Blog di letteratura, storia, arte e critica cinematografica e televisiva. I racconti e i romanzi contenuti in questo blog sono opere di fantasia o di fanfiction. Gli eventi narrati e i personaggi descritti, esclusi quelli di rilevanza storica, sono del tutto immaginari. Ogni riferimento o somiglianza a persone o cose esistenti o esistite, o a fatti realmente accaduti, è da considerarsi puramente casuale. Gli elementi di fanfiction riguardano narrazioni di autori molto noti e ampiamente citati.
martedì 21 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 34. Presagi di tempesta a Villa Orsini
Tutte le volte che Ettore Ricci si aggirava intorno alla cognata Angelica, moglie di Augusto Orsini, non riusciva a trattenersi dal fischiettare il motivo di qualche canzone d'amore, e addirittura, se non c'era il marito, dal canticchiare espressamente temi amorosi.
Era più forte di lui, e piuttosto compatibile con la sua indole istrionica e con il suo debole per le belle donne.
All'inizio la cosa era sembrata talmente ridicola da non poter essere presa sul serio.
Era il 1954, e ancora gli Orsini continuavano a ridere di lui.
<<Non imparano mai>> disse allora Ettore a sua sorella Adriana <<non hanno ancora capito con chi hanno a che fare>>
Adriana Ricci, la cui bocca "a culo di gallina" impediva di capire quali fossero i suoi reali stati d'animo, ammesso che ne avesse, rispose:
<<Meglio così. Meglio che abbassino la guardia. Ma fa' attenzione a Diana. Lei è l'unica che non ti sottovaluta>>
Ettore scrollò le spalle:
<<Diana è troppo presa dal suo amante e per il momento è meglio così. Mi occuperò di Federico Traversari dopo aver risolto le questioni in sospeso con Augusto e Angelica>>
Adriana sapeva che i rischi erano alti:
<<Sei sicuro che il giudice Papisco ti coprirebbe ancora, se ce ne fosse bisogno?>>
<<Se io dovessi affondare, Papisco affonderebbe con me. Non avrebbe altra scelta che collaborare, come ha sempre fatto>>
E così l'atteggiamento di Ettore verso Angelica divenne sempre più imbarazzante.
Un giorno Augusto affrontò Ettore di persona:
<<Se non smetti di fare il cascamorto con mia moglie, io e Angelica lasceremo Villa Orsini, anche se tu dovessi licenziarmi>>
Ettore parve cadere dalle nuvole:
<<Oh, avanti, Augusto! Cosa sarà mai se io fischietto e canticchio qualcosa? Se avessi in mente chissà quali piani, me ne starei zitto... non c'è niente da temere. Tua moglie mi disprezza, così come del resto anche mia moglie e in generale tutto voi nobili... ma io non mi offendo, siamo ormai una sola famiglia, lavoriamo insieme, la nostra fortuna economica è in crescita. Non roviniamo tutto per queste piccinerie!>>
Augusto scosse il capo:
<<Non riesco a capire a che gioco stai giocando, ma se oserai anche soltanto sfiorare mia moglie, io e tutti gli Orsini prenderemo apertamente le distanze da te, e le porte dell'alta società torneranno ad esserti sbattute in faccia>>
Era una frase terribilmente snob, e forse furono proprio le frasi di questo tipo quelle che portarono ai tragici eventi che stavano per abbattersi sulla stirpe degli Orsini.
Ettore sorrise, ed era un sorriso terribile a vedersi:
<<Sta' tranquillo, Augusto. Non ho intenzione di sfiorare nessuno>>
Lo disse con tono ironico e nel contempo vagamente minaccioso.
La tensione era diventata palpabile alla Villa.
L'aria era così grave e densa che sembrava potersi tagliare con un coltello.
La stessa governante, Ida Braghiri, riferì al marito Michele:
<<Sta per succedere qualcosa di grosso. Me lo sento. E' come quando trovarono Isabella impiccata al salice>>
Michele aveva l'aria di saperla lunga:
<<Tutto procede come avevo previsto. Gli Orsini e i Ricci si distruggeranno a vicenda, e allora sarà il nostro momento>>
Ida si sentì percorrere da un brivido di emozione:
<<Ma non siamo abbastanza ricchi per aspirare al controllo del Feudo!>>
Michele le lanciò uno sguardo complice:
<<La più grande ricchezza sono le informazioni riservate. Se si è in grado di ricattare una persona ricca e potente, allora è come se si fosse più ricchi e potenti di quella persona, e della sua famiglia. Il tramonto degli Orsini è vicino. E i Ricci saranno ricattabili.
Molto presto tutto sarà compiuto>>
lunedì 20 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 33. I conflitti interiori di Silvia Ricci
Silvia Ricci era la figlia secondogenita di Ettore Ricci e di Diana Orsini Balducci di Casemurate.
Per sua fortuna assomigliava più a sua madre che a suo padre, soprattutto fisicamente.
Per quanto il suo cognome fosse Ricci, Silvia era e si sentiva prima di tutto una Orsini.
Nata nel 1940, ricordava fin troppo bene gli anni della guerra.
E tuttavia, essendo in quel periodo ancora molto piccola, li aveva vissuti come se fossero un gioco.
I suoi traumi non derivarono dall'essere spettatrice della più terribile tra le guerre della Storia, bensì dalle tensioni familiari, soprattutto dopo il presunto suicidio di sua zia Isabella, a cui era molto affezionata.
In particolare soffriva molto nell'assistere al fallimento del matrimonio dei suoi genitori.
Una delle cose che la faceva soffrire di più era l'accusa, da parte di Ettore nei confronti di Diana. di non avergli dato un figlio maschio, ma solo "tre femmine inutili".
Silvia, nel sentire quei discorsi, aveva maturato, senza rendersene conto, perché era ancora bambina, un senso di colpa per il suo essere "figlia femmina" e non l'agognato erede maschio che suo padre desiderava a tutti i costi.
Va detto, tuttavia, che Ettore non era cattivo con lei: a volte poteva essere perfino affettuoso, ma Silvia si rendeva conto che suo padre era ossessionato dalle brame di ricchezza e potere, così come dai forti appetiti, specialmente nei confronti delle belle donne.
Per questo era consapevole che Ettore Ricci poteva diventare, se contrariato, un uomo molto pericoloso.
Silvia, sapendo di essere sua figlia, si chiedeva quale elemento caratteriale avesse ereditato da lui.
Sentiva che c'erano alcuni aspetti, in lei, che venivano dal padre: una certa ostinazione, una buona dose di ambizione, una volontà di realizzare qualcosa di importante.
Percepiva un conflitto dentro di lei: era come se sua madre e suo padre continuassero a litigare nella sua mente, come se i Ricci e gli Orsini si facessero la guerra anche all'interno della sua personalità.
Forse era anche per questo che aveva implorato i suoi genitori di mandarla in collegio.
Diversamente dalle sue cugine, le gemelle Clara e Benedetta Papisco, che in collegio sentivano la mancanza dei genitori, Silvia si sentiva finalmente libera. Preferiva di gran lunga il collegio delle suore all'atmosfera cupa e piena di intrighi di Villa Orsini.
A scuola era molto brava, molto brillante e decisamente molto promettente.
Ogni tanto sua madre veniva a trovarla, ma Silvia sapeva che quelli erano gli stessi giorni in cui Diana andava a trovare l'amante, e per quanto non la biasimasse per questo, tuttavia era preoccupata che qualcosa di terribile sarebbe potuto accadere.
<<Mamma, devi stare attenta. Non voglio che tu faccia la fine di zia Isabella>>
Diana allora stringeva forte le mani della figlia:
<<Silvia, tu sei una ragazza forte e intelligente, oltre che molto bella. Andrai all'università, diventerai qualcuno, e potrai lasciarti alle spalle tutte le angosce della tua infanzia. Non aver paura per me. Non posso dirti altro, ma non sono io ad essere in pericolo, e nemmeno tu.
Qualunque cosa dovesse succedere a Villa Orsini, tu dovrai andare avanti per la tua strada.
E forse un giorno, quando il peggio sarà passato, potrai ritornare nei luoghi della tua infanzia e far sì che diventino, per i tuoi figli, se vorrai averne, quel luogo felice che non sono stati per me e per te>>
domenica 19 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 32. Villa Orsini: chi viene e chi va
Augusto Orsini sposò Angelica Traversari Anastagi nel giugno 1954, dopo essersi laureato in ingegneria nel febbraio dello stesso anno.
Il matrimonio fu celebrato, come tradizione per la famiglia Orsini, nella chiesa di Pievequinta, e i festeggiamenti si tennero presso la Villa, nella Contea di Casemurate.
Apparentemente Ettore Ricci, il vero capo della famiglia Orsini, fu molto contento del fatto che gli sposi avessero scelto di abitare presso la Villa.
C'erano infatti varie ragioni che facevano sentire Ettore di buon umore.
