domenica 14 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 104. L'ultima estate


Diana Orsini compì 98 anni il 30 giugno del 2011, ma non fu un compleanno felice. 
Per la prima volta la famiglia non era riunita al completo.
Sua figlia Silvia era in ospedale, dopo un delicato intervento di rimozione di un cancro al colon. 
Il tumore era fortunatamente circoscritto, ma dalla biopsia ai linfonodi erano emerse alcune anomalie che facevano ipotizzare la presenza di un principio di linfoma non Hodkin.
Per questo si rendeva necessario, in settembre, un ulteriore intervento per rimuovere alcuni noduli alla tiroide e altri linfonodi . Nel frattempo Francesco era tornato a casa dalla clinica dove era stato operato al cuore e all'aorta, ma continuava a soffrire di aritmie e fibrillazioni, che lo costringevano a una vita di assoluto riposo.
Riccardo faceva la spola tra casa e ospedale per assistere i genitori malati, e per questo aveva sospeso gli studi e non vedeva da un po' la fidanzata Ilaria.
L'estate era arrivata quasi di soppiatto, senza che nessuno, in famiglia, se ne accorgesse realmente.
Diana, oltre che oppressa dal peso degli anni e delle preoccupazioni, era a sua volta malata: alcune ischemie cerebrali avevano compromesso la deambulazione e le era stato diagnosticato, per una infausta combinazione di fatalità e genetica, lo stesso tipo di tumore maligno di sua figlia, nello stesso identico punto, ma nel suo caso l'operazione non era possibile, data l'età, e nemmeno la chemioterapia.
Quando Riccardo l'andò a trovare nella fatiscente villa di Casemurate, la trovò particolarmente stanca e fragile.
Dopo aver chiesto al nipote come stavano i genitori di lui, Diana sospirò e scosse la testa:
<<Non riesco a darmi pace per quello che è successo ai tuoi genitori, che sono le persone più buone del mondo, e per come la sorte si è accanita sulla nostra famiglia.
Prima i miei fratelli e le mie sorelle, poi mio padre e mio marito, adesso mia figlia e mio genero. E' passata una vita da quando persi prematuramente i miei primi familiari, ma penso a loro ogni giorno.
Tutti quelli della mia generazione, parenti, amici, persone che conoscevo, che amavo, sono morti, uno dopo l'altro. 
E io invece sono ancora qui, e continuo ad andare avanti, e avanti, e avanti... per cosa?
Quando ero giovane non avevo paura della morte, anzi, la vedevo come una liberazione, a volte speravo di addormentarmi e non svegliarmi più.
Poi qualcosa è cambiato.
Ho trovato delle ragioni di vita nelle mie figlie, nei miei nipoti, nei miei pronipoti, e così, alla fine, ad ogni compleanno, sotto sotto, ero contenta di esserci ancora, perché dopo tanta sofferenza, speravo che la sorte ci desse una tregua. 
E invece no.
Che senso ha vivere 98 anni per poi assistere a cose che non avresti mai voluto vedere? 
E' possibile vivere troppo a lungo? Vivere, mentre le persone che ami soffrono e il tuo corpo si rattrappisce e si disfa come un osceno cadavere esposto in un reliquiario per l'adorazione di qualche bigotto. Non ha senso. 
Eppure adesso che la mia ora è vicina, mi aggrappo alla vita con ogni respiro.>>
Riccardo le prese la mano, ormai nodosa e piena di macchie:
<<Io ho ancora bisogno di te. Anzi, ora più che mai ho bisogno di te, dei tuoi consigli, della tua saggezza, del tuo sostegno. Sei sempre stata la mia roccia. In ogni momento difficile, ho sempre saputo che qui, a Casemurate, nella casa della mia infanzia, potevo contare su di te. Anche nelle circostanze più oscure, mi bastava sapere che tu eri qui, e che ti avrei trovata nel salotto o nel giardino, pronta a soccorrermi. Lo so, è molto egoista da parte mia dire questo, ora che sei tu ad aver bisogno di sostegno>>
Lei lo osservò con quegli occhi ormai divenuti piccoli, infossati, opachi, privi della luce che li aveva per tanto tempo accompagnati:
<<Non avere paura. In te c'è più forza di quanto tu stesso non creda. E' una forza diversa da quella degli sbruffoni che si mettono sul piedistallo, o da quella dei duri inflessibili, tanto incapaci di piegarsi che alla fine si spezzano. La tua forza è nella capacità di sopravvivere anche nelle condizioni più avverse. Riconosco quella forza, perché è la stessa che, nel bene o nel male, mi ha permesso di arrivare fino a qui, di sopravvivere per quasi un secolo... 
E che secolo! 
Ho visto così tante atrocità che non riesco più a dormire senza incubi... eppure ho tirato avanti, per la mia famiglia, ma anche per un'assurda e incomprensibile curiosità riguardo al futuro. 
Il mondo è cambiato così tanto... 
E' naturale che sia così. Tutto cambia, tranne il ricordo.
Non sempre le cose sono cambiate in meglio, ma almeno ci sono stati progressi nella medicina: i tuoi genitori potranno riprendersi ed essere curati con un'efficacia che fino a pochi anni fa era impensabile. 
Cerca di vederla così: se loro sono vivi e stanno meglio, è perché, nonostante tutto, questi sono tempi migliori rispetto a quelli in cui io avevo la tua età>>
Il nipote annuì:
<<Sono d'accordo, e confido nel fatto che possano migliorare, o almeno tenere a bada la loro malattia, ma non torneranno mai come prima. Niente tornerà come prima.
Sono così fragili. Si appoggiano a me, ma io non so cosa fare. 
Non mi sento pronto per gestire questa situazione, per assumermi queste responsabilità.  
E' accaduto tutto troppo presto e troppo in fretta. 
Speravo che mi fosse concesso più tempo...>>
Lei annuì a sua volta:
<<Lo speravo anch'io, ma il destino ha voluto diversamente e tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato>>
Riccardo pensava alla sua amata, che era lontana:
<<Avrei voluto trascorrere l'estate con Ilaria, prima che partisse per l'Erasmus>>
<<Perché non la inviti qui?>>
<<Non voglio che assista a tutto questo dolore. Lei è così giovane...>>
Diana corrugò la fronte:
<<Capisco che tu voglia proteggerla dalla sofferenza, e potrei anche considerare questa tua rinuncia come una buona azione, ma in base alla mia esperienza so che nessuna buona azione resta impunita.
 Intendo dire che, se hai bisogno di aiuto, non devi aver paura di chiederlo, altrimenti le persone possono farsi un'idea sbagliata di te, come se tu le volessi tenere a distanza>>
Lui rimase scosso da quell'affermazione:
<<E' questa l'idea di me che trasmetto agli altri?>>
Lei lo fissò:
<<A volte sì. Le persone sanno che tu hai molti interessi, che riesci a passare il tuo tempo senza bisogno di gente tra i piedi, e così, a volte, gli altri si sentono come... come se non fossero all'altezza... >>
Riccardo negò vigorosamente:
<<All'altezza di cosa?>>
Diana rispose scandendo le parole:
<<All'altezza delle tue aspettative, che sono molto alte. Troppo alte. Ed è questa l'origine di tutti i mali!
Ho commesso anch'io questo errore, soprattutto con tuo nonno. 
Lui mi amava, a modo suo, nella sua maniera ruspante, ma mi amava. Io però pretendevo di più. Volevo che fosse più raffinato, più colto, più sensibile... e l'ho tenuto a distanza per tutta la vita. 
Solo dopo, quando era troppo tardi, mi sono resa conto del mio errore. 
Per questo ti prego di ascoltare l'ultimo consiglio della tua vecchia nonna: se senti che Ilaria è la donna della tua vita, e ritieni che il suo sentimento sia sincero, non lasciare che le circostanze la allontanino da te>>
Lui era combattuto:
<<Rifletterò su quello che hai detto. Ma per il momento la priorità sono i miei genitori e la mia famiglia>>
Lei scosse il capo:
<<Ma anche lei è la tua famiglia! La tua futura famiglia!>>
Quest'idea gli sembrava del tutto prematura e fuori luogo:
<<Sì, ma non voglio che ci veda in queste condizioni... Lei ha dei genitori giovani, nonni che sono più giovani dei miei genitori... non è ancora pronta per affrontare una situazione di questo tipo>>
Diana non era convinta:
<<Lo sarebbe, se tu fossi meno protettivo nei suoi confronti. 
Comunque, non intendo insistere. Ma devi promettermi una cosa: non appena tua madre starà meglio, tornerai a Bologna e riprenderai la tua vita. 
Voglio che tu ti senta libero da ogni vincolo, da ogni catena che ti lega a questi luoghi>>
Riccardo accennò un lieve assenso, poco convinto:
<<Sì>>
Lei allora gli prese le mani e le strinse:
<<Guardami... guardami negli occhi! 
Questa è la mia ultima estate... io sono il passato, e a nome del passato ti dico che d'ora in poi devi guardare avanti. Qui ci sono solo macerie, solo rovine>> indicò la casa cadente e il giardino ormai inselvatichito <<Tutto questo è un mio fardello, e morirà con me. 
Io ho immolato me stessa sull'altare di questo "feudo", per tenere in vita qualcosa che era già agonizzante prima che nascessi.
Ho lasciato che il passato contasse di più del presente.  Non voglio che tu commetta lo stesso errore. 
Questo luogo, questa casa, io stessa... stiamo svanendo, come l'Isola delle Fate. 
E' l'andare delle cose.
E' vano opporsi. 
Ma questo giardino, questa casa, e tutti noi che ci siamo vissuti... tutti noi continueremo ad esistere dentro di te ed è lì che ci ritroverai, nel tuo ricordo, e allora scoprirai che non siamo mai andati via>>

venerdì 12 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 103. Annus horribilis

