sabato 10 giugno 2017

Gruppi armati che partecipano alla battaglia per la liberazione di Raqqa


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Raqqa, la capitale dell'Isis, è prossima a cadere. La città è completamente circondata. I bombardamenti statunitensi (al fosforo bianco), si succedono da giorni e le truppe dell'Alleanza SDF (Syrian Democratic Forces), guidata dai curdi dell'YPG (il partito del popolo del Rojava Kurdistan siriano) è entrata nella periferia della città e si appresta a sferrare l'attacco decisivo.
Le unità combattenti curde e arabe della Federazione della Siria del Nord (Rojava e valle dell'Eufrate) hanno trovato un accordo con la coalizione occidentale per una soluzione federale del dopoguerra, che preveda la trasformazione della Siria in una Confederazione di Repubbliche autonome (sul modello della Bosnia). Tale soluzione trova però l'opposizione del presidente siriano Assad, che mira a riprendere il controllo di gran parte della Syrian Arab Republic.
Soltanto un accordo tra Russia e Stati Uniti potrebbe convincere Assad ad accettare un compromesso, ma i tempi non sono ancora maturi. 
Per il momento la priorità è la sconfitta dell'Isis.
Quello che succederà dopo è un mistero e potrebbe rivelarsi un nuovo Vietnam.

Mappa della situazione militare in Siria e Iraq al 10 giugno 2017



On June 9, the Syrian Arab Army (SAA) and its allied militia groups reached the border with Iraq in the area north of the US-led coalition garrison at the village of At Tanf. This advance dramatically changed the strategic situation in southeastern Syria and de-facto allowed the Syrian-Iranian-Russian alliance to win the race for the border with Iraq.
Strategic Implications Of Syrian Government Forces Success At Border With Iraq
The key goal of the US-led coalition actions near At Tanf was to prevent the SAA from linking up with the allied Popular Mobilization Units (PMU) operating in Iraq and to build a buffer zone controlled by Western-backed militant groups between the two countries.
The PMU is a major power in Iraq and an official part of the Iraqi Armed Forces. It’s currently conducting a large-scale operating against ISIS terrorists at own side of the border. The June 9 advance destroyed the US-led coalition’s plans.
The government forces deployed north of At Tanf also prevent US-backed proxies from advancing on the ISIS-held border town of al-Bukamal. While the US-led forces in southeastern Syria have never had enough manpower and capabilities to do this, the declared aim to retake al-Bukamal from ISIS was an important part of the US propaganda campaign to justify its illegal presence in the area.
The government deploymen north of At Tan may also be described as a response to actions of another US-backed force, the so-called Syrian Democratic Forces (SDF) in the province of Raqqah. The SDF had made a number of steps near Tabqah blocking the SAA from reaching the Raqqah provincial capital.
Now, government forces in southeastern Syrian forces will likely coordinate its efforts with the PMU in order to clear the Syrian-Iraqi border area and to move to al-Bukamal and Qaim. Iran will also be able to incease supplies to the Syrian government via the opened land route.
Some PMU member groups are already participating in the operations in Syria on the side of the SAA. Now, this number will likely be increased.

Gli irriducibili del gasdotto: la grande battaglia per il controllo dei confini meridionali di Siria e Iraq

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La battaglia per il confine si infiamma.
In alto il motivo principale della guerra siriana, il gasdotto che sarebbe dovuto provenire dal Qatar, prima che quest'ultimo cadesse in disgrazia per il suo sostegno ad Hamas, alla Fratellanza Mussulmana e alla distensione con l'Iran,  in basso la mappa della reale situazione di americani e alleati, penetrati nel sud della Siria dalla Giordania nel tentativo di creare una zona cuscinetto tra Siria e Iraq per impedire il transito dei gruppi armati iraniani in sostegno degli Hezbollah libanesi, nemici acerrimi di Israele.
Secondo diversi report (Hezbollah media, Elhaja Manjer , Al Rai e Russian Mod ), poi confermati in giornata, le truppe siriane di Assad, con la copertura dei droni iraniani e degli aerei russi, hanno raggiunto il confine con l'Iraq nei pressi di Al Hasdh e Al Shaabi, aggirando il blocco statunitense presso l'autostrada Damasco-Baghdad e tagliando la strada alla coalizione occidentale nella creazione del cuscinetto che avrebbe dovuto blocare il corridoio sciita.
La manovra ha colto tutti di sorpresa.
Se l'esercito siriano assicurasse l'area di Al Tanf (valico di confine tra Siria, Giordania e Iraq ), gli Stati Uniti e gli alleati avrebbero praticamente perso la guerra.

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Il concetto di Moksha: la liberazione dal Samsara e la comunione con il Brahaman

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Mokṣa (devanagariमोक्ष), sostantivo maschile della lingua sanscrita dal significato di "liberazione", "affrancamento", "emancipazione", "salvezza".[1] Mokṣa è uno dei cardini delle dottrine religiose e spirituali dell'India, comune a tutte le correnti e tradizioni dell'induismo, al jainismo, al sikhismo, e affine al nirvāṇa del buddhismo. La liberazione, variamente interpretata e diversamente conseguibile a seconda del contesto, è principalmente intesa come salvezza dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), ma anche quale conseguimento di una condizione spirituale superiore.


Mokṣa nelle Scuole di Pensiero induiste

Nelle tradizioni dell'induismo sono fondamentali i concetti di ātman e brahman. Un errore frequente è quello di considerare questi due concetti (entrambi definiti come “Sé”) un'entità monista comune, un qualcosa che possiede una personalità o degli attributi. Le Scritture induiste come le Upaniṣad e la Bhagavad Gita (e specialmente la scuola di pensiero non-duale Advaita Vedānta), affermano che il Sé si trova al di là dell'essere e del non-essere, oltre qualsiasi senso di tangibilità o comprensione. Mokṣa è considerato il finale e definitivo abbandono della concezione materiale e mondana dell'ego, la perdita del legame della dualità, e il ristabilimento della propria natura fondamentale, sebbene tale natura sia vista come ineffabile e al di là del sensibile.
Ci sono quattro tipi basilari di Yoga (qui inteso come via per raggiungere l'unione con la divinità) per ottenere il mokṣa, la liberazione:
Le differenti Scuole di Pensiero induiste (le darshana) danno più enfasi a certi metodi rispetto ad altri; alcune tra le più famose sono le pratiche yogiche e tantriche sviluppatesi nell'Induismo. Al giorno d'oggi, le due maggiori scuole di pensiero sono l'Advaita Vedānta e la bhakti.
La filosofia della bhakti' vede il Sé come un dio, più spesso una concezione personificata e monoteistica di VishnuShiva o della Dea. Al contrario della tradizione abramica, questo monoteismo non impedisce ad un induista di adorare altri aspetti della divinità, o esseri celesti o maestri, poiché essi sono tutti visti come emanazioni della stessa sorgente. Comunque, è importante notare che la Bhagavad Gita condanna l'adorazione di entità semi-divine, poiché se da un lato questo tipo di adorazione porta benefici e piaceri di ordine materiale e spirituale, esso non aiuta a conseguire la salvezza. Il concetto è quello della dissoluzione di sé nell'amore, dal momento che la reale natura dell'essere si manifesta come amore (prema). Immergendosi interamente nell'amore di della divinità, il kārma (a prescindere se buono o cattivo) dell'individuo viene dissolto, e la verità (sathya) è presto conosciuta e sperimentata.
Il Vedānta si ritrova diviso in tre correnti, sebbene le scuole del dualismo e del dualismo qualificato siano principalmente associate con la linea di pensiero della bhakti. La più famosa oggi tra queste scuole è l'Advaita Vedānta, una prospettiva non-duale (nessuna separazione tra l'individuale e l'universale, divinità); essa si basa sulle Upaniṣad, sul Vedānta Sutra e sugli insegnamenti del suo fondatore putativo, Adi Shankara. È importante sottolineare che l'Advaita Vedānta non esclude, ma comprende e trascende la bhakti; questa filosofia afferma che attraverso il discernimento tra reale ed irreale, l'intensa meditazione e la sincera devozione a Dio, il sadhaka (aspirante/praticante spirituale) dovrebbe, così come si pela una cipolla, rimuovere il velo di Maya (illusione) della manifestazione duale, per realizzare dentro di sé l'unità di Ātman e Brahman, e comprendere la natura del Non-manifesto, senza attributi, che paradossalmente è al tempo stesso Essere e Non-essere, immanente e trascendente, tutto e nulla, al di là di qualsiasi descrizione.