In primo luogo, dopo che la famiglia Ricci aveva fatto valere le ipoteche sul Feudo Orsini, Ettore controllava la maggioranza delle aziende agricole ad esso collegate, di fatto era divenuto il nuovo Signore della Contea, anche se di nome il Conte rimaneva suo suocero Achille.
La famiglia Ricci e i suoi alleati (in primo luogo la famiglia Braghiri) avevano, in tutto e per tutto, sostituito gli Orsini dalla gestione economica.Se dunque Armando avesse voluto dare un suo contributo, lo avrebbe fatto come azionista di minoranza.
<<Tuo padre è un Conte "scontato">> amava ripetere Ettore a sua moglie Diana, divertendosi molto per quel gioco di parole <<E tuo fratello è l'erede di un titolo che non vale più niente>>
Il matrimonio di Ettore e Diana era altrettanto vuoto di significato. Vivevano da separati in casa fin dai tempi del suicidio (o per meglio dire presunto suicidio) di Isabella Orsini.
Diana non replicava alle provocazioni del marito. Era il periodo del suo amore felice per Federico Traversar, e quando si è felici non si è mai permalosi.
Il vecchio Conte Achille Orsini, pur sentendosi tradito dalla famiglia Ricci, era troppo preso dai successi del figlio Augusto per preoccuparsi delle questioni economiche.
L'anziana Contessa Emilia, però era sospettosa nei confronti di Ettore, e continuava a soffocare nell'alcool la propria inquietudine.
Ettore Ricci era, di fatto, il padrone ed era intenzionato a far valere la sua autorità.
In secondo luogo Ettore si era invaghito della cognata Angelica Traversari, e gli piaceva l'idea che lei sarebbe abitata a Villa Orsini, sotto il suo attento controllo.
Inizialmente la convivenza delle varie coppie nella Villa si svolse in maniera tranquilla.
Diana era stata molto occupata a curarsi dell'educazione delle figlie, in particolare della secondogenita, Silvia, che era la più portata per gli studi.
Quando Silvia comunicò ai genitori la propria volontà di proseguire gli studi al Ginnasio e poi al Liceo Classico, all'inizio suo padre Ettore mostrò delle resistenze, ma dopo qualche giorno di riflessione, cambiò idea e sembrò quasi felice di spedire la figlia in un collegio in centro a Forlì.
In fondo, preferiva che ci fossero, presso la Villa, meno testimoni per ciò che aveva in mente di fare, e che non aveva ancora rivelato a nessuno.
Il suo piano scattò con un'astuta mossa padronale: offrì al cognato Augusto Orsini la direzione della Fabbrica Macchine Agricole Ricci, corredando tale offerta con un generoso stipendio.
Tutti ne rimasero meravigliati, dal momento che credevano che Ettore Ricci fosse invidioso e geloso di Augusto, e sperarono che questo gesto generoso e pacificatore potesse finalmente porre fine alle rivalità tra i due.
Diana però mise in guardia il fratello citando Virgilio: <<Timeo Danaos, et dona ferentis>>
<<Ed io dovrei temere Ettore Ricci anche quando porta doni?>>
<<Sì>> confermò Diana <<Conosco troppo bene mio marito e so che quando prende qualcuno in antipatia è impossibile fagli cambiare opinione. Vuole farti abbassare la guardia. E' sempre stata la sua strategia. Nei momenti in cui fa il finto tonto e la gatta morta, puoi stare sicuro che presto scatterà il suo agguato>>
Augusto aveva scrollato le spalle:
<<Non ho paura di lui>>
Diana scosse la testa, sospirando:
<<E' proprio per questo che sei in grave pericolo>>
sabato 18 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 31 . Le vicissitudini del giudice Papisco e le trame della Signorina De Toschi
Il giudice Giuseppe Papisco e sua moglie Ginevra Orsini avevano avuto quattro figli: Alberto (nato nel 1938), le gemelle Clara e Benedetta (nate nel 1940) e Carlo (nato nel 1942).
Per alcuni anni la famiglia Papisco visse felicemente e fu un modello per l’alta società forlivese.
Durante la Repubblica Sociale, Papisco si era distinto come ardente sostenitore del repubblicanesimo socializzatore e della riforma del diritto societario, in cui abilmente sostenne l’ipotesi di nazionalizzazione delle grandi industrie, che poteva piacere sia al fascismo repubblichino, sia al social-comunismo, sia al cattolicesimo-sociale. Comunque fosse finita la guerra egli sarebbe “caduto in piedi”.
Questi studi giovarono anche alla sua fama accademica, come autore di testi che continuavano ad essere studiati come se fossero la Sacra Bibbia.
Dopo la Liberazione si era iscirtto al Partito Repubblicano Italiano, ma aveva stabilito ottimi rapporti con la Democrazia Cristiana, in particolare con la corrente cattolico-sociale dei "professorini" Dossetti-Fanfani.
Passati i cinquant'anni, il giudice Papisco si poteva considerare un uomo di successo sotto ogni punto di vista.
E questo è sempre il momento più pericoloso, perché il successo è come l'alcool: dà alla testa, e riduce i freni inibitori,
Era l'autunno 1953 quando si verificò un imprevisto destinato a segnare profondamente la vita non solo del giudice Papisco e di sua moglie, ma anche di tutta la famiglia Orsini Balducci di Casemurate.
La vicenda incominciò in maniera piuttosto classica.
Papisco si innamorò perdutamente della sua bella e sveglia segretaria, tale Serena Sarpi, che lo aveva conquistato a tal punto da fargli perdere ogni prudenza.
Quando la notizia di quella relazione adulterina divenne di dominio pubblico, Papisco si trovò di fronte a un dilemma.
Il suo desiderio sarebbe stato quello di andare a vivere con Serena, ma in tal caso avrebbe ufficializzato l'adulterio e si sarebbe macchiato del reato di abbandono del tetto coniugale, e questo avrebbe segnato la fine della sua carriera.
La moglie Ginevra Orsini chiamò in soccorso sua madre, la Contessa Emilia, la quale dichiarò:
<<In questi casi, non c'è che la Signorina De Toschi. Ci penserà lei a far ragionare tuo marito>>
Quella frase suonava quasi comica.
Ginevra e sua sorella Diana avevano sempre associato la Signorina De Toschi alla Monaca di Monza dei Promessi Sposi, a cui ci si rivolgeva nelle situazioni scandalose.
Il giudice Papisco, con moglie e suocera, si ritrovò dunque davanti all'imponente e matronesca presenza di Mariuccia De Toschi.
L'attempata Signorina lo squadrava con occhi da rospo, tenendo nella mano destra l'eterna sigaretta e nella mano sinistra l'eterno fazzoletto umido e lurido.
<<L’alta società ti volterà le spalle, se non poni fine immediatamente a questa indecenza!>> fu l’ “anatema” che la De Toschi pronunciò contro di lui: «Farai come ti dico, o sarò io stessa a punirti. Hai tradito non solo la fiducia di tua moglie, ma anche quella del mi’ babbo! Se hai vinto il concorso e hai avuto il posto qui, è grazie all'appoggio degli attendenti del Generale De Toschi. Non dimenticarlo mai, perché così come ti abbiamo creato, ti possiamo distruggere!»
Papisco ne fu terrorizzato:
<<Il problema è che Serena, come mia segretaria, è venuta a conoscenza dei segreti di mezza città, compresi quelli del caso della morte di Isabella Orsini>>
Questo non era stato preventivato.
Il faccione della Signorina divenne viola:
<<Maledetto idiota! I documenti sulla morte di Isabella dovevano essere distrutti! Non dirmi che la tua amante conosce anche l'esito dell'autopsia?>>
Papisco si sentì sprofondare fino al cerchio più profondo dell'inferno:
<<Serena sa tutto. E se non avrà una buona sistemazione, rivelerà ogni cosa>>
La De Toschi era a tal punto furente che pareva sull'orlo di un colpo apoplettico:
<<Una buona sistemazione? Gliela do io una buona sistemazione! Se ha letto davvero quei documenti, dovrebbe aver capito che chi si mette contro la nostra famiglia prima o poi fa una brutta fine!>>
Il giudice cercò di arginare la rabbia della zitellona:
<<Isabella apparteneva alla famiglia, ma questo non l'ha salvata>>
La Signorina capì dove lui voleva arrivare:
<<Se si fosse confidata con me e avesse seguito le mie istruzioni, non avrebbe fatto quella fine. Ma una volta che la disgrazia è accaduta, bisognava limitare i danni. Su questo eri d'accordo anche tu. Ci sei stato utile, non lo metto in dubbio, ma adesso ci hai messo in una situazione molto imbarazzante>>
Lui giocò la sua ultima, disperata carta:
<<Potrei esservi ancora utile. Ci sono altri scandali all'orizzonte. Ettore Ricci potrebbe venire a sapere della tresca di Diana con Federico Traversari>>
Qui intervenne la Contessa Emilia:
<<Ettore è perso dietro ad Angelica Traversari. Non farà niente contro il fratello di lei>>
Papisco inarcò le sopracciglia:
<<Per il momento... Ma dovete convenire con me che ci troviamo tutti sopra una polveriera. E' meglio trovare un compromesso, piuttosto che saltare tutti in aria...>>
La De Toschi appoggiò la sigaretta sul portacenere, prese il fazzolezzo lurido, si soffiò rumorosamente il naso, poi spalancò i suoi enormi occhi da batrace:
<<Di' alla tua sgualdrina che avrà la sua sistemazione. Ma non voglio più sentir parlare di lei e dei suoi ricatti. Tu tornerai al tuo lavoro, e farai bene a rigar dritto e ricordare a chi devi la tua fedeltà. Siamo tutti sulla stessa barca: se gli Orsini affondano, tutte le famiglie legate agli Orsini affondano con loro, e questo vale per te, per me e per tutti quelli che hanno avuto il privilegio di entrare in questa dinastia>>
venerdì 17 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 30. La famiglia Monterovere guarda a Sud.
