giovedì 19 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 19. Il clan Ricci-Orsini e le sue ramificazioni

Nel luglio del 1939 nacque la figlia primogenita di Ettore Ricci e Diana Orsini, e fu chiamata Margherita, ma il dato più interessante fu il cognome, dal momento che, come era usanza tra le famiglie nobili quando una loro figlia sposava un borghese, il cognome della prole, dietro permesso del Sovrano e degli organi da lui delegati, poteva unire quello nobile della madre a quello non nobile del padre.
Fu così che Margherita portò il cognome Ricci-Orsini, per gentile concessione di Sua Maestà Vittorio Emanuele III di Savoia, Re d'Italia e d'Albania e Imperatore d'Etiopia.
Per Ettore Ricci fu una vittoria a metà, nel senso che per varie ragioni si era fatto strada nel suo cuore un notevole disappunto.
In primo luogo avrebbe desiderato un maschio, e non era arrivato.
In secondo luogo, pur essendo il padrone del Feudo, vedeva che gli onori della "buona società" forlivese e ravennate andavano soltanto agli Orsini "purosangue", in special modo a suo cognato Arturo, che era l'erede del titolo di suo padre, il Conte di Casemurate.
Certo, Achille Orsini era un "Conte scontato", non essendo più proprietario della maggior parte delle sue terre, ma conservava ancora, grazie al contratto matrimoniale di Diana, la proprietà della Villa e una rendita vitalizia. In aggiunta aveva ottenuto per suo figlio Arturo un ruolo di azionista nella fabbrica di macchine agricole del vecchio Giorgio Ricci.
Se poi Arturo avesse fatto un buon matrimonio, allora il suo astro nascente avrebbe completamente cancellato la luce di Ettore Ricci, e questo era intollerabile.
C'era poi da tenere in considerazione un'ultima variabile, la figlia più giovane del Conte, Isabella, che era considerata la "perla" della famiglia, e non a torto.
Isabella Orsini, in effetti, era una delle giovani donne più belle che si fossero mai viste da quelle parti, a memoria d'uomo.
Alta, slanciata, con fisico snello da odalisca, viso ovale, occhi intensi, labbra piene, lineamenti regolari e dolci, sorriso irresistibile.
E questa sua eccessiva bellezza fu una delle cause della sua rovina.
Mentre la gravidanza e l'infelicità offuscavano la bellezza di Diana, quella di sua sorella minore cresceva ogni giorno di più, e non passò inosservata agli altri uomini che abitavano la Villa Orsini, tra cui Roderico Ricci e Michele Braghiri, che non le toglieva gli occhi di osso, e persino lo stesso Ettore.
Parte dell'amore che aveva provato per Diana incominciò a convogliarsi verso Isabella, tanto da renderlo sgarbato nei confronti di ogni corteggiatore che si faceva avanti per ricevere anche un solo sorriso da parte della più giovane degli Orsini.
La famiglia Ricci era altrettanto sgarbata con i corteggiatori di Isabella, ma per altre ragioni: se l'ultimogenita degli Orsini avesse sposato un uomo ricchissimo, tale da mettere definitivamente in ombra Ettore Ricci, rendendo superfluo il suo denaro, era assai concreto il rischio che tutti i Ricci venissero allontanati a vantaggio di un'altra famiglia più presentabile.
Per questo i Ricci perseguivano con tenacia una strategia matrimoniale che potesse aumentarne ulteriormente il loro patrimonio, il prestigio e, soprattutto, il potere.
Iniziò quindi la controffensiva delle sorelle di Ettore, per controbilanciare il potere delle cognate.
Certo, le sorelle Orsini erano belle e nobili, ma le sorelle Ricci erano ricche e astute.
Carolina si sposò col latifondista Leopoldo Gagni, Conte di Montescudo, che poteva essere suo nonno come età, il che andava benissimo, perché il vecchio non aveva figli e sarebbe stato facile convincerlo a far testamento alla giovane moglie-infermiera che si era scelto come angelo del focolare (e in fondo anche come angelo della morte, perché il Gagni era malato, e voleva qualcuno che lo accompagnasse dolcemente verso il riposo eterno). Se volessimo fare un raffronto poetico, il conte Gagni, pigro e pavido, non era certo il tipo a cui pensava Dylan Thomas, quando, pur essendo cagionevole di salute e destinato a una morte precoce, scriveva i famosi versi: "Non andartene docile in questa buona notte ... infuria, infuria contro il morire della luce". No, per il Conte di Montescudo sarebbe stato più consono l'incipit profetico di una delle ultime e più famose poesie di Cesare Pavese: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Per Pavese, che già meditava il suicidio, erano quelli di Constance Dowling, insensibile all'amore del poeta. Per Leopoldo Gagni di Montescudo erano gli occhi molto più interessati di Carolina Ricci, che avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di impadronirsi delle terre e dei titoli del moribondo marito.
Delle altre tre sorelle, Caterina era già sposata con l'avvocato Edoardo Baroni, che era il legale della Curia forlivese per le questioni amministrative, ed aveva ottimi agganci in tutto il mondo cattolico, che anche in epoca fascista, e sotto il pontificato del neo-eletto Pio XII, conservata in Italia un potere immenso.
Rimanevano Maria Teresa e Adriana, entrambe acide e lunatiche, ma molto diverse fisicamente.
Maria Teresa aveva una faccia tonda e un corpo robusto, come suo padre, il tarchiato e anziano patriarca "Zuarz" Ricci, ma tali tratti erano vagamente riscattati dai capelli biondi e dagli occhi azzurri di sua madre, la maestra Clara.
Adriana, l'ultimogenita, era il contrario: bruna e pelosa come il padre e magrissima e puntuta come la madre.
L'unico punto in comune di entrambe era il modo di fare grossolano e ruvido, fino al punto di fare battute sconce e ricorrere frequentemente al turpiloquio e ad imprecazioni da caserma.
I genitori, consapevoli di tutto questo, non fosse altro perché Maria Teresa ed Adriana litigavano violentemente ogni giorno, arrivando ad insultarsi in modo inenarrabile, fino a giungere alle mani e alle vie di fatto, si erano quasi rassegnati a tenersele entrambe sul groppone.
Alla fine però riuscirono a trovare un marito valido, secondo il loro punto di vista, a Maria Teresa.
Si trattava di un certo Onofrio Tartaglia, un omaccione gradasso che in gioventù era stato uno scagnozzo di Giorgio Ricci e poi un membro delle squadre fasciste e nella Milizia per buona parte degli Anni Venti. 
Tartaglia era stato soprannominato da tutti "Compagnia bella" (in dialetto romagnolo "cumpagnì beala") a causa del frequente uso di quell'intercalare e, ironicamente, per il fatto che la sua compagnia fosse tutt'altro che bella.
Ma il vecchio "Zuarz", che vedeva lontano, gli aveva fatto ottenere un invito ad una cena a Villa Orsini, in cui era naturalmente presente anche la Signorina De Toschi, cugina del Conte.
La signorina Mariuccia non nascose il proprio interesse nei confronti di quel maschio così brutale, che era proprio il tipo umano da cui era maggiormente attratta.
Anche in questo caso, bastarono alcune notti di fuoco al Villino De Toschi per permettere ad Onofrio Tartaglia di entrare nella Polizia di Stato e di raggiungere in breve tempo il grado di Ispettore alla Questura di Forlì.
Per la famiglia Ricci si trattava di un colpo da maestro, perché avere un poliziotto come lui dalla propria parte era necessario per consolidare il potere assoluto del proprio clan nella Contea di Casemurate.
Tartaglia, uomo dai gusti dozzinali, si sentì onorato di poter sposare Maria Teresa Ricci, giunonica ed altrettanto dozzinale.
Al loro matrimonio, sempre nel 1939, tutti si chiedevano quali creature abominevoli sarebbero nate da quell'unione. Possiamo solo anticipare che uno dei loro numerossimi  e stravaganti figli avrebbe avuto un nome che era tutto un programma, ovverosia "Arido", destinato ad avere un suo ruolo nell'epopea popolare casemuratense.
L'unica sorella di Ettore che rimase zitella fu Adriana: i suoi occhi erano spiritati e infuocati, la sua passione per la politica (più a destra del Fascismo) e la sua segreta professione di usuraia finirono per intimidire anche i più impavidi avanzi di galera che intendessero entrare nelle alte sfere del clan Ricci-Orsini.
Nessun pretendente si era fatto avanti.
Fu così che rimase a Villa Orsini, dove tutti la temevano, tranne la governante Ida Braghiri, che era peggio di lei sotto ogni punto di vista, e si rodeva il fegato nel vedere come i Ricci-Orsini fossero si fossero insinuati in tutti i meandri della società locale e non solo.
Ma, come le ricordava suo marito Michele, tutto questo faceva parte del piano: un giorno i loro figli si sarebbero uniti a qualche esponente dei Ricci-Orsini ed avrebbero avuto la propria parte, dopodiché loro avrebbero potuto mettere in atto la parte più segreta del diabolico progetto sviluppato anni prima.
A complicare tutto, però, giunse, inaspettata e sottovalutata, nel settembre 1939, la notizia quasi incredibile che l'Inghilterra e la Francia avevano dichiarato guerra alla Germania come punizione per aver invaso la Polonia, violando gli accordi diplomatici dell'anno precedente.
La bufera stava arrivando, ma nessuno ancora si rendeva conto fino a che punto avrebbe sconvolto le loro vite e i loro progetti.

martedì 17 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 18. Il giudice De Gubernatis