Mokṣa tra Induismo e Buddhismo

Nell'Advaita, i concetti di mokṣa e di nirvāṇa buddhista non sono così disuniti da considerarsi incomparabili. Anzi, c'è molta somiglianza nelle rispettive concezioni di “coscienza” ed ottenimento dell'illuminazione. Per gli Advaita, la verità ultima non è una singola Entità Divina di per sé stessa, ma piuttosto un qualcosa che essenzialmente è privo di manifestazione; e questo, per molti Advaita, viene visto come una integrazione (anziché una negazione) della vacuità buddhista.
Nelle tradizioni dualiste dell'induismo, d'altra parte, il mokṣa non è analogo al nirvāṇa buddhista. Per i vaishnava e le correnti moniste dello shivaismomokṣa è inteso come unione con Dio.

Note

  1. ^ Vedi: mokSaspokensanskrit.de.

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I concetti di Artha e di Kama: successo e piacere

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Con il termine Artha si indica la realizzazione individuale tramite la propria famiglia, anche se, a differenza del Kama che riguarda il proprio stato d'animo, è legata ai beni materiali, quindi comprende lavoro e benessere economico.
La sua sfera semantica rientra nell'ambito dei termini "obiettivo, significato o senso", riscontrabili nella cultura induista, ma che è entrato nella lingua di tutti i giorni come realizzazione pragmatica.
Secondo la cultura vedica, questa, con il DharmaKama e il Moksha formano i quattro scopi o principi fondamentali per la realizzazione spirituale, i Purushartha.

Kama (devanagari कामदेव, IAST Kāma) o "Kamadeva", nella religione indiana è il dio (deva) del piacere sessuale, dell'amore carnale e del desiderio.

Kamadeva in una stampa del XVIII secolo
Come Eros, è rappresentato da un giovane a due o otto braccia con arco di canna da zucchero, la cui corda è fatta di una fila di api, e cinque frecce, ognuna fatta da un fiore differente rappresentante i cinque sensi, che suscitano l'amore nelle persone che colpisce.[1] Raffigurato a cavallo di un pappagallo, con un vessillo rosso raffigurante un delfino, è attorniato da musici e danzatrici. Nell'Atharva Veda (IX,2.19) è menzionato come il più potente e superiore a tutti gli dei.[2] Nel Rig Veda è descritto come capace di suscitare in Brahma il desiderio di non restare da solo, provocando così la creazione del mondo. Kama è descritto come "aja", "non nato", e come "atma-bhū", "nato da se stesso". Nei Purana la sua sposa è Rati (Desiderio), ha un figlio (AniruddhaSenza rivali), una figlia (ThrishaSete) ed un fratello, KrodhaCollera.
Nel Ramayana si racconta come gli dei avessero inviato Kama a riscuotere Shiva dalla profonda meditazione in cui era assorto. Disturbato, Shiva ridusse il dio (da allora conosciuto come "ananga", "senza corpo") in cenere con un solo sguardo del terzo occhio. Grazie alle suppliche di Rati, sposa di Kama, Shiva consentì a Kama di rinascere come Pradyumna, figlio di Krishna.
Kama è venerato dagli innamorati e dagli yogi i praticanti dello yoga, perché è grazie a lui che ci si può liberare dal desiderio.
Kama compie una serie di azioni guerresche ed erotiche, quindi è impegnato in combattimenti e relazioni amorose.
Nella tradizione buddista è identificato con Mara, il dio della morte.
Il termine kama viene riferito anche ad uno dei purushartha, gli scopi della vita umana, qui inteso come il raggiungimento del benessere e della felicità in termini psicofisici.

Note

  1. ^ Pio Filippani-RonconiMiti e religioni dell'India, Roma, Newton Compton, 1992, pp. 160-161.
  2. ^ Alain DanielouMiti e dei dell'India, Milano, BUR, 2002, p. 365, ISBN 88-17-12868-6.

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I concetti di Prakriti (sostanza, materia) e Purusha (essenza, coscienza)

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La Prakṛti (devanagari प्रकृ्ति) è, secondo il Sāṃkhya, la causa originaria attraverso cui l'universo esiste e si esplica, principio contrapposto a quello di puruṣa, spirito puro. Nella Bhagavadgītā è descritta come la "forza motrice primordiale".
Normalmente si rende con "natura", o anche "materia": è attività pura ma inconsapevole, il principio che da immanifesto dà origine, per evoluzione-trasformazione, a tutto ciò che è manifesto, intendendo con ciò sia la realtà materiale che quella mentale. È una polarità energetica dell'Essere e della sostanza cosmica dell'universo
Puruṣa (devanagari पुरुष) è un termine della lingua sanscrita dal significato di "essere umano" o anche "maschio"[1]. Nella letteratura sacra dell'induismo il termine è stato utilizzato in tre principali accezioni:
  • "Uomo cosmico": l'essere primordiale increato che, secondo i Veda, fu sacrificato per dare origine al mondo manifesto.
  • "Spirito": uno due princìpi eterni della realtà, secondo la visione del Sāṃkhya.
  • "Essere supremo": usato in associazione coi termini paraparama o anche uttama come appellativo di alcune divinità nelle correnti devozionali, soprattutto le krishnaite.[2]