Francesco Monterovere non era stato avvertito della morte del nonno Enrico. Il Seminario dei Salesiani, infatti, aveva regole molto restrittive per quanto riguardava la comunicazione degli allievi con le famiglie.
Probabilmente i suoi genitori, Romano e Giulia, pensavano che avrebbe appreso la notizia dai manifesti che erano stati affissi per tutta Faenza, ma non fu così.
La domenica successiva, mentre la scolaresca dei seminaristi si recava al Duomo per assistere all'ennesima omelia del Vescovo contro i pericoli del comunismo, Francesco notò i manifesti a caratteri cubitali che annunciavano la morte del compagno Stalin, e si ricordò che i missionari cattolici in visita al Seminario giuravano che in Russia i comunisti mangiavano i bambini.
Tre anni dopo si seppe che i crimini di Baffone erano ben altri, ma quello non era un problema di Francesco Monterovere, almeno non in quel momento.
Il vero problema, per Francesco fu che i manifesti per la morte del leader sovietico erano talmente numerosi e grandi nelle dimensioni, che oscurarono quasi del tutto quelli che annunciavano la morte di suo nonno, Enrico Monterovere.
Per il ragazzo, che era molto legato al nonno, questa circostanza rimase segnata nella memoria come una colpa personale. E invece era più che altro la prova di quanto fosse restrittiva la sua condizione di seminarista.
Il rendimento scolastico era buono, ma lui si sentiva sempre più come un recluso.
La messa tutte le mattine alle 6, le regole rigide, l'assenza di intimità, la mancanza di affetto familiare, la noia infinita, il senso di claustrofobia e di oppressione: tutto era diventato insopportabile.
In quel periodo le uniche cose positive di quell'esperienza seminariale erano le lezioni di pianoforte che un anziano e benevolo sacerdote impartiva al giovane Francesco, che aveva per la musica un talento particolare.
La sua fede si estinse ben presto e ovviamente la vocazione non si fece mai nemmeno lontanamente sentire. Ma siccome non tutti i mali vengono per nuocere, la disciplina salesiana e la presenza di una fornita biblioteca, gli permisero di farsi una cultura generale che poi gli valse per tutta la vita la fama di intellettuale completo, e gli facilitò gli studi universitari e la successiva professione nell'insegnamento.
Nel frattempo, la famiglia Monterovere si era riunita, dopo la dipartita del patriarca, e la vedova Eleonora, che viveva con la figlia Anita, insegnante elementare, decise di ospitare nel suo appartamento di Faenza il fratello Tommaso, che aveva intrapreso la carriera politica ed aveva le mani in pasta dappertutto.
L'Azienda Escavatrice e Idraulica dei Fratelli Monterovere, anche grazie alle amicizie politiche di Tommaso, era riuscita a entrare nel Consorzio per la realizzazione del Canale Emiliano Romagnolo per l'irrigazione agricola.
Fu così realizzato sogno coltivato per decenni dal Profeta delle Acque, ossia, l'ingegner Francesco Lanni, suocero di Romano Monterovere e nonno materno di Francesco.
Non era un sogno da poco.
Si trattava di un'idea ambiziosa, dal momento che questo canale avrebbe dovuto pompare verso l'alto l'acqua del fiume Po dal Cavo Napoleonico fino alle coste della Romagna.
Il Po infatti, in Val Padana, rappresenta il punto più basso della pianura, pertanto, se le sue acque dovevano essere portate altrove, era necessario che risalissero tramite un particolare sistema di idrovore e sifoni (con cui sottopassavano gli altri canali e i piccoli fiumi della Romagna).
L'Azienda Fratelli Monterovere si doveva occupare del tratto compreso tra Faenza e Cesena.
Fu così che i Monterovere ebbero in appalto anche la costruzione del Canale nei territori della Contea di Casemurate.
A posteriori furono in molti a dire che si trattava di uno strano scherzo del destino, perché le mappe disegnate in quegli anni indicavano un percorso che la famiglia Monterovere era destinata a seguire, verso la sua personale Terra Promessa, e cioè la Contea di Casemurate, e quindi anche verso le famiglie che la dirigevano, gli Orsini e i Ricci.
Le vite dei componenti della famiglia Monterovere erano procedute parallelamente a quelle degli Orsini-Ricci, ma loro sorte era quella che anni dopo Aldo Moro avrebbe espresso con la famosa formula delle "convergenze parallele".
La direzione era stata tracciata, e come spesso Francesco Monterovere ebbe a dire dopo aver trovato proprio laggiù la sua anima gemella, "persino due rette parallele sono destinate ad incontrarsi, all'infinito".
Non si sapeva ancora dove il Canale sarebbe terminato.
Si sapeva soltanto che era diretto a sud.
E tutti chiedevano ai fratelli Monterovere: <<A sud, d'accordo, ma dove?>>
E Romano rispondeva, indicando la sconfinata pianura:
<<Lontano>>
giovedì 16 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 29. Un amore di Diana
Diana si recava in città nei giorni di mercato. Come scusa non era un gran che, ma l'importante era salvare le apparenze.
L'autista la lasciava all'inizio del Corso.
Federico, il suo amante, la aspettava all'Hotel de Ville.
La cosa andava avanti ormai da tempo, ma l'entusiasmo era sempre grande, come se fosse la prima volta.
Nella vita di Diana tutto era arrivato più tardi: l'amore, la felicità... e forse era per questo che sapeva apprezzarli meglio, e non li dava mai per scontati.
Quando erano insieme, lei e Federico perdevano la cognizione del tempo.
Poteva anche crollare il mondo, ma loro non se ne sarebbero accorti.
L'amore in età adulta ha dei vantaggi: l'esperienza, la capacità di concentrarsi sul presente e la consapevolezza che ogni singolo istante va vissuto in sé e per sé, al di fuori da qualsiasi progettualità, perché la maturità è il momento in cui tutto è al suo apice.
Erano entrambi sposati, vincolati a matrimoni di convenienza, che erano stati scelti dalle rispettive famiglie, quando erano giovani.
Stavano anche per diventare parenti, perché la sorella di lui, Angelica, era fidanzata con fratello di lei, Augusto.
Si erano conosciuti e innamorati quando Federico accompagnava Angelica a Villa Orsini.
Un giorno lui aveva detto a Diana:
<<Se ti avessi conosciuto prima, ti avrei chiesto di sposarmi>>
Lei aveva sorriso:
<<Non c'è tempo per i rimpianti. Ringraziamo il destino che ci ha fatti incontrare. La vita incomincia adesso>>
In una vita che era stata come una tempesta con rari sprazzi di sole, Diana aveva imparato a trarre da quel breve sole la massima gioia possibile.
Certo sapeva che ci sarebbe stata una fine, che prima o poi qualcosa o qualcuno si sarebbe messo nel mezzo, come sempre succede quando un amore è vissuto in clandestinità, ma preferiva non pensarci, perché, quando si ama, il presente è tutto il tempo che esiste.
L'appagamento che le derivava dal tempo trascorso insieme all'uomo che amava, rendeva Diana pienamente tranquilla e lucida, e quindi anche attenta e discreta nel modo di gestire quella situazione.
Non era maldestra e ingenua come Madame Bovary e nemmeno impulsiva e provocatoria come Anna Karenina. Dai romanzi aveva appreso quali sono gli errori da non fare.
Non era gelosa, non era possessiva, non era suscettibile.
E del resto non lo si è mai, quando si è felici.
Per tutto il tempo della loro storia, Federico e Diana non parlarono mai di se stessi in termini assoluti, con espressioni logore e iperboliche come "anima gemella" o "unico vero amore". Sapevano entrambi che certe cose si possono sapere soltanto alla fine della vita.
E forse anche questa capacità di non aver bisogno di parole e di etichette per essere felici insieme, derivava dal fatto di essere persone adulte.
