essere svegliata prima di mezzogiorno, e il babbo ha detto che sarebbe stato meglio se anche noi fossimo rimaste a casa>>
Il Conte non poté fare a meno di ridacchiare.
Adorava Silvia, era la sua preferita. Le aveva anche lasciato in eredità, come legato personale, gli oggetti che aveva amato di più, e che avevano nel contempo un valore affettivo e sostanziale.
<<Ma voi siete delle brave nipoti e siete venute lo stesso a trovare il vostro vecchio nonno>>
Parlare gli costava fatica, ma era ben spesa, perché quelle tre nipoti avevano il potere di rasserenarlo.
Isabella, la più piccola delle tre, che aveva solo otto anni, era la più sveglia, e con il maggior senso pratico.
E infatti annunciò subito:
<<La signora Ida ci ha detto che magari ci facevi un regalino>>
Il nonno sorrise: Isabella, delle tre, era quella che assomigliava di più ad Ettore, era una vera Ricci, era badava al sodo.
<<Ho preparato molti regalini per voi, ma li potrete avere solo quando sarò morto e il notaio leggerà il mio testamento. State tranquille, ormai manca poco.
Dovete però promettermi alcune cose.
Primo: dovrete aiutare la nonna e la mamma a riprendersi dal loro dolore. La morte dei vostri zii è stata un durissimo colpo per tutti noi, e a questo dolore si aggiungerà anche quello per la mia fine. Non fate quelle facce tristi, questo è l'andare delle cose, e a volte la morte giunge come una liberazione, per chi, come me, è vissuto fin troppo tempo.
Siete tre ragazze forti, avete visto la guerra e il dopoguerra, non vi è stato risparmiato niente, eppure eccovi qui, forti e sane, e soprattutto unite!
Ecco, questa è la seconda promessa che vi chiedo.
Qualunque cosa succeda, dovrete sempre essere unite.
Se rimarrete fedeli l'una all'altra, nessuno potrà sconfiggervi. Quando vi vedo insieme, sento che c'è una coesione profonda, nata dall'aver condiviso momenti terribili in comune, perché è nei momenti di crisi che si allacciano i legami più saldi.
Per voi tre sarà così per sempre. Chiamatelo come volete... il potere della Triade, o magari "il potere del Trio".
Vi servirà, in ogni momento della vostra vita, anche se doveste allontanarvi dalla Contea>>
Quelle parole furono il "testamento morale" del nonno Achille, e quando egli alla fine cedette alla malattia e al dolore, il suo discorso sul "potere del Trio" rimase sempre valido, per tutto il resto della loro vita.
Del resto erano abituate a condividere tutto.
Dormivano insieme in un grande stanzone, con i loro tre lettini disposti l'uno a fianco all'altro.
Erano molto protettive l'una con l'altra, e mostravano persino un senso di iperprotettività nei confronti della madre, e questo pur cercando nel contempo l'approvazione paterna.
Si rendevano conto dei problemi di salute della madre e trascorrevano con lei molto tempo, ma non davano al padre la colpa dell'infelicità di Diana. Il fatto che il matrimonio dei genitori fosse disastroso, non le aveva spinte a schierarsi, ma a trovare il meglio in ciò che la madre e il padre potevano dare loro.
C'erano però alcune differenze, nel rapporto che ognuna delle sorelle aveva con i genitori.
L'ultimogenita, Isabella, aveva sofferto fin dall'inizio di due sensi di colpa: uno era legato al fatto che suo padre aveva sperato e desiderato ardentemente che nascesse un maschio; l'altro era il fatto di essere nata il giorno stesso della tragica morte della zia omonima, che era ella stessa la sorella più giovane. Questa circostanza, così come il nome infausto, erano un motivo di disagio quasi scaramantico.
Delle tre sorelle, dunque, Isabella si sentì spronata fin dall'inizio verso due direzioni: dimostrare a suo padre che poteva occuparsi delle questioni pratiche meglio di un maschio, e dimostrare a sua madre che avrebbe avuto un destino molto migliore di quello della giovane zia.
La primogenita Margherita, invece, aveva avuto il dono divino della bellezza, unendo il profilo alto e aristocratico degli Orsini, con gli occhi verdi e la pelle chiara tipica della famiglia Ricci.
I genitori ne erano orgogliosi e in generale tutta la famiglia persino gli abitanti della Contea, che passavano avanti e indietro, davanti a Villa Orsini, per poter ammirare i boccoli di Margherita, che assomigliava ad Elizabeth Taylor.
La sorella di mezzo, Silvia, era un personaggio del tutto singolare.
In lei il corredo genetico del padre e della madre si erano mescolati in maniera strana, sia nell'aspetto fisico che nel carattere.
Era bassa come il padre e aveva la magrezza e il naso pronunciato come la madre, e queste due imperfezioni la tormentarono per tutta la vita, per quanto, in un certo qual modo, la rendessero adatta al nuovo canone di bellezza femminile che di lì a poco si sarebbe affermato con Audrey Hepburn.
Ma la vera contraddizione di Silvia era quella interiore: il conflitto a cui assisteva da sempre tra i suoi genitori si replicava dentro di lei, nella sua mente.
Era cresciuta osservando con stupore le liti furibonde tra Ettore Ricci e Diana Orsini, e non era mai riuscita a prendere le parti di nessuno dei due, perché nella sua psiche Ettore e Diana continuavano a litigare anche quando nel mondo esterno avevano finito, sbattendosi le porte in faccia e rintanandosi nelle loro reciproche stanze.
E fu così per sempre: ogni volta che c'era una decisione da prendere, un discorso da pronunciare, una qualsiasi reazione, anche minima, ecco che subito, nella mente di Silvia, i geni della madre tendevano verso una direzione e i geni del padre verso la direzione opposta, creando una specie di tiro alla fune, che rendeva piuttosto incerto e irrazionale l'esito della scelta.
Sapeva che questa maledizione era parte del suo destino, come il fatto di essere nata nel dolore, durante la Guerra, e aver assistito a tutte le atrocità che erano state compiute negli anni della Linea Gotica.
Le sorelle la aiutavano molto, e il padre le voleva bene, ma nei momenti di crisi si sentiva, alla fine, più vicina alla fragilità materna, ed entrava di soppiatto nella "Stanza delle Vecchie Pietre", dove la contessa Diana Orsini di Casemurate trascorreva la maggior parte del suo tempo, in una sorta di letargo indotto dagli antidolorifici. A volte trovava a fianco a lei anche la nonna, la contessa madre Emilia, che cercava di smaltire la sbornia e di non pensare ai figli perduti, ordinando alla nebbia di nascondere le cose lontane, perché quelle cose erano "ebbre di pianto".
Silvia si metteva nel mezzo, a formare una nuova triade, con un suo singolare effetto di deprivazione sensoriale, di atarassia, forse persino di indifferenza.
E così distesa tra la madre e la nonna, Silvia Ricci-Orsini osservava nella penombra quella stanza magica come una baita sperduta in mezzo a un bosco: il soffitto aveva travature antiche e pietre di montagna alle pareti, che venivano da una valle d'elfi e funghi, e dalle persiane socchiuse filtrava un sentore di resina, e una brezza da fuori sconvolgeva le pagine di vecchi romanzi, letti e riletti da sua madre, lontani ricordi d'ore perdute nei solai...
Era il giugno del 1952, il clima era mite e l'aria profumata dall'aroma dei fiori di tiglio.
Si ricordò i versi di un poeta americano, che Diana gli aveva letto in un giorno simile a quello, tantissimi anni prima, quando ancora tra loro c'era una reciproca adorazione:
"Cosa c'è di più raro di una giornata di giugno?"
What is so rare as a day in June? Il nome del poeta era Lowell... James Russell Lowell di Boston.