L'Uomo cosmico


Pagina di testo che riproduce le prime due strofe del Puruṣa sūkta commentate (Friedrich Max Müller, London, 1849-75, ristampa del 1974)
Nell'inno (X, 90) del Ṛgveda, detto anche Puruṣa sūkta, un inno del tardo periodo vedico, il Puruṣa è descritto come tanto vasto da coprire e lo spazio e il tempo; ma di questo essere immenso, che può essere visto come la personificazione della realtà ancora immanifesta, è visibile soltanto un quarto. Da questo quarto ebbe origine innanzitutto il principio femminile (virāj) e quindi l'umanità. Il Puruṣa venne poi steso per terra dai deva e offerto in sacrificio secondo il rito, affinché avessero origine il mondo, gli animali, le caste, altri dèi, e i Veda stessi:[3]
« Da questo sacrificio, compiuto fino in fondo, / si raccolse latte cagliato misto a burro. / Da qui vennero le creature dell'aria, / gli animali della foresta e quelli del villaggio. // Da questo sacrificio, compiuto fino in fondo, / nacquero gli inni e le melodie; / da questo nacquero i diversi metri; / da questo nacquero le formule sacrificali. »
(Ṛgveda X, 90, 8-9; citato in Raimon Panikkar, Op. cit., 2001, p. 101)
Il sacrificio è dunque l'atto col quale il mondo viene creato: l'Uomo cosmico, il Puruṣa, sacrifica una parte di sé per dare origine all'umanità e all'universo. Per tre quarti però il Puruṣa resta «in alto», trascendente, privo del suo quarto immanente, ed è tramite il sacrificio stesso (yajña) che l'umanità restituisce al Puruṣa, in quello che come fa notare il teologo Raimon Panikkar, è un dinamismo duplice.[3]
« Con il sacrificio gli Dei sacrificarono al sacrificio. / Quelli furono i primi riti stabiliti. / Queste forze salirono fino al cielo / dove risiedono gli antichi Dei e altri esseri. »
(Ṛgveda X, 90, 16; citato in Raimon Panikkar, Op. cit., 2001, p. 101)

Spirito

Nel Sāṃkhya, una delle sei (darśana) ritenute ortodosse nell'induismo sebbene non teista, con puruṣa si intende uno dei due princìpi ontologici della realtà, essendo l'altro la prakṛtiPuruṣa è usualmente tradotto con "spirito"[4], "anima"[5], o anche "Sé"[6], ed è un concetto pluralistico; prakṛti è di norma tradotto con "materia" o anche con "natura"[7]Prakṛti e puruṣa sono due princìpi eterni, increati e assolutamente separati l'uno dall'altro, sebbene sia proprio la "vicinanza" fra loro a dare origine alle trasformazioni dell'universo, inteso come materiale e mentale, all'evoluzione della prakṛti stessa cioè. Mentre quest'ultima è priva di coscienza, il puruṣa può essere visto invece come pura coscienza, principio frammentato in una infinità di monadi, di anime individuali che vengono loro malgrado coinvolte nelle trasformazioni della prakṛti.[8]
Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Sāṃkhya.

A diagram explaining basics of Hindu Metaphysics

Essere supremo

Da solo o in associazione con alcuni aggettivi come para ("superiore"), parama ("altissimo"), uttama ("supremo"), il termine puruṣa è spesso utilizzato nei testi della letteratura sacra devozionale per riferirsi al Dio. Per esempio, in uno dei testi sacri della tradizione vaiṣṇava leggiamo:
(SA)
« dharmasya sūnṛtāyāḿ tu / bhagavān puruṣottamaḥ / satyasena iti khyāto / jātaḥ satyavrataiḥ saha »
(IT)
« apparso nel grembo di Sūnṛtā, moglie di Dharma / la suprema Persona della Divinità / celebrata quindi come Satyasena / nacque con le Satyavrata »
(Śrīmad Bhāgavatam 8.1.25; citato in Bhaktivedanta VedaBase)
Sempre nell'ambito della tradizione vaiṣṇava, il deva Nārāyaṇa, che sarà successivamente assimilato a Viṣṇu, è identificato con il Puruṣa nello Śatapatha Brāhmaṇa.[9]

Note

  1. ^ Vedi: Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary, anche per altri significati.
  2. ^ Vedi: Monier-Williams Sanskrit-English Dictionary.
  3. ^ a b Panikkar, Op. cit., 2001, pp. 96-103.
  4. ^ Così Mircea Eliade e Jean Varenne.
  5. ^ Così Giuseppe Tucci.
  6. ^ Così Gavin Flood.
  7. ^ Così Jean Varenne, che utilizza entrambi i termini.
  8. ^ Giuseppe TucciStoria della filosofia indiana, Laterza, 2005, p. 73.
  9. ^ Gavin FloodL'induismo, traduzione di Mimma Congedo, Einaudi, 2006, p. 163.

Bibliografia

  • Raimon PanikkarI Veda. Mantramañjarī, a cura di Milena Carrara Pavan, traduzioni di Alessandra Consolaro, Jolanda Guardi, Milena Carrara Pavan, BUR, Milano, 2001.

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Schema riassuntivo dell'Induismo

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Fonte: blog Religione a scuola presso il link http://blog.libero.it/RELI/13125938.html

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venerdì 9 giugno 2017

Albero genealogico delle divinità dell'Induismo

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Rama, il settimo Avatar di Vishnu

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Rāma (devanāgarī: राम) è l'eroe dell'epica del Rāmāyaṇa, considerato, nella religione induista, come avatāra di Viṣṇu.


Origini e caratteristiche

Conosciuto anche come Rāmachandra (chandra per descriverne probabilmente il meraviglioso aspetto simile alla Luna, chandra[1]), Rāma nello hinduismo intende rappresentare l'incarnazione divina nel Tretā-yuga, l'era caratterizzata dalla comparsa della malvagità.
La più antica fonte attestante di questa figura divina è il poema epico Rāmāyaṇa attribuito al cantore Vālmīki, il cui nucleo originario è databile tra il V e il III secolo a.C., il completamento della sua redazione va invece ascritto ai primi secoli della nostra era[2].
Se il nucleo originario di questo poema, i kāṇḍa ("libri") da 2 a 5, celebrano Rāma come un eroe epico, due libri recenziori, 1 e 6 lo indicano come avatāra di Viṣṇu comparso sulla terra per sconfiggere il malvagio demone Rāvaṇa[3].
Rāmāyaṇa medioevali promuovono quest'ultimo aspetto divino dell'eroe Rāma facendogli acquisire lo status di Dio stesso. Dal che la paredra di Rāma, Sītā, è quindi identificata con la dea Śrī, mentre il fratello minore Lakṣmaṇa viene identificato come la manifestazione umana del serpente Śeṣa, tra le cui spire dorme Nārāyaṇa, ovvero lo stesso Viṣṇu[4].
Rāma è perfetto e bellissimo, la sua pelle è del colore del cielo, possiede un eccellente autocontrollo, ed infinitamente devoto alla sua unica moglie Sītā personificazione degli ideali di castità e devozione nei confronti del divino marito.