Solo gli adulti riescono a tenere insieme amore e saggezza, perché hanno imparato a cogliere le occasioni quando si presentano, e a non rovinarle per futili motivi.
In modo particolare riescono ad essere saggi in amore coloro che in gioventù hanno subito un grave torto. Diana lo sapeva bene, e da questo traeva forza.
Era consapevole del fatto che le persone danneggiate hanno un vantaggio: sanno di poter sopravvivere.
Ci sarebbe stato, dopo, alla fine di tutto, un tempo per le riflessioni e per la rielaborazione del ricordo.
<<Prima si vive, poi si filosofeggia>> era uno dei proverbi preferiti di Diana e uno dei consigli che, in tarda età, avrebbe espresso ai nipoti, soprattutto a quelli che sembravano non imparare mai quella lezione.
mercoledì 15 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 28. Enrico Monterovere, Stalin e altre coincidenze
Quando Enrico Monterovere compì 86 anni, nel 1953, gli rimaneva un solo desiderio, piuttosto stravagante, tanto che ben pochi lo prendevano sul serio: voleva vivere almeno un'ora in più di Stalin. Non gli aveva perdonato l'assassinio di Trotsky,
Ma c'era anche un'altra ragione, ancora più singolare.
Anni prima infatti Enrico, mentre era in osteria con gli amici, ubriaco fradicio, aveva dichiarato solennemente che sarebbe morto contento se fosse riuscito a sopravvivere a un certo numero di persone, di cui aveva persino stilato l'elenco.
Non c'erano solo suoi conoscenti, ma anche personaggi pubblici nei confronti dei quali, per motivi ignoti a tutti e forse persino a lui stesso, nutriva del risentimento: tra questi, per esempio, oltre al già citato Baffone, c'erano l'ex Re d'Italia Vittorio Emanuele III, il re d'Inghilterra Giorgio VI e molti altri capi di stato che avevano avuto un ruolo nella devastazione dell'Europa durante la guerra.
Li aveva seppelliti tutti tranne uno: Stalin.
Non dovette però aspettare a lungo.
All'alba del 5 marzo 1953 in seguito alle complicazioni di un ictus, il leader sovietico si avvicinava alla fine. Drammatici furono i suoi ultimi istanti di vita: convinto di essere vittima di una congiura, Stalin maledisse i capi comunisti riuniti attorno al divano sul quale giaceva, e poi morì.
Naturalmente questa versione dei fatti, narrata dalla figlia Svetlana, venne fuori soltanto molti decenni dopo.
Già il fatto stesso che Stalin fosse morto risultava difficile da comunicare.
Nel tardo pomeriggio, alla fine, la radio confermò a tutto il mondo la notizia.
Ognuno reagì a modo suo, a seconda del proprio credo, ma quasi certamente la reazione più singolare fu quella del vecchio Enrico Monterovere, che dichiarò: <<Trotsky, sei vendicato!>> e provvide subito a depennare il nome di Stalin dalla propria lista, ma nel farlo, accorgendosi che era l'ultimo, fu assalito da un lugubre presagio.
Poche ore dopo, appena finito di cenare, Enrico avvertì un leggero malessere.
Si misurò la febbre, aveva 38.
Si mise a letto.
Prese una medicina, ma la temperatura continuò a salire.
Sua moglie Eleonora gli portò una pezza intrisa di acqua fresca, ma Enrico vaneggiava.
Nel delirio gli parve di vedere un cavaliere in un bosco di montagna.
Era suo padre, il leggendario Ferdinando, morto quarant'anni prima disarcionato da cavallo presso l'Orma del Diavolo.
I folletti dei boschi erano con lui.
<<Sono venuti a prendermi>> sussurrò <<torno dai miei padri, nei boschi di Monterovere>>
Furono le sue ultime parole.
Poco dopo, nel momento del trapasso, assunse un'espressione serena, come se veramente le montagne boscose della sua gioventù lo stessero accogliendo con un coro di fronde fruscianti, percorse da una brezza leggera.
martedì 14 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 27 Le relazioni pericolose di Diana Orsini
All'inizio degli Anni Cinquanta, Diana Orsini, ormai più che quarantenne, poteva dire di essere riuscita a superare tutte le avversità del passato con una forza che lei stessa, da ragazza, non credeva di possedere.
Era riuscita perfino ad affrontare in maniera inaspettatamente serena quella fase della vita in cui spesso le donne (in particolar modo le più belle) vanno in crisi e cioè la menopausa.
Diana era entrata in menopausa in un'età relativamente giovane. Sotto certi aspetti era stata una liberazione, perché suo marito aveva smesso di tormentarla con le pretese di un figlio maschio, dopo aver avuto tre femmine.
Superati i quarant'anni, Diana si chiedeva se il resto della sua vita dovesse essere interamente dedicato alle figlie e alla famiglia, oppure se avesse ancora il diritto di sperare in qualcosa di più.
Aveva paura di confessare persino a se stessa i propri desideri.
Forse la sua riservatezza, la sua discrezione e la sua ritrosia derivavano anche dall'aver sempre pensato che ci fosse qualcosa di patetico nelle belle donne che invecchiano, specie quando hanno fatto troppo affidamento sulla bellezza come arma per stabilire una posizione dominante nei rapporti di coppia.
Diana riteneva che molte ex belle donne, sentendosi private del loro "potere contrattuale" nei confronti degli uomini, si ritrovassero in una condizione di vulnerabilità proprio nel momento in cui arrivava, su molte vicende della vita, la resa conti, con tutti i rimpianti, i rimorsi e i fantasmi che essa si portava dietro. Esisteva il rischio, allora, per molte di loro, di entrare in crisi e far fronte a quella crisi in vari modi, che spesso si rivelavano uno peggiore dell'altro.
Le dipendenze, comprese quelle affettive; il rivolgersi ad amanti più giovani illudendosi che non lo facessero per secondi fini; il ricorrere in modo eccessivo alla cosmetica (e in seguito alla chirurgia estetica); l'esternare il proprio dolore in maniera vittimista, aggrappandosi alla falsa consolazione di poter dare agli altri tutta la colpa della propria infelicità, il che troppo spesso è l'ultima spiaggia dei disperati.
Niente di tutto questo per Diana.
Va detto che, come per magia, o per clemenza del destino, nel suo caso il tempo si era fermato.
Nonostante le tre gravidanze, di cui l'ultima estremamente rischiosa, e le ricorrenti emicranie, il suo fisico si manteneva snello e tonico e il suo volto, raramente esposto al sole, mostrava una pelle levigata e senza rughe.
Insomma, era ancora una donna molto attraente, e di questo si erano accorti molti uomini, specie tra gli amici del giovane fratello di lei, Augusto.
Quest'ultimo, con il suo fascino, aveva permesso agli Orsini di riprendere i contatti con le famiglie nobili del forlivese, tra cui i Paolucci de' Calboli, gli Zanetti Protonotari Campi, gli Oddi, gli Orsi-Mangelli, gli Spreti, i Gagni e in particolare i Traversari Anastagi.
Federico Traversari Anastagi, in particolare, era un grande amico di Armando Orsini e un ospite fisso alla Villa, così come sua sorella Angelica.
Fin dall'inizio fu chiaro che Angelica era la prediletta di Augusto, che non faceva mistero di avere intenzioni serie nei suoi confronti.
Meno chiaro, ma non per questo meno vero, era l'interesse di Federico nei confronti di Diana.
Ancor meno probabile era il destino che avrebbe legato in un'unico intreccio di Liaisons Dangereuses i fratelli Orsini, i fratelli Traversari Anastagi ed Ettore Ricci.
Possiamo comunque anticipare la struttura e la sequenza di questo strano menage: Augusto amava Angelica, il cui fratello Federico amava Diana, il cui marito Ettore era attratto da Angelica e odiava Augusto, di cui era invidioso.
Ce n'era abbastanza per creare la più esplosiva delle miscele.
Un nuovo scandalo era nell'aria, ma nessuno poteva prevedere fino a che punto sarebbe stato clamoroso e gravido di conseguenze tremende per chiunque ne fosse stato coinvolto.
L'ennesima tragedia della famiglia Orsini-Ricci era nell'aria, mentre gli avvoltoi, come la famiglia Braghiri, la famiglia Papisco e i loro parenti, stavano già roteando intorno al Feudo e alla Contea.
lunedì 13 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 26. Il successo del giovane Augusto Orsini e l'invidia di Ettore Ricci
L'ultima speranza della famiglia Orsini Balducci di Casemurate era interamente riposta nel giovane Augusto, l'unico figlio maschio vivente del Conte Achille e della Contessa Emilia.
Achille ed Emilia avevano avuto sei figli, ma tre di loro erano morti e dei tre rimanenti, le altre due erano donne sposate con uomini desiderosi di spartirsi l'eredità del Feudo Orsini.