A quasi un anno dal matrimonio di Ettore Ricci con la primogenita del Conte di Casemurate, il Salotto Liberty di Villa Orsini era tornato ai fasti di un tempo.
E nonostante tutti sapessero che Ettore era ormai il vero padrone del Feudo Orsini, i suoi nobili suoceri continuavano a recitare la parte dei castellani feudatari , in perfetto stile ancien régime.
Il sacrificio di Diana era servito a riportare i genitori e i fratelli al centro della cosiddetta e sedicente "buona società".
Era l'aprile del 1939, ma nella Contea di Casemurate sembrava che il tempo si fosse fermato e che ad agitare le acque in Europa, invece di Hitler, ci fosse ancora Napoleone.
La politica e tutte le vicende della "grande storia", erano come echi lontani di vicende che interessavano solo qualche sfaccendato che si attardasse nelle osterie o nelle sale dei barbieri, specialmente "da Lindo", che oltre a tagliare i capelli per pochi centesimi, offriva anche il caffè a tutti gli avventori.
Le tradizioni persistevano, la modernità stentava a penetrare in quel "discreto angolo di mondo", che conduceva una vita placida e sonnacchiosa, in un eterno presente di piccole quotidianità.
Persino la gente che si reputava colta, come la Contessa Emilia Orsini, sosteneva che la vita agreste casemuratense fosse "in un certo qual modo simile a quella delle campagne inglesi ai tempi di Jane Austin, durante il periodo Regency".
C'era una certa dose di autocompiacimento ed esagerazione, in quelle frasi, ma per quel che riguardava l'ossessione del far fare alle figlie un buon matrimonio, l'atmosfera che si respirava era piuttosto simile a quella di "Orgoglio e pregiudizio".
Diana poteva anche concordare, su quel punto, ma, al contrario della madre, non amava particolarmente i romanzi della Austin, e in particolare trovava ipocrita il loro lieto fine dove l'amore e la convenienza riuscivano a trionfare contemporaneamente. Era un'illusione e non a caso Jane Austin non trovò mai l'uomo dei suoi sogni.
Diana preferiva identificarsi in personaggi molto diversi, come Catherine Earnshaw di "Cime tempestose", Rossella O'Haraoppure lady Chatterley, protagonista dello scandaloso (per l'epoca) romanzo di D.H. Lawrence. In tutti questi personaggi c'era una costante: la volontà di evadere da un matrimonio senza amore e di inseguire avventure e amori impossibili.
Ma tutto questo, per Diana Orsini, poteva esistere soltanto nei libri e l'unica cosa che le rendeva sopportabile il matrimonio con Ettore era il fatto che non aveva avuto occasione di innamorarsi di qualcun altro.
Era rimasta incinta dopo soli due mesi, e la gravidanza, giunta quasi immediata, non aveva risvegliato in lei alcun istinto materno, anzi, c'era un pensiero fisso che la tormentava, ossia che mettere al mondo un figlio, pur conoscendo quanto fosse ingiusta e a volte crudele la vita, fosse un sopruso, e che, come diceva Edipo, "non nascere è il più grande dei doni".
Ma le sorelle di Diana la pensavano diversamente.
La secondogenita, Ginevra, assomigliava alla madre, da cui aveva preso i capelli rossi, gli occhi azzurri e la pelle lentigginosa. Era tranquilla e docile, e parlava con una voce flautata che la rendeva ancora più eterea.
Un giovane magistrato, Guglielmo De Gubernatis, la corteggiava con grande devozione. 
Uomo raffinato, colto, paziente e diplomatico, il giudice De Gubernatis, era divenuto, da alcuni mesi, un assiduo frequentatore di Villa Orsini e del Salotto Liberty.
Nato a Catanzaro nel 1906, si era diplomato al Liceo Classico con ottima valutazione, ed era stato esonerato dal servizio militare a causa di una rinite allergica.
Si era poi laureato in Giurisprudenza all’Università di Reggio Calabria, dove aveva conseguito il Dottorato di Ricerca, anche grazie all’iscrizione ai Guf , Giovani Universitari Fascisti.
A tal proposito va anticipato il fatto che anni dopo, a regime caduto, giustificò quell'adesione dichiarando di essere stato un infiltrato da parte del partito socialista, anche se non presentò mai alcuna prova a sostegno di tale affermazione.
La sua tesi di Dottorato sul “Diritto nella Roma di Augusto” fu molto apprezzata non solo negli ambienti accademici, ma anche presso le gerarchie fasciste.
Queste credenziali gli permisero di ottenere la cattedra di Ricercatore confermato di Diritto Romano all’Università di Bologna, nel 1933. Qui ebbe modo di conseguire l’Avvocatura, nel 1934.
Nello stesso anno entrò a far parte, grazie alla segnalazione di un barone universitario, del prestigioso studio legale Asinelli-Raffarani, che assisteva in quel periodo gli interessi della famiglia Orsini Balducci di Casemurate in una controversia contro la marchesa Cordelia Battoni Ghepardi, riguardo ai costi di ristrutturazione di un palazzo in Via Belle Arti che la nobildonna aveva acquistato dai Conti Orsini una ventina d’anni prima. 
Di fatto la marchesa si era rifiutata di pagare la maggior parte della somma convenuta, puntando tutto su un cavillo inserito ad arte nel rogito notarile.
La causa si era protratta per le lunghe, considerato che la marchesa Battoni Ghepardi aveva a sua volta fatto causa alla ditta appaltatrice del restauro, all’architetto che aveva presieduto i lavori, all’agente mediatore del contratto, al portiere, al giardiniere, e persino a una famiglia di inquilini che abitavano da generazioni in una specie di sottoscala del palazzo.
Poiché si trattava di una grossa gatta da pelare che in studio nessuno voleva, la causa fu affidata all'ultimo arrivato, Guglielmo De Gubernatis, che così divenne legale della famiglia Orsini.
In verità come avvocato non si distinse gran che, e infatti la causa fu clamorosamente persa, contribuendo in tal modo alla rovina economica degli Orsini.
E tuttavia il suo fascino di uomo colto e grande affabulatore, la sua figura azzimata, con tanto di baffetti e brillantina, gli valsero le simpatie della Contessa Emilia, che lo spronò a intraprendere la carriera di magistrato.
De Gubernatis, pur avendo molti titoli ed essendo ben introdotto nell'alta società e nel partito fascista, temeva di non riuscire in quel grande intento, a causa della mancanza di referenze ad altissimo livello.
La Contessa Emilia, ascoltate queste sue perplessità, aveva dichiarato con grande sicurezza, sollevando l'indice della mano destra:
 <<In questi casi non c'è che la Signorina>>
<<Chi?>> aveva chiesto l'avvocato.
<<Ma come chi? La Signorina De Toschi, figlia dell'eroico Generale Ardito De Toschi e della compianta Violetta Orsini, cugina di mio marito>>
<<E come potrebbe aiutarmi questa... ehm... Signorina?>>
La Contessa aveva sorriso con sussiego e compiaciuta benevolenza:
<<Gli ex-attendenti di suo padre hanno fatto carriera in tutti i meandri della Pubblica Amministrazione. Se c'è un concorso da superare, c'è sempre un attendente del Generale De Toschi pronto a metterci una buona parola. Mi creda, l'esito positivo è certo>>
De Gubernatis era ancora perplesso:
<<Ma come potrei riuscire ad ottenere un"buona parola" da parte della Signorina?>>
La Contessa Emilia sorrise:
<<Be'... io le procurerò un invito al Villino De Toschi. Il resto dipenderà da lei.
Vede, avvocato, la Signorina si sente molto sola... ha bisogno d'affetto, di calore umano, lei mi capisce... Il tutto naturalmente senza impegno, nel senso che ormai non è più in età da marito da molto tempo, e non c'è pericolo di conseguenze>>
De Gubernatis, che era uomo di mondo, aveva capito, ma gli rimaneva ancora un dubbio:
<<Se posso permettermi una domanda in confidenza...>>
<<La prego, chieda pure>>
<<Ehm, com'è... fisicamente, questa Signorina?>>
<<Dunque, ad essere sinceri è un po' in carne... e poi l'età, gli effetti della menopausa... però Santo Cielo, Parigi val bene una Messa!>>
E così l'avvocato De Gubernatis, dopo un primo incontro in cui l'insaziabile Signorina lo onorò di un certo interesse nei suoi confronti, trascorse poi alcune notti di fuoco presso il Villino De Toschi.
Fu sufficiente.
Nel 1938 il promettente avvocato vinse il concorso di ammissione alla magistratura e, sempre grazie a una buona parola di un ex-attendente del Generale De Toschi, ottenne persino il suo primo incarico nel Tribunale di Forlì, per poter stare vicino alla famiglia Orsini.
Nel 1938 partecipò al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
Il vecchio Giorgio Ricci se lo fece subito amico, con una serie di regali ed elargizioni che permisero al giudice di comprare una palazzina nel centro di Forlì.
Ettore Ricci a sua volta ritenne che fosse fondamentale avere un giudice dalla propria parte, e in questo si rivelò lungimirante.
Nel giugno 1939 si fidanzò ufficialmente con Ginevra Orsini, entrando a pieno titolo nella famiglia.


giovedì 12 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 17. Lo Scavezzacollo, ossia l'infanzia rimossa di Francesco Monterovere