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Il 2011 fu l'anno peggiore di sempre per tutti i componenti della famiglia Monterovere-Ricci-Orsini: eventi tragici, crudeli e luttuosi devastarono la vita di ognuno di loro e segnarono di conseguenza uno spartiacque definitivo anche in quella di Riccardo.
La maggior parte di noi crede che le persone che amiamo siano eterne, o quantomeno destinate ad accompagnarci per lunghissimo tempo, sostenendoci sempre nelle asprezze della vita.
Purtroppo non sempre è così.
Le persone invecchiano, si ammalano, si indeboliscono e giorno dopo giorno la loro luce si affievolisce, senza che noi riusciamo ad accorgercene, finché un evento più eclatante non ci costringe a guardare in faccia la realtà.
Quando poi questi eventi sono più di uno, e addirittura si concentrano nello stesso anno, a breve distanza l'uno dall'altro, ogni equilibrio, anche il più saldo, viene messo a dura prova e può vacillare. Quasi tutte le certezze crollano e resta soltanto un grande senso di precarietà.
E' difficile dare conto di tutto questo senza cadere in toni melodrammatici, o al contrario, senza assumere lo stile di una cartella clinica, e dunque chiediamo perdono al lettore se avrà quest'impressione.
Il 31 marzo, mentre si trovava a Bologna, Riccardo ricevette una telefonata che segnò l'inizio di tutto il dolore che stava per abbattersi su di lui e sulla sua famiglia.
Suo padre, Francesco Monterovere, era stato ricoverato d'urgenza per un forte dolore al petto. L'angiotac aveva rilevato un'emorragia interna al pericardio, dovuta ad una dissezione dell'aneurisma all'aorta ascendente, oltre ad un malfunzionamento della valvola aortica.
Era necessario un immediato intervento a cuore aperto, per l'applicazione di due protesi, una al tratto aortico ascendente e un'altra alla valvola.
Questo tipo di operazione, quando avviene d'urgenza, con un'emorragia in atto e uno scompenso cardiaco grave, è estremamente delicata e rischiosa. Per rendere almeno un'idea di questo rischio, basti pensare che, durante un intervento a cuore aperto, la circolazione sanguigna deve essere garantita dall'esterno, per mezzo di una pompa artificiale, mentre il cuore (in condizione di arresto temporaneo) viene sollevato e sottoposto al trapianto delle zone compromesse.
Data la delicatezza della situazione, questi interventi avvengono in strutture private specializzate e convenzionate col servizio pubblico.
Il paziente venne dunque trasportato in una di queste cliniche e portato immediatamente in sala operatoria.
L'intervento durò sei ore, ma ci vollero due giorni prima che Francesco fosse dichiarato fuori pericolo.
Il protocollo della terapia intensiva nelle cliniche specializzate è molto restrittivo, per cui solo un parente viene ammesso alle visite, seguendo una procedura di sterilizzazione molto complessa. Silvia stette il più possibile accanto al marito, che ancora era sotto profonda sedazione.
Riccardo passò quei giorni trascinandosi su e giù per i corridoi della clinica, nell'attesa di una qualche notizia. Era la prima volta che si trovava in una simile condizione, e purtroppo fu la prima di una lunga serie. In quei momenti apprese una triste verità, e cioè che nessuno può dire di aver conosciuto realmente l'angoscia se non è mai stato ore ed ore nelle anticamere di una sala operatoria, nell'attesa di sapere se un proprio caro riuscirà a sopravvivere.
Ma siccome al peggio non c'è mai fine e le disgrazie non vengono mai sole, un nuovo incubo era alle porte.
Mentre Francesco era ancora in convalescenza, il 10 aprile Silvia si sentì male: forti dolori addominali, nausea e una gran debolezza. All'inizio pensò che fosse solo una conseguenza dello stress, ma il secondo giorno i sintomi divennero più intensi e dovette farsi visitare. 
I medici le prescrissero una serie di esami dai quali risultò un quadro molto serio: c'era un tumore maligno al colon e bisognava operare immediatamente.


mercoledì 10 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 102. Il bel tempo andato

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Come disse Francesca da Rimini: "Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria", perché la felicità passata non è più felicità, mentre il dolore passato è ancora dolore e si somma a quello presente.
Per questo, nel ricordare il bel tempo andato, e in particolar modo il periodo tra la primavera del 2008 e l'inverno del 2010, Riccardo non poteva fare a meno di sentire un profondo senso di mancanza.
Mancanza per chi non c'era più, o per chi c'era ancora ma lontano, o era cambiato o era irraggiungibile.
Mancanza, dunque...
Ma quei due anni, ah, quei due anni! Tutto ciò che lui e Ilaria avevano fatto insieme! Tutte le esperienze condivise, tutti i loro viaggi in Inghilterra (da Londra a Windsor fino ai luoghi arturiani e celtici), in Francia (fino alla foresta di Broceliande e alla tomba di Merlino), in Germania (la Selva Nera e i viaggi in canoa lungo il Reno), in Scozia (a Rosslyn), in Grecia, e poi gli studi universitari e le loro letture comuni... tutto questo e molto altro ancora, ogni volta che tornavano alla memoria di lui nei decenni plumbei che vennero dopo, continuavano a suscitargli nella mente, nel cuore e nella voce un'esclamazione: "Quelli sì che erano tempi!"
Tutto ciò che era stato caratteristico di quel periodo, soprattutto prima dell'inverno 2010, comprese le mode, le vicende mondane, persino gli eventi più marginali, i dettagli in apparenza meno rilevanti, tutto era destinato a persistere nel ricordo e a sembrargli migliore di ciò che venne dopo.
E la consapevolezza che certe cose non tornano più, e non bisogna pensarci troppo, e concentrarsi sul qui ed ora, non riuscì mai a porre un argine alla nostalgia e al rimpianto.
Forse solo con il racconto ci si può liberare dai propri fantasmi.
In quegli anni Riccardo apprese molte cose grazie a Ilaria.
Lei gli insegnò a conoscere ed apprezzare la letteratura francese dell'Ottocento e del primo Novecento, in particolare la narrativa, poiché anche Ilaria era una grande lettrice.
Stendhal, Balzac, Flaubert, Zola, Huysmans, Proust, Gide, Marguerite Yourcenar, Simone De Beauvoir, Sartre, Camus, Céline, solo per fare i nomi più famosi, furono sviscerati con la stessa attenzione che in passato era stata destinata agli autori della letteratura inglese, tedesca e russa.
Riccardo ed Ilaria potevano stare interi pomeriggi a parlare dei romanzi che leggevano, confrontando le proprie opinioni e nel contempo scambiandosi tenerezze e gesti di dolce intimità.
Se da qualche parte esistesse un paradiso, sarebbe simile a quello che loro vissero in quei momenti.
Il biennio 2008-2010 fu, per Riccardo Monterovere, la sua personale Belle Epoque, la sua Golden Age, il suo Bel Tempo Andato, condiviso con colei che era, secondo le sue stesse parole "l'altra parte di me, la parte migliore", la sua Ninfa Egeria, la Signora del suo cuore.
Ilaria Mantovani era tutto questo e molto di più, e dal momento che era andata a convivere con lui nell'appartamento di via Mascarella, era diventata, agli occhi di tutti i loro compagni di corso, e questa volta senza ironia, ma con un briciolo di invidia, la Duchessa di Mascarel.
Questo soprannome le derivava anche dal fatto che Riccardo la adorava allo stesso modo in cui il Duca di Windsor, Edoardo VIII, aveva adorato Wallis Simpson, la sua Duchessa, per la quale aveva rinunciato alla corona del Regno Unito e dell'Impero Britannico.
Tutti coloro che erano invitati a partecipare ai tè delle 5 a "Mascarel Palace" rimanevano meravigliati dal clima romantico e romanzesco che si respirava in quel centro di ritrovo delle giovani promesse dell'Università di Bologna, specialmente di quel cenacolo ristretto che si era creato intorno allo zio di Riccardo, il professor Lorenzo Monterovere, i cui seguaci si erano autoproclamati "I Laurenziani", ma di questo si parlerà in seguito, perché alcuni di loro ebbero un ruolo nella crisi degli anni successivi.
Ma in quel momento, su di loro, "nemmeno una nuvola" oscurava il cielo.
La loro vita bolognese era completamente separata da tutto il resto.
Avevano deciso, di comune accordo, ognuno per ragioni personali più o meno valide, di tenere per il momento fuori dal gioco le rispettive famiglie e tutto quello che era il loro mondo di origine.
Anche lei aveva un passato che preferiva lasciarsi alle spalle, e una famiglia piuttosto complessa dalla quale stava cercando di affrancarsi.
Fu così possibile, per Riccardo, continuare a nascondere molti aspetti imbarazzanti del suo passato, soprattutto per quanto riguardava il famigerato periodo milanese.
Intanto la vita universitaria dei due innamorati proseguiva.
Fino all'anno accademico 2007/2008 seguirono e prepararono insieme la maggioranza degli esami, poi però le loro strade accademiche si divisero, perché lui si stava laureando in Storia e lei in Lettere Classiche.
Oltre a due tesi di laurea molto diverse, incominciarono quindi, nell'anno accademico 2009/10, a frequentare insegnamenti diversi, a preparare esami differenti e inevitabilmente a conoscere altre persone.
E fu qui che incominciarono i problemi destinati poi a diventare evidenti durante il Biennio della Laurea Specialistica o Magistrale, che per Riccardo fu in Filologia italiana e letterature moderne (e fu la sua terza laurea), mentre per Ilaria fu in Filologia classica e letterature antiche.
Come si vedrà in seguito, i problemi derivanti da questa divergenza di esperienze formative (con un particolare riferimento all'esperienza Erasmus di Ilaria in Grecia e Anatolia) non sarebbero stati di per sé sufficienti a creare una vera e propria crisi nel rapporto di coppia tra Ilaria e Riccardo.
A incrinare in maniera sempre più grave la loro così profonda intesa fu il concatenarsi, nello stesso momento, nell' "annus horribilis" 2011, di una serie di eventi drammatici, tragici e laceranti, destinati a sconvolgere, in maniera totale e quasi fatale, l'equilibrio psicologico di entrambi.
E di questo dovremo dare conto nei prossimi capitoli.
Una cosa sola deve essere chiara fin d'ora: per Riccardo il meglio era passato.

martedì 9 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 101. Diana Orsini diventa bisnonna