Fin dall'inizio infatti, i mariti di Diana e Ginevra Orsini, e cioè Ettore Ricci e Giuseppe Papisco, erano perfettamente consapevoli del fatto che l'unica loro possibilità di rimanere a capo del Feudo Orsini era che il giovane Augusto Orsini non riuscisse a mettere insieme abbastanza soldi per pagare i debiti della famiglia.
L'educazione di Augusto era avvenuta secondo gli schemi della tradizione aristocratica, dando molta importanza alla cultura classica, agli sport e alle pubbliche relazioni, a cui si aggiunse, con l'andare del tempo, la passione del ragazzo per i motori e la tecnologia.
Come regalo per il suo ventesimo compleanno, nel 1947, Augusto ebbe una motocicletta all'avanguardia, con la quale si recava a Forlì, per poi prendere il treno per l'università di Bologna, dove studiava ingegneria.
Era un ottimo studente, ma senza bisogno di passare troppo tempo sui libri: la sua intelligenza e la sua memoria erano così brillanti che riusciva ad apprendere e ricordare anche i concetti più complessi in maniera molto rapida.
Ma quella non era la sua unica dote.
Era infatti molto bello, pieno di fascino, perfettamente coordinato nei movimenti e nei gesti, elegante in maniera classica, con grande stile, e infine anche molto gentile nei modi e simpatico nelle interazioni con gli altri.
Tutte le ragazze si innamoravano di lui.
C'erano molte fanciulle di ottima famiglia che avevano mostrato la loro disponibilità a sposarlo, portandogli in dote una quantità di denaro che sarebbe stata utilissima ai Conti Orsini per incominciare a riprendere il controllo del Feudo.
Augusto era molto galante con tutte e aveva incominciato a valutare quale scegliere, anche se sua sorella Diana gli aveva detto "sposati solo se sei innamorato, altrimenti rischierai di soffrire come me. E non fidarti mai di Ettore e dei suoi amici: tu sei l'ultimo ostacolo che si frappone tra loro e il controllo esclusivo del Feudo".
La famiglia Ricci aveva ancora in mano le ipoteche sui campi, sulle case coloniche e sui capannoni, e soltanto in minima parte aveva accettato di ritirarle.
Ci sarebbero voluti molti anni e moltissimi soldi per pagare quelle ipoteche, ma esisteva il rischio che Augusto Orsini, se fosse divenuto ingegnere e avesse sposato una ragazza ricca, avrebbe potuto, prima o poi, riuscire in quell'impresa.
Tutto questo era ben evidente alla famiglia Ricci.
Il vecchio Giorgio aveva detto che le ipoteche sarebbero state fatte valere prima che Augusto potesse essere in grado di pagarle: in quel modo la proprietà del Feudo sarebbe comunque passata alla famiglia Ricci.
Ma c'era di più.
Ettore Ricci provava, nei confronti del cognato Augusto Orsini, un'invidia destinata a crescere nel tempo.
Ci sono due tipi di invidie: quella positiva, che si trasforma in ammirazione ed emulazione, e quella negativa, che si traduce in odio e azioni ostili.
Ettore era animato dalla seconda.
Una volta un contadino che lavorava nel Feudo era venuto alla Villa per "parlare col padrone".
Ettore aveva risposto: <<Ditemi pure, buon uomo>>
E lui: <<No, io cercavo il figlio del Conte: è così gentile con noi>>
Ettore aveva voglia di prendere a calci quel "maledetto villano", ma si trattenne, perché sapeva che la sua autorità ne sarebbe stata sminuita ulteriormente:
<<Sono io il padrone qui! Mettetevelo bene in testa!>>
Il contadino allora se ne andò senza dire nulla.
A Ettore tornò in mente tutta la serie di figuracce che aveva fatto nel Salotto Liberty, e a tutta la gente che aveva riso di lui, dei suoi modi grezzi, del suo eloquio volgare, della sua mancanza di stile e di bellezza.
Per la prima volta in vita sua si sentì respinto dalla Fortuna e defraudato dei suoi diritti.
Perché Augusto Orsini aveva avuto in sorte tante doti che lo rendevano vincente in tutto e amato da tutti, mentre lui, Ettore Ricci, consapevole della propria goffaggine, doveva stare sempre in guardia e combattere continuamente, anche con mezzi sleali, per mantenere il controllo di ciò che aveva conquistato (e non era poco) in anni di sforzi e di combattimenti?
p.s. Nella foto di copertina, il modello Baptiste Giabiconi
domenica 12 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 25. Il dopoguerra dei Monterovere
Nel 1946 l'Azienza Escavatrice e Idraulica Fratelli Monterovere tornò in attività e si inserì in un gruppo di Cooperative Rosse, ottenendo subito vari appalti per opere di canalizzazione e scolo nelle campagne dei faentino.
La sede legale fu spostata a Faenza, dove Romano Monterovere, sua moglie Giulia Lanni, e i suoi tre figli Francesco, Enrichetta e Lorenzo, si erano trasferiti.
L'alloggio era in condizioni pessime, ma aveva un vantaggio, e cioè che si trovava in un condominio comunale per famiglie bisognose con figli, e gli inquilini ricevevano le visite delle Dame di San Vincenzo.
Una di queste Dame, la contessa Zucconi, prese in simpatia i tre figli di Romano e Giulia, ed espresse la volontà di accollarsi le spese per dare loro "un'educazione completa e cristiana".
La nobile e nubile Flora Zucconi viveva in una grande villa insieme alle sorelle, anch'esse nubili.
Le sorelle Zucconi avevano scelto, per dare un senso alla loro vita, la missione di "salvare i bambini dal comunismo".
La famiglia Monterovere era stata etichettata subito come "stalinista" e "filo-sovietica", anche se le posizioni politiche dei vari membri erano molto distanti tra loro.
Il vecchio Enrico Monterovere ripeteva a figli e nipoti che lui era "per un socialismo democratico" e prese le distanze da Stalin, anche se pochi anni dopo, in una maniera del tutto imprevista, Stalin in persona, o meglio in spirito, lo punì.
Romano Monterovere non parlava mai di politica, forse perché suo suocero, l'ingegnere Lanni, era di opinioni molto diverse e certamente non di sinistra.
Ferdinando, il capo dell'Azienda, aveva sposato una donna molto religiosa, per cui lui stesso mantenne un basso profilo, pur facendo intendere ai funzionari del Partito Comunista che stava, comunque, dalla loro parte.
Tommaso Monterovere tornò dalla Francia più povero di quando era partito, e siccome non aveva nessuna intenzione di tornare a lavorare nell'Azienda dei fratelli, da cui si sentiva sfruttato, fu l'unico della famiglia ad iscriversi al PCI e a fare carriera politica nel suo ambito.
Molto defilata era la posizione di Anita, da un lato per il fatto di aver avuto il suo assaggio di socialismo jugoslavo mentre fuggiva da Fiume, e dall'altro, come insegnante riteneva professionalmente più giusto mantenere un atteggiamento super partes.
Anita Monterovere sostenne i figli dei suoi fratelli, aiutandoli negli studi.
Il suo preferito era Francesco, che però era anche il preferito della contessa Zucconi.
Quando il bambino compì i 10 anni, nel 1948, sia Anita che la Zucconi concordarono sul fatto che dovesse proseguire gli studi.
La famiglia non si oppose, ma non poteva ancora permettersi di sostenere le spese per un'educazione superiore. La zia Anita già si occupava dei genitori anziani e del mutuo fatto per un appartamento a Faenza, Non c'erano dunque disponibilità economiche.
La contessa Zucchini manifestò allora l'ideea che le era venuta fin dall'inizio e cioè che Francesco si sarebbe dovuto iscrivere al Seminario presso i Salesiani.
Questa proposta fu all'origine del secondo grande trauma dell'infanzia di Francesco (dopo gli anni della guerra e i periodi trascorsi nella stia dei polli durante i bombardamenti).
Il bambino infatti non aveva la più pallida idea di cosa significasse entrare in Seminario (in particolare riguardo al fatto che l'obiettivo di un seminarista è quello di diventare prete): credeva si trattasse di un collegio come gli altri e per questo diede la sua approvazione.
In seguito non seppe mai dire se questo fu un bene o un male, alla luce degli sviluppi successivi della sua vita, ma una cosa era certa, e cioè che fin dal primo giorno in cui mise piede in Seminario, Francesco Monterovere si sentì come rinchiuso in una prigione e passò il resto del tempo ad escogitare un modo per evadere.
p.s. In copertina una foto giovanile di Elisabetta II con il principe Filippo e i figli Carlo ed Anna.
Vite quasi parallele. Capitolo 24. Guerra civile nella Contea.
Pur non trovandosi nel Triangolo Rosso, detto anche Triangolo della Morte, con vertici Bologna, Reggio Emilia e Ferrara, anche la Contea di Casemurate dovette fare i conti con le vendette dei partigiani.