I nomi di Rama

Come per tutte le altre Murti induiste, anche Rama è invocato attraverso numerosi appellativi che si riferiscono ai suoi attributi e caratteristiche. In alcuni testi ci si riferisci a lui con il nome Padma.
Alcuni degli appellativi sono:
  • RamachandraRama che risplende come la luna (per via del suo aspetto splendido e luminoso)
  • Dasaratha Nandanaamato figlio di Dasaratha
  • Danava Bhanjanadistruttore di demoni
  • Raghupate o Raghavadiscendente della stirpe dei Raghu
  • Raghukula Bhushanagioiello della stirpe dei Raghu
  • Daya Sagaraoceano di compassione
  • Ayodhya Vasiche risiede in Ayodhya
  • Janaki Jivanaanima di Sita (figlia di Janaka)
  • Dina Bandhuamico dei derelitti
  • Patita Pavanaredentore e salvatore dei peccatori
  • Alakha Niranjanaeternamente puro

Note

  1. ^ Margaret Stutley e James Stutley. Dizionario dell'Induismo. Roma, Ubaldini, 1980, p.358.
  2. ^
    « Gli studiosi collocano la sua redazione definitiva intorno al II secolo d. C. Peraltro, il nucleo originario della storia di Rāma è senz'altro più antico, forse ascrivibile al V-IV secolo a.C. »
    (Rigopoulos, p. CXIV, in Hinduismo antico, Milano, Mondadori, 2010.)
  3. ^ Velcheru Narayana Rao in Enciclopedia delle religioni. Milano, Jaca Book, 1987, p. 303
  4. ^ Cfr. Velcheru Narayana Rao in Enciclopedia delle religioni. Milano, Jaca Book, 1987, p. 303

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Gli stadi della devozione a Krishna

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Il Mahābhārata, il grande poema epico dell'induismo

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Il Mahābhārata ([mɐɦaːˈbʱaːrɐtɐ]devanāgarī: महाभारत, "La grande [storia] dei Bhārata" da intendersi come "La grande [storia] dei discendenti di Bharata"), conosciuto anche come Karṣṇaveda ("Veda di Kṛṣṇa"), è uno dei più grandi poemi epici (Itihāsa)[2] dell'India insieme con il Rāmāyaṇa.
Seppur considerato nell'ambito di un'antica epopea, il Mahābhārata, come il Rāmāyaṇa, è inserito nella raccolta delle Smṛti, la cui lettura è tradizionalmente consentita a tutti gli hindū, ivi compresi gli appartenenti alla casta (varṇa) degli śūdra e alle donne. Conservando al suo interno (nel VI parvan) la Bhagavadgītā, il Mahābhārata risulta essere uno dei testi religiosi più importanti dell'Induismo, di cui intende compendiare l'intero scibile dei contenuti[3], per cui, a differenza del Rāmāyaṇa, il Mahābhārata tratta anche del mokṣa (la liberazione dal ciclo del saṃsāra).
« È in ogni caso evidente che, nella percezione degli hindū di ieri come di oggi, il Mahābhārata è portatore anzitutto di un messaggio spirituale: quello che trasmette il supremo segreto capace di trasformare l'agire umano da fonte di un insolubile legame con la sofferenza a strumento di emancipazione dal disagio del divenire. »
(Stefano Piano in Giuliano Boccali, Stefano Piano, Saverio Sani, Le letterature dell'India Torino, UTET, 2000, p. 164)
Composto originariamente in lingua sanscrita, nelle edizioni pervenute a noi il Mahābhārata consta di più di 95 mila strofe nella versione detta "meridionale"; in oltre 82 mila strofe nella versione detta "settentrionale", questa detta anche vulgata; in circa 75 mila strofe nella versione ricostruita in epoca moderna, detta "critica"; più un'appendice (khila), l'Harivaṃśa[4], che ne fanno l'opera più imponente non solo della letteratura indiana, ma dell'intera letteratura mondiale.

Origini

La tradizione hindū narra che il poema religioso sia opera del mitico saggio Vyāsa (il "Compilatore", appellativo di Kṛṣṇa Dvaipāyana[5]), che include sé stesso tra i più importanti personaggi dinastici del racconto.
I fatti narrati nel Mahābhārata sono, sempre secondo la tradizione, avvenuti nel XXXII secolo a.C., quindi al termine dell'era Dvāpara-yuga che precede l'era attuale detta del Kali-yuga[6].
Gli studiosi ritengono che il Mahābhārata derivi da un originale lavoro molto più breve, chiamato Jaya ("Vittoria", a significare la vittoria del dharma sull'adharma, grazie all'intervento del dio Kṛṣṇa) di circa 8.800 strofe, risalente al IV secolo a.C., e che poi si sia sviluppato nel corso dei secoli fino al IV secolo d.C., passando per la versione intermedia denominata Bhārata di complessive 24 mila strofe[7].
Gli autori delle prime versioni del Mahābhārata, attinsero con ogni probabilità a tradizioni epiche ancora più antiche, risalenti alle tradizioni delle invasioni arie e forse anche prima in considerazione del fatto che la mitologia qui presente ha una tipica struttura indoeuropea[8].

Edizioni e traduzioni

Il Mahābhārata si è andato dunque sviluppando nei secoli a partire dal IV secolo a.C., raggiungendo un suo completamento nel IV secolo d.C.
La sua messa per iscritto, tarda, è avvenuta su corteccia di betulla nel nord dell'India e su foglie di palma nel sud, questo prima dell'introduzione della carta avvenuta nell'XI secolo d.C.
I più antichi testimoni conservatisi fino a noi risalgono a manoscritti del XVI secolo.
Va tuttavia evidenziato come la ulteriore copiatura e diffusioni dei manoscritti nel corso dei secoli ha riguardato chi disponeva dell'opera, il quale si poteva sentire libero di fare delle aggiunte, per quanto riguarda "racconti" da lui conosciuti ma assenti nel testo, promuovere delle correzioni, o intervenire laddove il testo risultava "corrotto" o, infine, redigere delle note a margine. Questi interventi avvenuti lungo i secoli, seppur promossi al fine di migliorarne la redazione, possono aver alterato, e non poco, il testo originale. A ciò va aggiunto, con tutto quello che ne consegue, la traduzione in altre lingue, e dialetti, differenti dal sanscrito come ad esempio il bengali o il malayalam, e la ulteriore copiatura e diffusione di questi nuovi testi.