Molte speranze erano state riposte da Romano Monterovere e da sua moglie Giulia Lanni nel loro primogenito Francesco.
Queste speranze, fondate sul fatto che il bambino mostrava ottime doti intellettive, si libravano in alto, come aquiloni, che però il destino incominciò a prendere a sassate, quando nell'indole del piccolo Francesco, incominciò ad emergere un aspetto irrequieto e ribelle, che gli valse il soprannome di Scavezzacollo e che suscitò le ire del padre e le delusioni della madre.
Tutto ciò che sappiamo sull'argomento deriva principalmente dai racconti dei fratelli minori di Francesco, e cioè Enrichetta e Lorenzo, testimonianze che vanno presi con la dovuta cautela, considerando la tenera età dei testimoni ai tempi in cui gli eventi ebbero luogo.
L'unica cosa su cui tutti e tre i fratelli concordano, riguardo a quel periodo, sono le severissime punizioni, anche corporali, da parte del padre, Romano, affettuosamente chiamato "Babo" con una "b" sola. L'ex caporalmaggiore della Guerra d'Abissinia non riusciva ad accettare l'idea che il suo primogenito rifiutasse di obbedirgli e, più in generale, fosse estremamente diverso da lui.
Questo provocava a Romano esplosioni d'ira che, seppur molto presenti nell'indole dei Monterovere, fino a quel momento erano state latenti in lui, uomo apparentemente silenzioso e distaccato. La sua nevrosi ossessivo-compulsiva si aggravò e il suo equilibrio psico-fisico ne risentì a tal punto che i suoi capelli divennero precocemente bianchi, fino a quando subentrò la calvizie e la pelle di quel viso un tempo prestante si solcò di profonde rughe.
Non che tutta la colpa fosse del figlio, anzi è probabile che, specie negli anni dal '40 al '45, durante la guerra, la nevrosi di Romano avrebbe trovato comunque delle ragioni esterne tali da scatenare le sue ire e accelerare il suo precoce invecchiamento.
Ad ogni modo, volendo psicanalizzare il tutto in termini rigorosamente freudiani, ben presto la rigida educazione e le traumatizzanti punizioni inflitte da Romano al figlio a suon di tozze, fu introiettata nella mente di Francesco sotto forma di un occhiuto e spietato Super-Io, pronto a censurare tutto ciò che avrebbe provocato il biasimo paterno. Il successivo conflitto tra Io e Super-Io, sempre secondo la topica e la dinamica freudiana, avrebbe innescato il meccanismo della rimozione e quindi dell'amnesia.
Per completezza, occorre dire che l'amnesia non è l'unica conseguenza della rimozione, dal momento  che i contenuti rimossi non scompaiono, ma sono trasferiti in un ipotetico e inconoscibile settore della mente, l'Inconscio, secondo la prima topica, e l'Es, in base alle seconda.
Dall'inconscio, tali contenuti rimossi, essendo energia psichica, generano reazioni che si manifestano poi sotto forma di elementi bizzarri come i famosi "lapsus", o certi tipi di "tic" del linguaggio o dell'espressione, e ancora somatizzazioni di vario genere (dall'agire maldestro fino ai casi che un tempo venivano classificati nell'ambito dell'isteria), lievi disturbi cognitivi (dislessia e discalculia, ossia difficoltà a far di conto), distrazioni, amnesie, oppure ancora, nei casi più seri, in forme di nevrosi di tipo ansioso, ossessivo o depressivo o psicosi di tipo paranoide.
Con questo non vogliamo assolutamente aderire in toto ad una teoria che gli stessi psicologi considerano ormai datata, e dunque, sarebbe del tutto inappropriato affermare che Francesco Monterovere avesse sviluppato, anche solo in parte e in forma lieve, alcune di queste manifestazioni.
Più corretto è dire che della prima infanzia gli rimasero soltanto pochissimi ricordi, ridotti a brevi flash, tra cui, per esempio, il fatto che lo Scavezzacollo, per punizione di aver spaventato e rincorso dei pulcini, fosse stato infine chiuso nella stia, ogni volta che i pulcini stessi venivano liberati.
Teniamo conto che molti di questi eventi si verificarono in concomitanza con la Seconda Guerra Mondiale, specie nel periodo in cui incominciarono i bombardamenti anglo-americani ed ebbe luogo l'invasione tedesca, con tutti i traumi che simili tragedie portano con sé.
Degli anni della guerra non aveva ricordi diretti, tranne uno, ossia il fatto di trovarsi sotto il letto insieme ad un personaggio non ben identificato, durante un bombardamento.
Per il resto si limitava a riportare ciò che i suoi genitori gli avevano raccontato.
Erano stati anni catastrofici per tutti, ma in modo particolare per la famiglia Monterovere, che vide la sventura abbattersi su di sé per la seconda volta, se si tiene conto che la prima risaliva alla notte fatale in cui l'antenato Ferdinando perse la vita presso l'Orma del Diavolo, nella Selva di Querciagrossa, sotto il colle in cui sorgeva il castello di Monterovere Boica.
Romano, pur essendo caporalmaggiore, non venne richiamato in guerra, poiché riconosciuto invalido civile a causa di un non ben identificato incidente sul lavoro, che gli aveva danneggiato una gamba e lo aveva costretto a un periodo di immobilità.
Dei suoi fratelli, furono scelti per il Fronte i due più giovani e cioè Tommaso ed Edoardo, destinati il primo alla Libia e il secondo alla Francia (pochi sanno che esistette, per un brevissimo periodo, nel 1940, un fronte francese).
Tommaso non giunse mai in Libia: la nave in cui viaggiava, poco al largo della Sicilia, fu silurata da un bombardamento aereo inglese e non ci furono superstiti, né corpi recuperati, né tombe su cui piangere.
Edoardo giunse in Francia giusto in tempo per l'armistizio e fu collocato nella caserma di Mentone.
Quando gli arrivò la chiamata per il fronte russo, intuendo che se fosse partito non sarebbe mai tornato indietro, disertò e si diede alla macchia nelle terre della Repubblica di Vichy, dove visse per alcuni anni come clandestino, ritornando poi in patria a guerra finita, senza un soldo, ma carico di avventure (vere o presente tali) che avrebbe poi raccontato infinite volte a figli, nipoti e pronipoti vari.
Ferdinando, Umberto e Romano rimasero i soli a mandare avanti l'Azienda, che incontrava le prime difficoltà, poiché in tempo di guerra le cave di ghiaia e i canali di scolo erano l'ultima preoccupazione.
Ma il tracollo avvenne quando, come è noto, dopo l'8 settembre del 1943, quando l'Italia si spaccò in due: la Repubblica Sociale filo-tedesca al nord e il Regno d'Italia filo inglese e americano al Sud.
I bombardamenti anglo-americani si intensificarono.
Gran parte dei cantieri dell'Azienda, che già aveva subito gravi danni economici per la mancanza di commesse, andarono completamente distrutti.
Romano e famiglia dovettero abbandonare la loro residenza faentina e tornare in campagna nel casolare di Enrico ed Eleonora, nei pressi di un rifugio dal nome non incoraggiante di "Tombarona".
Durante un bombardamento a tappeto particolarmente efferato, Romano Monterovere si vide scoppiare una bomba a breve distanza, riportando danni all'udito che in seguito l'aggravamento dell'invalidità civile.
Lui, la moglie e il piccolo Francesco riuscirono a mettersi in salvo in un rifugio nei pressi del casolare di campagna dove il vecchio nonno Enrico e sua moglie Eleonora si erano ritirati.
Rimasero nelle campagne per molto tempo e il ricordo dell'episodio dei pulcini va collocato certamente in quel periodo, come anche la nascita dei fratelli di Francesco, e cioè Enrichetta nel 1943 e Lorenzo nel 1945.
A tutti costoro si aggiunse verso la fine del conflitto mondiale anche il ritorno la zia Anita, che era stata maestra a Fiume per vent'anni e che per un soffio era scampata alle foibe.
Se a tutto questo si aggiunge il fatto che i risparmi investiti dalla famiglia Lanni e dai Monterovere in titoli pubblici non valevano più nulla, la situazione finanziaria di tutti loro, nel '45, era talmente disastrosa che persino mettere insieme il pranzo con la cena era diventato sempre più arduo.
Una sera d'autunno, zoppicando e con le orecchie che gli fischiavano, Romano arrivò a casa con un prosciutto per metà andato a male e pieno di vermi, trovato nei pressi di un cassonetto.
Quel famigerato prosciutto andato a male, ripulito dal marcio e dai vermi, costituì uno dei pasti più cospicui della famiglia nel '45 e divenne il simbolo del punto più drammatico della povertà che dovettero sopportare.
Quando, molti anni dopo, l'Azienda si riprese e la famiglia tornò al benessere, nessuno di loro, nemmeno Francesco, dimenticò mai quel prosciutto pieno di vermi, e il volto trionfante di Romano, che l'aveva trovato rovistando nei cassonetti.

venerdì 6 settembre 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 16. La prima notte di nozze e la pendola sul muro

Non ci fu viaggio di nozze per Ettore Ricci e Diana Orsini.
Quest'insolita decisione fu motivata dicendo che era giusto che gli sposi si conoscessero meglio, prima di poter affrontare insieme un'esperienza impegnativa come un viaggio, al fine di trovare un loro equilibrio nella convivenza quotidiana.
Il vero motivo, però, era il precedente familiare della catastrofica luna di miele di Roderico Ricci, uno dei fratelli maggiori di Ettore, che era stato mollato dalla moglie proprio durante il fatale viaggio di nozze a Gabicce Mare, provocando uno scandalo (e una valanga di pettegolezzi e ilarità) di cui ancora non si erano spenti gli echi.
Nulla si sapeva della sorte della moglie fuggiasca di Roderico, se non che, interrogata dalla polizia per abbandono del tetto coniugale, si era difesa dicendo a gran voce che "un cane rabbioso" sarebbe apparso un moderato in confronto a suo marito.