Una mattina, Ettore Ricci, insieme alle figlie maggiori, stava compiendo la sua quotidiana ispezione dei terreni centrali del Feudo Orsini, quando si trovò di fronte a una scena orribile, che rimase impressa nella memoria delle bambine e nei loro incubi.
Il maresciallo dei carabinieri era stato ucciso, quasi sicuramente dai partigiani, e il suo corpo giaceva a terra, con il teschio sfracellato.
Poco distante, altri corpi dilaniati e ammucchiati formavano una specie di avvertimento contro coloro che avevano collaborato con i tedeschi e con la RSI.
Ettore Ricci capì subito che aria tirava e, insieme ai suoi fratelli e ad altri parenti, fuggì in Svizzera, per rimanerci fintanto che le acque non si fossero calmate.
La sua assenza offrì un'occasione alla famiglia Braghiri per aumentare il proprio potere.
Michele Braghiri, che durante il periodo della RSI era rimasto defilato in secondo piano, nei giorni immediatamente precedenti la Liberazione aveva preso contato con i partigiani e aveva offerto il proprio sostegno.
Da quel momento, seppur segretamente, Braghiri divenne il punto di riferimento del Partito Comunista nella Contea di Casemurate.
Il Partito, che intendeva creare in Emilia-Romagna un modello di socialismo compatibile con la proprietà privata, consigliò a Michele Braghiri di far entrare il Feudo in una Cooperativa, una mossa che avrebbe permesso un notevole risparmio fiscale.
Nel frattempo, mentre le vendette continuavano e i cadaveri di ex simpatizzanti fascisti spuntavano da ogni dove, quel che restava della dinastia Orsini Balducci di Casemurate e delle famiglie ad essa legate da vincolo di parentela, ci furono molte "grandi manovre" per cercare coperture politiche.
Per prima, naturalmente, si mosse la Signorina De Toschi, che si iscrisse alla Democrazia Cristiana e divenne il principale referente democristiano forlivese di quegli anni.
La De Toschi, essendo cugina del Conte Orsini, gli fornì una prima protezione.
Poi fu il turno del magistrato Papisco, che si iscrisse al Partito Repubblicano, e incominciò a raccontare alcune sue del tutto improbabili imprese durante la Resistenza.
Poiché Papisco era sposato con Ginevra Orsini, una delle due figlie sopravvissute del Conte, la dinastia poté considerarsi coperta anche sul fianco sinistro.
A quel punto il Conte Achille fece la sua mossa: si iscrisse al Partito Liberale, imparò a memoria i discorsi di Benedetto Croce, e incantò le platee citando l'eterno incipit "Heri dicebamus", con gli occhi gonfi di lacrime, specie quando accennava a sua figlia Isabella, presentata come martire e vittima dell'occupazione nazista.
E così gli Orsini riuscirono a salvare, nell'ordine, la vita, la famiglia, la Villa, il Feudo e la Contea.
Ma non tutti accettarono la situazione.
Un contadino con cui Ettore Ricci aveva litigato, e che era soprannominato "Baracca" per il luogo dove viveva, passava da un'osteria all'altra, ubriaco fradicio, a denunciare come "gli Orsini e la loro cricca si sono parati il culo".
Ma se questo era vero per gli Orsini, non era ancora vero per i Ricci, tanto che Adriana Ricci, sorella di Ettore, era stata fermata dai partigiani e rapata a zero. E così fece ritorno alla Villa, giurando vendetta.
Il vecchio Giorgio Ricci era riuscito a cavarsela versando un'enorme quantità di denaro nelle casse dei partiti che avevano fatto la Resistenza e aveva scritto ai figli che presto l'ordine sarebbe tornato a Casemurate.
E infatti l'ordine tornò nel 1946, permettendo il rimpatrio di Ettore Ricci e dei suoi fratelli.
A Villa Orsini ricevette un'accoglienza gelida.
Diana continuò a negargli l'accesso al talamo nuziale, e lui per il momento decise di soprassedere, in attesa di riprendere in mano il potere di un tempo.
sabato 11 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 23. Uno scandalo dietro l'altro
Le SS si insediarono a Villa Orsini nel marzo del 1944, quando il fronte bellico della Linea Gotica stava salendo pericolosamente verso nord.
Si misero subito a scavare trincee lungo il torrente Bevano, che scorreva proprio di fianco alla Villa.
L'obiettivo dei tedeschi era quello di bloccare la Linea Gotica lungo il corso di quel torrente che proteggeva le trincee.
Ettore Ricci inizialmente riuscì a mantenere il controllo della Contea, accordandosi col tenente Muller, ma gli eventi successivi portarono famiglia Ricci-Orsini sull'orlo della catastrofe.
Le condizioni di salute di Diana erano peggiorate dopo un'incredibile episodio.
Durante un bombardamento particolarmente distruttivo, mentre lei era al nono mese di gravidanza, si ritrovò a correre verso il rifugio con le figlie per mano, ma a un certo punto scivolò e cadde nella trincea piena di tedeschi.
Questo incidente provocò la rottura delle acque e l'inizio del travaglio.
Nessuno avrebbe scommesso un centesimo bucato sulla sopravvivenza della puerpera e della neonata.
E invece entrambe sopravvissero.
Tale è l'insistenza della vita, persino nelle circostanze più avverse.
E fu così che la terza figlia, Isabella, nacque all'interno di un rifugio sotterraneo, durante un bombardamento nell'aprile del 1944, con la madre assistita soltanto dalla governante Ida Braghiri.
Ettore Ricci si infuriò:
<<Ma come? Un'altra figlia? Io volevo il maschio!>>
Diana, che ormai lo conosceva troppo bene per replicare a tono, si limitò a porre condizioni:
<<Soltanto se la smetti di fare il cascamorto con mia sorella! Credi che non me ne sia accorta? Pensi che gli occhi mi siano rimasti soltanto per piangere?>>
Ettore si era preparato da tempo una risposta convincente:
<<Ma non capisci? Lo sto facendo solo per impedire che il tenente Muller la seduca o peggio ancora la prenda con la forza!>>
Questa affermazione non era del tutto priva di fondamento.
Ettore Ricci sapeva, infatti, che il vero mentitore non è colui che dice bugie, ma chi dice soltanto mezze verità.
L'altra parte della verità era che Ettore aveva le stesse intenzioni di Muller.
Solo che, mentre le avances di Ettore erano rifiutate dalla giovane cognata Isabella Orsini, quelle del tenente Muller, un ariano biondo e dal fisico scolpito, erano accettate con una certa civetteria.
Già verso la fine del '44, nel buio dei rifugi, per passare il tempo, la gente chiacchierava dell'argomento più scandaloso mai accaduto da quelle parti dai tempi in cui Lucrezia Spreti aveva tradito il marito Orsini con un taglialegna locale.
Ma gli scandali maggiori dovevano ancora venire.
Nel dicembre 1944, quando ormai il fronte era passato e ai tedeschi erano subentrati i Nepalesi dell'Impero Britannico, Isabella ebbe la certezza di essere incinta di almeno due mesi.
Non si confidò né con la sorella, né con i genitori. E fu un tragico errore.
Una fredda mattina del gennaio 1945, Isabella fu trovata impiccata a un ciliegio.
Allo strazio di sua sorella Diana e dei genitori, i Conti Orsini, si aggiunse la maldicenza della gente.
La stessa Ida Braghiri aveva confidato al marito:
<<Io te lo dicevo che non bisognava confondersi con i Ricci e con gli Orsini. E' gente strana, pazza. La loro storia, la loro vita, tutta la loro esistenza non è altro che uno scandalo dietro l'altro>>
Michele però la riportò al pragmatismo:
<<Non bisogna sputare sul piatto in cui si mangia. Gli scandali stanno indebolendo la famiglia Ricci-Orsini, ma noi non siamo ancora così forti da poter prendere il controllo del Feudo. Bisogna salvare le apparenze, accumulare denaro e potere e, quando saremo finalmente pronti, aspettare il momento adatto per colpire. Tanto, se è vero che la loro vita è uno scandalo dietro l'altro, le occasioni future non mancheranno>>
Ida lodò la sagacia del marito e fece proprio il suo piano.
Del resto, i fatti davano ragione alla prudenza di Michele.
Le indagini sulle circostanze della morte di Isabella Orsini furono molto discrete.
Il federale e milizano Onofrio "Compagnia Bella" Tartaglia fu incaricato del caso, e il giudice Giuseppe Papisco controllò di persona lo svolgimento delle indagini. Entrambi erano cognati di Ettore Ricci.
Alla fine l'autopsia si limitò a constatare le cause del decesso, senza riportare la descrizione di altre particolari lesioni, che pure alcuni avevano creduto di vedere, ma la cosa più atroce fu il fatto che il bambino che Isabella portava in grembo era già ben formato ed era un maschio, cosa che provocò un sussulto di angoscia in Ettore Ricci.
Non si seppe mai chi era il padre del bambino, anche se tutti sapevano che Isabella era corteggiata sia dal tenente Muller che da Ettore.