La Visione di Sir Launfall, o qualcosa del genere...
Il solo ricordo di quel giorno lontano gli confermava la verità di quel verso: allora e solo allora lui e sua figlia erano stati pienamente felici. Lui si era illuso che quello fosse solo l'inizio, solo il preludio di una vita felice, e non si era accorto che era quella la felicità, in quella lontana, rara giornata di giugno. Era quella, e non era più tornata.
Lui aveva rovinato la vita a Diana e gli altri suoi figli, per non parlare di sua moglie.
Ma grazie al cielo c'era il sollievo di quelle tre nipoti, che arrivavano sempre insieme, accompagnate dal severo autista dei Ricci-Orsini, e portavano le scuse da parte degli altri parenti.
Erano diverse e complementari tra loro, tanto da costituire una sorta di piccola trinità.
Margherita, la più grande e la più bella, che a tredici anni era come un fiore appena sbocciato, cercava di recitare con compostezza la parte che aveva imparato a memoria: "La nonna è andata a pregare alla tomba di Arturo e Isabella, la mamma ha l'emicrania e il babbo ha avuto un contrattempo sul lavoro".
Il Conte, naturalmente, non credeva a una mezza parola e puntava lo sguardo verso la nipote di mezzo, Silvia, che aveva dodici anni, e pur essendo la più intelligente delle tre e la più portata per gli studi, era del tutto incapace di mantenere un segreto:
<<Be', a dire il vero la nonna è ubriaca fradicia, la mamma sta dormendo e non vuole essere svegliata prima di mezzogiorno, e il babbo ha detto che sarebbe stato meglio se anche noi fossimo rimaste a casa>>
Il Conte non poté fare a meno di ridacchiare.
Adorava Silvia, era la sua preferita. Le aveva anche lasciato in eredità, come legato personale, gli oggetti che aveva amato di più, e che avevano nel contempo un valore affettivo e sostanziale.
<<Ma voi siete delle brave nipoti e siete venute lo stesso a trovare il vostro vecchio nonno>>
Parlare gli costava fatica, ma era ben spesa, perché quelle tre nipoti avevano il potere di rasserenarlo.
Isabella, la più piccola delle tre, che aveva solo otto anni, era la più sveglia, e con il maggior senso pratico.
E infatti annunciò subito:
<<La signora Ida ci ha detto che magari ci facevi un regalino>>
Il nonno sorrise: Isabella, delle tre, era quella che assomigliava di più ad Ettore, era una vera Ricci, era badava al sodo.
<<Ho preparato molti regalini per voi, ma li potrete avere solo quando sarò morto e il notaio leggerà il mio testamento. State tranquille, ormai manca poco.
Dovete però promettermi alcune cose.
Primo: dovrete aiutare la nonna e la mamma a riprendersi dal loro dolore. La morte dei vostri zii è stata un durissimo colpo per tutti noi, e a questo dolore si aggiungerà anche quello per la mia fine. Non fate quelle facce tristi, questo è l'andare delle cose, e a volte la morte giunge come una liberazione, per chi, come me, è vissuto fin troppo tempo.
Siete tre ragazze forti, avete visto la guerra e il dopoguerra, non vi è stato risparmiato niente, eppure eccovi qui, forti e sane, e soprattutto unite!
Ecco, questa è la seconda promessa che vi chiedo.
Qualunque cosa succeda, dovrete sempre essere unite.
Se rimarrete fedeli l'una all'altra, nessuno potrà sconfiggervi. Quando vi vedo insieme, sento che c'è una coesione profonda, nata dall'aver condiviso momenti terribili in comune, perché è nei momenti di crisi che si allacciano i legami più saldi.
Per voi tre sarà così per sempre. Chiamatelo come volete... il potere della Triade, o magari "il potere del Trio".
Vi servirà, in ogni momento della vostra vita, anche se doveste allontanarvi dalla Contea>>
Quelle parole furono il "testamento morale" del nonno Achille, e quando egli alla fine cedette alla malattia e al dolore, il suo discorso sul "potere del Trio" rimase sempre valido, per tutto il resto della loro vita.
Del resto erano abituate a condividere tutto.
Dormivano insieme in un grande stanzone, con i loro tre lettini disposti l'uno a fianco all'altro.
Erano molto protettive l'una con l'altra, e mostravano persino un senso di iperprotettività nei confronti della madre, e questo pur cercando nel contempo l'approvazione paterna.
Si rendevano conto dei problemi di salute della madre e trascorrevano con lei molto tempo, ma non davano al padre la colpa dell'infelicità di Diana. Il fatto che il matrimonio dei genitori fosse disastroso, non le aveva spinte a schierarsi, ma a trovare il meglio in ciò che la madre e il padre potevano dare loro.
C'erano però alcune differenze, nel rapporto che ognuna delle sorelle aveva con i genitori.
L'ultimogenita, Isabella, aveva sofferto fin dall'inizio di due sensi di colpa: uno era legato al fatto che suo padre aveva sperato e desiderato ardentemente che nascesse un maschio; l'altro era il fatto di essere nata il giorno stesso della tragica morte della zia omonima, che era ella stessa la sorella più giovane. Questa circostanza, così come il nome infausto, erano un motivo di disagio quasi scaramantico.
Delle tre sorelle, dunque, Isabella si sentì spronata fin dall'inizio verso due direzioni: dimostrare a suo padre che poteva occuparsi delle questioni pratiche meglio di un maschio, e dimostrare a sua madre che avrebbe avuto un destino molto migliore di quello della giovane zia.
La primogenita Margherita, invece, aveva avuto il dono divino della bellezza, unendo il profilo alto e aristocratico degli Orsini, con gli occhi verdi e la pelle chiara tipica della famiglia Ricci.
I genitori ne erano orgogliosi e in generale tutta la famiglia persino gli abitanti della Contea, che passavano avanti e indietro, davanti a Villa Orsini, per poter ammirare i boccoli di Margherita, che assomigliava ad Elizabeth Taylor.
La sorella di mezzo, Silvia, era un personaggio del tutto singolare.
In lei il corredo genetico del padre e della madre si erano mescolati in maniera strana, sia nell'aspetto fisico che nel carattere.
Era bassa come il padre e aveva la magrezza e il naso pronunciato come la madre, e queste due imperfezioni la tormentarono per tutta la vita, per quanto, in un certo qual modo, la rendessero adatta al nuovo canone di bellezza femminile che di lì a poco si sarebbe affermato con Audrey Hepburn.
Ma la vera contraddizione di Silvia era quella interiore: il conflitto a cui assisteva da sempre tra i suoi genitori si replicava dentro di lei, nella sua mente.
Era cresciuta osservando con stupore le liti furibonde tra Ettore Ricci e Diana Orsini, e non era mai riuscita a prendere le parti di nessuno dei due, perché nella sua psiche Ettore e Diana continuavano a litigare anche quando nel mondo esterno avevano finito, sbattendosi le porte in faccia e rintanandosi nelle loro reciproche stanze.
E fu così per sempre: ogni volta che c'era una decisione da prendere, un discorso da pronunciare, una qualsiasi reazione, anche minima, ecco che subito, nella mente di Silvia, i geni della madre tendevano verso una direzione e i geni del padre verso la direzione opposta, creando una specie di tiro alla fune, che rendeva piuttosto incerto e irrazionale l'esito della scelta.
Sapeva che questa maledizione era parte del suo destino, come il fatto di essere nata nel dolore, durante la Guerra, e aver assistito a tutte le atrocità che erano state compiute negli anni della Linea Gotica.