A tutto questo si deve aggiungere il fatto che Ettore era troppo impaziente di installarsi una volta per tutte a Villa Orsini, e per poterlo fare senza troppi seccatori intorno, decise che il viaggio l'avrebbero fatto i familiari di sua moglie.
Fu così che il conte Achille, la contessa Emilia e i loro figli minori Arturo, Ginevra e Isabella, ebbero in dono un soggiorno di due settimane in un hotel di lusso a Montecatini Terme, più due casse di Dom Pérignon per la contessa, al fine di vincere le sue perplessità facendo leva sulla passione alcolica.
Tutta questa macchinazione fu solo un primissimo assaggio di ciò che quel matrimonio sarebbe stato, ossia, secondo l'espressione più eufemistica, una continua fonte di colpi di scena, e secondo quella più esagerata "uno scandalo dietro l'altro".
Ogni volta che il menage matrimoniale di Ettore e Diana mostrava una stravaganza o una deviazione dalle norme, gli uomini di mondo ridevano sotto i baffi, ma i moralisti e le signore timorate di Dio esprimevano il loro biasimo per quella che era, a detta loro, "un'indecenza".
La famiglia Orsini non se ne curava, seguendo la regola della Famiglia Reale Inglese: "never explain, never complain": mai dare spiegazioni e mai lamentarsi.
La famiglia Ricci, che invece, più italianamente, seguiva senza saperlo la regola napoletana del "chiagne e fotti", non si accorgeva nemmeno della propria eccentricità: l'unica cosa che contava, in quel momento, era assumere il pieno controllo del Feudo Orsini e dare vita ad un clan che unisse le risorse finanziarie dei Ricci con i beni immobili e il prestigio dei Conti di Casemurate.
E tuttavia, per assicurarsi che neanche il Papa potesse annullare quel matrimonio, era necessario che fosse consumato in presenza, seppur dietro la porta, di testimoni, seguendo i rituali barbari della "messa a letto".
Diana non manifestò obiezioni: si trovava in una condizione simile a quella di un condannato a morte a cui viene chiesto se preferisce il rogo o lo squartamento.
Chiese solo che come testimoni fossero scelte delle donne che già conosceva e di cui almeno una fosse fedelissima alla famiglia Orsini.
Alla fine la scelta ricadde, naturalmente, sulla Signorina De Toschi, come garante della famiglia Orsini e sulla governante Ida Braghiri come fedelissima della famiglia Ricci.
Per gli sposi erano state approntate addirittura tre camere da letto.
La prima era, ovviamente, quella nuziale, col grande talamo a baldacchino, con tende rosse, sete dorate e mobilio in stile Rococò, da fare invidia alla stanza da letto di Maria Antonietta a Versailles.
La seconda era la camera di Diana, che era stata ristrutturata come dono di nozze, e che l'avrebbe ospitata per la grande maggioranza del tempo, durante la sua lunga vita: la seta verde del letto, delle imbottiture degli sgabelli, delle decorazioni della carta da parati color giada, dominava su tutto, tanto che si parlò con grande rispetto della "stanza di seta cruda".
Le persiane erano sempre semichiuse a coppo, il giusto necessario per cambiare l'aria, ma non di più, dal momento che Diana soffriva di terribili emicranie che la costringevano a letto intere giornate.
La terza stanza, molto ampia e luminosa, era quella personale di Ettore, il quale, oltre a dormirci con sonno pesante accompagnato da russamenti simili al suono di un trattore, era solito depositarvi tutto ciò che "provvisoriamente" non sapeva dove mettere. E poiché non c'è nulla di più definitivo del provvisorio, gli oggetti depositati incominciarono a formare un ammasso disordinato di carabattole così malconce che persino la governante si rifiutava di metterci mano. Fu così che la camera di Ettore venne ribattezzata dai domestici, dai familiari e infine da tutti i conoscenti, col nome non del tutto edificante di "magazzino".
Su questo punto nacque poi la leggenda metropolitana secondo cui i conti Orsini di Casemurate erano così spietati da costringere il povero genero Ettore a dormire in un lercio magazzino.
Lo stesso Ettore, che detestava i suoceri, non volle mai smentire quella voce, limitandosi a stringere le spalle, come se per lui, uomo che veniva dalla gavetta, le comodità non fossero affatto necessarie, e che avrebbe dormito persino su un pagliericcio nella stalla, pur di non prendere i vizi decadenti dell'aristocrazia.
In realtà l'unica cosa decadente era la Villa stessa.
<<Questa casa è vecchia>> aveva commentato Ettore salendo per la prima volta le scale.
<<E' antica>> lo corresse lei <<E' stata costruita in età vittoriana>>
<<Sotto Vittorio Emanuele II?>>
<<No, ai tempi della regina Vittoria>>
<<Ah, quella vecchia grassona! Dicono che se la intendesse con uno stalliere. Non so come avrà fatto quel poveretto>>
Ma a quel punto gli venne l'ansia da prestazione, e sbottò:
<<Fosse per me, butterei giù tutto e costruirei una casa nuova. Ma visto che a voi piacciono le cose vecchie, cercheremo di fare delle ristrutturazioni. Mi costeranno un occhio della testa, ma alla fin fine lo faccio anche per voi, perché la mia famiglia siete voi poveracci! Eh sì, eh sì ...>>
Diana non replicò, perché non erano tanto le parole a darle fastidio, quanto il fatto che la famiglia Ricci non avesse mantenuto del tutto le promesse.
Era stato il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci a spiegare al figlio Ettore come intendeva gestire la questione :
<<Ho tolto le ipoteche dalla Villa, come avevo promesso al Conte, ma per quanto riguarda le ipoteche sul Feudo, lo farò un poco alla volta, perché gli Orsini debbono sempre ricordare chi è che tiene il coltello dalla parte del manico>>
Ettore aveva concordato e, forte di quel seppur metaforico coltello, si era lanciato in una serie di progetti architettonici che avrebbero fatto impallidire papa Urbano VIII.
<<Prima di tutto farò ristrutturare gli appartamenti per gli ospiti. Uno andrà a Michele Braghiri e alla sua famiglia, perché è una vergogna che vivano ancora nella Cameraccia. 
Un altro per mio fratello Roderico e uno per mia sorella Adriana>>
Forse furono quei propositi, riservati a persone che Diana detestava, a dare il colpo di grazia a quel che restava delle buone intenzioni di lei riguardo all'incombente prima notte di nozze.
Fu in quel momento, infatti, che nella sua mente germogliò l'idea di far pagare al marito quella serie di sgarbi e umiliazioni rendendogli pan per focaccia, ma in maniera più sottile, ossia con una sorta di resistenza passiva, rimanendo in silenzio, tenendogli il muso e arrivando persino a fingere di  ignorare la sua presenza, anche nei momenti più intimi.
Fatto sta che la camera nuziale, dopo una controversa prima notte di cui renderemo immediatamente conto, non fu quasi mai frequentata, se non lo stretto necessario per concepire figli, e i coniugi decisero, già dalla seconda notte, di dormire separati, facendo notare ai dubbiosi che quella era la norma nelle famiglie aristocratiche.
Ma a Casemurate circola ancor oggi un'altra versione dei fatti, una specie di leggenda, che si potrebbe definire quasi una barzelletta, se non fosse stata così tragicamente verosimile.
A mettere in giro la storia fu l'ingrato Michele Braghiri, dopo che sua moglie, la governante, ebbe raccontato nei minimi dettagli la sua versione dei fatti riguardo a tutti i rumori provenienti dalla camera degli sposi, in quella famosa prima notte di nozze.
Pare che, all'inizio, le cose procedessero abbastanza normalmente, come testimoniava il ritmico cigolare del letto e il respiro affannoso di Ettore. Certo, non c'era particolare passione, ma ognuno dei due sembrava fare la sua parte.
<<A un certo punto>> raccontò la signora Ida al marito <<mentre lui ci dava sotto da un bel po', ho sentito lei che ha detto: "Quella pendola sul muro è indietro di un'ora"
Deve averlo detto proprio nel momento in cui lui stava per... insomma, ci siamo capiti... perché c'è stato il grugnito di piacere, da verro, del signor Ettore e dopo un silenzio di tomba.
Quella frase della moglie lo ha umiliato proprio nel momento in cui lui finalmente...
Insomma, nessuno pretende che la moglie debba far finta, ma tirare fuori quella storia della pendola!>>
Michele Braghiri, che si vantava di essere un grande amatore, prese le parti di Diana:
<<Be', forse Ettore non è poi così vigoroso come dice di essere. 
E poi quella pendola è appesa proprio nella parete di fronte al letto. 
Ed è bella grossa, anche... >>
La signora Ida scosse il faccione paonazzo:
<<Ma Santo Cielo, era la prima notte! E lei era vergine!>>
<<Sei sicura?>>
<<Ma certo! Ho controllato i lenzuoli. Dovevo pur testimoniare che tutto era stato fatto in regola!>>
Michele annuì, ma poi fu colto da un dubbio:
<<Ma lei non ha fatto nemmeno un urletto quando lui l'ha...>>
<<Macché, niente di niente! Un cadavere stecchito sarebbe stato più vivace!>>
Il signor Braghiri annuì soddisfatto, poi, come se nella sua mente fosse balenata una premonizione, chiese:
<<E adesso la pendola è in orario?>>
La signora Ida sogghignò:
<<No. E' ferma. Si è fermata a quell'ora>>
Quest'ultimo particolare, che nessuno poté mai verificare, poiché solo la governante aveva accesso alla stanza, oltre agli sposi, fu considerato la prova decisiva e suscitò, passando di bocca in bocca, un misto di ilarità e di sgomento, come se in una simile camera nuziale, con tanto di pendola ferma in eterno nel momento della somma umiliazione del marito da parte della moglie, non potesse che essere generata una stirpe di folli.