Il caso fu chiuso in fretta e archiviato come suicidio, anche se Diana e i Conti Orsini sostenevano che Isabella, se mai avesse voluto togliersi la vita, non l'avrebbe mai fatto in quel modo. Piuttosto avrebbe ingerito delle pillole.
La tragedia, gli scandali e le conseguenze della guerra acuirono l'alcolismo della Contessa Emilia e la gastrite corrosiva del Conte Achille, ma quella che reagì peggio fu Diana.
Dopo aver passato settimane a letto con un'emicrania lancinante e una febbre che persisteva, attraversò prima una fase di rabbia, in cui attaccò frontalmente il marito:
<<La causa di tutti i mai sei tu, Ettore! E ti giuro che non metterai più piede nel mio letto! Se lo farai, ti strapperò i genitali a morsi... sei avvisato...>>
Lui bofonchiò qualcosa relativo al "figlio maschio" che lei aveva il dovere di dargli e poi decise di lasciar passare la crisi. Ma dopo la rabbia venne la depressione, acuita dal recente parto in condizioni estreme.
La famiglia Ricci-Orsini credeva di aver toccato il fondo, ma il peggio doveva ancora venire.
venerdì 10 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 22. Arriva la bufera
Quando l'Italia entrò in guerra, nel 1940, nessun abitante della Contea di Casemurate ricevette una chiamata alle armi.
Come sempre, dietro a questa anomalia, c'era lo zampino (o meglio lo zampone) della Signorina De Toschi e degli ex-attendenti di suo padre, il Generale.
Il business funzionava così: i casemuratensi si rivolgevano ad Ettore Ricci, pagandogli una cifra cospicua, e lui faceva da intermediario con la Signorina, che era cugina di suo suocero, il Conte Orsini.
La Signorina si intascava la metà della somma, il che la rese ancora più tremendamente ricca di quanto era già prima.
Ma anche Ettore Ricci si arricchì, e anzi fu da questo affare che incominciò una carriera autonoma, rispetto a quella del padre, il vecchio Giorgio, usuraio e riciclatore di denaro di dubbia provenienza tramite le aziende dei vari membri della famiglia Ricci.
Il braccio destro di Ettore negli affari era Michele Braghiri, il marito della Governante di Villa Orsini, che era stato nominato ufficialmente Amministratore Delegato del Feudo.
Molto personale fu assunto sia per l'amministrazione del Feudo che per il servizio nella Villa.
Ettore era tranquillo, anche perché poteva contare sulla copertura del cognato "Compagnia bella" Tartaglia, segretario federale del partito fascista e capo della Milizia locale, e del marito di sua cognata Ginevra, il giudice Papisco, del Tribunale di Forlì.
Per quanto la sua fede fascista fosse molto forte, Ettore Ricci si accorse ben presto che le cose, per l'Italia in guerra, si stavano mettendo molto male.
Incominciarono i bombardamenti degli anglo-americani.
Ettore prese subito in mano la situazione facendo costruire nelle sue terre un enorme rifugio antiaereo, e assunse personale per raccogliere le lamiere delle bombe esplose, che avrebbe poi venduto come materia prima metallica alla fine della guerra, con notevole profitto.
Quando i bombardamenti divennero più frequenti, incessanti e devastanti, la situazione precipitò.
Diana aveva già due figlie, Margherita e Silvia, ed era appena rimasta incinta della terza.
Le preoccupazioni della maternità e della guerra le causarono vari malanni, tra cui una sempre più lancinante emicrania.
Ma tutto quello era niente rispetto a ciò che l'attendeva.
Quando il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo tolse la fiducia al governo Mussolini, che venne poi arrestato dal Re e imprigionato al Gran Sasso, tutti i membri della famiglia Ricci, che erano fascisti, si trovarono in una posizione di imbarazzo.
Che fare? Con chi schierarsi?
Non avevano ancora deciso, quando, l'8 settembre, arrivò la notizia dell'armistizio firmato da Badoglio con gli Americani, mentre il Re fuggiva a Brindisi e la Germania invadeva l'Italia del Nord.
A quel punto, dal momento che la Contea di Casemurate si trovava all'interno della Repubblica Sociale Italiana, guidata da Mussolini, liberato dai tedeschi, la famiglia Ricci si schierò apertamente con la RSI.
Durante tutto questo periodo, tuttavia, le attenzioni di Ettore Ricci non erano rivolte solo alla guerra, ma anche alla sorella di sua moglie, la bellissima Isabella Orsini.
Quello fu l'inizio di tutti i mali.
Vite quasi parallele. Capitolo 21. Il giudice Papisco alla corte degli Orsini
Il giudice Giuseppe Papisco, corteggiatore di Ginevra Orsini, era un assiduo frequentatore della Villa e del Salotto Liberty da diversi anni, prima ancora di entrare nella magistratura.
Nato a Catanzaro nel 1906, si era laureato in Giurisprudenza all’Università di Reggio Calabria nel 1929. L’iscrizione ai Guf , Giovani Universitari Fascisti, (anche se in seguito, a regime caduto, disse che era in realtà un infiltrato del partito socialista) unito alla sua buona cultura classica lo aiutò nel vincere una borsa di studio per un Dottorato di ricerca in Diritto romano. Evitò il servizio militare a causa di una misteriosa allergia ai pollini.
La sua tesi sul “Diritto nella Roma di Cesare” fu molto apprezzata non solo negli ambienti accademici, ma anche presso il partito fascista. Queste credenziali gli permisero di vincere un concorso come Ricercatore confermato di Diritto Romano all’Università di Bologna, nel 1933. Qui ebbe modo di conseguire anche l’Avvocatura, nel 1934.
Nello stesso anno entrò a far parte, grazie a una segnalazione di un barone universitario di cui era divenuto fedele seguace, del prestigioso studio legale Frassineti-Petrelli-Raffaroni, che assisteva in quel periodo proprio gli interessi della famiglia Orsini Balducci di Casemurate in una controversia con la famiglia Battoni Ghepardi riguardo ai costi di ristrutturazione di un palazzo in Via Belle Arti che questi ultimi avevano acquistato dai Conti Orsini una ventina d’anni prima.
La causa si era protratta per le lunghe, considerato che la marchesa Cordelia Battoni Ghepardi aveva fatto causa pure alla Ditta appaltatrice del restauro, all’architetto che aveva presieduto i lavori, al notaio che aveva controfirmato la compravendita, all’agente mediatore del contratto, al portiere, al giardiniere, e persino a una famiglia di inquilini che abitavano da generazioni in una specie di sottoscala del palazzo.
Poiché si trattava di una gatta da pelare che in studio nessuno voleva, la causa fu affidata a Giuseppe Papisco, che così divenne legale della famiglia Orsini.
In verità come avvocato non si distinse gran che, e infatti la causa fu clamorosamente perduta, contribuendo in grande misura alla rovina economica dei Conti Orsini.
Tuttavia il suo fascino di uomo colto, di grande affabulatore e la sua figura azzimata, con tanto di baffetti e brillantina, conquistarono le simpatie della Contessa Emilia, che non solo lo volle come ospite fisso ai suoi ricevimenti, ma lo spronò a intraprendere la carriera di magistrato.
Giuseppe Papisco, pur avendo molti titoli ed essendo ben introdotto nell'alta società e nel partito fascista, temeva di non riuscire in quel grande intento, a causa della mancanza di un protettore che avesse influenza ad altissimo livello.
La Contessa Emilia, ascoltate queste sue perplessità, aveva dichiarato: <<In questi casi non c'è che la Signorina De Toschi>>
<<Chi?>> aveva chiesto Papisco.
<<Ma come chi? La figlia del Generale Ardito De Toschi e della compianta Violetta Orsini, zia di mio marito>>
<<E come potrebbe aiutarmi?>>
<<Gli ex-attendenti di suo padre hanno fatto carriera in tutti i meandri della Pubblica Amministrazione. Se c'è un concorso da superare, c'è sempre un attendente del Generale De Toschi pronto a metterci una buona parola. Mi creda, l'esito positivo è sicuro>>
Papisco era ancora perplesso:
<<Ma per questa "buona parola" la Signorina non vuole niente in cambio?>>
La Contessa Emilia sorrise:
<<Be'... capirà, avvocato, la Signorina si sente molto sola... ci parla spesso del freddo del suo letto, della mancanza di un abbraccio... naturalmente senza impegno, nel senso che ha un'età ormai molto avanzata>>
Papisco aveva capito:
<<Ma, se posso permettermi, com'è fisicamente, questa Signorina?>>
<<Dunque, ad essere sinceri è un po' in carne... e poi l'età... però Santo Cielo, Parigi val bene una Messa!>>
E così l'avvocato Papisco trascorse qualche tempo presso il Villino De Toschi.
Fu sufficiente.