Le sorelle la aiutavano molto, e il padre le voleva bene, ma nei momenti di crisi si sentiva, alla fine, più vicina alla fragilità materna, ed entrava di soppiatto nella "Stanza delle Vecchie Pietre", dove la contessa Diana Orsini di Casemurate trascorreva la maggior parte del suo tempo, in una sorta di letargo indotto dagli antidolorifici. A volte trovava a fianco a lei anche la nonna, la contessa madre Emilia, che cercava di smaltire la sbornia e di non pensare ai figli perduti, ordinando alla nebbia di nascondere le cose lontane, perché quelle cose erano "ebbre di pianto".
Silvia si metteva nel mezzo, a formare una nuova triade, con un suo singolare effetto di deprivazione sensoriale, di atarassia, forse persino di indifferenza.
E così distesa tra la madre e la nonna, Silvia Ricci-Orsini osservava nella penombra quella stanza magica come una baita sperduta in mezzo a un bosco: il soffitto aveva travature antiche e pietre di montagna alle pareti, che venivano da una valle d'elfi e funghi, e dalle persiane socchiuse filtrava un sentore di resina, e una brezza da fuori sconvolgeva le pagine di vecchi romanzi, letti e riletti da sua madre, lontani ricordi d'ore perdute nei solai...
martedì 17 dicembre 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 36. La nuova Contessa di Casemurate
Forse, se l'incidente fosse avvenuto in tempi più recenti, i moderni mezzi di indagine sarebbero riusciti a scoprire qualcosa di più sulle circostanze della morte di Arturo Orsini.
Ma era il 1952, e il fatto era avvenuto nelle campagne di una Contea sperduta in un'Italia ancora rurale.
Fu comunque avviata un'inchiesta a cui furono preposti, su interessamento dell'onorevole Baroni e del generale De Toschi, altri parenti del clan Ricci-Orsini: il giudice De Gubernatis e l'ispettore Tartaglia.
Nel frattempo, a Villa Orsini, le cose andavano di male in peggio.
Il giorno della morte di Arturo, Ettore Ricci era tornato a casa nel tardo pomeriggio, col cappello in mano, strascicando i piedi, scarmigliato e con un'espressione afflitta sul volto che pareva invecchiato di decenni.
Non aveva concesso a nessuno il tempo di dire alcunché:
<<Questo è il giorno peggiore della mia vita. Io e Arturo avevamo le nostre divergenze, ma il solo pensiero che non ci sia più mi toglie il respiro. Stavamo per trovare un accordo, lo volevo come socio alla pari, per unire ancora di più le nostre famiglie. Lui aveva accettato, avremmo concluso l'accordo oggi stesso. Non potete immaginare che pugno allo stomaco sia stato quando ho ricevuto la notizia. No, no... non dite niente, non è neanche il caso di parlarne... >>
Diana, che non credeva a una mezza parola di quella scena da premio Oscar, riuscì a interrompere il monologo del marito, rispondendo con amara ironia:
<<Sì, immagino il tuo dolore, un po' come dopo la morte di Isabella>>
Ettore incassò il colpo:
<<Ancora non mi sono ripreso da quella tragedia. Povera ragazza, con quello che ha subito dal tenente Muller, quel maledetto nazista. Che orrore! E adesso quest'altra disgrazia... Povero Arturo, scusatemi, ma non mi reggo in piedi, devo stendermi...>>
E si recò, strascicando i piedi, verso la sua stanza da letto.
Diana lo seguì, gli si avvicinò e gli sussurrò all'orecchio:
<<Io so chi sei. Non si può vivere per quindici anni a fianco di un uomo, senza capire chi è.
Conosco la tua rabbia, la volontà di distruggere qualunque cosa che non sia tuo.
E mi fa disperare il pensiero che le mie figlie siano anche figlie tue, e possano trasmettere ai loro figli queste tue caratteristiche.
La morte di Arturo non è stata un'incidente. Tartaglia ha distrutto le prove. De Gubernatis insabbierà tutto come al solito.
Non dico che sia stato tu a manomettere la moto, ma di certo "la morte di Artù" ti fa molto comodo. Forse uno dei tuoi scagnozzi ha voluto farti un regalo senza nemmeno dirtelo...>>
Ettore scosse il capo:
<<Sei sconvolta, Diana... è naturale! Capisco il tuo bisogno di sfogarti. Sfogati pure con me. Insultami... se ti fa sentire meglio... Non me ne avrò a male...>>
Lei rispose sempre a voce bassa:
<<Smettila di recitare! Almeno una volta nella vita, sii sincero!>>
Ettore si passò una mano sulla guancia non rasata:
<<Sincero? Anche se le cose che penso realmente possono urtare i tuoi sentimenti?
Va bene, allora smetterò di recitare la parte del marito gentile, e tu rimpiangerai i miei tentativi di essere gentile.
Li rimpiangerai, ma sarà troppo tardi.
E pensare che c'è stato un tempo in cui ti amavo.
Non ti voglio rimproverare, tu non mi volevi. Tu hai sempre desiderato un uomo della tua stessa classe sociale, uno come Federico Traversari.
Ti piacerebbe andare a letto con lui, vero?
E invece rifiuti di avere rapporti con me, tuo marito! Avrei potuto fare delle storie, e invece ho sopportato in silenzio.
Ho sopportato le lunghe notti in un letto freddo, abbandonato.
Non sei stata capace di vegliare neanche un'ora insieme a me.
Ma io ho rispettato la tua decisione. Non ti ho voluto imporre la mia presenza.
Certo, ho smesso di amarti e anch'io mi sono innamorato di altre persone, come Anastasia, ma erano tutti vaneggiamenti, dovuti al fatto che tu mi hai lasciato solo.
E adesso, Diana, cosa vorresti fare? Mi vuoi accusare? Mi vuoi tradire?
Che ne sarà delle nostre figlie?
Sono anni che cerchi di metterle contro di me, ma loro mi rispettano, e mi vogliono bene come io ne voglio a loro.
Siamo una famiglia, anzi, adesso siamo noi, la Famiglia Orsini!
Tuo padre è malato e questa tragedia gli ha tolto il futuro.
Presto sarai tu la Contessa di Casemurate, ed io il capo del clan Ricci-Orsini.
Il nostro amore è finito da un pezzo (ammesso che sia mai cominciato), ma il nostro matrimonio è il pilastro su cui si regge tutto ciò che abbiamo di più caro su questa terra.
E' inutile danzare con i fantasmi del passato.
Noi siamo il presente e il futuro della dinastia Orsini di Casemurate!
Certo, ora siamo i Ricci-Orsini, e non abbiamo figli maschi, ma il nostro Feudo porterà per sempre i nostri cognomi, uniti dal destino.
Devi fartene una ragione.
So che stai soffrendo per Arturo, Ma non dare la colpa a me. Non sono stato io, lo giuro sulla mia stessa vita. Nessuno degli Orsini può incolpare me per le proprie disgrazie.
E' stata la vostra superbia a condurvi alla rovina...>>
Diana rimase immobile, come una statua di marmo levigata dal tempo.
Un dubbio atroce la tormentava.
E se avesse ragione lui? Siamo stati davvero troppo arroganti? Troppo sicuri di noi stessi? Troppo pronti a scaricare la colpa sugli altri?
In cuor suo non poteva negarlo.
Come per una premonizione, Diana immaginò il suo futuro e si chiese come avrebbe fatto ad andare avanti, trascinandosi, giorno dopo giorno, nell'oscurità e nel dubbio, come una notte d'inverno senza una stella.
Ora c'era un fantasma in più a ballare con lei, nella sua danza macabra.