Edizioni moderne

  • Nel XVII secolo il brahmano di Vārāṇasī, Nīlakaṇṭha Caturdhara, raccolse, commentandola, quell'edizione del Mahābhārata oggi indicata come versione "settentrionale" o vulgata.
  • La prima edizione moderna del Mahābhārata risale tuttavia al 1839, indicata come "edizione di Calcutta" di derivazione "settentrionale". Consta di 4 volumi editi rispettivamente: 1° vol. dalla Education Commitee Press nel 1834; 2° vol. dalla Baptist Mission Press nel 1836; 3° e 4° voll. dall'Asiatic Society of Bengal nel 1837 e nel 1839.
  • Nel 1863, è intervenuta l'"edizione di Bombay" basata su degli scritti in devanāgarī, sempre di derivazione "settentrionale". Consta di 6 volumi editi dalla Gaṇapata Kṛṣṇajī's Press (questa edizione contiene anche il commento di Nīlakaṇṭha Caturdhara).
  • Nel 1910 si completa una nuova edizione, indicata come "Kumbakonam", che incorpora per la prima volta delle versioni "meridionali". Consta di 18 volumi editi tra il 1906 e il 1910 dalla Nirnaya Sagar Press, curati da T. R. Krishnacharya e T. R. Vyasacharya.
  • Tra il 1929 e il 1936 viene pubblicata l'edizione detta di "Poona" basata sulla versione "settentrionale" con l'aggiunta del commento di Nīlakaṇṭha Caturdhara. Curata da Kinjawadekar è stata pubblicata dalla Chitrashala Press in 7 volumi e ristampata nel 1979 dalla Oriental Books di New Delhi.
  • Terminata nel 1936, viene edita a Madras la versione detta "meridionale". Consta di 18 volumi ed è curata da P.P.S. Sastri, pubblicata dalla Sastrulu and Sons tra il 1931 e il 1936.
  • Già nei primi del Novecento alcuni sanscritisti occidentali, come l'austriaco Moriz Winternitz (1863-1937), auspicavano la ricostruzione del testo originale del Mahābhārata, incontrando per lo più scetticismo tra i colleghi, dubbiosi sulla riuscita di tale ambizioso tentativo. Ma alla fine, con l'aiuto di alcune università come quelle di Gottinga, Vienna e Berlino, si pervenne nel 1901 ad avviare un primo tentativo di edizione "critica" curata da Heinrich Lüders (1869-1943) che, tuttavia, non guadagnò sufficienti apprezzamenti e che finì per interrompersi con l'inizio della Prima Guerra Mondiale.
  • Il tentativo di realizzare un'edizione "critica" avente lo scopo di ricostruire la versione originale del poema fu promosso, e questa volta con successo, anche da sanscritisti indiani i quali, a partire dal 1918 e sotto l'egida della Bhandarkar Oriental Research Institute di Pune (Poona), avviarono la loro edizione che ebbe in Vishnu Sitaram Sukthankar (1887-1943), allievo di Lüders, il suo principale curatore. Il processo di ricostruzione del testo considerato "originale" fu completato nel 1971 con la pubblicazione dell'ultimo volume dello Harivaṃśa. Indicata con l'acronimo BORI (Bhandarkar Oriental Research Institute), l'edizione "critica" è partita dalla recensione detta "settentrionale" omettendo dei versi considerati note, aggiunte e glosse, interpolate nel corso dei secoli rispetto alla versione "originale". Tale operazione di "taglio" della recensione "settentrionale", per quanto maggiormente apprezzato rispetto al precedente tentativo occidentale, non ha mancato di suscitare severe critiche da parte di importanti indologi occidentali. La versione "critica" consta di: 18 volumi in 22 tomi del Mahābhārata pubblicati tra il 1933 e il 1966; 2 volumi dello Harivaṃśa pubblicati tra il 1969 e il 1971; 6 volumi di "indici" (Pratika) pubblicati tra il 1967 e il 1972.
  • Nel 1942 si è completata a Gorakhpur un'edizione completa della versione "settentrionale" che, nel 1994, è stata edita in versione bilingue, sanscrito-hindi, quest'ultima curata da Ramnarayan Dutt Shastri Pandey in 6 volumi pubblicati dalla Gitā Press.

Traduzioni integrali in lingua occidentale

Per quanto attiene le traduzioni in lingua occidentale, esistono solo cinque traduzioni integrali del Mahābhārata (di cui tre non ancora completate), tutte in inglese, non è stata operata alcuna traduzione integrale in lingua italiana.
Le cinque traduzioni integrali in inglese sono:
  • quella operata tra il 1883 e il 1886 da Kisari Mohan Ganguly (si basa sulla versione "settentrionale") è stata pubblicata dalla Bharata Press di Calcutta in 19 volumi; poi riveduta e pubblicata dalla Oriental Publishing Company nel 1955-1962 in 12 volumi; ristampa in 4 volumi della South Asia Books, Delhi, 1991;
  • quella di Manmatha Nath Dutt operata tra il 1895 e il 1905 (si basa sulla versione "settentrionale") è stata pubblicata in 3 volumi dalla Elysium Press di Calcutta;
  • quella della University of Chicago, curata da Johannes Adrianus Bernardus van Buitenen, avviata dal 1973 (si basa sull'edizione detta "critica" di Pune), ancora non completata;
  • quella della Writers Workshop, curata da Purushottama Lal, avviata negli anni '70 (consiste in una versione poetica delle differenti edizioni), ancora non completata;
  • quella pubblicata dalla Clay Sanskrit Library, avviata dal 2005, curata da Paul Wilmot (non si basa sulla versione "critica" ma su quella detta "settentrionale" o vulgata), ancora non completata.

Notazioni critiche sulle edizioni

Esistono quindi due recensioni del Mahābhārata , quella detta "settentrionale" o vulgata e quella detta "meridionale".
Da quella "settentrionale" è stata derivata una edizione detta "critica" che ha comportato una riduzione del testo, qui tagliato secondo le valutazioni di studiosi indiani tesi a riportare l'opera all'originaria redazione risalente al IV secolo d.C. I tagli operati non sono stati cancellati ma vengono riportati negli apparati critici in quanto considerati "secondari" e non "strutturali" (appartenenti alla "struttura del testo").
Così se la versione "meridionale" consta di complessivi 95.586 śloka (versi), quella "settentrionale" (vulgata) di 82.136, la "critica" si riduce a 73.784.
Il dibattito sulla validità dell'edizione "critica" di Pune è ancora aperto. Le critiche a tale operazione di "riduzione" sono state avviate da importanti indologi come, ad esempio, John Dunham[9], Madeleine Biardeau[10], Georges Dumézil[11].