martedì 27 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 15. Le nozze di Ettore e Diana

In una ridente domenica di giugno del 1938 ebbe luogo l'ultimo grande evento mondano della Contea di Casemurate prima della Seconda Guerra Mondiale, ossia il matrimonio di Diana Orsini Balducci, primogenita del conte Achille, con Ettore Ricci, suo fidanzato da meno di un anno.
Quelle nozze furono anche l'ultima occasione, in assoluto, nella quale le antiche famiglie aristocratiche e dell'alta società si degnarono di partecipare ad una cerimonia insieme alla gente comune del luogo e se lo fecero, fu soprattutto per mera curiosità, e magari per una segreta speranza di assistere ad episodi imbarazzanti.
Nei mesi precedenti, i promessi sposi si erano visti poche volte, per non rischiare spiacevoli inconvenienti che avrebbero potuto mandare a monte l'alleanza tra il clan dei Ricci e quello degli Orsini.
Erano stati comunque mesi intensi.
La famiglia Ricci, per una volta, non aveva badato a spese e aveva organizzato l'evento cercando di mantenere un equilibrio tra la solennità elegante desiderata dagli Orsini e la sfarzosità un po' pacchiana che mirava a far colpo sulla folla.
Clara Ricci assunse persino uno stuolo di esperti di bon ton incaricati d'impresa quasi disperata di "dirozzare" suo figlio Ettore una volta per tutte.
Nel frattempo, Diana era rimasta in disparte, in silenzio, riducendo al minimo possibile le interazioni sociali, anche con i parenti, per i quali provava un senso di delusione e di estraneità che soltanto il tempo e gli eventi eccezionali e terribili degli anni futuri avrebbero potuto attenuare.
In particolare stava attenta a non lasciarsi sfuggire nessuna protesta in presenza della governante Ida Braghiri, di cui aveva intuito, oltre alla natura maligna e pettegola, anche il ruolo di spia per conto del suo futuro suocero, il vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, e tutto il suo clan, di cui Ettore, in fondo, era il membro più onesto e meno compromesso con certi affaristi e politicanti senza scrupoli.
Aveva finito per accettare il ruolo che le era toccato in sorte, ma aveva giurato a se stessa che la famiglia che sarebbe sorta dal suo matrimonio sarebbe stata migliore di quella in cui lei era nata e cresciuta. E per "migliore" intendeva qualcosa di molto diverso rispetto alle cose a cui suo padre e sua madre davano importanza. Lei non avrebbe mai permesso che i suoi figli fossero costretti a sposarsi contro la loro volontà, e avrebbe fatto in modo che si sentissero protetti, e che crescessero imparando il valore del sostegno reciproco, senza che nessuno di loro dovesse sacrificarsi in nome di tutti gli altri.
Certo, per poter riuscire in questo, Diana avrebbe dovuto lottare contro la famiglia del marito, ma sperava ancora che Ettore fosse veramente innamorato di lei, e dunque disposto ad ascoltarla e a rispettarla, soprattutto per quel che riguardava l'educazione dei figli che sarebbero nati.
Per ottenere questo era disposta a salvare le apparenze in pubblico, mantenendo un contegno impeccabile, a partire dalla cerimonia nuziale.
Entrambe le famiglie avevano convenuto sulla necessità di spedire un numero enorme di inviti, per garantire una partecipazione straordinaria all'evento, che ne avrebbe sancito il successo.
E in effetti sia numero dei partecipanti, sia la loro importanza e varietà, furono superiori alle più rosee aspettative.
C'erano i grandi proprietari dei latifondi circostanti, e si trattava di personaggi i cui nobili cognomi erano venerati più degli dei dell'Olimpo nell'Antica Grecia.
Primi tra tutti, i marchesi Spreti di Serachieda avevano persino anticipato l'apertura estiva della loro famosa Villa con tanto di torre, che si trovava nelle vicinanze della chiesa, nel punto esatto dove il torrente Serachieda faceva da confine tra la provincia di Forlì e quella di Ravennna, di modo che Casemurate, già così piccola, risultava pure divisa in due.
E, sia detto per inciso, i casemuratensi di Ravenna si consideravano i più antichi e i più raffinati, facendo risalire le loro origini familiari ai tempi dell'Esarcato bizantino, laddove invece i casemuratensi di Forlì erano considerati come dei barbari discendenti dai Galli Senoni, mandati a lavorare la terra come schiavi dei conquistatori romani.
Ma dall'antica e romana Forum Livii giunsero per quelle nozze famiglie leggendarie, alcune persino citate da Dante, come i Paolucci de' Calboli, che peraltro erano la famiglia natale della contessa madre Emilia, sorella dell'illustre e compianto milite Fulcieri, il cui nome era lo stesso del famoso antenato di dantesca memoria.
Parteciparono anche i conti Zanetti Protonotari Campi, proprietari di antichissimi vigneti da cui la loro azienda produceva vini pregiati di eccellente qualità.
Vennero addirittura i conti Orsi-Mangelli, il cui capofamiglia aveva fondato un famoso setificio.
Grande stupore suscitò la partecipazione dell'anziano conte Leopoldo Gagni di Montescudo, che non usciva di casa da vent'anni e andava a dormire alle sette di sera come i polli. La sua presenza aveva valide motivazioni: essendo vedovo e ormai senza soldi, desiderava risposarsi con una brava ragazza che avesse sostanzialmente due qualità: una buona dote e uno spirito di servizio da crocerossina.
Aveva chiesto consiglio all'unica persona che sapeva tutto di tutti e la cui parola era decisiva in qualsiasi questione: la Signorina De Toschi.
Quest'ultima aveva pensato bene di utilizzare questa unione per accrescere il potere del nascente clan Ricci-Orsini. In men che non si dica, Carolina Ricci, una delle numerose sorelle di Ettore, era stata fidanzata ufficialmente al conte Gagni.
Considerato il prestigio di questi invitati, ad officiare la messa nuziale fu l'allora vescovo di Forlì, Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Giuseppe Maria Caetani, anche lui appartenente a una nobile famiglia romana, per quanto fosse un prelato molto gioviale e alla mano, tanto che i fedeli lo chiamavano affettuosamente "don Pippo" e i maligni Monsignor Panzone.
Sul versante delle autorità politiche, istituzionali, culturali, clericali e militari, la partecipazione fu sollecitata, ovviamente, dalla Signorina De Toschi, autoproclamatasi testimone di nozze della sposa,  e addirittura dal Generale De Toschi in persona, che,  insieme ad un drappello di attendenti e ufficiali in alta uniforme, aveva imposto la presenza del picchetto d'onore, da lui stesso presieduto, con tanto di sfoderamento delle spade all'uscita degli sposi, in deroga a tutte le norme cerimoniali.
L'anziano Generale, fervente monarchico, Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone dell'Ordine Militare di Savoia e di quello della Corona Italiana, nonché Grande Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, si sentì in dovere di comunicare agli sposi e alle loro famiglie, nonché a gran parte degli aristocratici presenti, che "Sua Maestà il Re, per il tramite di Sua Altezza Reale Maria José, Principessa di Piemonte, rivolge agli sposi e a tutti gli intervenuti le sue più vive felicitazioni".
Mancò poco che questa sbruffonata da miles gloriosus del Generale De Toschi causasse un incidente diplomatico con la milizia fascista, che voleva a sua volta far parte del picchetto d'onore, dal momento che il padre dello sposo, il vecchio Giorgio Ricci, si vantava di essere un amico d'infanzia del Duce, e i suoi figli maggiori, Oreste e Roderico, erano arrivati persino a dare per certa la partecipazione del conte Ciano e consorte, notizia che si rivelò, com'era da prevedersi, del tutto priva di fondamento.
Ma Ettore, che era il meno politicizzato tra i membri della famiglia Ricci, riuscì a convincere il padre e i fratelli a evitare ulteriori spacconate che suscitassero le ironie dei nobili di ben più antico lignaggio e le tensioni con gli stessi conti Orsini di Casemurate, liberali conservatori di vecchio stampo, piuttosto tiepidi di fronte al fascismo.
La gente comune partecipò in massa: i popolani volevano essere testimoni di un evento che sarebbe stato ricordato molto a lungo nei decenni seguenti e che vedeva il trionfo di uno di loro, che per la prima volta entrava a far parte di una famiglia nobile.
Quando videro la sposa incedere verso l'altare al braccio del Conte, suo padre, rimasero stupefatti dall'eleganza sobria dell'abito nuziale e del velo, che, unite al fisico snello e alla pelle diafana, le conferivano quasi l'aspetto di una fata.
Suo fratello Arturo e le sorelle Ginevra e Isabella sapevano bene che dietro a quell'alone sovrannaturale c'era in realtà una grande sofferenza, e di ciò si sentivano in colpa, perché sapevano che, salvando il buon nome e la solvibilità degli Orsini di Casemurate, Diana permetteva a loro di avere ciò che a lei non era stato concesso, e cioè la possibilità di scegliere la persona con cui trascorrere il resto della propria vita.
La contessa Emilia, divorata dall'ansia che potesse succedere qualche disguido dell'ultimo minuto, cercava di smorzare la tensione osservando lo spettacolo offerto dal vecchio Giorgio "Zuarz" Ricci, che osservata la futura nuora con la bocca aperta e mezza sdentata.
Ma il vero spettacolo era offerto dalla Signorina de Toschi: portava un enorme cappello a tesa larga, come quelli delle dame inglesi dell'età edoardiana, tutto inghirlandato di fiori finti e di penne di uccelli, tanto che ci avrebbero potuto nidificare comodamente due coppie di cicogne. Per tener fermo quell'enorme cespuglio piumato, c'era un nastro che passava tra il suo secondo mento e il terzo, al di sotto del quale l'attempata signorina Mariuccia sfoggiava una parure di diamanti che avrebbe fatto invidia a quelle della Corona Britannica. Il resto dell'abito era un'accozzaglia di balze in pizzo e in tulle, inframmezzate da lunghissime collane di perle che le ricadevano fino alla scollatura. Da lì, non essendo possibile far indossare un corpetto a quel corpo così panciuto, partiva un'enorme gonna, con diecimila sottane e un diametro, a terra, di quasi due metri.
A sorvegliare la Signorina, il cui onore era più sacro di quello della sposa, c'era, come si è detto, il Babbo, il grand'uomo, il Generale Ardito De Toschi.
La sua presenza incuteva terrore: era una specie di incrocio tra Bismarck e il Kaiser Guglielmo II, con tanto di baffoni inamidati e arricciati verso l'alto.
Gli occhi erano a tal punto spiritati, e il cipiglio così corrucciato, che il suo solo sguardo era già di per sé una dichiarazione di guerra.
Le decorazioni appuntate sulla sua divisa di generale di corpo d'armata occupavano tutto lo spazio disponibile. Oltre a quelle di cui si è accennato sopra, c'era persino chi giurava di aver scorto la Legion d'Onore, la Croce di Ferro prussiana, il Toson d'Oro di asburgica memoria e addirittura la stella dell'Ordine della Giarrettiera.
Tra le innumerevoli le medaglie al valor militare e civile, spiccavano le mostrine e i galloni del grado di comando, a commemorare con gloria le sue gesta immortali.
La sciabola tintinnava al suo fianco, ogni volta che il vegliardo si alzava e si sedeva, ma non si inginocchiava mai, adducendo come causa una fastidiosa artrosi: in realtà era un uomo talmente orgoglioso che, pur essendo credente, riteneva che lui e Dio potessero guardarsi negli occhi, l'uno di fronte all'altro, da pari a fari.
Non meno orgogliosi erano i parenti dello sposo, a cominciare da sua madre, la maestra Clara Ricci, i cui intrighi erano stati degni di una specie di Guerra delle Due Rose, tanto che, nel porle un cenno di saluto, il conte Achille non poté fare a meno, per un istante, di paragonarla a Margaret Beaufort, la madre di Enrico VII Tudor, nel giorno in cui il re sposava l'erede della dinastia sconfitta, la principessa Elisabetta di York.
Preferì tuttavia non soffermarsi sulla sorte degli altri York sopravvissuti, tutti destinati a cadere, uno dopo l'altro, sotto i colpi di mannaia dei Tudor.
Al passaggio di Diana, ci fu grande silenzio non solo nella navata di destra, dove sedevano i nobili, ma anche in quella di sinistra, dove si trovava la famiglia dello sposo, e tutti i personaggi, di non poco conto, collegati al grande clan dei Ricci.
Ettore si era strategicamente collocato su un gradino più in alto, in modo da rendere meno evidente la propria bassa statura.
Aveva lo sguardo soddisfatto di un re che stava per essere consacrato e legittimato agli occhi di un popolo che per troppo tempo non aveva creduto in lui.
Oreste Ricci, suo fratello maggiore, gli faceva da testimone di nozze.
A differenza di Ettore, che assomigliava più al padre, Oreste aveva i capelli rossicci della madre, che lo adorava a tal punto da fargli avere l'incarico di vicedirettore dell'Azienda Meccanica Ricci, specializzata nella produzione, all'avanguardia per l'epoca, di macchinari agricoli.
Gli altri fratelli e sorelle dello sposo erano come in attesa di spartirsi una torta, e non era soltanto quella nuziale.
Roderico, considerato l'intellettuale di famiglia in quanto diplomato all'istituto tecnico agrario, aveva un carattere talmente insopportabile che, qualche anno prima, la moglie era fuggita dal talamo coniugale dopo soli due giorni di matrimonio. Da allora il suo umore era divenuto talmente collerico che persino un cane ringhioso sarebbe apparso un moderato, in confronto a lui.
Caterina era insieme al marito, l'avvocato Edoardo Baroni, esponente dell'Azione Cattolica con ottime aderenze e relazioni nella Curia forlivese.
Maria Teresa era fidanzata con il vice-ispettore della polizia Onofrio Tartaglia, di ferrea fede fascista.
Carolina osservava vecchio il conte Gagni con una certa apprensione, facendosi forza al pensiero che sarebbe presto diventata una vedova rispettabile ed economicamente indipendente.
Adriana, l'ultimogenita, era stata scelta dalla madre come "bastone per la vecchiaia", e dunque destinata al nubilato, non fosse altro che per il suo aspetto non proprio attraente e per il carattere alquanto burrascoso.
Vicino alla famiglia Ricci, c'erano anche i coniugi Braghiri, entrambi nel contempo divorati dall'ambizione e illividiti dall'invidia.
Vedendo tutta la sfilata di nobili che, come divinità celesti, erano scese dall'alto dei mondi sereni calandosi in quell'atomo opaco del male, i Braghiri, nel cui sangue il male scorreva come un nutrimento, sentivano rinnovarsi nel cuore la bramosia di impadronirsi di tutto, con qualunque mezzo, a qualunque costo.
Tale è la brama del successo, il quale come una droga crea dipendenza e corrompe il corpo e la mente di chi lo insegue, rendendolo disposto a fare qualsiasi cosa pur di conservarlo e accrescerlo.
Ben pochi riuscivano a salvarsi da quel demone, e se ce la facevano era solo perché protetti dall'unica medicina che rendeva felici e immuni dalle ansie, e cioè la stupidità.
Uno stupido di successo è felice perché è stupido, a prescindere dal successo stesso.
Una persona intelligente, al contrario, può diventare un mostro se la droga del successo mette radici troppo profonde nella sua anima.
Diana aveva appreso tutto questo da molto tempo.
Sua madre, nei momenti di sincerità indotti dall'alcool, aveva confessato che era stata la brama di successo a rovinare la loro famiglia, e quando la figlia le chiedeva se sarebbero mai più riusciti ad essere felici, lei aveva riso: "Felici? E che cos'è la felicità, se non il premio di consolazione degli idioti?".
Diana aveva obiettato che quella frase avrebbe potuto offendere tante persone intelligenti che si ritenevano felici.
La contessa Emilia aveva scosso il capo: "Non sono felici, mentono a se stessi, e si offendono perché noi smascheriamo la loro menzogna".
"Dunque conoscere la verità rende infelici?"
"Nei limiti in cui la verità è conoscibile".
Tutte quelle parole tornarono alla mente della sposa, durante quella tediosa cerimonia.
Quando si giunse alla fatidica domanda "Vuoi tu, Diana, prendere il qui presente Ettore come tuo legittimo sposo, per amarlo e onorarlo... "  il silenzio calò nella chiesa.
Se avesse potuto dire la verità, la risposta sarebbe stata negativa.
Ma Diana aveva imparato che, per quanto dire la verità sia generalmente una cosa giusta, ci sono casi in cui può scatenare la fine del mondo, e sarebbe sbagliato provocare la fine del mondo in nome di una cosa giusta.


lunedì 19 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 14. Trame segrete ed ambizioni nascoste