E quel fantasma, così come quello di Isabella, voleva giustizia:
<<Arturo era troppo sicuro di sé, ma io resto convinta che la moto sia stata manomessa. Devi scoprire chi è stato, perché un giorno questo assassino potrebbe decidere di far fuori anche te...>>
Ettore pareva aver considerato quell'eventualità:
<<Non nego di essere preoccupato al riguardo, ma se anche ammettiamo che si sia trattato di omicidio, io non saprei dove guardare. Non possono essere stati i miei nemici, perché oggettivamente hanno rafforzato la mia posizione di capofamiglia.
E non possono essere stati i miei amici, perché la loro fortuna dipende da me, e se io dovessi finire in galera, loro perderebbero tutto, perché non sarebbero nemmeno lontanamente capaci di tenere in piedi la baracca.
E di sicuro non sono stato io, perché non volevo fare di Arturo un martire. Avrei potuto accusarlo di molte cose, negli affari, e screditarlo, rivelando al mondo la sua incapacità.
Ma in fondo non occorreva nemmeno quello: si sarebbe comunque rovinato da solo.
E' il destino della vostra stirpe, e spero solo che le mie figlie e i loro discendenti non abbiano ereditato questa maledizione. Per ora mi sembra di no, ed io vigilerò affinché crescano cercando sempre di seguire il buon senso e di mantenere i piedi per terra>>
Era una critica severa al modo in cui Diana aveva fino a quel momento svolto il suo ruolo di madre.
Non volle replicare, perché il suo animo era straziato dal dolore per la morte di Arturo, e sentiva il bisogno di piangere, dopo un'intera giornata di impegno a mantenere la compostezza necessaria per venire a capo delle circostanze di quella tragedia.
Se ne andò dalla stanza del marito senza una parola e tornò nella propria camera lastricata di vecchie pietre a danzare con i propri fantasmi.
Ma era il 1952, e il fatto era avvenuto nelle campagne di una Contea sperduta in un'Italia ancora rurale.
Fu comunque avviata un'inchiesta a cui furono preposti, su interessamento dell'onorevole Baroni e del generale De Toschi, altri parenti del clan Ricci-Orsini: il giudice De Gubernatis e l'ispettore Tartaglia.
Nel frattempo, a Villa Orsini, le cose andavano di male in peggio.
Il giorno della morte di Arturo, Ettore Ricci era tornato a casa nel tardo pomeriggio, col cappello in mano, strascicando i piedi, scarmigliato e con un'espressione afflitta sul volto che pareva invecchiato di decenni.
Non aveva concesso a nessuno il tempo di dire alcunché:
<<Questo è il giorno peggiore della mia vita. Io e Arturo avevamo le nostre divergenze, ma il solo pensiero che non ci sia più mi toglie il respiro. Stavamo per trovare un accordo, lo volevo come socio alla pari, per unire ancora di più le nostre famiglie. Lui aveva accettato, avremmo concluso l'accordo oggi stesso. Non potete immaginare che pugno allo stomaco sia stato quando ho ricevuto la notizia. No, no... non dite niente, non è neanche il caso di parlarne... >>
Diana, che non credeva a una mezza parola di quella scena da premio Oscar, riuscì a interrompere il monologo del marito, rispondendo con amara ironia:
<<Sì, immagino il tuo dolore, un po' come dopo la morte di Isabella>>
Ettore incassò il colpo:
<<Ancora non mi sono ripreso da quella tragedia. Povera ragazza, con quello che ha subito dal tenente Muller, quel maledetto nazista. Che orrore! E adesso quest'altra disgrazia... Povero Arturo, scusatemi, ma non mi reggo in piedi, devo stendermi...>>
E si recò, strascicando i piedi, verso la sua stanza da letto.
Diana lo seguì, gli si avvicinò e gli sussurrò all'orecchio:
<<Io so chi sei. Non si può vivere per quindici anni a fianco di un uomo, senza capire chi è.
Conosco la tua rabbia, la volontà di distruggere qualunque cosa che non sia tuo.
E mi fa disperare il pensiero che le mie figlie siano anche figlie tue, e possano trasmettere ai loro figli queste tue caratteristiche.
La morte di Arturo non è stata un'incidente. Tartaglia ha distrutto le prove. De Gubernatis insabbierà tutto come al solito.
Non dico che sia stato tu a manomettere la moto, ma di certo "la morte di Artù" ti fa molto comodo. Forse uno dei tuoi scagnozzi ha voluto farti un regalo senza nemmeno dirtelo...>>
Ettore scosse il capo:
<<Sei sconvolta, Diana... è naturale! Capisco il tuo bisogno di sfogarti. Sfogati pure con me. Insultami... se ti fa sentire meglio... Non me ne avrò a male...>>
Lei rispose sempre a voce bassa:
<<Smettila di recitare! Almeno una volta nella vita, sii sincero!>>
Ettore si passò una mano sulla guancia non rasata:
<<Sincero? Anche se le cose che penso realmente possono urtare i tuoi sentimenti?
Va bene, allora smetterò di recitare la parte del marito gentile, e tu rimpiangerai i miei tentativi di essere gentile.
Li rimpiangerai, ma sarà troppo tardi.
E pensare che c'è stato un tempo in cui ti amavo.
Non ti voglio rimproverare, tu non mi volevi. Tu hai sempre desiderato un uomo della tua stessa classe sociale, uno come Federico Traversari.
Ti piacerebbe andare a letto con lui, vero?
E invece rifiuti di avere rapporti con me, tuo marito! Avrei potuto fare delle storie, e invece ho sopportato in silenzio.
Ho sopportato le lunghe notti in un letto freddo, abbandonato.
Non sei stata capace di vegliare neanche un'ora insieme a me.
Ma io ho rispettato la tua decisione. Non ti ho voluto imporre la mia presenza.
Certo, ho smesso di amarti e anch'io mi sono innamorato di altre persone, come Anastasia, ma erano tutti vaneggiamenti, dovuti al fatto che tu mi hai lasciato solo.
E adesso, Diana, cosa vorresti fare? Mi vuoi accusare? Mi vuoi tradire?
Che ne sarà delle nostre figlie?
Sono anni che cerchi di metterle contro di me, ma loro mi rispettano, e mi vogliono bene come io ne voglio a loro.
Siamo una famiglia, anzi, adesso siamo noi, la Famiglia Orsini!
Tuo padre è malato e questa tragedia gli ha tolto il futuro.
Presto sarai tu la Contessa di Casemurate, ed io il capo del clan Ricci-Orsini.
Il nostro amore è finito da un pezzo (ammesso che sia mai cominciato), ma il nostro matrimonio è il pilastro su cui si regge tutto ciò che abbiamo di più caro su questa terra.
E' inutile danzare con i fantasmi del passato.
Noi siamo il presente e il futuro della dinastia Orsini di Casemurate!
Certo, ora siamo i Ricci-Orsini, e non abbiamo figli maschi, ma il nostro Feudo porterà per sempre i nostri cognomi, uniti dal destino.
Devi fartene una ragione.
So che stai soffrendo per Arturo, Ma non dare la colpa a me. Non sono stato io, lo giuro sulla mia stessa vita. Nessuno degli Orsini può incolpare me per le proprie disgrazie.
E' stata la vostra superbia a condurvi alla rovina...>>
Diana rimase immobile, come una statua di marmo levigata dal tempo.
Un dubbio atroce la tormentava.
E se avesse ragione lui? Siamo stati davvero troppo arroganti? Troppo sicuri di noi stessi? Troppo pronti a scaricare la colpa sugli altri?
In cuor suo non poteva negarlo.
Come per una premonizione, Diana immaginò il suo futuro e si chiese come avrebbe fatto ad andare avanti, trascinandosi, giorno dopo giorno, nell'oscurità e nel dubbio, come una notte d'inverno senza una stella.
Ora c'era un fantasma in più a ballare con lei, nella sua danza macabra.