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Nel 2008, all'età di 95 anni, Diana Orsini vide coronato uno dei suoi più grandi desideri, per il quale aveva atteso tanto, e cioè quello di diventare bisnonna. 
In febbraio era infatti nata Beatrice, la figlia di suo nipote Alessio e della moglie di quest'ultimo, Rebecca.
Si trattò di un evento gioioso, perché la piccola Bea fu come un raggio di sole dopo una lunga tempesta.
Portò, in quella famiglia così bersagliata dalla sorte avversa, una ventata di allegria, di spontanea e limpida felicità, col quale tenne fede al suo stesso nome: "portatrice di beatitudine".
E se non fosse stato per l'innata e dirompente volontà di vita e di rinnovamento che Beatrice portò con sé, sarebbe stato molto difficile, per il clan Ricci-Orsini e le famiglie ad esso collegate, riuscire a superare le dure prove che ancora li attendevano.
La nascita e la crescita di Beatrice fu per tutti una grande benedizione, e in particolare per Diana, che, osservando la pronipote e giocando con lei, sentì che tutte le sofferenze del passato erano valse la pena di essere sopportate, se il risultato era quello della venuta al mondo di un così dolce e adorabile angelo.
Diana e tutta la sua famiglia potevano finalmente guardare al futuro con la speranza che qualcosa di buono e di bello sarebbe sopravvissuto a tutti loro e ne avrebbe conservato il ricordo.
Da quel momento in avanti i compleanni della piccola Bea e le festività tradizionali vennero vissute, in famiglia, con animo più sereno, nonostante le tribolazioni che ognuno dei singoli membri si trovò a dover affrontare.
Poiché Alessio era figlio unico, i suoi cugini Fabrizio e Riccardo, a loro volta figli unici, divennero gli "zii" di Beatrice e ne furono onorati e felici.
In particolare tra Riccardo e la piccola Bea si creò un rapporto di complicità incredibile, poiché la nipotina aveva intuito fin da subito che quello zio così stravagante e misterioso, che viveva lontano, ma tornava sempre per le feste e trascorreva con lei, a Cervia, tutta l'estate, aveva dentro di sé ancora vivissimo "il bambino della campagna", che poi era il nucleo più sano e positivo della sua personalità.
E così poteva capitare che, in quella specie di mausoleo che era diventata la Villa Orsini, si sentissero improvvisamente schiamazzi e risate, specie quando Diana, Riccardo e Beatrice guardavano insieme qualche film di Walt Disney e poi giocavano con le bambole delle Principesse Disney che la bisnonna e lo zio regalavano alla nipotina.
E non era un caso che tre persone di età così diversa riuscissero ad andare perfettamente d'accordo.
C'era infatti qualcosa di molto profondo che li accomunava: era l'amore sviscerato per la campagna, la natura selvaggia, gli animali, i fiumi, le piante, i fiori e tutta quella bellezza di cui il parco di Villa Orsini era ancora custode.
Diana sorrideva nelle foto di quegli anni, pur sapendo che quell'idillio non sarebbe potuto durare.
E questo non solo per la sua tarda età e le sue malattie, ma anche perché la situazione finanziaria del Feudo Orsini era estremamente precaria e aggravata dalla crisi economica mondiale e dal crollo delle borse del settembre 2008, con l'esplosione della più grande bolla speculativa di tutti i tempi.
Ma di tutto ciò si parlerà più avanti.
In questo capitolo abbiamo voluto dar conto soltanto degli eventi positivi, quelli che rendono sopportabile la vita.
C'è un tempo per tutte le cose, persino per la felicità, ogni tanto.

lunedì 8 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 100. Galeotto fu Dante

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L'esame di Letteratura Italiana si avvicinava e Ilaria e Riccardo decisero di prepararlo insieme, almeno per quel che riguardava la parte scritta. I titoli dei temi infatti erano sempre così suddivisi: uno su Dante, uno su un periodo della storia della letteratura e un altro sull'analisi di un testo poetico o in prosa.
Per non far arrabbiare le amiche, Ilaria ripassava con loro la storia della letteratura e le analisi testuali, mentre con Riccardo preparava la Divina Commedia e tutte le altre opere di Dante, i cui testi andavano portati integralmente all'esame.
Entrambi amavano molto il Sommo Poeta fiorentino, e ne conoscevano svariati passi a memoria.
Riccardo, oltre ai passi della Divina Commedia, aveva memorizzato anche i sonetti della Vita Nova, e in particolare quello divenuto uno dei testi più famosi della letteratura italiana e mondiale e cioè Tanto gentile e tanto onesta pare.
Poteva essere l'occasione giusta per creare un'atmosfera romantica, cortese e cavalleresca, com'era l'epoca in cui quel testo fu scritto in lode di Beatrice Portinari.
Si trovavano nell'appartamento di lui, a "Mascarel Palace", nell'intimità del cortile interno privato, sotto un pergolato di rose in fiore (era maggio). 
Sembrava che tutto l'universo cospirasse in loro favore.
Riccardo decise così di recitare questi versi guardando Ilaria negli occhi:

« Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia, quand'ella altrui saluta,
ch'ogne lingua devèn, tremando, muta,
e li occhi no l'ardiscon di guardare. 

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d'umiltà vestuta,
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare. 

Mostrasi sì piacente a chi la mira
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che 'ntender no la può chi no la prova; 

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d'amore,
che va dicendo a l'anima: Sospira»

Per tutto il tempo della declamazione, Riccardo aveva continuato a rivolgersi direttamente a Ilaria e lei aveva sostenuto il suo sguardo, e si era commossa.
A quel punto, essendosi creata un'atmosfera propizia, Riccardo aggiunse:
<<Ci sarebbero altri due o tre versi che mi sono permesso di scrivere pensando a te:

Non celare la luce tua chiara
sotto oscuri moggi, Egeria, ora
che il coro delle Muse ci blandisce,
nello specchio di Fonte sempiterna
dove tardi t'incontrai. Rifiorisce
così la timida speranza che illude
talora i volti degli adolescenti.
M'avvolse la magia in te, e vidi poi
tornare in alto ad ardere le favole.
Ninfa e Fata delle selve bisbiglianti,
che sussurrasti a Numa parole di sapienza,
e incantasti Merlino a Broceliande,
come Venere e Viviana con te porti
perenne giovinezza e rinascenza.
L'inverno ormai passato già si scioglie
al pensiero del tuo volto,
ed il canto intenerisce anche le pietre
che ci gravano sul cuore>>

Lei rimase stupefatta:
<<Ma l'hai scritta davvero tu?>>
Lui si mise una mano sul cuore:
<<Sì, e l'ho scritta per te, pensando a te, perché tu sei... e sarai sempre... la mia ninfa Egeria>>



Ilaria era sorpresa e disorientata, ma nello stesso tempo anche sorridente e felice:
<<Nessuno aveva mai scritto una poesia per me. E soprattutto non una poesia così bella!>>
Riccardo si sedette di fianco a lei:
<<E' quello che provo per te. Volevo che tu lo sapessi>>
Lei lo fissò per qualche istante con i suoi occhi grandi e scuri, continuando a sorridere:
<<Il mio dolcissimo Hogwarts...>>
Con una mano gli scompigliò i capelli e con l'altra gli prese la cravatta in stile Grifondoro e lo attirò a sé.
Si scambiarono il loro primo bacio, e fu per entrambi un'esperienza nuova, perché nelle loro precedenti relazioni non c'era mai stato un così grande romanticismo.
Entrambi si erano preparati bene a quell'evenienza.
La bocca di lei sapeva di fragola e quella di lui sapeva di menta, perché da tempo erano consapevoli che quell'incontro esigeva l'assoluta perfezione sia dei sensi che dei sentimenti.
In quel momento Riccardo provò una gioia così intensa che mai prima aveva conosciuto.
Gli sembrò di aver atteso quel momento per tutta la vita, e tutto ciò che era accaduto prima gli apparve opaco rispetto allo splendore di quel momento.
L'inverno del suo scontento pareva terminato, sotto i raggi di quel sole che brillava davanti a lui.
L'opaca trafila delle cose che si erano succedute fino ad allora aveva ceduto il posto ad un senso di completezza e di condivisione che colorava un universo precedentemente grigio.
C'era una profondissima tenerezza in quel bacio e in quell'abbraccio, un senso di reciproca protezione, di assoluta condivisione, di dolcissima consapevolezza di non essere più soli, di aver trovato qualcuno con cui sentirsi in perfetta sintonia e con cui scambiare tutto quell'amore che per tanto tempo era rimasto nascosto dietro altissime pareti di ghiaccio.
Nessuno dei due aveva dubbi sul fatto di aver avuto la più grande fortuna possibile, ossia aver trovato l'anima gemella.
A nessuno dei due venne in mente, né quel giorno, né nei mesi successivi, quando la loro relazione si consolidò, che l'amore, anche il più grande, non è sufficiente per far funzionare una storia.
C'erano molti argomenti taciuti e molti nodi che ancora non erano venuti al pettine, nelle loro vite.
E infine c'era una considerazione di fondo.
Lei era molto più giovane di lui e anche molto più bella, e più intelligente, e più simpatica e più stabile caratterialmente. Ma questo sarebbe emerso solo molto tempo dopo, e avrebbe messo in evidenza problemi che in un primo momento erano sembrati inconsistenti.
Fu un errore, da parte di Riccardo, l'aver tenuto nascoste le sue debolezze, gran parte del suo passato personale e familiare, e persino la sua vera età?
Forse sì, forse fu un vero peccato.
Ma era davvero un peccato imperdonabile?
Come scrisse un poeta nei tardi anni: 
"D'amore non esistono peccati. Esistono soltanto peccati contro l'amore".
E quelli sì, sono imperdonabili.

domenica 7 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 99. La trasformazione del Salotto di Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere

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C'era stato un tempo in cui il Salotto Buono di Silvia Ricci-Orsini e Francesco Monterovere era il principale "cenacolo" e centro di ritrovo degli intellettuali forlivesi. 
Non che avere il primato a Forlì fosse poi gran cosa, ma come diceva Giulio Cesare (e Silvia ripeteva sempre): <<Preferisco essere primo in un paese, piuttosto che secondo a Roma>> ("Malo hic esse primus quam Romae secundus", come riporta Plutarco nelle Vite Parallele).
Questo primato era comunque destinato a declinare col tempo, in seguito ad una serie di eventi sfavorevoli.
Il primo durissimo colpo era avvenuto quando Ettore Ricci, il padre di Silvia,  era stato travolto dagli scandali e dai processi
Si era in piena Tangentopoli, per cui, pur essendo Ettore innocente riguardo alle accuse più gravi,  l'ala manettara dell'elite benpensante prese subito le distanze in maniera drastica da sua figlia e suo genero.
Fu una diaspora notevole, perché riguardò gran parte di coloro che, atteggiandosi all'oraziano integer vitae scelerisque purus, tenevano sermoni sulla "questione morale", pur avendo, da parte loro, la coscienza non del tutto limpida.
C'erano comunque alcuni colleghi, amici e parenti che non se la sentirono di voltare la faccia a Silvia Monterovere e a suo marito, "il Professore", della cui onestà nessuno avrebbe mai potuto dubitare.
Fino a quel momento il Salotto Buono non aveva avuto "colorazioni" politiche ufficiali di alcun tipo, anzi, Silvia aveva fatto in modo che non si toccasse mai apertamente un argomento così divisivo, ma di fronte alla crisi della Prima Repubblica, gli animi si erano inaspriti e la neutralità era sempre più difficile da mantenere e guardata con sospetto.
Di fatto il  Salotto era "bipartisan", nel senso che mentre i Ricci-Orsini erano storicamente di destra, i Monterovere erano per lo più di sinistra, e in particolare lo era l'onorevole pidiessino Edoardo Monterovere, zio di Francesco, così come anche suo fratello, l'insigne accademico Lorenzo.
Quando Berlusconi scese in politica, mantenersi neutrali divenne quasi impossibile.
Alcuni notarono che col tempo le convinzioni politiche di Francesco Monterovere erano virate verso destra, avvicinandosi a quelle di sua moglie e di sua suocera.
Questa "conversione" era avvenuta gradualmente, quindi non va intesa come una "folgorazione sulla via di Damasco".
In primo luogo Francesco non aveva rinnovato la tessera della CGIL, perché non condivideva l'eccesso di scioperi di natura puramente politica e il velleitarismo di numerose iniziative.
Poi aveva incominciato a criticare l'allora PDS/DS per divergenze riguardo ai cavalli di battaglia della sinistra: le tasse e l'immigrazione.
Queste sue decisioni avevano avuto conseguenze pesanti: suo zio Edoardo gli aveva tolto il saluto, suo fratello Lorenzo lo aveva aspramente rimproverato, i suoi colleghi lo avevano radiato dall' "Albo dei Radical-Chic" e persino alcuni suoi amici avevano incominciato a trattarlo con freddezza.
Anche questo ebbe un peso notevole nella crisi del Salotto Buono e col tempo altri "progressisti al caviale" disertarono.
Ma la più grande emorragia avvenne in seguito, in concomitanza col tracollo finanziario del Feudo Orsini e con l'estromissione dei Monterovere dall'Azienda di famiglia e soprattutto, come ciliegina sulla torta, con la fine della carriera bancaria di Riccardo.
Si poteva perdonare tutto, nell'ottica dei salottieri benpensanti, ma la rovina economica assolutamente no.
Fu così che alla fine rimasero soltanto quelli che Shakespeare, nell'Enrico V, chiamava"happy few": <<Voi pochi, voi felici pochi, voi, manipolo di fratelli!>>
Pochi erano senz'altro, ma sembravano tutt'altro che felici.
Si trattava di amici di antichissima data, colleghi anziani, vicini di casa ancora più anziani e parenti che avevano visto fin troppe primavere.
Con l'andare degli anni e l'implacabile incedere della terza età e delle malattie, l'argomento delle conversazioni iniziò pericolosamente a virare su questioni cliniche.
Peraltro i coniugi Monterovere incominciavano ad avere, ahimè, una certa esperienza diretta in questo campo.
Silvia soffriva di una maculopatia degenerativa agli occhi, che le aveva fortemente compromesso la vista, tanto da renderle quasi impossibile la lettura: un durissimo colpo, per una insegnante di lettere.
Paradossalmente sua madre Diana Orsini, novantatreenne, sembrava stare meglio.
Francesco ormai da tempo faceva i conti con gravi malattie cardiache, le stesse che avevano tormentato la sua amata genitrice Giulia, il cui ricordo era rimasto vivo anche dopo tanti anni dalla sua scomparsa.
Fu così che, inevitabilmente, il Salotto incominciò ad attrarre un nuovo tipo di invitati e cioè quella parte di ex studenti di Silvia e Francesco che si erano laureati in Medicina.
Considerando quello che sarebbe accaduto di lì a poco, questa presenza era destinata a diventare sempre più importante, mentre anche tra gli "happy few" incominciavano le defezioni dovute a cause di forza maggiore (decessi o malattie).
In tutto questo panorama, spiccava l'assenza del figlio, di cui ormai gli ospiti non chiedevano più nulla, perché non sta bene nominare la corda in casa dell'impiccato.
In realtà il rapporto tra i genitori e il figlio era ottimo, ma la gente, che quando non sa nulla tende a inventarsi tutto, si era fatta l'idea che l'erede dei Monterovere e dei Ricci-Orsini fosse stato come condannato all'esilio per qualche gravissima colpa.
Processato e condannato in contumacia dalle malelingue forlivesi, Riccardo era intento a "rifarsi una vita" a Bologna, e i suoi genitori lo appoggiavano con grande convinzione, specie ora che sapevano che si era innamorato di una brava ragazza.
I coniugi Monterovere potevano comunque contare sulla presenza costante di due gatti molto speciali, provenienti entrambi dal feudo di Casemurate.
Uno, di nome Maìno, era un affettuosissimo Maine Coon grigio dal pelo lungo e leonino, l'altro, di nome Trito, era tigrato, grosso e sornione, ma aveva un musino dolcissimo, da micino di pochi mesi, e si era affezionato a Francesco in maniera incredibile, tanto da correre sulle sue ginocchia al minimo richiamo.


Come due sfingi o due Lari posti a guardia del focolare domestico, Maìno e Trito sostavano all'ingresso del salotto, quando gli ospiti andavano via e i padroni di casa restavano soli, in silenzio, ad osservare il tramonto dalla terrazza rivolta a occidente e ad ascoltare il canto delle cicale, che producevano, con finissimi sistri d'argento, una nota lunga, ritenuta e profonda, come la cognizione del dolore. 

martedì 2 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo 98. Hogwarts: il soprannome più dolce del mondo

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Una delle prime cose che Ilaria confessò a Riccardo quando si rividero in università, fu che, nei mesi precedenti, lei e le sue amiche non solo lo avevano tenuto d'occhio, ma gli avevano anche dato un soprannome buffo.
Per un attimo lui ebbe il terrore che si trattasse di qualcosa di troppo ridicolo, che lo relegasse ineluttabilmente a quel ruolo di amico/confidente/giullare che nello slang anglo-americano viene detto, con la consueta e sintetica efficacia, "friendzone", la "zona dell'amicizia".
E invece tutto sommato fu qualcosa che, pur avendo intenzioni scherzose, poteva essere anche la premessa per qualcosa di più intimo, sopratutto tenendo conto delle implicazioni che emersero nel colloquio successivo.
Tale soprannome era "Hogwarts", e si riferiva naturalmente alla celeberrima scuola di magia e stregoneria frequentata da Harry Potter e dai suoi compagni di studi e di avvernture nei romanzi di Joanne Kathleen Rowling e nei film tratti da questa fortunatissima saga.
Perché proprio questo soprannome?
La spiegazione era molto semplice ed Ilaria non ebbe bisogno di molte parole per esprimerla:
<<Fin dall'inizio delle lezioni ti sei vestito come gli studenti di Hogwarts, con il maglioncino a V, la cravatta e i pantaloni grigi, da perfetto inglese>>
Riccardo aveva riso:
<<Beh, in effetti ho sempre avuto una certa ammirazione per i college anglosassoni dove gli studenti portano con orgoglio la divisa della scuola e delle loro confraternite. In fondo è, almeno per i maschi, un argine alla sciatteria dei tamarri o alla ridicolaggine degli hipster>>
Ilaria fece un'espressione buffa:
<<Cavoli, qui abbiamo un esperto di moda! E tu allora, mio caro Hogwarts, a quale categoria ritieni di appartenere?>>
Lui si sentiva un po' in imbarazzo, ma cercò di esprimersi con la massima nonchalance:
<<Be', diciamo che io mi considero una specie di dandy, anche se abbastanza sobrio, il che è anche in linea con l'idea che i miei amici si sono fatti di me. Tu pensa che alcuni mi chiamano Lord Richard, tanto per rimanere in tema di soprannomi>>
Lei appariva decisamente affascinata:
<<Lord Richard! Addirittura! E da dove deriverebbe questo titolo?>>
Riccardo preferiva, almeno all'inizio, evitare ogni riferimento alla sua famiglia, per cui si limitò a dire:
<<Perché ho una certa fissazione sulle famiglie reali, specie quella inglese. E in generale sono un ammiratore del mondo britannico, anche perché amo la letteratura inglese e le tradizioni celtiche>>
Ilaria inarcò le sopracciglia:
<<Ah, per esempio, che autori ti piacciono?>>
Lui era in lieve imbarazzo perché di solito la risposta non era sufficientemente apprezzata:
<<I miei gusti in letteratura inglese sono piuttosto peculiari. Non sempre vengono compresi>>
E lei ribatté, come in un altro famoso romanzo ancora da scrivere:
<<Illuminami>>
<<Diciamo che considero Tolkien il più grande scrittore della letteratura inglese. Altro che Shakespeare!>>
Attese con ansia la risposta di lei, perché non era scontato che una ammiratrice di J.K.Rowling potesse essere anche una lettrice di Tolkien.
E invece:
<<Ma dai! Tolkien è anche il mio scrittore preferito!>>
A quel punto fu come se un coro d'angeli cantasse intorno a loro e un raggio di sole li illuminasse, perché è da certi dettagli che si capisce che la persona che hai davanti potrebbe essere davvero la tua anima gemella.
Decise di osare ancora di più:
<<Ma tra il Signore degli Anelli e Il Silmarillion, qual è il tuo preferito?>>
Lei rispose senza nemmeno pensarci:
<<Il Silmarillion, naturalmente!>>
Il viso di Riccardo si illuminò e fu tentato di gettarsi ai suoi piedi per implorarla pregando: "Sposami!!!".
A stento dovette trattenere la sua gioia:
<<Sei la prima donna che concorda con me anche su questo punto. Non hai idea di quanto sia importante...
Insomma... è evidente che tu sei una persona speciale, e non solo per questo... voglio dire... solo un vero amante della conoscenza può studiare il greco antico durante l'estate!>>
Lei arrossì lievemente:
<<Pensa che il mio ex mi ha lasciata anche per queste ragioni>>
Riccardo scosse il capo:
<<Allora, scusa se mi permetto, ma era veramente un coglione!>>
E lei rise:
<<Ah ah, puoi dirlo forte... ma sai, noi ragazze a volte perdiamo la testa per un coglione col fisico da atleta, così come voi ragazzi la perdete per qualche oca giuliva con una linea sexy>>
Riccardo rise a sua volta:
<<In effetti, diciamo che la mia ex si avvicinava abbastanza a quella tipologia>>
Ilaria a quel punto fece una domanda che rivelò il suo interesse per lui:
<<Quindi adesso sei single?>>
<<Sì, e tu?>>
<<Anch'io... dopo la rottura col mio ex, ho voluto prendermi una pausa sentimentale>>
<<Capisco>>
<<Ma credo che ormai sia il momento di rimettersi in gioco>>
Riccardo sorrise:
<<Anche su questo sono assolutamente d'accordo>>
E allora fu chiaro che era soltanto questione di tempo.
Sentivano entrambi di essere destinati l'uno all'altra e che l'unico motivo per cui il destino li aveva condotti lì, in quel luogo e in quel tempo, era per farli incontrare, per conoscersi e per amarsi.
Si dice che la felicità sia fatta da attimi di dimenticanza più qualche raro momento di assoluta gioia. 
In quel momento Riccardo ne ebbe la prova.
Per alcuni istanti, preziosissimi, lui e Ilaria, scoprendo di avere tanti altri punti in comune e convincendosi di avere davanti a sé la persona giusta con cui condividere l'arduo cammino della vita, assaporarono quell'ambrosia degli dei che alcuni chiamano Felicità.