<<E Diana cos'ha detto, dopo che Ettore è andato via?>> chiese Michele Braghiri, l'azzimato ammnistratore del Feudo Orsini di Casemurate, nonché marito della burbera governante della Villa, la signora Ida, mentre lei gli serviva la cena.
<<Prima ha riso come una matta per mezz'ora. Poi ha fatto il muso per un'altra mezz'ora. Alla fine è andata dai suoi e ha detto: "Siete proprio sicuri di volerlo come genero? Adesso recita la parte dell'innamorato maldestro, ma quando mi avrà messo l'anello al dito e verrà ad abitare qui da padrone, a quel punto non vi farà più così ridere">>
Il signor Braghiri annuì, lisciandosi i capelli laccati con la brillantina:
<<Sarà anche mezza matta, ma non è affatto scema, la nostra cara Diana>>.
La robusta signora Ida scrollò le spalle, per mostrare indifferenza al fatto che suo marito, per il quale ostentava un'adorazione assoluta, fosse molto sensibile al fascino femminile.
Non a caso lui ed Ettore Ricci si erano conosciuti da ragazzi presso un bordello locale, frequentato per lo più da contadini arricchiti, che gli invidiosi, cioè quelli che non erano riusciti ad arricchirsi, chiamavano "pidocchi rifatti" o, come si dice ancor oggi nel dialetto gallico locale, "pdoch arfeat".
Incuranti di quel soprannome, Ettore Ricci e Michele Braghiri avevano stretto amicizia e col tempo erano diventati anche collaboratori in affari.
Ettore, che aveva alcuni anni più di Michele, ed era decisamente più ricco, aveva ben presto assunto il ruolo di guida, e l'altro ne era divenuto il braccio destro e la longa manus.
C'era però un'ambivalenza nell'ammirazione di Michele Braghiri nei confronti di Ettore Ricci, e consisteva nel fatto che, pur considerandolo una specie di modello a cui ispirarsi, nutriva nei suoi confronti una profonda invidia, che suscitava, ogni giorno di più, segreti istinti di rivalsa.
Questa era la loro principale differenza: Ettore Ricci, come tutte le persone davvero sicure di sé, non invidiava nessuno, al massimo prendeva esempio da chi giudicava migliore e poi andava avanti per la sua strada, ponendosi obiettivi ambiziosi che quasi sempre riusciva a raggiungere.
Pur essendo basso di statura, nessuno era in grado di fargli ombra.
Michele Braghiri, al contrario, non avendo forza sufficiente per conseguire da solo i propri inesauribili desideri, si appoggiava ai potenti, come un rampicante, e prosciugava le loro risorse, intaccandoli gradualmente dall'interno, e sempre di nascosto.
Tutto questo era difficile da scoprire, perché il suo aspetto e il suo comportamento sembravano quelli di un uomo felice e appagato.
Ma se qualcuno si fosse soffermato di più ad esaminarne i dettagli, avrebbe notato che i suoi occhi indagatori parevano ridere quando apprendeva le disgrazie di qualcun altro, mentre la sua pelle abbronzata assumeva un colorito leggermente livido se invece veniva a conoscenza dell'altrui successo.
Il suo fisico asciutto a volte sembrava essere la metafora di una fame antica, che bruciava subito ogni nutrimento, rendendolo insaziabile. Ed i suoi appetiti non si fermavano certo ai cibi o alle donne. Era bramoso di primeggiare in tutto, e se non ci riusciva, allora una rabbia nascosta lo portava a desiderare la distruzione di qualunque cosa che non fosse suo.
 Il suo orgoglio smisurato e il suo temperamento vanitoso, che si rifletteva anche nel modo di vestire e di pettinarsi, sempre impeccabile, erano una compensazione della consapevolezza di valere di meno, come persona, di coloro che invidiava.
Sua moglie Ida era ancora più orgogliosa e vanitosa, ai limiti della millanteria, e il suo atteggiamento spiccio e ruvido non piaceva affatto agli Orsini, che però dovevano tollerarlo, in quanto a pagarne i servizi era la famiglia Ricci.
A volte Diana Orsini si chiedeva come mai un donnaiolo come Michele Braghiri, tra tante ragazze disponibili, avesse scelto di sposare una donna così brutta e volgare, e non era stato facile trovare la risposta, ma alla fine aveva capito.
La signora Ida aveva in sé tutta quella sicurezza e quella forza che mancavano a Michele nei momenti difficili. Ogni volta che il gioco dell'ascesa sociale si faceva duro e occorreva sporcarsi le mani, Michele tentennava, e allora toccava a sua moglie infondergli coraggio, con una solida determinazione e nervi d'acciaio.
E di questo il signor Braghiri era riconoscente alla propria consorte, di cui teneva in gran conto le opinioni e i consigli. Riteneva che il suo matrimonio fosse un punto di forza essenziale per riuscire a prevalere su Ettore Ricci e Diana Orsini, che mai e poi mai avrebbero raggiunto una simile intesa.
<<E il Conte cos'ha detto?>> chiese Michele mentre si accingeva a sminuzzare una bistecca.
Ida riprese a raccontare:
<<Ha fatto la sua solita faccia da cane bastonato e ha attaccato con le solite lagne: "Siamo con le spalle al muro. Nessuno è più disposto a prestarci un centesimo. Che lo si voglia o no, Ettore è già il padrone" e così via. Poi è saltata su la Contessa, ubriaca fradicia, e ha detto: "Tu lo sposerai e noi rimarremo qui. Non c'è altra scelta">>
Nell'ascoltare queste parole, gli occhi da faina di Michele luccicavano di gioia, perché nella sua testa l'esautorazione degli Orsini era solo il primo passo di un piano che si sarebbe protratto molto a lungo nel tempo.
<<E com'è andata a finire? Si fa questo matrimonio?>>
La signora Ida fece una smorfia che rese il suo faccione giallastro ancora più brutto:
<<La contessina Diana ha detto "C'è sempre un'altra scelta", ma si capiva che non ci credeva nemmeno lei. Il Conte allora si è deciso a calare l'asso di bastoni: "Dobbiamo pensare anche alle tue sorelle, a tuo fratello. La famiglia viene prima di tutto. In ogni dubbio, in ogni conflitto interiore, la famiglia deve vincere. Deve sempre vincere">>
Michele Braghiri annuì:
<<In questo sono d'accordo. La famiglia deve vincere. Ma io intendo la nostra famiglia, perché nostra fortuna è legata a quel matrimonio. 
Ettore mi darà più potere nell'amministrazione, e tu, come governante, avrai al tuo servizio un esercito di domestici pagati da lui. Diventeremo ricchi anche noi, e a un certo punto potremo trovare persino il modo di prenderci tutto>>
Al momento il loro stipendio ufficiale era buono, perché comprendeva i servizi di spionaggio resi alla famiglia Ricci.
Ma siccome non volevano dare nell'occhio, Michele e Ida erano rimasti nella Cameraccia, come tutti chiamavano l'alloggio umido e spoglio che dava sul cortile interno della Villa.
<<E' meglio non parlare ad alta voce di questo piano... non si sa mai>> lo rimproverò Ida con un sibilo <<Comunque alla fine le cose andranno per il verso giusto: gli Orsini di Casemurate sono tutti pazzi, e pure i Ricci sono strambi. Da quel matrimonio non verrà fuori niente di buono, per loro, questo è certo>>
Michele guardò la moglie con un sorriso d'intesa.
I suoi occhietti grigi sembravano farsi beffe del mondo intero:
<<Sicuramente i loro figli saranno dei buoni a nulla, al contrario dei nostri.
 Bisognerà avere un po' di pazienza, ma alla fine saremo noi i veri Signori di questa casa e di questa terra, perché noi siamo forti. 
Io e te sopravvivremo a tutti loro. Me lo sento. Li seppelliremo uno dopo l'altro.
Dimostreremo che è più importante essere qualcuno, piuttosto che figlio, o discendente, di qualcuno>>
Ida comprese che dietro a quelle parole c'era un disegno che aveva dei contorni vagamente criminali.
<<La fortuna sarà dalla nostra parte, e se per caso ci fossero degli intralci, be', faremo in modo di farli sparire>>
Un cenno d'intesa suggellò il patto.
Non fu necessario aggiungere altro.
Del resto, la signora Ida avrebbe comunque appoggiato le iniziative del marito, anche senza conoscerne i dettagli.
Aveva imparato che a questo mondo ci sono cose che è meglio non sapere.
A cosa le sarebbe servita tutta quella conoscenza?
Se sapessimo tutto, la vita sarebbe insopportabile. L'ignoranza e la stupidità rendono felici.
E di questo era certa, non fosse altro che per esperienza personale.



venerdì 9 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 13. Il secondo, tragico appuntamento di Ettore e Diana