E quel fantasma, così come quello di Isabella, voleva giustizia:
<<Arturo era troppo sicuro di sé, ma io resto convinta che la moto sia stata manomessa. Devi scoprire chi è stato, perché un giorno questo assassino potrebbe decidere di far fuori anche te...>>
Ettore pareva aver considerato quell'eventualità:
<<Non nego di essere preoccupato al riguardo, ma se anche ammettiamo che si sia trattato di omicidio, io non saprei dove guardare. Non possono essere stati i miei nemici, perché oggettivamente hanno rafforzato la mia posizione di capofamiglia.
E non possono essere stati i miei amici, perché la loro fortuna dipende da me, e se io dovessi finire in galera, loro perderebbero tutto, perché non sarebbero nemmeno lontanamente capaci di tenere in piedi la baracca.
E di sicuro non sono stato io, perché non volevo fare di Arturo un martire. Avrei potuto accusarlo di molte cose, negli affari, e screditarlo, rivelando al mondo la sua incapacità.
Ma in fondo non occorreva nemmeno quello: si sarebbe comunque rovinato da solo.
E' il destino della vostra stirpe, e spero solo che le mie figlie e i loro discendenti non abbiano ereditato questa maledizione. Per ora mi sembra di no, ed io vigilerò affinché crescano cercando sempre di seguire il buon senso e di mantenere i piedi per terra>>
Era una critica severa al modo in cui Diana aveva fino a quel momento svolto il suo ruolo di madre.
Non volle replicare, perché il suo animo era straziato dal dolore per la morte di Arturo, e sentiva il bisogno di piangere, dopo un'intera giornata di impegno a mantenere la compostezza necessaria per venire a capo delle circostanze di quella tragedia.
Se ne andò dalla stanza del marito senza una parola e tornò nella propria camera lastricata di vecchie pietre a danzare con i propri fantasmi.
lunedì 9 dicembre 2019
Vite quasi parallele. Capitolo 35. Perisca il giorno
Quando il sole era già alto sul parco di Villa Orsini, finalmente il giovane Arturo, figlio del Conte di Casemurate, si decideva a recarsi al suo "lavoro" (in realtà una remunerativa sinecura) di vice-direttore della fabbrica del cognato e padrone del Feudo, Ettore Ricci.
Il "prode" Arturo montava sulla sua nuovissima Mondial 125, come i suoi avi sui grandi destrieri, e sollevando, tra una sgommata e l'altra, un polverone notevole sulla Cervese piena di buche.
La gente scuoteva la testa, ma in fondo provava simpatia per Augusto, perché era molto più socievole dei suoi familiari.
Gli amici lo chiamavano James Dean, senza immaginare che sia lui che l'attore avrebbero fatto una fine analoga, alla stessa età, a un anno di distanza l'uno dall'altro.
Il fatto è che Augusto gli assomigliava anche fisicamente, e sotto tanti aspetti si poteva considerare come un antesignano della "beat generation" e della "gioventù bruciata", fenomeni che in Italia si sarebbero visti solo negli Anni Sessanta.
Ma Arturo Orsini non vide mai gli Anni Sessanta.
Prima di narrare gli eventi oscuri e ambigui che portarono alla sua morte prematura, è necessario narrare gli eventi che precedettero la terribile disgrazia.
Stranamente c'era stata, nell'ultimo mese, una specie di tregua nell'eterna faida familiare tra Ettore Ricci e suo cognato Arturo Orsini, che aveva persino ottenuto una promozione "a socio" all'interno dell'azienda Ricci, come "dono di nozze", visto che Arturo stava per sposarsi con Anastasia Traversari.
Ma gli altri membri della famiglia Orsini non si fidavano di questo "regalo".
Diana mise in guardia il fratello citando Virgilio: <<Timeo Danaos, et dona ferentis>>
<<Cioè io dovrei temere Ettore Ricci anche quando porta doni?>>
<<Sì>> confermò Diana <<Conosco troppo bene mio marito e so che quando prende qualcuno in antipatia è impossibile fargli cambiare opinione. Vuole darti la colpa di qualche irregolarità di bilancio e rovinarti.
Ho sempre sospettato che fosse stata la sua strategia, ora ne sono certa>>
Augusto prima era parso offeso:
<<Anche tu dubiti delle mie qualità? Insomma, ormai lavoro lì da qualche anno, conosco gli affari, ho letto i documenti, mi sembra tutto in ordine. Che cosa c'è di strano se Ettore alla fine ha deciso di darmi fiducia? In fondo me l'ha detto lui stesso tante volte: il Clan Ricci-Orsini ormai è un'unica grande famiglia e non conviene a nessuno far nascere una faida interna>>
Sua sorella aveva scosso il capo:
<<Ettore non vuole che tu diventi il nuovo Conte. Ne ha abbastanza di nostro padre e non vuole più che la gente pensi che il capo sia ancora un Orsini.
Oltre tutto, quando sposerai Anastasia, diventerai ricco e potrai risollevare autonomamente le sorti degli Orsini, magari ricostituendo un nuovo feudo e una nuova villa, comprando le terre di altri possidenti della nostra Contea.
Devi stare attento a non firmare nulla e a non accettare nuovi incarichi.
Come vice-direttore, potresti ancora salvarti, ma se diventassi direttore e socio, allora cadresti in trappola.
Sii saggio! Concentrati sul tuo matrimonio, tu che hai avuto la fortuna di poterti fidanzare con una donna che ami.
Io conosco mio marito: vuole far scoppiare uno scandalo finanziario per mandare a monte le tue nozze, per questo ti ha nominato nominato dirigente della fabbrica, solo per accusarti di chissà quali colpe, magari frodi fiscali commesse da quel viscido verme del suo amministratore Michele Braghiri>>
aveva scrollato le spalle:
<<Non ho paura di lui! E' solo un villano rifatto!>>
Diana scosse la testa, sospirando:
<<E' proprio per questo tuo atteggiamento strafottente che sei in grave pericolo!
Sei troppo sicuro di te, del tuo titolo, della tua successione... ma lo vuoi capire che Ettore non avrà pace fintanto che l'erede del titolo di Conte di Casemurate non verrà estromesso dalla successione per indegnità morale. Potresti persino finire in galera. Il giudice De Gubernatis e l'ispettore Tartaglia, i cari cognati di Ettore, non aspettano altro che un tuo passo falso. Per questo devi cominciare ad agire seriamente e con prudenza.
Non voglio perderti, tu sei l'ultima speranza per gli Orsini: io ho sacrificato tutto per te, nostro padre vive per te, nostra madre ti adora... se tu fallissi, sarebbe il colpo di grazia per tutti noi!>>
Lui si commosse e la abbracciò:
<<Tu sei sempre stata la mia preferita tra le sorelle. Hai fatto tanti sacrifici per la nostra famiglia. Hai rinunciato alla tua libertà per noi. Ma ti prometto che Ettore dovrà imparare a rispettarti, altrimenti se la dovrà vedere non solo con me, ma con tutti i miei amici. Non te lo dovrei dire, o forse tu l'hai già capito, ma il mio futuro cognato, Federico Traversari, ha un debole per te>>
<<Non ci credo, sono troppo... insomma, sai cosa voglio dire. Certo sarebbe stato un ottimo marito, se si fosse fatto avanti quando era il momento! Ora è tardi. Non ci sono elementi per chiedere alla Sacra Rota l'annullamento del mio matrimonio con Ettore, neppure se lo volessi, e non lo voglio, perché ho tre figlie. Ho rinunciato alla libertà in nome della famiglia, eppure non è bastato. Ho perduto Isabella e il suo fantasma mi tormenterà per tutta la vita. Per questo ti supplico, Arturo, sii prudente!>>
Lui sorrise:
<<Una nave che resta nel porto è al sicuro, ma non è per questo che sono fatte le navi. Io ho fatto la mia scelta e ora devo difenderla, costi quel che costi.