lunedì 1 gennaio 2018

Vite quasi parallele. Capitolo.97 La brace dei Monterovere

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Il "patriarca" Romano Monterovere aveva compiuto 95 anni il 15 febbraio del 2006.
Le sue condizioni di salute erano ormai gravemente compromesse: era in atto un edema polmonare che lo aveva costretto al ricovero al reparto di terapia intensiva di una clinica privata nella quale era solito recarsi alla ricerca di soluzioni che potessero prolungare il più possibile la sua vita.
Ma sapeva anche lui che questa vita era giunta al crepuscolo.
Ogni giorno gli prelevavano l'acqua dai polmoni con un ago, e non era certo una pratica che potesse durare all'infinito.
L'edema stava affaticando tutti gli altri organi e mostrava i segni di degenerazione in enfisema, con tutti i gravi problemi respiratori che ne sarebbero conseguiti.
A metà marzo, in mancanza di segni di miglioramento e con una prognosi negativa, Romano incominciò a sentire "il tedio della fuga e della vita", come Cicerone quando si lasciò catturare dai sicari di Marco Antonio.
La sua vita era stata lunga e intensa, ma segnata dalla perdita prematura dell'amata moglie e dai rapporti difficili con i figli e i nipoti.
Alla fine i momenti felici, quelli da salvare e da ricordare nell'ora in cui si avvicinava il trapasso, erano davvero pochi.
Cercò di enumerarli e di riviverli.
Il volto di Giulia il giorno del loro matrimonio, l'azzurro dell'oceano nel Golfo di Aden, ai tempi della guerra di Abissinia, e prima ancora il profumo dei boschi che circondavano l'antico borgo Monterovere, vicino al quale aveva trascorso la sua infanzia.
A quei tempi il castello era perduto da generazioni e mai avrebbe immaginato che suo figlio Lorenzo, quello che aveva praticamente cacciato di casa, avrebbe avuto tanto successo da poterselo ricomprare.
Ma era stato un atto di vanità.
A Romano non importava nulla del castello: era cresciuto felice nella fattoria dei suoi genitori, ascoltando le storie di suo nonno Ferdinando, che a novant'anni andava ancora a cavallo per i boschi.
Ricordava le notti d'inverno trascorse attorno al camino, mentre il nonno raccontava le leggende sugli elfi dei boschi e sulle fate dei ruscelli, quando c'erano ancora i druidi gallici e l'Antica Quercia si ergeva maestosa nel luogo che, dopo il suo abbattimento per ordine dell'imperatore romano Teodosio, era stato soprannominato cupamente "l'Orma del Diavolo".

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Ferdinando andava avanti per ore, fino a quando la brace del camino non era consumata e i nipoti si erano addormentati.
Ripensando a quelle serate della sua infanzia, Romano si accorse di non essere mai stato più così completamente e serenamente felice: era piccolo ed era povero, eppure quei momenti di magia e di calore erano stati quanto di meglio avesse avuto dalla vita.
Romano aveva provato molto dolore quando il vecchio era morto, disarcionato dal cavallo proprio nei pressi dell'Orma del Diavolo.
Lui fu un bravo nonno. Io non lo sono stato, né sono stato un buon padre. Nessuno piangerà al mio funerale.
Quando subentrò l'enfisema, l'ossigenazione tramite maschera non fu più sufficiente.
Occorreva intubarlo dal naso, passando per le corde vocali fino ad arrivare ai polmoni.
Fece venire un prete per la confessione e l'estrema unzione.
Poi si preparò all'ultimo atto.
Al suo capezzale c'erano solo la figlia Enrichetta e il fratello Edoardo, destinato a diventare l'ultimo dei Fratelli Monterovere, fondatori dell'omonima Azienda, ormai controllata dalla famiglia Bassi-Pallai.
Prima che lo intubassero, volle sussurrare le sue ultime parole:
<<La parte migliore di me è morta con la mia povera Giulia, trent'anni fa. 
Ora è soltanto la parte peggiore quella che sta morendo. 
Sono stato troppo duro con Francesco e Lorenzo: pregate loro di perdonarmi. 
Grazie, Enrichetta ed Edoardo, per avermi sopportato fino all'ultimo>>
Poi fece cenno agli infermieri procedessero con l'intubazione.
Entrò in coma poco dopo.
L'enfisema si aggravò e subentrò il blocco renale.
Romano Monterovere morì il 20 marzo 2006.
Al suo funerale parteciparono tutti i parenti.
Ormai le uniche occasioni di ritrovo erano quelle, insieme ai matrimoni, ai battesimi e alle cresime.
Riccardo tornò da Bologna per partecipare alle esequie insieme allo zio Lorenzo, il grande accademico, che non vedeva il padre da anni.
Guidava Lorenzo:
<<Vedo che con Latino non sei partito proprio col piede giusto, dico bene?>>
Riccardo temeva di aver dato a suo zio una grande delusione.
<<Mi dispiace. La prossima volta mi preparerò meglio>>
Lorenzo sorrise:
<<Non preoccuparti. Anch'io sono stato bocciato, la prima volta. E sai cosa ti dico? Il fallimento è il più grande maestro>>
Riccardo sorrise a sua volta:
<<Nel qual caso dovrebbero darmi una laurea ad honorem in fallimenti>>
Lo zio allora si rivolse a lui in tono serio:
<<Tu sei l'ultimo dei Monterovere. L'ultimo erede maschio della famiglia. So che sei più legato alla famiglia di tua madre, il grande clan Ricci-Orsini, ma ora che Romano è morto, è tempo che ti prepari al tuo ruolo. Se ti mostrerai all'altezza delle grandi aspettative che nutro nei tuoi confronti, potrai diventare l'erede del mio patrimonio, compreso il castello di Monterovere Boica>>
La cosa spaventava un po' il nipote:
<<Io ti ringrazio per la fiducia, zio. Ma temo che non potrò mai guadagnare a sufficienza per potermi permettere la manutenzione di un castello così antico. A dire il vero non so nemmeno come tu ci riesca>>
Lorenzo assunse un'espressione da vecchia volpe astuta:
<<Un giorno avrai tutte le risposte. Ma per ora ti basti sapere che io non sono solo un docente universitario. Ricopro altri incarichi, meno noti, ma più remunerativi e decisamente più interessanti>>
Riccardo ebbe un brutto presentimento: gli sembrava di essere come Anakin Skywalker nel momento in cui il cancelliere Palpatine gli pone la fatidica domanda su Darth Plagueis il Saggio.
Lorenzo rappresentava il Lato Oscuro della famiglia Monterovere e Riccardo ne aveva paura.

domenica 31 dicembre 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 96. La disastrosa prova scritta di latino ossia come sbocciò l'amore tra Ilaria e Riccardo