Per porre rimedio all'esito increscioso del primo appuntamento, i Conti Orsini di Casemurate, decisero di invitare Ettore Ricci ad un'esclusiva cena di gala, servita, per l'occasione, nella Grande Sala in stile Impero, che da tempo non ospitava più eventi di rilievo.
Ettore Ricci, consapevole di dover rimediare a un'innumerevole serie di gaffes, ascoltò con molta attenzione le raccomandazioni di sua madre, la maestra Clara, e della Signorina De Toschi in persona, che gliele fece ripetere a memoria.
In teoria poteva sembrare un metodo infallibile, ma nella pratica esistevano alcune incognite e molti punti deboli, tra cui anche il fatto che i gusti dell'eccellente Signorina in fatto di estetica e di galateo, nonostante l'assidua frequentazione dell'Alta Società e l'indiscutibile autorità di cui godeva per amicizie e parentele, non erano del tutto affidabili.
Per esempio, quando ogni sera la De Toschi si faceva accompagnare da qualche commensale ad una cena luculliana, tendeva ad esagerare con i cosmetici, non solo per nascondere i segni spietati dell'età, del tabagismo e della ghiottoneria, ma anche perché, non essendo coniugata, si sentiva ancora, inconsciamente, una "ragazza in età da marito", autorizzata a dare nell'occhio per farsi notare da eventuali corteggiatori.
Tutti gli sforzi profusi nell'acconciare i capelli giallastri in una corona di trecce, come l'imperatrice Sissi, o nell'applicazione di un trucco che sarebbe apparso audace persino a una donna di strada, o ancora nella scelta di abiti e gioielli rigorosamente ereditati dalla madre, dalle parenti zitelle, dalle amiche decedute oppure regalati da qualche attendente del Babbo nella speranza di ottenere una raccomandazione, concorrevano nel realizzare un risultato ben preciso ed opposto alle intenzioni, ovverosia l'immagine di un ippopotamo con il rossetto e l'ombretto, la parrucca bionda, una parure di diamanti e un vestito a gonna ampia che sarebbe parso fuori moda persino ai tempi della regina Vittoria.
Anche nella famosa serata di riconciliazione tra i Ricci e gli Orsini, la Signorina De Toschi si era attenuta rigidamente al suo codice, il che comprendeva anche il trasporto a scrocco verso la Villa del Conte suo cugino.
La carrozza degli Orsini, pagata coi soldi dei Ricci, quella sera trasportò sia lei che il prode Ettore, visibilmente emozionato.
Indossava un frac che gli andava leggermente stretto in vita, per sembrare più snello, senza però riuscire ad evitare l' "effetto pinguino".
Come nella famosa canzone, portava "un cilindro per cappello, due diamanti per gemelli".
Erano stati fatti dei progressi tuttavia.
Il cilindro non era più listato a lutto, e non c'erano nemmeno le ghette bianche sulle scarpe.
E tuttavia qualche eccesso ancora persisteva, forse nel nodo troppo stretto del papillon bianco inamidato, o nella camicia con accenni di volant e colletto alto che gli impediva una corretta respirazione.
Appariva piuttosto ingessato e impacciato nei movimenti.
Questa volta, però, onde evitare gli spiacevoli inconvenienti dell'incontro precedente, si sforzava in tutti i modi di tenere a freno la sua congenita predisposizione verso il meteorismo e la flatulenza.
Inoltre aveva ricevuto delle istruzioni pratiche e precise anche da Ida Braghiri, la governante, su cosa dovesse fare e soprattutto evitare di fare.
All'inizio le cose parvero andare per il meglio.
In fondo Ettore Ricci non era uno stupido ed era consapevole di essere per indole un uomo troppo schietto e per costituzione piuttosto basso e tarchiato, e sapeva quindi che, in mancanza di fascino, avrebbe dovuto far valere altre argomentazioni.
Alcune sue qualità erano note, prima tra tutte la predisposizione per gli affari, dunque per farsi accettare da quei nobili squattrinati con la puzza sotto al naso, capiva che era necessario darsi un contegno, almeno all'inizio, e soltanto dopo, a cose fatte, e nei casi estremi, tirar fuori le unghie e i denti, e barare, se necessario, per ottenere tutto quello (e non era poco) che desiderava dalla vita.
Il problema non erano tanto i Conti Orsini, due vecchi relitti della Belle Epoque, il cui orologio si era fermato nel giugno del 1914, quanto piuttosto la maggiore delle loro figlie, la contessina Diana, perché Ettore era veramente innamorato di lei, anzi, per meglio dire era ossessionato da lei, forse perché rappresentava tutto ciò che ancora lui non aveva, e forse non avrebbe mai avuto.
 La trovava così attraente da fargli perdere quella razionalità calcolatrice che invece funzionava perfettamente in ogni altra circostanza della vita.
Per questo, nonostante tutte le raccomandazioni e le precauzioni, il giovane Ricci faticava molto a calarsi nella parte del raffinato uomo di mondo.
Ad aprirgli la porta, quella sera, fu il Conte Achille in persona, un onore che era riservato soltanto ai creditori più insistenti.
Ettore mantenne un contegno formale, rigido, quasi meccanico.
Arrivò persino, come gli era stato suggerito dalla governante, a lusingare il Conte Achille lodando il ritratto di un suo antenato.
Il Conte si illuminò:
<<Quel cavaliere che vedete nel ritratto è il fondatore del ramo casemuratense della famiglia Orsini, il Conte Bernardo, nipote di papa Niccolò III>>
In quel momento, come colto da un accesso di sindrome di Stendhal, Ettore Ricci si sentì quasi venir meno, come se qualcosa lo volesse catturare dentro il ritratto di quel feroce cavaliere, che brandiva sullo scudo le insegne del Sommo Pontefice tra due orsi neri rampanti, simbolo del cognome dell'antica dinastia di cui voleva entrare a far parte.
C'erano molti altri ritratti simili, che si susseguivano persino lungo il muro che fiancheggiava la scalinata dell'ingresso.
Fu in quel momento che capì, senza ombra di dubbio, che tutti quei guerrieri, tutti quei Papi, si sarebbero sempre intromessi nella relazione tra lui e Diana, vanificando ogni suo sforzo di essere, o almeno di apparire, degno di lei.
Forse fu a causa di questa considerazione e del successivo avvilimento che invece di rispondere come la governante gli aveva suggerito, si ritrovò di nuovo a provare ostilità nei confronti del Conte Achille, un fallito che si dava arie da padrone, quando invece il vero padrone, di fatto era proprio Ettore.
Tutti questi pensieri, uniti all'emozione e alla tensione del momento, fecero sì' che l'unica esclamazione che uscì dalla sua bocca, in risposta alla sfila dei ritratti degli Orsini, fu un alquanto inopportuno:
<<Ostia!>>
Il Conte Achille, a sua volta profondamente avvilito, trattenne un sospiro e si limitò a fare strada al suo incorreggibile ospite, nonché creditore, sentendosi realmente un fallito, costretto a servire come maggiordomo i nuovi padroni di casa sua.
Nella Grande Sala Impero, il lungo tavolo d'ebano era stato strategicamente apparecchiato in modo tale che Ettore si trovasse esattamente di fronte a Diana, mentre ai due capi, a una certa distanza, sedevano il Conte e la Contessa, e nel mezzo, naturalmente, la Signorina De Toschi, che sarebbe stata comunque troppo impegnata a divorare qualunque cosa fosse commestibile nelle sue vicinanze, per poter creare problemi di sorta.
Ettore osservò prima di tutto le sorelle di Diana, ossia Ginevra e Isabella, e le trovò incantevoli, mentre non gli piacque affatto lo sguardo spavaldo del futuro cognato, Arturo, l'erede del titolo comitale.
<<L'altro vostro fratello non si unisce a noi, contessina Diana?>> chiese Ettore, perdendosi nell'intensità degli occhi neri della donna di cui era innamorato.
Il gelo percorse la sala, in tutta la sua ampiezza.
Il Conte alzò gli occhi al cielo, la Contessa Emilia iniziò a riempirsi il primo bicchiere di Cabernet-Sauvignon, mentre la Signorina stava fagocitando gli antipasti.
L'unico rumore era quello delle mandibole della De Toschi, che sembrava aver stritolato e ingurgitato un cinghiale vivo e vegeto.
<<L'altro fratello è morto>> rispose Diana, rivivendo improvvisamente il trauma infantile di quella malattia fulminea e spietata, la meningite, che l'aveva privata del suo adorato fratellino Eugenio.
Ettore si sentì subito sprofondare e perse il controllo:
<<Oh, Cristo... spero almeno di essere venuto al funerale!>>
A questa seconda gaffe, persino la De Toschi sollevò il naso dal piatto e lo fissò con aria truce.
Vedendo Ettore così in difficoltà, Diana, che in fondo era una persona gentile persino con i suoi nemici, veri o presunti, fece del suo meglio per rispondere in maniera garbata, seppur velata di un'amara e sottile ironia:
<<E' morto quindici anni fa. All'epoca la mia famiglia non aveva ancora il piacere di conoscere la vostra, signor Ricci. 
Era ancora un bambino, e la meningite non ha alcuna pietà>>
Ettore assunse un'aria sinceramente affranta e i suoi occhi divennero umidi:
<<Ah, che disgrazia, che perdita per la nostra comunità! Certo che il mondo è proprio alla rovescio: la meningite avrebbe dovuto portarsi via anche due paia dei miei fratelli, che io ne ho fin troppi!>>
<<Ma cosa dite?>>
<<Be', vedete, non tutti hanno la fortuna di avere dei fratelli simpatici. Insomma, in ogni famiglia c'è una pecora nera, ma nella mia ce ne sono troppe! Si dice pure: "fratelli coltelli". 
Ecco, due miei fratelli si sono presi a coltellate, una volta, perché volevano tutti e due la stessa donna>>
Diana, che era una persona di mondo, cercò di inquadrare il tutto in un contesto letterario:
<<Un duello per amore!>>
<<Ma anche lì più che amore era una questione di gnocca, come per mio zio Ettore, poveretto, che è stato sparato. Lo dico francamente, perché i miei fratelli sono delle teste di ca... >>
Improvvisamente conscio di aver di nuovo perso il controllo, il giovane Ricci finse di tossire, cercando di darsi un contegno.
Diana notò che sua madre aveva già scolato mezza bottiglia del suo inseparabile Cabernet-Sauvignon, mentre suo padre era completamente immerso nel sezionare chirurgicamente la sua pietanza.
Vide il sogghigno del fratello Arturo e le risatine di Ginevra e Isabella, e in quel momento Ettore le fece così pena che dimenticò tutti i suoi difetti e cercò di fare un ulteriore sforzo per risollevare le sorti della serata:
<<E le vostre sorelle, spero che almeno loro siano di vostro gradimento>>
Ettore si fece serio:
<<Mia cara contessina, io le rispondo col cuore in mano. Magari a qualcuno>> e fissò con aria di sfida il Conte Attilio e suo figlio Arturo <<non sembrerà bello che uno parli male dei parenti, ma io non sono capace di mentire, perché poi le bugie hanno il naso lungo>> e meccanicamente fissò la Contessa Emilia, il cui naso era inguardabile <<o le gambe corte, come me, ah ah! Ma è meglio che stia zitto, perché ogni volta che tento di rimediare, è peggio il tacon del buso!>>
Diana, che conosceva benissimo il dialetto, sorrise.
La Signorina De Toschi, invece, sentì il dovere di intervenire, in difesa della lingua di Dante e Manzoni.
<<Avrai detto cose bellissima, ma io non ho capito>>
Ettore Ricci era ormai in stato confusionale:
<<Niente, niente, era una pataccata>>
La De Toschi gli lanciò un'occhiataccia e poi decise di intervenire per riportare la conversazione a livelli più elevati.
<<Buonissimi questi strozzapreti! Chi li ha cucinati, la nuova serva?>>
Sentendosi chiamare "serva", la governante Ida Braghiri, che era una donna estremamente orgogliosa, intervenne con veemenza:
<<E' una mia ricetta speciale. E io sono la governante, e mio marito è l'amministratore del Feudo>>
La Signorina, che considerava i domestici alla stregua di scimmie ammaestrate, fece finta di non aver sentito, ma si astenne dal chiedere un secondo piatto, temendo che la governante ci avrebbe sputato dentro, prima di rimescolarlo.
Poi, per riprendere in mano la situazione, tuonò a gran voce:
<<Quando arriva la salciccia?>>
Ettore Ricci, che era stato istruito a seguire gli argomenti della Signorina, si unì al coro:
<<Ah, anche a me piace la salciccia. Ma mi piace anche la costolaccia, lo zampone, lo strutto, il lardo... del resto lo dice anche il proverbio: del porco non si butta via niente!>>
Ginevra e Isabella scoppiarono a ridere.
Ettore credette che apprezzassero il suo umorismo, che ridessero con lui, e non di lui.
Persi così gli ultimi freni inibitori, si lanciò in uno dei suoi cavalli di battaglia, in fatto di gastronomia:
<<Per esempio, voi non avete mai mangiato il migliaccio?>>
Tutti scossero la testa, ma solo la governante aveva capito, e proprio per questo cercava, tramite segnali in codice, di far tacere il giovane Ricci.
Lui non se ne accorse nemmeno:
<<E' un dolce squisito, signori miei! In pratica, grosso modo, è un misto di cioccolata e di sangue di maiale>>
La Contessa Emilia ebbe un conato di vomito, e corse via dalla sala.
Il figlio Arturo, che la adorava, le andò dietro, per assicurarsi che stesse bene.
La Signorina De Toschi, che nel frattempo aveva divorato cinque salsicce a velocità olimpionica, ritenne che forse l'argomento culinario non era il più adeguato, e cercò di virare su un tema che sicuramente avrebbe risollevato la situazione.
<<Lei è credente, signor Ricci?>>
Questa domanda era stata concordata, per cui Ettore rispose meccanicamente:
<<Ma certo!>> e per rendere ancora più credibile la cosa, si fece il segno della croce.
<<Che strano>> intervenne Diana <<io non vi ho mai visto alla messa>>
Preso in contropiede, Ettore cercò di prendere tempo:
<<Ah, quindi anche voi siete una donna tutta casa e chiesa, come la nostra Signorina!>>
Quel paragone non era il massimo, e oltretutto aveva evitato la risposta, per cui Diana, adombrandosi, disse soltanto
<<Ho ricevuto un'educazione religiosama ultimamente la mia fede è stata messa a dura prova>>
La Signorina De Toschi quasi si strozzò. La piadina e il prosciutto le erano andati di traverso, a sentire quell'affermazione:
<<Come sarebbe a dire? Io su questo non transigo! Non tollero che il dubbio si insinui nella fortezza della Fede, specie nelle giovani fanciulle>>
Ettore, sinceramente dispiaciuto di aver provocato quel battibecco, volle mostrarsi coraggioso, come un cavaliere che sfida il mondo intero in difesa della sua dama:
<<La contessina Diana è una santa! Va a messa tutte le domeniche! Cosa volete di più? 
Io ci credo in Dio, ai Santi e a tutte quelle balle lì, solo che, se devo essere sincero, mi scoccia alzarmi presto la domenica per andare alla Messa. Lavoro come un negro tutta la settimana, avrò pure il diritto di dormire, almeno un giorno! Oltre tutto la chiesa è stretta, ci sono poche panche. D'inverno fa un freddo cane. E poi come si fa, dopo un po' l'aria diventa pesante, con tutti quei vecchi scoreggioni...>>
Diana fu come colta dalle convulsioni.
Non era epilessia. Era solo che le risate trattenute troppo a lungo, si erano manifestate all'improvviso, come un'eplosione.
E in mezzo a quel tripudio di comicità, Diana osò sperare che l'unica consolazione concessale dal destino, fosse che, nonostante tutto, il suo futuro marito l'avrebbe fatta ridere.