E se Ettore vuole imbrogliarmi con i suoi libri contabili e le sue conoscenze in alto loco, io dimostrerò la mia innocenza, perché ne ho le prove e i mezzi!>>
Diana allora vide per la prima volta in suo fratello una forma di cupio dissolvi mascherata da volontà di vita. La sua spavalderia era coraggio oppure avventatezza?
La sua sete di libertà era una religione, ma la libertà va conquistata e difesa non solo con il coraggio, ma anche con il buon senso.
Si chiese se Arturo fosse consapevole di tutto questo, ma non seppe mai rispondere a tale domanda.
Lo lasciò andare, anche se il suo cuore andava in mille pezzi, perché se i suoi timori erano fondati, con Arturo se ne sarebbe andata l'ultima speranza della famiglia Orsini.
Ripensò alla leggenda di Artù, mitico re di Britannia, ferito a morte, ma secondo la leggenda ancora vivo, nell'isola di Avalon, accudito da sua sorella Morgana la Fata, e pronto a ritornare per ridare ai Britanni una nuova età dell'oro.
Arturo, la Speranza dei Bretoni.
La speranza vana...
E così, alla fine, in un giorno d'inverno, con le strade scivolose per le pozzanghere ghiacciate, accadde ciò che tutti paventavano accadde davvero.
Una mattina del febbraio 1952, mentre tutte le radio comunicavano con grande cordoglio la morte di re Giorgio VI di Gran Bretagna e il grande dolore di sua figlia, la nuova giovanissima regina Elisabetta II, Arturo Orsini si recò come di consueto al lavoro in motocicletta.
Fu a questo punto che accadde la tragedia.
La sua moto deragliò dopo nemmeno un chilometro, presso la curva di Bastìa, appena oltre i limiti della Contea, e fu così che il giovane erede dei Conti di Casemurate si schiantò contro un pioppo.
L'unico testimone, un anziano che aspettava la corriera, andò in soccorso al giovane e lo trascinò sulla strada, poi si mise a gridare aiuto.
Un passante in bicicletta si recò alla casa più vicina per cercare un telefono e chiamare i soccorsi, che arrivarono un quarto d'ora dopo seguiti da un'automobile della polizia guidata dall'ispettore Onofrio Tartaglia, in persona, marito di Maria Teresa Ricci e quindi cognato di Ettore.
I soccorritori non poterono far altro che constatare il decesso del giovane venticinquenne.
L'ispettore "Compagnia Bella" Tartaglia si tolse il cappello con aria compunta e poi corse subito presso la moto per verificare lo stato delle gomme e dei freni.
Pareva estremamente contrariato da ciò che aveva visto.
Si trattava di qualcosa che nessun altro avrebbe dovuto vedere.
Diede un'occhiata al serbatoio, ai tubi e senza farsi vedere accese un fiammifero.
Poi, mentre Tartaglia si allontanava di corsa, il serbatoio deflagrò, mandando la moto in mille pezzi e incendiando tutta la zona circostante, compreso il pioppo.
Furono chiamati i Vigili del Fuoco, e nel frattempo si formò un assembramento di passanti, ai quali Tartaglia diede ordine di allontanarsi, mentre dettava il rapporto ad un agente.
Un'ora dopo, sistemate tutte le formalità, Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, si recò al telefono più vicino per informare il giudice istruttore De Gubernatis e, al di fuori di ogni regola procedurale, la signorina De Toschi, che si esibì in una scena madre arrivando a simulare uno svenimento e a chiedere i sali alla governante Assuntina.
Alla fine, confuso e imbarazzato, perché quell'evento non rientrava nei piani di Ettore, Tartaglia si fece forza e si recò ad annunciare la notizia a Villa Orsini.
Ma le voci della disgrazia lo aveva preceduto e quando arrivò all'antica magione dei Conti di Casemurate, trovò una situazione pietosa.
La governante si esibì a sua volta in una scena da premio Oscar, attirando l'attenzione di tutti gli altri.
La contessa Emilia, appena si rese conto che suo figlio era morto, fu travolta da un dolore tale che corse subito in cantina alla ricerca dell'unico possibile rimedio che conosceva: una bottiglia di Porto rosso invecchiato di trent'anni, che scolò tutta d'un fiato, per poi crollare su un divano e abbandonarsi a un vaneggiamento che durò tutta la notte.
Ettore Ricci era al lavoro.
Sua sorella Adriana mostrò un'autentica sorpresa, perché, come Tartaglia, riteneva impossibile che un motociclista esperto come Arturo non fosse riuscito a prendere bene una curva.
Sussurrò varie cose all'orecchio del cognato ispettore, il quale a sua volta scuoteva la testa con aria sbalordita.
Ida Braghiri si era messa a recitare platealmente il rosario, baciando ripetutamente il crocefisso e invocando la protezione della Santa Vergine.
L'unica a mantenere una certa compostezza fu Diana Orsini, perché per sua natura era sempre preparata al peggio.
Si informò con estrema attenzione alla dinamica dell'incidente.
<<Mio fratello sapeva guidare molto bene. Non credo sia finito fuori strada per un proprio errore. Sei sicuro che non ci fosse un guasto alla moto?>>
"Compagnia Bella" Tartaglia incominciò a borbottare frasi incomprensibili e alla fine trovò la risposta adatta:
<<Non ho fatto in tempo a verificare. La moto ha preso fuoco ed è un miracolo che io sia riuscito a scappare in tempo>>
Diana lo fissò severamente: <<Un tempismo perfetto. Strano però che il motore sia esploso tanto tempo dopo lo schianto. Di solito succede pochi minuti dopo lo schianto. Tu quando sei arrivato lì?>>
<<Non ricordo esattamente, ma ho fatto molto in fretta, ero nell'ambulanza a sirene spiegate!
Comunque ho rischiato grosso. Il motore è esploso. Succede in questi casi. Sarà molto difficile stabilire se c'era un guasto>>
Diana annuì:
<<Diciamo pure che sarà impossibile. Un delitto perfetto!>>
L'ispettore sbiancò:
<<Diana, ti assicuro che faremo chiarezza sulla faccenda. Nessuno, e dico nessuno, almeno che io sappia, voleva che le cose finissero così>>
Voleva forse dire che Ettore non c'entrava niente?
<<Ne sei certo? Sto ricacciando dentro di me tutto il dolore in attesa che torni Ettore, per riversaglielo in faccia. In fondo, anche se non c'entrasse nulla, avrebbe un movente grande come tutta la nostra Contea!>>
Tartaglia la fissò con determinazione:
<<Ascoltami: conosco Ettore da una vita. So di cosa può essere capace, ma non è un assassino.
Su altri che lavorano con lui, invece, non metterei la mano sul fuoco.
Ora, io ti prometto una cosa: cercherò di stanare tutti quelli che avevano interesse a far scoppiare una faida tra i Ricci e gli Orsini.
Ma tu mi devi promettere di non accusare Ettore pubblicamente.
In privato puoi fare quel che vuoi, naturalmente. La cosa non mi riguarda, ma a livello pubblico occorre salvare le apparenze, ora più che mai.
Tu sei l'erede della Contea, adesso, e ci si aspetta da te un comportamento più consono al ruolo che ti spetta.
Prima di fare scenate, ricordati chi sei e che cosa rappresenti!>>
Detto questo se ne andò, lasciando Diana in una tempesta interiore.
Ora tutti guarderanno a me, ed io non potrò più nascondermi come ho fatto fino ad ora.
Dove troverò la forza per non impazzire?