Tutti sanno che l'esame più temuto dalle matricole di Lettere a Bologna è la famigerata prova scritta di latino, di cui si narra che mai nella storia fu superata al primo tentativo.
La data era prevista per la seconda settimana di gennaio del 2006.
Riccardo, scioccamente illuso delle proprie capacità di traduttore, non avendo mai preso meno di otto nelle versioni del Liceo, affrontò la prova con irresponsabile leggerezza.
Ma anche i più preparati e i più responsabili si trovarono in difficoltà.
Venne fuori un brano di Cesare particolarmente ostico, contorto ed ellittico, pieno di ablativi assoluti appesi nel vuoto e avulsi dal contesto, di frasi oscure con soggetto implicito e di espressioni a tal punto sintetiche e ruvide da risultare quasi inesprimibili in italiano.
Panico e disperazione regnarono sovrani nelle quattro ore d'esame, che si rivelarono comunque insufficienti per riuscire a venire a capo di quel rebus assurdo.
Alla fine della prova, tutti avevano un aspetto da zombie e a malapena si reggevano in piedi.
Riccardo era nel pallone più totale, per usare un'espressione fantozziana, ma anche la precisa e infallibile Ilaria sembrava insolitamente scossa.
Tutti confrontavano le loro traduzioni e scoprivano di aver preso cantonate pazzesche.
Tenete conto che il 2006 fu l'ultimo anno dell'Era Ante I-Phone, per cui non ci si poteva connettere ad internet  dal cellulare, e dunque nessuno aveva immediato accesso alla versione corretta. 
Fu così che tutti tornarono a casa, sia per controllare la vera traduzione, sia per riprendersi dallo sfinimento e mettersi a letto, dopo aver staccato il telefono e spento il cellulare.
I risultati uscirono due settimane dopo e mai Riccardo avrebbe potuto immaginare che quell'infausto giorno sarebbe coinciso con il suo primo, magico e persino romantico colloquio con l'irraggiungibile Ilaria Mantovani.
Vale dunque la pena raccontare nel dettaglio e con la massima accuratezza tutto ciò che avvenne quella memorabile mattina.
Riccardo era uscito da Mascarel Palace di buon'ora, con stoica determinazione a non lasciarsi abbattere da quella che si profilava come la sua prima vera bocciatura in una prova scritta.
Quando arrivò al Dipartimento di Filologia Classica ancora non sapeva che quella sarebbe stata la location principale della storia d'amore più importante della sua vita.
I cartelloni con l'esito dell'esame erano già stati appesi alla bacheca e la folla di matricole si accalcava nell'assurda speranza di trovare, a fianco del proprio nome, almeno un miracoloso 18.
Forse i lettori non ci crederanno, ma non vi fu neanche una sufficienza. 
Tutti bocciati.
Tutti.
Compresi naturalmente Riccardo e Ilaria.
Lui ormai se n'era fatta una ragione da un pezzo e probabilmente il suo voto reale, in trentesimi, sarebbe stato meno di zero.
Ma per Ilaria dovette essere un vero shock, perché quando riemerse dalla calca, si andò a stendere su una panca di legno lungo il corridoio.
Fortuna volle che Riccardo si trovasse già seduto proprio in quella fatidica panca.
Esistono momenti, nella vita, e circostanze particolari e speciali che annullano le normali barriere comunicative tra le persone: succede nei momenti di emergenza, nelle camere di ospedale, nelle sale d'attesa degli ambulatori o nelle sedi di un concorso pubblico, specie quando si è accomunati ad una sorte simile.
Successe così anche a Ilaria e Riccardo.
Lui era a tal punto concentrato nel pianificare le strategie per riprendersi da quella disfatta che non si accorse nemmeno del fatto che la ragazza per la quale provava tanto interesse si fosse letteralmente distesa nella stessa panca di legno scuro e antico dove lui era seduto.
Per un tempo non quantificabile rimasero così, inconsapevoli e indifferenti l'uno dell'altra, lei con gli occhi rivolti al soffitto, lui con la faccia più ebete del solito e lo sguardo perso nel vuoto.
Poi, improvvisamente, ecco il Miracolo.
Nello stesso istante, i loro sguardi, alla fine si incontrarono.
Lei era bellissima anche così, nel momento della sconfitta e del dubbio.
Lui per poco non fu colto da un infarto e la sua espressione dovette sembrare così comica agli occhi di Ilaria che lei si mise a ridere.
In quel momento a Riccardo sembro di essere come Roger Rabbit, la cui meravigliosa moglie Jessica diceva: "Lo amo perché mi fa ridere" e "Non sono cattiva, è solo che mi disegnano così".
A tanti anni di distanza, per lui rimaneva un dolce ricordo pensare che un amore così grande fosse nato con un momento di ilarità capace di scacciare la tristezza per una sconfitta.
Dopo alcuni secondi di estasi, Riccardo recuperò le proprie facoltà mentali e verbali:
<<Anche tu sei reduce dall'esito della prova di latino?>>
Lei, ricomponendosi, annuì:
<<Ha fatto crollare tutte le mie certezze>>
Riccardo annuì a sua volta:
<<Diciamo che anch'io ho avuto momenti migliori>>
Disse esattamente così, ma non era vero: quello era in assoluto il momento migliore che gli fosse mai capitato di vivere.
Il ghiaccio tra lui e Ilaria si era rotto da sé, spontaneamente, senza bisogno di goffi tentativi di approccio.
<<Hai fatto il classico?>> chiese lei.
Lui scosse il capo, mortificato:
<<Ahimè no, io sono un "barbaro" dello scientifico e non so una parola di greco>>
E lei si mise a ridere di nuovo:
<<Ah, ah, ma anch'io una "barbara" dello scientifico! E' solo che non avevo mai preso meno di otto in latino>>
Riccardo si illuminò come se avesse visto apparire la Vergine Maria in persona:
<<Pure io! Se c'era una materia dove mi sentivo sicuro era questa. Adesso non sono più sicuro nemmeno della mia esistenza>>
Ogni tristezza e delusione sparirono dal bel volto di Ilaria e i suoi meravigliosi occhi tornarono a splendere:
<<Allora siamo in due. Solo che per me è una batosta più dura, perché io sono iscritta al corso di Lettere Classiche>>
Riccardo era stupefatto:
<<Quindi dovrai imparare il greco ex novo? Ehm, perdonami il latinismo!>>
Lei ormai rideva per ogni scemenza di lui:
<<Il greco me lo sono studiato quest'estate. Immagino che avrai notato che non ero molto abbronzata>>
Questa risposta aveva due implicazioni:
1) Ilaria, oltre che essere bellissima, era una vera secchiona, il che la rendeva, agli occhi di Riccardo, assolutamente irresistibile, come certe segretarie con gli occhiali.
2) Lei si era accorta che lui l'aveva osservata per tutto il primo trimestre e voleva farglielo capire.
Lui colse la palla al balzo:
<<Sì, l'avevo notato. Ma stai benissimo così: hai una pelle così fresca, così vellutata, se posso permettermi...>>
Lei ormai rideva a crepapelle:
<<Ah ah, ma come parli? Sei uscito fuori da un romanzo di Jane Austen? Ti hanno ibernato durante l'Ottocento?>>
Lui stette al gioco:
<<In verità sono un Vampiro, guarda che canini appuntiti!>>
A quel punto ogni barriera era infranta.
Lei aveva un'espressione allegra mai mostrata prima, durante le lezioni:
<<Piacere, io mi chiamo Ilaria, spero che tu non ti chiami Vlad Dracula o Edward Cullen!>>
Lui era in Paradiso:
<<Molto piacere, io mi chiamo Riccardo, ma sono molto più bello di Robert Pattinson>>
Potrà sembrarvi incredibile, ma i grandi amori possono incominciare anche così.

mercoledì 27 dicembre 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 95. Ilaria