martedì 6 agosto 2019

Vite quasi parallele. Capitolo 12. Diana Orsini e la Signorina De Toschi

Diana Orsini non poteva ignorare una convocazione ufficiale da parte della signorina De Toschi, i cui innumerevoli agganci nell'Alta Società erano necessari per far fronte alla situazione di crisi finanziaria in cui si trovava la sua famiglia.
L'invito si estendeva anche alla madre, la contessa Emilia.
Vennero ricevute, come sempre, dalla cameriera Assuntina, la madre del parroco, nella stanzetta degli ospiti, nel gelido seminterrato del Villino De Toschi.
Nessuno, tranne il personale di servizio, era mai stato ammesso ai piani superiori.
Gli appartamenti privati della professoressa Mariuccia De Toschi erano, come si è detto, un Sancta Sanctorum inaccessibile da parte dei comuni mortali, escluso, naturalmente, il Babbo... il Generale.
Dopo il classico quarto d'ora accademico, la De Toschi comparve in tutta la sua massiccia imponenza, con il faccione obeso pesantemente truccato, gli occhi da batrace fuori dalle orbite, l'immancabile sigaretta nella mano destra e l'altrettanto immancabile fazzoletto da naso nella mano sinistra. 
L'espressione del suo viso era sdegnata e nel contempo teatralmente affranta.
Sia Diana che la contessa Emilia si alzarono in piedi, come se fosse entrato il Papa.
La signorina De Toschi ne fu compiaciuta.
«Avete fatto bèene a rivolgervi a mée» disse col solito accento toscano fasullo.
La contessa Emilia, colma di gratitudine, le baciò la mano, quella del fazzoletto umido:
«Vi ringrazio per averci ricevute, so che il vostro tempo è così prezioso. Ma per noi era un'emergenza: e quando la situazione si fa critica, il mio primo pensiero è sempre: “non c’è che la Signorina!” Lei è l’unica che ha l’autorità morale, culturale»
La signorina De Toschi si schermì agitando il fazzoletto come un aspersorio, ma lasciando trapelare un certo compiacimento e una malcelata aria d’importanza.
«Per mée Diana è come una figlia…» e guardò con occhio possessivo la ragazza «e i Conti Orsini so’ i parenti della mi’ povera mamma» (e qui sospirò, indicando con il fazzoletto bagnato una vecchia foto della compianta Violetta Orsini, coniugata De Toschi).
La contessa Emilia si unì al sospiro e aggiunse:
 «Che Dio benedica la sua anima, e che possa intercedere per noi, in questa valle di lacrime>> commentò la contessa Emilia, e poi tornò al punto <<Il fatto è che Diana si è intestardita: non vuole più vedere il signor Ricci e nemmeno sentirne parlare>>
Mariuccia De Toschi spalancò i grandi occhi da rospo: 
«Cosa? Ma stiamo scherzando?» e fulminò Diana con lo sguardo divenuto paonazzo.
Temendo che la Signorina potesse fare una scenata senza conoscere i dettagli, la contessa Emilia intervenne: «Purtroppo, non è affatto uno scherzo. Se Diana continuerà a rifiutare la proposta di matrimonio da parte di Ettore Ricci, il padre di lui farà valere le ipoteche sul Feudo e sulla Villa, e ci sbatterà fuori di casa»
La signorina De Toschi scosse ripetutamente il testone, mentre le gote e il doppio mento tremolavano e la sigaretta che teneva nella mano destra faceva cadere tutta la polvere sul tavolino di mogano.
Poi, con aria solenne, esclamò:
«Nooo! Nooo! Dio liberi da certe idee! Il buon nome degli Orsini non dovrà mai essere macchiato da uno scandalo del gèenere! Io non potrei mai permetterlo, ne va anche della mia reputazione… Gli Orsini ridotti sul lastrico? Non sia mai detto!
Ricordatevi che in questi momenti di difficoltà io ci sono sèempre!»
Diana fraintese il discorso:
<<Intende dire che ci concederà un prestito?>>
Il volto della De Toschi da paonazzo divenne viola.
Un'idea del genere non le era passata nemmeno per l'anticamera del cervello.
Il solo pensiero che qualcuno potesse anche vagamente immaginare di disporre sia pure di un solo centesimo del suo immenso patrimonio, accumulato tramite eredità, emolumenti paterni, lezioni private fino a notte fonda, ma soprattutto per mezzo di un'inflessibile applicazione dell'arte della spilorceria e dello scrocco, le provocò quasi un colpo apoplettico.
Ci volle qualche secondo per riprendersi dallo shock.
Infine, sfoderò lo sguardo melodrammatico delle grandi occasioni e si preparò a recitare uno dei suoi cavalli di battaglia.
Gli occhi le lacrimavano, le dita tremavano, il naso si inumidiva, l'espressione del suo volto assunse un'aria derelitta di compiaciuta autocommiserazione:
<<Ah, bambina cara, mi piacerebbe tanto, ma purtroppo io so' povera. 
Eh, sì... so' povera, ma avvezza a viver nel pulito. 
Ora spiegami perché insisti nello spezzare il cuore a quel povero ragazzo, che tra l'altro è così ben piantato che se solo fossi un po' più giovane e il mi’ babbo fosse d’accordo… me lo sposerei io!>>
Diana, conoscendo i gusti dozzinali della De Toschi, non ne aveva dubbi.
«Io non lo amo»
La signorina Mariuccia rimase per un attimo indecisa se ridere o indignarsi, poi alla fine scoppiò in una risata la cui eco fu avvertita a tre isolati di distanza.
Rise a tal punto che poi fu colta da un attacco di tosse, che si risolse in un epico sputo nel fazzoletto.
«Eh, cara mia!» sbottò mentre piegava in quattro il fazzoletto imbrattato «mica si può pretendere che arrivi il principe azzurro a prendersi i debiti degli altri!
E poi cosa ne sai tu dell'amore? Ami forse qualcun altro? Dillo! Sai che a mmméee puoi dire tutto!»
Diana scosse il capo:
<<Non c'è nessun altro. Ma un giorno potrebbe esserci>>
Un'altra risata della De Toschi la travolse, ma per fortuna non degenerò nella tosse catarrosa precedente:
«Un giorno? Ma tu sei in età da marito adesso! Se lasci passare questo periodo, non ti vorrà più nessuno!» 
<<Meglio soli che male accompagnati>>
La Signorina si oscurò in volto e si preparò a recitare un altro pezzo forte del suo repertorio teatrale:
<<Tu non sai niente neanche della solitudine! Dell'andare a dormire in un letto freddo, del sentire la mancanza di un abbraccio, del trascinarsi nella vecchiaia senza fremiti, senza palpiti, senza neanche un momento di tenerezza umana>>
Commossa dalla sua stessa interpretazione d'arte drammatica, si soffiò violentemente il naso, sempre più costipato.
Poi si ricompose e con voce più salda riprese:
<<E comunque, mia cara, qui non si tratta di una questione d'amore, o di romanticismo, ma di matrimonio, il che è tutta un'altra cosa>>
A Diana sarebbe piaciuto chiedere a quella vecchia zitella cosa ne sapesse lei, del matrimonio, ma non era nel suo stile colpire con colpi bassi.
La De Toschi continuava a pontificare:
<<Il matrimonio è un sacramento, ma è anche un contratto. Non a caso il sostantivo femminile matrimonio va di pari passo con quello maschile di patrimonio E' il fondamento della nostra civiltà, come dice sempre il Babbo. Non a caso gli antichi Romani consideravano inscindibili i due concetti>>
E poi sferrò il colpo finale:
<<Del resto, senza un adeguato patrimonio, dovrai mettere da parte le tue abitudini da ragazza viziata, il tuo atteggiamento di superiorità, il tuo tenere a distanza le persone...>>>
Diana la fissò negli occhi, perché questa volta era stata punta sul vivo:
«Non è per presunzione che tengo a distanza la gente. 
E' che non voglio affezionarmi, perché non voglio soffrire. Chi si affeziona si pone fin da subito in una condizione di inferiorità. Chi si affeziona è ricattabile. 
L'attaccamento genera la paura di perdere ciò a cui siamo affezionati. 
La paura di perdere ciò che si ama genera la rabbia. La rabbia genera il rancore e la guerra.
Io non voglio seguire questo cammino. Lo hanno seguito i miei avi, ma io non lo seguirò. 
Ci sono molti modi di intendere la nobiltà... e questo modo mi ripugna!» 
La De Toschi aspirò profondamente dalla sigaretta.
In quel discorso aveva visto una deliberata offesa al Generale De Toschi, il che era peggio che bestemmiare Dio in persona.
Il silenzio era totale. L'aria greve di fumo.
Puntò il dito e il fazzoletto contro di lei e sfoderò il suo ennesimo monologo ad effetto:
<<Tu! Tu della rea progenie degli oppressor discesa... non è così? 
Non l'hai forse appreso in questa stessa stanza il Coro dell'Adelchi? 
In un certo senso è anche colpa mia se ti sei messa in testa certe idee strampalate. 
Ma se da qui è venuta la malattia, da qui verrà la guarigione!
Tu non sei Ermengarda, non ci saranno per te i tepidi lavacri d'Aquisgrano...
Tu non sei nessuno! Hai capito? 
Nessuno! 
Ricordatelo bene, perché è questo ciò che il mondo ti dirà, se continuerai a intestardirti.
Sai, io non riesco proprio ad immaginare come saresti se fossi povera.
Una come te, schizzinosa come te, non ce la vedo a vivere in un tugurio, e non solo téee, ma anche i tuoi genitori, i tuoi fratelli, le tue sorelle... 
E tutto per un capriccio insensato!»
Espirò una nube di fumo che, come nebbia, rese ancora più minacciosi i contorni del suo volto.
Diana guardò fuori dalla finestra, nel cortiletto ghiaioso e arido del Villino De Toschi, dove nemmeno la gramigna riusciva a crescere.
Cercò di prendere tempo:
<<Se fosse per me, sceglierei la libertà, a qualsiasi costo. Ma sento di non poter condannare le mie sorelle a questa stessa sorte. Sono ancora troppo giovani. Non capirebbero.
Però voglio che anche loro si rendano conto di com'è fatto Ettore.
Per questo concederò ad Ettore Ricci una seconda possibilità: se vorrà passare in visita a Villa Orsini, tutta la famiglia lo riceverà e cercherà di conoscerlo meglio>>
Un sorriso sornione si dipinse sul volto da ippopotamo della signorina De Toschi, che fece un cenno alla contessa Orsini, come per dire: "Vede... la mia autorità morale, culturale..."
Poi esplose in un'esclamazione:
<<Bèeeene, bèeeeeeene!!!>>
E si alzò, considerando terminata l'Udienza.
La Contessa le baciò la mano, che teneva ancora, tra le dita, il fazzoletto pieno di virus e di microbi.
Diana fu costretta a baciarle la gota dipinta di terra di Siena pesante e screpolata, su una peluria giallastra.
L'odore del fondotinta misto a quello del fumo e del fazzoletto le fece venire la nausea.
O forse era tutta quella situazione.
O la vergogna di aver ceduto a un ricatto per paura della povertà.