Mentre pensava queste cose, vide sua madre, la Contessa Emilia, che si aggirava nei corridoi con la bottiglia di Porto in mano e ripeteva, con una voce impastata:
<<Ho sentito cosa ti ha detto quel bifolco di Tartaglia: che sei la nuova erede. Ma tu sei debole e continuerai a lasciare che Ettore faccia quel che gli pare.
L'erede è tuo marito, non tu. E questa è la fine della Dinastia>>
Diana si chiese se sua madre avesse ragione.
Se io cedo adesso, sarà veramente la fine degli Orsini.
Si recò al piano di sopra, nella stanza di suo padre.
Il vecchio Conte Achille, già prostrato da un attacco di gastrite, (destinata a tramutarsi in cancro allo stomaco, e a condurlo alla tomba nel giro di pochi mesi) era stato informato della cosa dalla governante, che aveva sostenuto con assoluta certezza la tesi del "tragico incidente".
Il Conte, ormai fuori di senno, maledisse se stesso per aver fatto entrare Ettore Ricci e Michele Braghiri nella sua vita, nella sua casa e nella sua famiglia e infine, gracchiò con disperazione il lamento irato di Giobbe, :
<<Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: "è stato concepito un uomo!" >>
Il "prode" Arturo montava sulla sua nuovissima Mondial 125, come i suoi avi sui grandi destrieri, e sollevando, tra una sgommata e l'altra, un polverone notevole sulla Cervese piena di buche.
La gente scuoteva la testa, ma in fondo provava simpatia per Augusto, perché era molto più socievole dei suoi familiari.
Gli amici lo chiamavano James Dean, senza immaginare che sia lui che l'attore avrebbero fatto una fine analoga, alla stessa età, a un anno di distanza l'uno dall'altro.
Il fatto è che Augusto gli assomigliava anche fisicamente, e sotto tanti aspetti si poteva considerare come un antesignano della "beat generation" e della "gioventù bruciata", fenomeni che in Italia si sarebbero visti solo negli Anni Sessanta.
Ma Arturo Orsini non vide mai gli Anni Sessanta.
Prima di narrare gli eventi oscuri e ambigui che portarono alla sua morte prematura, è necessario narrare gli eventi che precedettero la terribile disgrazia.
Stranamente c'era stata, nell'ultimo mese, una specie di tregua nell'eterna faida familiare tra Ettore Ricci e suo cognato Arturo Orsini, che aveva persino ottenuto una promozione "a socio" all'interno dell'azienda Ricci, come "dono di nozze", visto che Arturo stava per sposarsi con Anastasia Traversari.
Ma gli altri membri della famiglia Orsini non si fidavano di questo "regalo".
Diana mise in guardia il fratello citando Virgilio: <<Timeo Danaos, et dona ferentis>>
<<Cioè io dovrei temere Ettore Ricci anche quando porta doni?>>
<<Sì>> confermò Diana <<Conosco troppo bene mio marito e so che quando prende qualcuno in antipatia è impossibile fargli cambiare opinione. Vuole darti la colpa di qualche irregolarità di bilancio e rovinarti.
Ho sempre sospettato che fosse stata la sua strategia, ora ne sono certa>>
Augusto prima era parso offeso:
<<Anche tu dubiti delle mie qualità? Insomma, ormai lavoro lì da qualche anno, conosco gli affari, ho letto i documenti, mi sembra tutto in ordine. Che cosa c'è di strano se Ettore alla fine ha deciso di darmi fiducia? In fondo me l'ha detto lui stesso tante volte: il Clan Ricci-Orsini ormai è un'unica grande famiglia e non conviene a nessuno far nascere una faida interna>>
Sua sorella aveva scosso il capo:
<<Ettore non vuole che tu diventi il nuovo Conte. Ne ha abbastanza di nostro padre e non vuole più che la gente pensi che il capo sia ancora un Orsini.
Oltre tutto, quando sposerai Anastasia, diventerai ricco e potrai risollevare autonomamente le sorti degli Orsini, magari ricostituendo un nuovo feudo e una nuova villa, comprando le terre di altri possidenti della nostra Contea.
Devi stare attento a non firmare nulla e a non accettare nuovi incarichi.
Come vice-direttore, potresti ancora salvarti, ma se diventassi direttore e socio, allora cadresti in trappola.
Sii saggio! Concentrati sul tuo matrimonio, tu che hai avuto la fortuna di poterti fidanzare con una donna che ami.
Io conosco mio marito: vuole far scoppiare uno scandalo finanziario per mandare a monte le tue nozze, per questo ti ha nominato nominato dirigente della fabbrica, solo per accusarti di chissà quali colpe, magari frodi fiscali commesse da quel viscido verme del suo amministratore Michele Braghiri>>
aveva scrollato le spalle:
<<Non ho paura di lui! E' solo un villano rifatto!>>
Diana scosse la testa, sospirando:
<<E' proprio per questo tuo atteggiamento strafottente che sei in grave pericolo!
Sei troppo sicuro di te, del tuo titolo, della tua successione... ma lo vuoi capire che Ettore non avrà pace fintanto che l'erede del titolo di Conte di Casemurate non verrà estromesso dalla successione per indegnità morale. Potresti persino finire in galera. Il giudice De Gubernatis e l'ispettore Tartaglia, i cari cognati di Ettore, non aspettano altro che un tuo passo falso. Per questo devi cominciare ad agire seriamente e con prudenza.
Non voglio perderti, tu sei l'ultima speranza per gli Orsini: io ho sacrificato tutto per te, nostro padre vive per te, nostra madre ti adora... se tu fallissi, sarebbe il colpo di grazia per tutti noi!>>
Lui si commosse e la abbracciò:
<<Tu sei sempre stata la mia preferita tra le sorelle. Hai fatto tanti sacrifici per la nostra famiglia. Hai rinunciato alla tua libertà per noi. Ma ti prometto che Ettore dovrà imparare a rispettarti, altrimenti se la dovrà vedere non solo con me, ma con tutti i miei amici. Non te lo dovrei dire, o forse tu l'hai già capito, ma il mio futuro cognato, Federico Traversari, ha un debole per te>>
<<Non ci credo, sono troppo... insomma, sai cosa voglio dire. Certo sarebbe stato un ottimo marito, se si fosse fatto avanti quando era il momento! Ora è tardi. Non ci sono elementi per chiedere alla Sacra Rota l'annullamento del mio matrimonio con Ettore, neppure se lo volessi, e non lo voglio, perché ho tre figlie. Ho rinunciato alla libertà in nome della famiglia, eppure non è bastato. Ho perduto Isabella e il suo fantasma mi tormenterà per tutta la vita. Per questo ti supplico, Arturo, sii prudente!>>
Lui sorrise:
<<Una nave che resta nel porto è al sicuro, ma non è per questo che sono fatte le navi. Io ho fatto la mia scelta e ora devo difenderla, costi quel che costi.
E se Ettore vuole imbrogliarmi con i suoi libri contabili e le sue conoscenze in alto loco, io dimostrerò la mia innocenza, perché ne ho le prove e i mezzi!>>
Diana allora vide per la prima volta in suo fratello una forma di cupio dissolvi mascherata da volontà di vita. La sua spavalderia era coraggio oppure avventatezza?
La sua sete di libertà era una religione, ma la libertà va conquistata e difesa non solo con il coraggio, ma anche con il buon senso.
Si chiese se Arturo fosse consapevole di tutto questo, ma non seppe mai rispondere a tale domanda.
Lo lasciò andare, anche se il suo cuore andava in mille pezzi, perché se i suoi timori erano fondati, con Arturo se ne sarebbe andata l'ultima speranza della famiglia Orsini.
Ripensò alla leggenda di Artù, mitico re di Britannia, ferito a morte, ma secondo la leggenda ancora vivo, nell'isola di Avalon, accudito da sua sorella Morgana la Fata, e pronto a ritornare per ridare ai Britanni una nuova età dell'oro.