Il tema centrale

Exquisite-kfind.pngLo stesso argomento in dettaglio: Guerra di Kurukṣetra e Bhagavadgītā.
A painting from the Mahabharata Balabhadra fighting Jarasandha.jpg
Krishna and Arjun on the chariot, Mahabharata, 18th-19th century, India.jpg
Il Mahābhārata è un'epica dai contenuti mitici e religiosi che intende narrare un lontano passato degli Arii, ovvero di quel popolo indoeuropeo invasore dell'India.
Intriso di epica guerriera propria degli kṣatriya (la casta guerriera), la vicenda si svolge nell'attuale regione del Doab, ovvero in quell'area compresa tra il fiume Gange e il fiume Yamunā che corrisponde a uno dei primi stanziamenti del popolo invasore degli Arii.
La trama del Mahābhārata è molto ampia e complessa. Essa è all'origine di racconti mitologici molteplici e diversi che non sempre si intrecciano tra loro. Riassumerla, soprattutto in modo succinto, è compito assai arduo.
Semplificando e omettendo importanti intrecci e spiegazioni, possiamo individuare il tema centrale dell'epica nella rivalità tra due schieramenti di cugini appartenenti al medesimo clan di stirpe lunare (somavaṃśa): i Kaurava (discendenti di Kuru, i cento figli di Dhṛtarāṣṭra guidati da Duryodhana) e i Pāṇḍava (i cinque figli di Pāṇḍu, ma in realtà figli di alcune divinità: Yudiṣṭhira, figlio del dio Dharma; Bhīma, figlio del dio Vayu, il Vento; Arjuna, figlio del dio Indra; e i gemelli Nakula e Sahadeva, figli degli dèi Aśvin).
Alla morte del re Pāṇḍu, suo fratello, il cieco Dhṛtarāṣṭra, sale sul trono in attesa che il figlio primogenito di Pāṇḍu, Yudiṣṭhira, raggiunga l'età per essere re.
Il figlio di Dhṛtarāṣṭra, Duryodhana, non si rassegna all'idea di perdere il regno a favore del cugino e, consumato da un profondo odio nei confronti dei cinque Pāṇḍava, è mandante di una serie di agguati per ucciderli. Uno di questi, l'incendio dell'abitazione in cui Duryodhana li aveva convinti ad abitare, costringe i Pāṇḍava a fuggire insieme con la loro madre, Kuntī.
Nonostante queste difficili condizioni Arjuna, travestitosi da brahmano, riesce a prendere in moglie la principessa Draupadī che in realtà altri non è che l'incarnazione della dea Śrī. Arjuna accompagna quindi Draupadī dai Pāṇḍava dove, non vista da Kuntī la quale ritenendo che il figlio portasse solo un premio invita i suoi figli a "goderne insieme", diviene la moglie di tutti e cinque i fratelli.
Nel frattempo il re cieco Dhṛtarāṣṭra viene a sapere che i giovani Pāṇḍava sono sopravvissuti all'incendio provocato da Duryodhana e si decide a lasciare loro la metà del regno.
I Pāṇḍava erigono quindi la capitale del nuovo regno, Indraprastha, e lì sono raggiunti dal loro cugino Kṛṣṇa, capo del clan degli Yādava.
Nel frattempo Duryodhana, consumato sempre dall'odio, sfida a una partita a dadi Yudiṣṭhira il quale, appartenendo alla casta degli kṣatriya (casta dei guerrieri), non può rifiutare una sfida al gioco né un duello. Ma la partita a dadi organizzata da Duryodhana è truccata e Yudiṣṭhira perde non solo l'intero regno, ma anche i fratelli e la sposa Draupadī.
Il re Dhṛtarāṣṭra annulla tuttavia gli esiti della partita, restituendo tutti i beni ai Pāṇḍava, ma si risolve a convocarne una nuova dove lo sconfitto si impegna a esiliarsi per dodici anni nella foresta, vivendo il tredicesimo anno in incognito.
Yudiṣṭhira perde anche la nuova la partita a dadi e quindi va in esilio con i fratelli e la moglie Draupadī.
Il tredicesimo anno dell'esilio i fratelli Pāṇḍava, e la loro moglie, riescono a trascorrerlo senza far scoprire la loro reale identità, quindi inviano Kṛṣṇa a reclamare il regno o, almeno, cinque villaggi. Duryodhana rifiuta di rispettare i patti concordati negando ai Pāṇḍava persino i cinque villaggi.
La guerra tra i cugini Kaurava e Pāṇḍava si fa quindi inevitabile e nella località di Kurukṣetra ("piana dei Kuru", 150 km a nord di Delhi, oggi luogo santo, tīrtha) si riuniscono in tutto diciotto armate (akṣauhiṇī) ognuna delle quali formata da 21.870 carri e altrettanti elefanti, da 65.610 cavalli e 109.350 fanti. Undici delle diciotto armate sono schierate a favore dei Kaurava, le restanti sette con i Pāṇḍava.
La battaglia di Kurukṣetra, che la cronologia tradizionale hindū colloca a cavallo tra il 3139 e il 3138 a.C., infervora per diciotto giorni, qui i Kaurava vengono sconfitti e trovano la morte, Duryodhana tra loro. Si salvano solo tre capi dei Kuru, tra questi Aśvatthāman il quale, posseduto dal dio Śiva, si introduce durante la notte nel campo vittorioso dell'esercito dei Pāṇḍava compiendo una carneficina. Da questa ultima carneficina si salvano solo i cinque fratelli Pāṇḍava. Yudiṣṭhira, sconvolto dal massacro, decide di abbandonare il trono appena conquistato per vivere come un santo eremita, ma Kṛṣṇa e i suoi fratelli lo convincono a recedere da questa sua scelta.
Il vecchio re Dhṛtarāṣṭra aiuta Yudiṣṭhira nel governo del regno, finché, quindici anni dopo si ritira in eremitaggio nella foresta dove perisce a seguito di un incendio provocato dal fuoco di alcuni sacrifici.
Trascorsi trent'anni dalla battaglia di Kurukṣetra, anche Kṛṣṇa muore. Dalla morte di Kṛṣṇa, la cronologia tradizionale hindū fa terminare l'era detta del Dvāpara-yuga, avviandosi la nostra era detta del Kali-yuga.
Giunto alla vecchiaia, Yudiṣṭhira abdica a favore del nipote Parikṣit (nato morto ma resuscitato da Kṛṣṇa) e, insieme con i fratelli e alla moglie Draupadī, decide di recarsi in eremitaggio sull'Himalaya e quindi sul Monte Meru, accompagnato da un cane che altri non è che il suo vero padre, il dio Dharma.
Solo Yudiṣṭhira e il cane raggiungeranno la vetta.
Nel VI parvan dell'opera è conservata la Bhagavadgītā (Canto dell'Adorabile Signore), quel testo dal forte contenuto religioso composto in circa 700 versi (śloka) divisi in 18 canti (adhyāya). Qui il Pāṇḍava Arjuna, nel mentre gli eserciti sono schierati e pronti al combattimento, viene preso dallo sconforto di dover uccidere maestri, amici e i cugini schierati nel campo avversario, decide quindi di abbandonare il combattimento. Allora il suo auriga e amico Kṛṣṇa gli impone di rispettare i suoi doveri di kṣatra (guerriero), quindi di combattere e uccidere, senza farsi coinvolgere da quelle stesse azioni (karman). Per convincere Arjuna della bontà dei propri suggerimenti Kṛṣṇa espone una vera e propria rivelazione religiosa finendo per manifestarsi come l'Essere supremo. Innanzitutto Kṛṣṇa precisa che la sua "teologia" e la sua "rivelazione" non sono affatto delle novità (IV,1 e 3) in quanto già da lui trasmesse a Vivasvat e da questi a Manu in tempi immemorabili, ma che tale conoscenza venne poi a mancare e con essa il Dharma e, quando ciò accade e per proteggere gli esseri benevoli dalle distruzioni provocate da quelli malvagi, qui è lo stesso Kṛṣṇa a parlare, «io vengo all'esistenza» (IV,8; dottrina dell'avatāra). Kṛṣṇa si manifesta nel mondo affinché gli uomini, e in questo caso Arjuna, lo imitino (III, 23-4). Così Kṛṣṇa, l'Essere supremo manifestatosi, spiega che ogni aspetto della Creazione proviene da lui (VII, 4-6, e altri) per mezzo della sua prakṛti, e che, nonostante questo, egli rimane solo uno spettatore di questa creazione:
« Padroneggiando la mia natura cosmica, io emetto sempre di nuovo tutto questo insieme di esseri, loro malgrado e grazie al potere della mia natura. E gli atti non mi legano, Dhanaṃjaya[12]; come qualcuno, seduto, si disinteressa di un affare, così io rimango senza attaccamento per i miei atti. »
(Bhagavadgītā, IX 8-10. Traduzione di Anne-Marie Esnoul)
L'uomo deve quindi imparare a fare lo stesso essendo legato alle proprie azioni, in quanto anche se si astiene dal compierle, come stava per fare Arjuna rifiutandosi di combattere, i guṇa agiranno lo stesso incatenandolo al proprio karman (III, 4-5), egli deve comunque compiere il proprio dovere (svadharma) persino in modo "mediocre" (III, 35).
Altre due parti del poema che vanno considerati, unitamente alla Bhagavadgītā, sia per una migliore comprensione dello stesso, sia in considerazione del profondo messaggio religioso ivi contenuto, sono:
  • il Sanatsujātīya ("L'insegnamento di Sanatsujāta"): V, 42-62 della recensione detta vulgata;
  • l'Anu-gītā (anche Uttara-gītā; "Il canto successivo"): XIV, 16-51 della recensione detta vulgata.
Dal punto di vista filosofico e spirituale vanno prese in considerazione, sempre unitamente alla Bhagavadgītā, ulteriori due parti del poema:


Interpretazioni del testoRisultati immagini per genealogical tree of hindu gods

Lo scontro tra i due schieramenti di cugini, i Pāṇḍava e i Kaurava, rappresenta, nell'intenzione dell'epica, un vero e proprio scontro tra il bene e il male. I Pāṇḍava, guidati da Yudiṣṭhira figlio del dio Dharma, sono i campioni del bene e della giustizia, mentre i Kaurava, guidati da Duryodhana qui inteso come incarnazione del demone Kali[13], rappresentano il male e la condotta iniqua.
I Pāṇḍava sono anche quello schieramento in cui Arjuna, figlio del dio Indra, è accompagnato sempre dalla divinità, Kṛṣṇa/Viṣṇu, celebrata come la persona suprema nel VI parvan, nella Bhagavadgītā. Divinità venuta a essere nel mondo, avatāra, proprio per ristabilire il dharma:
(SA)
« yadā yadā hi dharmasya glānir bhavati bhārata abhyutthānam adharmasya tadātmānaṃ sṛjāmy aham paritrāṇāya sādhūnāṃ vināśāya ca duṣkṛtām dharmasaṃsthāpanārthāya saṃbhavāmi yuge yuge »
(IT)
« Così ogni volta che l'ordine (Dharma) viene a mancare e il disordine avanza, io stesso produco me stesso, per proteggere i buoni e distruggere i malvagi, per ristabilire l'ordine, di era in era, io nasco. »
(Bhagavadgītā IV, 7-8. Corrisponde al Mahābhārata VI, 26, 7-8 nella edizione detta "critica")
Mircea Eliade[14] ricorda come anche nella mitologia propria degli antichi Iranici lo scontro tra le forze del bene guidate da Ahura Mazdā e dai sei 'Ameša Spenta, sconfiggeranno le forze del male condotte Angra Mainyu (Ahriman) e dai suoi daeva. Allo stesso modo per lo studioso romeno si presenta il mito germanico del Ragnarǫk con lo scontro finale tra le forze divine del bene e quelle demoniache del male.
Stig Wikander[15] e Georges Dumézil[16] hanno evidenziato importanti paralleli con miti comuni agli Indoeuropei[17]: dalle vicende narrate nelle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, ovvero nella battaglia di Bràvellir tra il re cieco dei Dani, Haraldr Hilditönn, e suo nipote Ringo re di Svezia, Haraldr Hilditönn ascolta le vicende proprio dal racconto del suo auriga Bruno, personaggio sotto cui si cela Óðinn, Odino. Così l'eroe Ubbo trafitto da 144 frecce, come accade all'eroe Bhīṣma. Ulteriori paralleli sono rinvenibili nei Sette contro Tebe in cui Edipo accecato è relazionabile al cieco Dhṛtarāṣṭra, quindi Eteocle (Duryodhana) rifiuta di restituire il regno a Polinice (Yudiṣṭhira) al rientro dal suo esilio. Quindi nella fondazione leggendaria di Roma e la narrazione di Dvārāka. Il Viraṭāparvan presenterebbe, infine, dei notevoli paralleli con il Táin Bó Cúailnge, la saga irlandese della razzia di bovini.
Alf Hiltebeitel

parvan del Mahābhārata]

  • 1: Ādiparvan (devanāgarī: आदि पर्व) - Libro dell'inizio
  • 2: Sabhāparvan (सभा पर्व) - Libro della sala delle aduanze
  • 3: Vanaparvan (आरण्यक पर्व) - Libro della foresta
  • 4: Viraṭāparvan (विराट पर्व) - Libro di Viraṭā
  • 5: Udyogaparvan (उद्योग पर्व) - Libro dei preparativi
  • 6: Bhīṣmaparvan (भीष्म पर्व) - Libro di Bhīṣma
  • 7: Droṇaparvan (द्रोण पर्व) - Libro di Droṇa
  • 8: Karṇaparvan (कर्ण पर्व) - Libro di Karṇa
  • 9: Śalyaparvan (शल्य पर्व) - Libro di Śalya
  • 10: Sauptikaparvan (सौप्तिक पर्व) - Libro dell'assalto ai dormienti
  • 11: Strīparvan (स्त्री पर्व) - Libro delle donne
  • 12: Śantiparvan (शान्ति पर्व) - Libro della pace
  • 13: Anuśasanaparvan (अनुशासन पर्व) - Libro degli insegnamenti
  • 14: Āśvamedhikaparvan (आश्वमेधिक पर्व) - Libro del sacrificio del cavallo
  • 15: Aśramavāsikaparvan (आश्रमवासिक पर्व) - Libro della vita nell'eremo
  • 16: Mausalaparvan (मौसल पर्व) - Libro dello scontro con le mazze
  • 17: Mahāprasthānikaparvan (महाप्रस्थानिक पर्व) - Libro della grande dipartita
  • 18: Svargārohaṇaparvan (स्वर्गारोहण पर्व) - Libro dell'ascesa al cielo
  • Appendice: Harivaṃśa (हरिवंश) - Genealogia di Hari