Dopo un inizio abbastanza positivo del suo lavoro in banca, Riccardo ebbe alcuni mesi di tregua. L'anno successivo però si manifestarono i primi dubbi, che divennero certezze quando fu trasferito all'Ufficio Controllo Crediti. Per motivi di privacy non possiamo essere troppo espliciti nel riferire cosa accadeva in quell'ufficio: basti sapere che gran parte degli attuali problemi finanziari delle banche italiane e non solo, erano già evidenti nel 2003. 
Dopo scrupolose analisi dei bilanci delle società indebitate verso la banca per cui lavorava, Riccardo si rese conto che la maggioranza dei crediti era da considerarsi "in sofferenza", ossia sostanzialmente inesigibile, poiché i debitore erano de facto già insolventi.
I dirigenti, in maniera furbesca e illegale, facevano firmare la pratica di messa "in bonis" di questi debitori insolventi proprio ai neoassunti, specie a quelli con contratto a tempo determinato.
Riccardo si rifiutò di firmare la certificazione di esigibilità di crediti concessi ad aziende sull'orlo della bancarotta e questo provocò la reazione stizzita dei capi, con un successivo mobbing e una nota di demerito spedita all'ufficio del personale.
Per farla corta, alla fine il suo contratto di formazione e lavoro non venne rinnovato alla scadenza del termine, nel 2005, e la banca disse esplicitamente che non avrebbe fornito referenze positive. A quel punto, dopo l'ennesimo buco nell'acqua, Riccardo non sapeva più a che santo votarsi.
Fu allora che entrò in scena lo zio Lorenzo Monterovere, Docente Ordinario di Storia delle Religioni all'Università di Bologna. che lo convinse ad iscriversi al Corso di Laurea Triennale in Storia (c'era stata la riforma del 3+2) e gli promise tutto il suo appoggio per una carriera accademica nell'insegnamento delle discipline storiche.
La prospettiva sembrava molto allettante, anche perché, essendo lo zio Lorenzo senza figli e scapolo, oltre che smisuratamente ricco, c'era anche la possibilità di entrare nelle sue grazie anche come erede.
Tutta la famiglia (genitori, nonni, zie, zii, cugini di vario grado) e gli amici più intimi appoggiarono con convinzione e determinazione questa idea, che in effetti era più consona alle attitudini e agli interessi culturali del nostro "eroe".
Fu così che, nell'autunno del 2005, a 30 anni, Riccardo Monterovere si iscrisse all'Università di Bologna e incominciò a frequentare le lezioni per la sua seconda laurea.
Ritornare nell'ambiente universitario dopo tanto tempo lo fece ringiovanire nel corpo e nello spirito.
Inoltre si trattava di un'università molto diversa, e in particolare di una Facoltà, quella di Lettere, Filosofia, Storia e Scienze umanistiche, del tutto opposta rispetto a quella di economia, frequentata negli anni milanesi.
Riccardo, che era un fighetto "milanesizzato" tipo quelli descritti nella pagina Facebook del Milanese Imbruttito, si trovò circondato da un'orda di matricole di tutti i tipi, compresi i rasta, punk e alternativi vari, ma soprattutto da una marea di ragazze, perché è noto che nelle facoltà umanistiche la presenza di studentesse è maggiore.
Erano però ragazze di diciannove anni, cioè undici in meno di lui, e questo gli faceva una certa impressione, come se fosse entrato in un territorio pericoloso.
Tenne segreto fin dall'inizio tutto il suo passato, compresa la sua età: in fondo dimostrava molti meno anni di quelli che aveva e nessuno sospettava che lui fosse alla seconda esperienza universitaria.
E tuttavia l'esperienza di vita che aveva acquisito sia nei cinque anni milanesi, sia nell'anno del servizio civile, sia nei due anni del lavoro in banca, gli avevano dato una maggiore sicurezza di sé e un distacco ironico che gli conferivano un certo fascino, tanto da renderlo popolare sia tra i nuovi amici che tra le ragazze.
Le sue colleghe di studi erano tutte persone molto intelligenti e molto interessanti, e questo rinnovò in lui la speranza che tra di loro, forse, chissà, ci potesse essere la sua tanto sognata Anima Gemella.
In particolare una di loro aveva attratto la sua attenzione.
Si trattava di una ragazza "seria", di quelle che si sedevano sempre nei primi banchi e prendevano appunti con grande precisione, senza distrarsi e mantenendo una compostezza olimpica.
Già questo la rendeva speciale e misteriosa.
Il suo aspetto era in parte diverso da quello delle donne da cui Riccardo era stato attratto negli anni precedenti, ed era decisamente molto lontano da quello delle sue ex fidanzate Vittoria e Barbara.
Era il classico tipo "acqua e sapone", con la pelle fresca, i capelli castani lunghi e lisci in maniera naturale, e l'abbigliamento tradizionale da studentessa modello (maglioncino con camicetta abbottonata, gonna simile a quelle delle divise scolastiche anglosassoni o giapponesi, oppure pantaloni o jeans ampi, leggermente svasati, come andavano in quegli anni e come stanno tornando ad andare adesso, dopo il "decennio skinny").
Con lei c'erano sempre due amiche, che le stavano appiccicate come se fossero due guardie del corpo, e che copiavano tutto quello che lei scriveva sul quaderno.
Quasi tutti gli orari di lezione di Riccardo per i corsi del primo anno coincidevano con quelli della misteriosa ragazza.
Fu così che ebbe inizio una "strategia dell'attenzione" ed una manovra di lento, ma costante avvicinamento.
Quando finalmente, a fine novembre, Riccardo arrivò a sedersi esattamente dietro di lei, riuscì a carpire le prime informazioni dai dialoghi (in realtà non molti) tra la ragazza del mistero e le sue amiche.
Riuscì quindi ad ottenere la prima informazione fondamentale e cioè il nome.
La fanciulla del mistero si chiamava Ilaria Mantovani.
Aveva una voce limpida, quasi senza inflessioni, per quanto si potesse intuire che fosse nata e cresciuta in Emilia.
Osservando il suo viso, con discrezione naturalmente, Riccardo fu come folgorato da un'illuminazione edipica: c'era qualcosa, in quel volto, che le ricordava le foto, da ragazze, di sua nonna e di sua madre. 
Forse era stato quello l'elemento decisivo che aveva catalizzato la sua attenzione su Ilaria, ma faceva fatica ad ammetterlo persino a se stesso.
Ricordò il giorno in cui aveva detto a Diana: "Tu vorresti che io trovassi una come te", e sua nonna aveva riso, rispondendogli che non era una buona idea, considerando quanto travagliato era stato il suo matrimonio. Eppure quella risposta non era stata convincente, perché Diana aveva sposato l'uomo sbagliato perché costretta dal suo nobile e indebitato padre, il Conte Achille Orsini Balducci di Casemurate.
In ogni caso, anche a prescindere da quelle considerazioni, Riccardo sentiva il desiderio di conoscere meglio Ilaria, magari di fare amicizia con lei e capire la sua personalità.
Non voleva essere però in nessun modo troppo affrettato o invadente.
Occorrevano prudenza, discrezione e tatto.
Tenete conto che nel 2005 non esistevano ancora i social network così come li abbiamo conosciuti dopo la rivoluzione digitale del 2007 e l'inizio dell'era degli smartphone e di tutto il sistema di contatti ruotanti intorno a quella realtà di impatto così immediato.
Questo permetteva ancora un approccio personale "vecchio stampo", che oggi ci sembra lontano come l'Ancien Regime o il Medioevo, tanto che forse, un triste giorno, incominceranno a datare i calendari dall'anno in cui Steve Jobs vendette il primo I-Phone.
Col senno di poi, Riccardo avrebbe detto che sarebbe stato più prudente non imbarcarsi nel viaggio verso quel continente inesplorato che era Ilaria, considerando che tutta la loro tormentata e profonda neverending story (infinita solo per quel che riguarda le cicatrici lasciate nel cuore di entrambi) avrebbe avuto l'effetto di una tempesta da far felice Emily Bronte.
Ma questo discorso vale per tutti i viaggi, sia in amore che in mare: si è più sicuri rimanendo ormeggiati nel porto, ma non è per questo che sono costruite le navi.

martedì 26 dicembre 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 94. Dura pioggia cadrà

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Dopo tutti gli scandali, i disastri finanziari, i testamenti traditi, i matrimoni osteggiati e quelli combinati, gli amori impossibili, le promesse non mantenute, i lutti, le delusioni e le conseguenti umiliazioni, il clan Ricci-Orsini-Monterovere credeva di aver toccato il fondo e che dunque il peggio fosse passato.
 E invece no.
A volte ci sembra impossibile che le cose possano andare peggio di come stanno andando, ma è un'illusione.
La verità che non vogliamo sentirci dire è che non esiste limite al peggio, almeno non in questa vita.
Quello che era accaduto prima alle famiglie Ricci-Orsini e Monterovere era solo l'inizio, il preambolo, l'ouverture della vera tragedia greca che si sarebbe abbattuta come un uragano su tutti i membri della famiglia.
Grandi nubi incombevano su di loro, nubi che si facevano ogni giorno più nere e cariche di pioggia, di dura pioggia battente, di tempesta, anzi, di uragano.



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Nessuno sarebbe stato risparmiato da quella bufera.
Né la generazione più anziana, né quella intermedia, né quella più giovane: soltanto quelli che nacquero dopo gli anni difficili poterono crescere come "figli dell'estate".
Il vecchio Romano Monterovere, più che novantenne, era ormai un relitto umano aggrappato alla vita come un'ostrica al proprio scoglio.
Aveva diseredato i figli maschi, ma anche alla figlia avrebbe lasciato poco, dal momento che tutti i suoi soldi furono spesi in un forsennato accanimento terapeutico, per prolungare il più possibile una vita che ormai non gli offriva altro che dolore. A tenerlo in vita era una specie di puntiglio: ci teneva a sopravvivere a tutti i suoi nemici e a tutte le persone pubbliche che non sopportava: era disposto a soffrire pene indicibili pur di ottenere questo risultato.
Diana Orsini aveva varcato la soglia dei novant'anni in condizioni apparentemente migliori, ma c'era un male che lavorava in segreto dentro di lei.
Ciò che però era ancora più sconvolgente era il fatto che lo stesso male, nello stesso identico punto, stava lavorando anche nel corpo di sua figlia, Silvia Ricci-Orsini.
A volte la genetica non perdona.
Nel 2003 ancora non lo sapevano, perché si trattava di una malattia silente, quasi impercettibile, che poteva andare avanti per decenni senza lasciare traccia, ma poteva anche rivelarsi fatale, se diagnosticata troppo tardi.
In ogni caso Silvia incominciava a sentire il peso dell'età, avendo oltrepassato i sessant'anni: per questo aveva deciso di andare in pensione.
Francesco Monterovere era andato in pensione nello stesso anno di sua moglie, ed entrambi speravano di potersi godere il tempo libero concedendosi qualche viaggio, qualche lunga vacanza, qualcosa che li aiutasse a riprendersi dagli eventi dell'ultimo decennio.
Ma Francesco aveva ereditato dalla madre gli stessi problemi cardiaci che avevano condotto Giulia Lanni Monterovere ad una morte precoce.
Grazie al cielo la medicina e la chirurgia avevano fatto passi da gigante, da quel lontano giorno in cui Giulia Monterovere era venuta a mancare, per cui il monitoraggio della situazione cardiovascolare fu tale da permettere a Francesco di conoscere per tempo i rischi a cui era esposto.
Il numero di interventi a cui dovette sottoporsi fu incredibilmente lungo e incominciò con una cardioversione e una defribrillazione, seguite poi da un'angioplastica coronarica. I rischi maggiori tuttavia provenivano dalle valvole cardiache calcificate e dall'aorta, che presentava un principio di aneurisma e di dissezione.
Era preoccupato, certo, ma le preoccupazioni più assillanti derivavano naturalmente dal figlio Riccardo, la cui situazione era incerta.
Finito il servizio civile, aveva incominciato una serie di colloqui di lavoro e aveva finito per accettare un incarico nella sede centrale di una banca di Bologna, sufficientemente lontano da Forlì per conservare un certo anonimato, ma anche sufficientemente vicino alla famiglia, che intendeva tenerlo d'occhio, affinché non ricadesse nei vizi milanesi.
E si trattava di un trasferimento destinato a durare.
Aveva anche acquistato un appartamento in Via Mascarella, con tanto di cortile interno, facendo un mutuo garantito da una fideiussione di sua nonna.
Fu da quel momento che i suoi amici, per scherzare bonariamente sui suoi quarti di nobiltà e sulla sua nuova residenza, incominciarono a chiamarlo "il Duca di Mascarel", e a ribattezzare la palazzina bolognese con l'epiteto sarcastico di Mascarel Palace.
Meno ironica era stata la reazione della sua ragazza.
Barbara non aveva gradito quella scelta.
A dire il vero, era da un po' di tempo che non gradiva più le scelte del fidanzato:
<<E' una banchetta da quattro soldi! Uno come te doveva accettare soltanto un posto alla Goldman Sachs, magari nella sede di Zurigo o di Londra. Avremmo fatto la bella vita! E invece ti sei infognato in quel grasso paesone emiliano... no, così non va... hai fatto una scelta da perdente ed io con i perdenti non voglio avere a che fare>>
Riccardo annuì:
<<Capisco. In fondo è tutta colpa mia: ti ho trasmesso di me un'immagine che non corrispondeva alla mia vera natura, e di questo ti chiedo scusa. L'ho fatto in buona fede, però, perché all'epoca anch'io credevo di essere forte e vincente. Ora non so più esattamente cosa sono, ma di sicuro non sono la persona che tu meriti di avere al tuo fianco>>
Senza l'euforia del Deadyn e l'atmosfera frenetica e mondana di Milano, la storia tra lui e Barbara non poteva più continuare.
Ci fu un addio civile e consensuale e con questo Riccardo dimostrò che, se anche fosse stato vero che era un perdente, almeno sapeva perdere con stile.
La fine della relazione con Barbara lo convinse ancora di più che era concluso il tempo delle relazioni superficiali, innescate solo da infatuazioni derivanti dall'aspetto fisico o dall'ambiente circostante.
Sarebbero state solo una perdita di tempo.
Era il momento di incominciare a cercare la donna giusta, la famosa anima gemella, ammesso che esistesse: quella che sarebbe potuta diventare la madre dei suoi figli, perché all'epoca ancora lui credeva di avere un dna degno di essere trasmesso.
Ciò che accadde dopo, però, sia ai suoi famigliari, in termini di malattie congenite, sia a lui stesso, in termini di instabilità emotiva e di scelte di vita, avrebbe messo fortemente in dubbio l'idea che il suo sangue, per quanto moderatamente blu, fosse poi così degno di essere perpetuato con una discendenza.
Tutti dicono che mettere al mondo un figlio sia un atto d'amore. 
Può anche darsi, ma in certi casi può essere una scelta narcisistica, una volontà di completare se stessi, di rendersi immortali, oppure di prendersi una rivalsa, nella speranza che i figli ottengano ciò che noi non siamo riusciti ad ottenere.
Ma i figli non sono i nostri figli, sono i figli del futuro. Non ci appartengono, vivranno vite che noi non potremmo nemmeno immaginare e assisteranno a cose che noi non vedremo mai neppure in sogno.
Questo lo capì quando nacque la figlia di suo cugino, ma di ciò si parlerà più avanti.
Fino a quel momento era lui il più giovane della famiglia e sapeva quali dolori un figlio poteva dare.
Poteva succedere che un giorno un figlio arrivasse a rimproverare i genitori per averlo messo al mondo, perché, come disse Edipo: "Non nascere è il più grande dei doni".
Questa però è una consapevolezza della tarda età, non della gioventù.
E poiché Riccardo all'epoca era ancora giovane, conservava la speranza di potersi riscattare, di avere successo nel lavoro, di trovare la donna giusta e la felicità a cui tanto anelava.
Forse si aspettava un po' troppo, ma erano ancora gli anni precedenti alla grande crisi finanziaria del 2008 e al drastico cambiamento delle regole del gioco che ne sarebbe scaturito.
Ma quello era il meno.
Riccardo non poteva sapere che i lavori che avrebbe fatto e la donna di cui si sarebbe innamorato, erano destinati ad essere parte integrante di quell'uragano che stava per abbattersi su di lui e sulla sua famiglia.
Eppure era tutto già scritto in quelle nubi sempre più nere e in quei tuoni che, in lontananza, sembravano cantare una lugubre litania, simile a una ballata di Bob Dylan:
<<A hard rain's a gonna fall. Una dura pioggia cadrà>>