Arturo, la Speranza dei Bretoni.
La speranza vana...
E così, alla fine, in un giorno d'inverno, con le strade scivolose per le pozzanghere ghiacciate, accadde ciò che tutti paventavano accadde davvero.
Una mattina del febbraio 1952, mentre tutte le radio comunicavano con grande cordoglio la morte di re Giorgio VI di Gran Bretagna e il grande dolore di sua figlia, la nuova giovanissima regina Elisabetta II, Arturo Orsini si recò come di consueto al lavoro in motocicletta.
Fu a questo punto che accadde la tragedia.
La sua moto deragliò dopo nemmeno un chilometro, presso la curva di Bastìa, appena oltre i limiti della Contea, e fu così che il giovane erede dei Conti di Casemurate si schiantò contro un pioppo.
L'unico testimone, un anziano che aspettava la corriera, andò in soccorso al giovane e lo trascinò sulla strada, poi si mise a gridare aiuto.
Un passante in bicicletta si recò alla casa più vicina per cercare un telefono e chiamare i soccorsi, che arrivarono un quarto d'ora dopo seguiti da un'automobile della polizia guidata dall'ispettore Onofrio Tartaglia, in persona, marito di Maria Teresa Ricci e quindi cognato di Ettore.
I soccorritori non poterono far altro che constatare il decesso del giovane venticinquenne.
L'ispettore "Compagnia Bella" Tartaglia si tolse il cappello con aria compunta e poi corse subito presso la moto per verificare lo stato delle gomme e dei freni.
Pareva estremamente contrariato da ciò che aveva visto.
Si trattava di qualcosa che nessun altro avrebbe dovuto vedere.
Diede un'occhiata al serbatoio, ai tubi e senza farsi vedere accese un fiammifero.
Poi, mentre Tartaglia si allontanava di corsa, il serbatoio deflagrò, mandando la moto in mille pezzi e incendiando tutta la zona circostante, compreso il pioppo.
Furono chiamati i Vigili del Fuoco, e nel frattempo si formò un assembramento di passanti, ai quali Tartaglia diede ordine di allontanarsi, mentre dettava il rapporto ad un agente.
Un'ora dopo, sistemate tutte le formalità, Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia, si recò al telefono più vicino per informare il giudice istruttore De Gubernatis e, al di fuori di ogni regola procedurale, la signorina De Toschi, che si esibì in una scena madre arrivando a simulare uno svenimento e a chiedere i sali alla governante Assuntina.
Alla fine, confuso e imbarazzato, perché quell'evento non rientrava nei piani di Ettore, Tartaglia si fece forza e si recò ad annunciare la notizia a Villa Orsini.
Ma le voci della disgrazia lo aveva preceduto e quando arrivò all'antica magione dei Conti di Casemurate, trovò una situazione pietosa.
La governante si esibì a sua volta in una scena da premio Oscar, attirando l'attenzione di tutti gli altri.
La contessa Emilia, appena si rese conto che suo figlio era morto, fu travolta da un dolore tale che corse subito in cantina alla ricerca dell'unico possibile rimedio che conosceva: una bottiglia di Porto rosso invecchiato di trent'anni, che scolò tutta d'un fiato, per poi crollare su un divano e abbandonarsi a un vaneggiamento che durò tutta la notte.
Ettore Ricci era al lavoro.
Sua sorella Adriana mostrò un'autentica sorpresa, perché, come Tartaglia, riteneva impossibile che un motociclista esperto come Arturo non fosse riuscito a prendere bene una curva.
Sussurrò varie cose all'orecchio del cognato ispettore, il quale a sua volta scuoteva la testa con aria sbalordita.
Ida Braghiri si era messa a recitare platealmente il rosario, baciando ripetutamente il crocefisso e invocando la protezione della Santa Vergine.
L'unica a mantenere una certa compostezza fu Diana Orsini, perché per sua natura era sempre preparata al peggio.
Si informò con estrema attenzione alla dinamica dell'incidente.
<<Mio fratello sapeva guidare molto bene. Non credo sia finito fuori strada per un proprio errore. Sei sicuro che non ci fosse un guasto alla moto?>>
"Compagnia Bella" Tartaglia incominciò a borbottare frasi incomprensibili e alla fine trovò la risposta adatta:
<<Non ho fatto in tempo a verificare. La moto ha preso fuoco ed è un miracolo che io sia riuscito a scappare in tempo>>
Diana lo fissò severamente: <<Un tempismo perfetto. Strano però che il motore sia esploso tanto tempo dopo lo schianto. Di solito succede pochi minuti dopo lo schianto. Tu quando sei arrivato lì?>>
<<Non ricordo esattamente, ma ho fatto molto in fretta, ero nell'ambulanza a sirene spiegate!
Comunque ho rischiato grosso. Il motore è esploso. Succede in questi casi. Sarà molto difficile stabilire se c'era un guasto>>
Diana annuì:
<<Diciamo pure che sarà impossibile. Un delitto perfetto!>>
L'ispettore sbiancò:
<<Diana, ti assicuro che faremo chiarezza sulla faccenda. Nessuno, e dico nessuno, almeno che io sappia, voleva che le cose finissero così>>
Voleva forse dire che Ettore non c'entrava niente?
<<Ne sei certo? Sto ricacciando dentro di me tutto il dolore in attesa che torni Ettore, per riversaglielo in faccia. In fondo, anche se non c'entrasse nulla, avrebbe un movente grande come tutta la nostra Contea!>>
Tartaglia la fissò con determinazione:
<<Ascoltami: conosco Ettore da una vita. So di cosa può essere capace, ma non è un assassino.
Su altri che lavorano con lui, invece, non metterei la mano sul fuoco.
Ora, io ti prometto una cosa: cercherò di stanare tutti quelli che avevano interesse a far scoppiare una faida tra i Ricci e gli Orsini.
Ma tu mi devi promettere di non accusare Ettore pubblicamente.
In privato puoi fare quel che vuoi, naturalmente. La cosa non mi riguarda, ma a livello pubblico occorre salvare le apparenze, ora più che mai.
Tu sei l'erede della Contea, adesso, e ci si aspetta da te un comportamento più consono al ruolo che ti spetta.
Prima di fare scenate, ricordati chi sei e che cosa rappresenti!>>
Detto questo se ne andò, lasciando Diana in una tempesta interiore.
Ora tutti guarderanno a me, ed io non potrò più nascondermi come ho fatto fino ad ora.
Dove troverò la forza per non impazzire?
Mentre pensava queste cose, vide sua madre, la Contessa Emilia, che si aggirava nei corridoi con la bottiglia di Porto in mano e ripeteva, con una voce impastata:
<<Ho sentito cosa ti ha detto quel bifolco di Tartaglia: che sei la nuova erede. Ma tu sei debole e continuerai a lasciare che Ettore faccia quel che gli pare.
L'erede è tuo marito, non tu. E questa è la fine della Dinastia>>
Diana si chiese se sua madre avesse ragione.
Se io cedo adesso, sarà veramente la fine degli Orsini.
Si recò al piano di sopra, nella stanza di suo padre.
Il vecchio Conte Achille, già prostrato da un attacco di gastrite, (destinata a tramutarsi in cancro allo stomaco, e a condurlo alla tomba nel giro di pochi mesi) era stato informato della cosa dalla governante, che aveva sostenuto con assoluta certezza la tesi del "tragico incidente".
Il Conte, ormai fuori di senno, maledisse se stesso per aver fatto entrare Ettore Ricci e Michele Braghiri nella sua vita, nella sua casa e nella sua famiglia e infine, gracchiò con disperazione il lamento irato di Giobbe, :
<<Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: "è stato concepito un uomo!" >>
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