Opere derivate

Note

  1. ^ I,62, 53 ma anche XVIII,5,50 nella versione "settentrionale" detta vulgata; con l'avvertenza che la frase posta alla fine del poema ha kutrācit in luogo di tat kva cit
  2. ^ Se il significato moderno di "poema epico" o "epopea" conserva un'accezione "mitologica" o "leggendaria", nella cultura tradizionale hindū i fatti raccontati negli Itihāsa sono considerati fatti realmente accaduti come il termine sanscrito intende indicare: "ciò è quello che è accaduto".
  3. ^ Cfr. sia l'inizio di cui al I, 56, 33 sia alla fine XVIII, 5, 38.
  4. ^ Lett. "Genealogia di Hari", si divide in tre parti (parvan) e tratta, in particolar modo delle origini e della natura divina di Kṛṣṇa. Cfr. tra gli altri Margaret Stutley e James StutleyDizionario dell'Induismo. Roma, Ubaldini, 1980, p. 161.
  5. ^ Da notare che questo nome ricorre anche nella Chāndogya Upaniṣad III,17,6.
  6. ^ L'inizio Kali-yuga calcolata dall'astrologo Āryabhaṭa (V secolo d.C.) corrisponde al nostro 18 febbraio 3103/3102 a.C. (questa data tradizionale della morte di Kṛṣṇa), ed esso terminerà il 17 febbraio 428897/428896 d.C.
  7. ^ Antonio Rigopoulos, p. CXXIX in Lo Hinduismo antico su progetto editoriale e introduzione generale di Francesco Sferra, Milano, Mondadori, 2010.
  8. ^
    « The actual composition of the epic seems to have been carried out between about 500 BCE to 400 CE. The authors, however, probably drew on older bardic traditions with roots in Aryan lore of much greater antiquity. The central story is set in the area of the Ganges-Yamuna ̄ doab, and recalls tribal kingdoms that had settled in and around that area, after earlier residence in the Punjab, from about 1000 to 500 BCE. It is sometimes assumed that the Painted Gray Ware culture of this period provided the historical setting for a real war, of which the text of the Maha.bha.rata is but an embellished account. More likely, if the Painted Gray Ware peoples transmitted an early version of the story, it was as part of their mythology, for the epic has an Indo-European mythological structure. »
    (Alf Hiltebeitel, ER vol.8, p. 5594)
  9. ^ Cfr. John Dunham, Manuscripts used in the Critical Edition of the Mahabharata: A Survey and Discussion in Essay on the Mahābhārata, (a cura di Arvind Sharma). Delhi, Motilal Banarsidass Publishers Pvt. Ltd., 2007, p.1
  10. ^ Cfr. Some More Considerations about Textual Criticism, in Purāṇa (1968) 10,2 :115-23.
  11. ^ Cfr. Georges Dumézil, Mito ed epopea. La terra allievata. Torino, Einaudi, 1982, pp.50 e sgg.
  12. ^ "Conquistatore di ricchezze", "Vittorioso", è un epiteto di Arjuna.
  13. ^ Spesso confuso dagli indotti, che non prendono in considerazione i segni diacritici raddoppianti le vocali, con la dea Kālī.
  14. ^ Cfr. Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. II p. 236
  15. ^ Stig Wikander, Pāṇḍava -sagen och Mahābhārata mythiska förutsātningar, «Religion och Bibel», 6 (1947), pp. 27-39.
  16. ^ Georges Dumézil, Jupiter, Mars, Quirinus
  17. ^ In tal senso cfr. Pelissero, p.97
  18. ^ The Mahabharata su The Internet Movie Database

Bibliografia ragionata in lingua italiana

Testi di provenienza accademica

  • Nella raccolta Hinduismo antico, su progetto editoriale e introduzione generale di Francesco Sferra, pubblicata nei Meridiani della Mondadori nel 2010 vi è una selezione dei brani del Mahābhārata curata da Stefano Piano e Alberto Pelissero (la Bhagavadgītā inserita in un capitolo a parte è curata da Raniero Gnoli) che fanno riferimento alla versione detta vulgata dell'opera. Alle pp. CXXIX-CLXXIII di questo testo vi è l'introduzione all'opera di Antonio Rigopoulos.
  • Un organizzato sommario dei 18 parvan del Mahābhārata, curato da Stefano Piano, è alle pp. 163–207 e 215-218 di Giuliano Boccali, Stefano Piano, Saverio Sani, Le letterature dell'India edito dalla UTET di Torino nel 2000.
  • Alberto Pelissero, Letterature classiche dell'India. Brescia, Morcelliana, 2007, pp. 74–91.
  • Oscar Botto, Letterature antiche dell'India. Milano, Vallardi, 1969, pp. 47–64.
  • Una introduzione filosofica ad alcune parti del poema è in Alberto Pelissero, Filosofie classiche dell'India, Brescia, Morcelliana, 2014, pp. 65–85.

Sunti in lingua italiana

  • La casa editrice La Comune di Milano ha edito, a partire dal 2008, in sette volumi, una versione adattata e moderna del Mahābhārata, che tuttavia manca di alcuni racconti, curata da Ramesh Menon.
  • Jean-Claude Carrière, Il Mahabharata, Varese, Vallardi Industrie Grafiche, 2003. Si tratta di un breve sunto dell'opera compiuto dallo sceneggiatore della riduzione teatrale e cinematografica del poema, questa sotto la regia di Peter Brook.
  • Giorgio Cerquetti ha curato nel 2009 una traduzione in lingua italiana dell'adattamento ridotto del Mahabharata, quest'ultimo opera del britannico e devotogauḍīya, Krishna Dharma (Kenneth Anderson, 1955-), per i tipi della casa editrice Om edizioni.

Bibliografia

  • Samhita Arni, Il Mahabharata raccontato da una bambina, traduzione di Ottavio Fatica, vol. 1, Milano, Adelphi, 2002, ISBN 978-88-459-1690-8.
  • Samhita Arni, Il Mahabharata raccontato da una bambina, traduzione di Ottavio Fatica, vol. 2, Milano, Adelphi, 2003, ISBN 978-88-459-1815-5.
  • Oscar BottoStoria delle letterature d'Oriente, Milano, 1969, SBN IT\ICCU\MOD\0376339. Contiene una sintesi del Mahābhārata nel vol. III pagg. 48 sgg..
  • Jean-Claude CarrièreIl Mahabharata, traduzione di Cesare Barioli, Vallardi Industrie Grafiche, 2003, ISBN 978-88-7696-363-6.
  • Anne-Marie Esnoul (a cura di), Bhagavadgītā, traduzione di l francese da Bianca Candian, Milano, Oriente Universale Economica Feltrinelli, febbraio 2007, ISBN 978-88-07-81953-7.
  • Salvatore Lo Bue, La storia della poesia, prefazione di Agata Pellegrini, vol. 4 (Gli altari della parola. Poesia orientale vedica. Inni e Mahabharata), Milano, FrancoAngeli, 2004, ISBN 978-88-464-5268-9.
  • Il Mahabharata, raccontato da Rasupuram K. Narayan, tradotto da Riccardo Mainardi, Milano, Guanda, 1992, ISBN 978-88-7746-376-0. Nell'originale è una riduzione in inglese dell'opera.
  • Alberto Pelissero (a cura di), Arjuna e l'uomo della montagna (dal Mahābhārata), presentazione di Giuliano Boccali, Il leone verde, 1997, ISBN 978-88-87139-03-7.
  • Mia Peluso (a cura di), Mahabharata, versione per bambini, illustrata da Simona Vajana, Milano, Mursia, 1996, ISBN 978-88-425-2112-9.
  • Vittore Pisani (a cura di), Mahabharata. Episodi scelti, Torino, UTET, 1968, SBN IT\ICCU\MIL\0332522.
  • Flavio Poli, Induismo, vol. 4 (I testi della tradizione. Il Mahàbhàrata), Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2000, ISBN 978-88-7094-413-6.
  • Mahabharata, raccontato da Chakravarti Rajagopalachari, tradotto da Marzio Tosello, Milano, Mondadori, 1995, ISBN 88-04-39432-3.
  • Daniela Sagramoso Rossella (a cura di), Storia di Śakuntalā: Mahābhārata, Venezia, Marsilio, 1991, ISBN 88-317-5505-6.
  • Bharati Swami Veda, Bhishma. Vivere e morire secondo il Mahabharata, Milano, Mimesis Edizioni, 2006, ISBN 978-88-8483-494-2.

Voci correlate