domenica 24 dicembre 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 93. Il mondo sa tutto di noi

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Il 23 ottobre 1999, Riccardo Monterovere si laureò, magna cum laude, in Economia e Marketing presso quella famosa università di Milano. I festeggiamenti durarono per settimane, fino all'epifania del 2000.
A quel punto arrivò la lettera di coscrizione obbligatoria, che destinava il milite Monterovere, in qualità di obiettore di coscienza, al servizio civile presso un noto sindacato di Forlì, dove avrebbe svolto le mansioni di centralinista, fattorino e facchino.
Ma non era questo il problema, anzi, era un'occasione per ricominciare da zero.
Riccardo era consapevole dei propri errori e delle proprie responsabilità, soprattutto per quel che riguardava tutte le persone che il suo comportamento avrebbe potuto ferire: i suoi familiari, la sua fidanzata, i suoi amici.
Ma c'era anche qualcos'altro di cui tener conto e cioè le aspettative di un'intera comunità riguardo alla sorte di una famiglia di spicco e in particolare del suo ragazzo prodigio, colui che, agli occhi del mondo, avrebbe dovuto tenere in piedi quell'enorme baracca scricchiolante che era diventato il Clan Ricci-Orsini-Monterovere.
Riccardo, in cuor suo, era ormai consapevole di non essere all'altezza di quel compito e di tutto ciò che ci si aspettava da lui. Però non voleva mollare tutto senza aver almeno provato ad essere ciò che gli sembrava che gli altri si aspettassero da lui.
 Il problema era come gestire questa fase di transizione.
Tornare a Forlì era diventata un'esperienza surrerale.
Tutto gli sembrava più piccolo, più stretto, quasi angusto.
Una città noiosa, monotona, insignificante, senza identità, senza palpiti, senza mai un momento di vitalità o di calore umano.
O forse era lui che la vedeva così?
Dopo cinque anni vissuti intensamente in una metropoli frenetica e mondana, il ritorno al "natio borgo selvaggio" gli sembra un viaggio indietro nei secoli, in un'epoca dove ancora reggevano tradizioni millenarie, non troppo diverse da quelle dell'antica Forum Livii, dove i contadini celti e i coloni romani commerciavano con i mercanti etruschi, umbri e greci.
Una tradizione millenaria non è necessariamente un male, anzi, se è durata tanto deve aver avuto di certo i suoi lati positivi.
In ogni caso, Forlì era esattamente la stessa di quella dell'infanzia e dell'adolescenza di Riccardo.
E allora, cos'era cambiato, o meglio chi era cambiato?
Ovviamente era lui ad essere cambiato, e non certo in meglio.
Non era dunque Forlì il problema, così come lo specchio non è responsabile della bruttezza di ciò che riflette.
Era lui il problema: l'ex ragazzo prodigio che voleva conquistare il mondo e aveva perduto la sua anima. L'uomo che avrebbe potuto essere grande, ma non lo era diventato.
Quel pensiero lo torturava come un'emicrania.
Non intendeva assolversi, ma nemmeno farsi tormentare dai sensi di colpa, perché alla fine, al di là delle grandi narrazioni e persino delle più complesse teorie filosifiche e scientifiche, Riccardo sapeva che i principi fondamentali dell'universo erano pur sempre l'errore e il caso.
Doveva parlarne con qualcuno che aveva vissuto sulla propria pelle questo tipo di pressione psicologica e ovviamente la prima a raccogliere questa confessione fu sua nonna Diana.
Riccardo cercò di prepararla lentamente alla triste verità, ma lei non apparve affatto meravigliata.
<<Hai solo 24 anni, sei ancora in tempo per rimediare>>
Lui scuoteva la testa:
<<Mi sono bruciato>>.
Diana sorrideva:
<<Tutte le stelle si bruciano. Sono le fiamme a farle risplendere. Ma possono ardere per moltissimo tempo. Che sia un inferno o un paradiso non si sa. Non lo sanno nemmeno loro>>
Riccardo sorrideva a sua volta, ma con amarezza:
<<Una frase molto bella, ma in fondo una bella frase è solo una bella frase, non necessariamente una verità>>
Lei scosse il capo:
<<Non importa che sia vera! Importa che serva per farti stare meglio e a cambiare per il meglio!>>
L'intenzione era buona, ma la confusione tra valore estetico e valore di verità poteva rivelarsi pericolosa.
<<E' quello che pensano anche gli psicoterapeuti e con le menti semplici possono anche riuscirci. Ma i loro trucchi non funzionano con me. Il massimo che possono ottenere gli analisti, quando hanno a che fare con una persona che conosce loro armi, è trasformare i problemi nevrotici in infelicità esistenziale>>
Diana ne sapeva qualcosa:
<<Dovresti trovare qualcuno più intelligente di te. Ma non un analista! Una donna!
 Una di cui innamorarti davvero. Una personalità che riesca a tenerti testa, a imbrigliare la tua natura selvaggia, per riportarti sulla retta via>>
Era vero, ma Riccardo non era un mostro e non poteva certo lasciare Barbara soltanto perché i familiari non la consideravano adatta a lui:
<<Io amo Barbara e lei ricambia questo sentimento>>
Diana chiuse gli occhi:
<<Se fosse stato vero amore, non avresti avuto bisogno di prendere tutte quelle pastiglie>>
Era una delle questioni più delicate e occorreva molta prudenza nel trattarla:
<<L'amore vuol dire molto, moltissimo, a volte anche troppo, ma non è sufficiente per stare bene. Non è sufficiente... e tu lo sai!
Il fatto è che vorresti che io sposassi una donna come te, ma non esistono altre donne come te: ci sei solo tu, e basta>>
Lei si mise a ridere:
<<Che sciocchezza! Tu mi hai sempre idealizzata, e non so nemmeno il perché, ma una cosa è certa: anche quando tentavo con tutte le mie forze di essere una brava figlia o una buona moglie, in realtà sapevo benissimo di non esserlo. Ho sempre avuto ben chiari i miei limiti>>
Lui sorrise:
<<Ed è proprio questo che ti rende perfetta.  Nel momento in cui si ammettono a se stessi, senza riserve, i propri limiti, allora si è pronti anche per relazionarsi con la propria anima gemella. Quella che ha limiti speculari, limiti che si incastrino bene con i nostri, come due tessere di un puzzle. Se trovassi una ragazza così, forse potrei anche riuscire a stare bene, ma questa è un'illusione.
In ogni caso, quando finirà il servizio civile, non potrò rimanere a Forlì. Qui non mi sento più a mio agio. 
Mi sento osservato, giudicato...>>
Diana lo fissò severamente:
<<Sei l'erede di una famiglia importante, e questo comporta degli obblighi, compreso quello di accettare le osservazioni e le critiche con compostezza, come ho fatto io per tutta la vita>>
Riccardo scosse il capo:
<<Io non ho la tua forza! Non mi piace essere l'oggetto di pettegolezzi e chiacchiere. Se si venisse a sapere cos'ho combinato a Milano, diventerei la barzelletta del paese>>
Diana allora alzò l'indice della mano destra e scandì molto bene le parole di quella che sarebbe stata un'importante lezione di vita:
<<Lo verranno a sapere e forse lo sanno già. Credevi di poter barare al gioco senza che gli altri sospettassero qualcosa? O di poter fare il ribelle senza poi pagarne il prezzo?
Delle due l'una: o impari a seguire la retta via, oppure impari ad essere indifferente alle critiche e ai pettegolezzi.
Non esiste una terza via, perché, che ti piaccia o no, noi qui siamo come una famiglia reale:
il mondo sa tutto di noi! 
E questa è una cosa che non puoi cambiare>>