Nel 1938 il promettente Giuseppe Papisco vinse il concorso di ammissione alla magistratura e, sempre grazie a una buona parola di un ex-attendente del Generale De Toschi, ottenne persino il suo primo incarico nel Tribunale di Forlì, per poter così stare vicino alla famiglia Orsini.
Nel 1939 partecipò al matrimonio di Diana Orsini con Ettore Ricci.
Il vecchio Giorgio Ricci se lo fece subito amico, con una serie di regali ed elargizioni che permisero al giudice Papisco di comprare una palazzina nel centro di Forlì.
Ettore Ricci a sua volta ritenne che fosse fondamentale avere un giudice dalla propria parte, e in questo si rivelò lungimirante.
Nel 1940 Giuseppe Papisco sposò Ginevra Orsini, entrando a pieno titolo nella famiglia.
Ma il prezzo da pagare per quella sua scalata sarebbe stato molto alto.
giovedì 9 febbraio 2017
Vite quasi parallele. Capitolo 20. Come ai tempi di Jane Austen
Sia Ettore Ricci che sua moglie Diana Orsini avevano due sorelle che si avvicinavano all'età da marito e che erano pronte per il debutto in società.
Era il 1939, ma sembrava che il tempo si fosse fermato al 1810.
La Contea di Casemurate dei tempi prima della guerra era, come faceva notare la stessa Contessa Emilia Orsini, "in un certo qual modo simile alle campagne inglesi del periodo Regency".
C'era una certa dose di esagerazione in quelle frasi, ma per quel che riguardava l'ossessione del far fare alle figlie un buon matrimonio, sembrava di vivere davvero come dentro un romanzo di Jane Austen.
Diana aveva letto tutti i romanzi della scrittrice inglese, e poi anche quelli delle sorelle Bronte, fino ad avventurarsi in letture considerate all'epoca del tutto licenziose, come i romanzi di D.H. Lawrence, in particolare "L'amante di Lady Chatterley", leggendo il quale si era sentita particolarmente solidale con le esigenze della Lady.
Il suo matrimonio senza amore era reso sopportabile solo dal fatto che lei non aveva avuto occasione di innamorarsi di qualcun altro.
La gravidanza, giunta quasi immediata, addolciva la sua situazione, poiché desiderava molto diventare madre.
Molto più difficile fu sopportare l'insediamento delle cognate a Villa Orsini.
Le due sorelle di Ettore Ricci, Carolina e Adriana, erano acide e lunatiche.
Carolina aveva una faccia tonda e un corpo pingue, vagamente riscattati dai capelli chiari e dagli occhi azzurri, ma il suo carattere era grossolano fino al punto di spingersi a fare battute sconce e ricorrere frequentemente al turpiloquio e ad imprecazioni da caserma.
Il suo corteggiatore era un membro della Milizia fascista, un certo Onofrio Tartaglia, un omaccione gradasso molto amico di Ettore Ricci, che lo aveva invitato apposta ai ricevimenti a Villa Orsini.
Tartaglia, detto "Compagnia Bella", a causa del frequente uso di quell'intercalare e del fatto che la sua compagnia fosse tutt'altro che bella.
Adriana al contrario aveva una faccia secca, puntuta, e un corpo scheletrico e piatto: i suoi occhi erano spiritati e infuocati, come quelli del vecchio Giorgio Ricci, da cui aveva appreso le passioni per l'usura e per la politica.
Nessun pretendente si era fatto avanti.
Fin dal suo ingresso a Villa Orsini, tutti la detestarono, ma nel contempo iniziarono a temerla.
Al contrario le sorelle di Diana non portavano niente in dote, ma erano bellissime e dolci.
Ginevra Orsini assomigliava alla madre, da cui aveva preso i capelli rossi, gli occhi azzurri e la pelle lentigginosa. Era timida e docile, e parlava con una voce flautata che la rendeva ancora più eterea.
Un giovane magistrato di Forlì, Giuseppe Papisco, era attratto in maniera spasmodica da Ginevra Orsini.
Era un uomo raffinato e colto, paziente e diplomatico.
"Potrebbe funzionare", pensò Diana, vedendoli insieme.
Le sue preoccupazioni riguardavano più che altro la sorella più giovane, che era la perla più preziosa della famiglia.
Isabella Orsini era stupenda: una delle giovani donne più belle che si fossero mai viste da quelle parti, a memoria d'uomo.
Mora, slanciata, con fisico snello da odalisca, viso ovale, occhi intensi, labbra piene, lineamenti regolari e dolci, sorriso irresistibile.
E questa sua eccessiva bellezza fu una delle cause della sua rovina.
Successe infatti qualcosa che andava al di là di ogni più fantasiosa previsione.
Suo cognato Ettore Ricci, che non l'aveva mai vista prima di sposare sua sorella, rimase abbagliato da quella bellezza così irresistibile.
Tutto l'amore che aveva provato per Diana incominciò, lentamente, ma inesorabilmente, a convogliarsi verso di lei, tanto da renderlo geloso di ognuno degli innumerevoli corteggiatori che si facevano avanti per ricevere anche un solo sorriso da parte di Isabella.
Vite quasi parallele. Capitolo 19. La prima notte di nozze e la pendola sul muro
Nel bel mezzo dell'amplesso, poco prima che Ettore Ricci raggiungesse l'acme del piacere, sua moglie Diana se ne uscì con una frase sconcertante:
<<La pendola sul muro è indietro di un'ora>>
La governante Ida Braghiri, che era rimasta a bada della camera degli sposi, come era tradizione, perché qualcuno doveva pur testimoniare che il matrimonio era stato regolarmente consumato da entrambi i coniugi nello stesso momento, sparse in giro la notizia di quell'incredibile frase:
<<A un certo punto, mentre lui ci dava sotto da un po', ho sentito lei che ha detto: "Quella pendola sul muro è indietro di un'ora". Lui ci dev'essere rimasto male.
Insomma, nessuno pretende che la moglie debba far finta, ma tirare fuori quella storia della pendola!>>
Michele Braghiri, che si vantava di essere un grande amatore, prese le parti di Diana:
<<E' appesa proprio nella parete di fronte al letto. Si vede che lei doveva passare il tempo... >>
La signora Ida scosse il faccione paonazzo:
<<Ma era la prima notte... E lei era vergine!>>
<<Hai controllato il lenzuolo?>>
<<Ma certo! Dovevo pur testimoniare che tutto era stato fatto in regola!>>
Daniele annuì:
<<Be', dai, almeno questo dente ce lo siamo tolto>>
In ogni caso, quella pendola non suonò mai più i rintocchi delle ore a Villa Orsini, ma non fu nemmeno buttata via.
Diana la conservò in segreto come ricordo della sua resistenza passiva durante la prima notte di nozze e la donò, molto tempo dopo, alla sua secondogenita Silvia, la preferita, il giorno in cui anch'ella si sposò.
Da allora rimase nell'atrio dell'appartamento di Silvia Ricci e di suo marito.
Ettore, quando la rivide, fece finta di non riconoscerla.
E fu sera e fu mattina.
Il giorno dopo, Ettore Ricci esaminò nel dettaglio la Villa:
<<Questa casa è vecchia>> commentò.
<<E' antica>> lo corresse lei <<E' stata costruita in età vittoriana>>
<<Sotto Vittorio Emanuele II?>>
<<Per età vittoriana si intende la regina Vittoria del Regno Unito>>
<<Ah, quella vecchia babbiona! Dicono che se la intendesse con uno stalliere. Non so come avrà fatto quel poveretto>>
Ma a quel punto gli tornò in mente la storia della pendola e, offeso nella sua dignità di maschio, sbottò:
<<Fosse per me, butterei giù tutto e costruirei una casa nuova. Ma visto che a voi piacciono le cose vecchie, cercheremo di fare delle ristrutturazioni. Mi costeranno un occhio della testa, ma alla fine lo faccio anche per voi, perché la mia famiglia siete voi poveracci! Voi disgraziati! Eh sì, eh sì... Ma lo dico con affetto, ...>>
Diana non replicò; in fondo si sentiva un po' in colpa per averlo umiliato in quel modo.
Ma a farla arrabbiare era stato il fatto che la famiglia Ricci non avesse mantenuto del tutto le promesse.
Era stato il vecchio Giorgio Ricci a spiegare al figlio Ettore come intendeva gestire la questione :
<<Ho tolto le ipoteche dalla Villa, come avevo promesso al Conte, ma per quanto riguarda le ipoteche sul Feudo, lo farò un poco alla volta, perché gli Orsini debbono sempre ricordare che siamo noi a tenere il coltello dalla parte del manico>>
Ettore aveva concordato e, forte di quel seppur metaforico coltello, si era insediato a Villa Orsini con un atteggiamento da padrone.
Nei giorni successivi la sua frenesia si manifestò in maniera simile a quella con cui Urbano VIII Barberini si era avventato su Roma per ricostruirla a sua immagine.
E così', in breve tempo, Ettore fece riaprire le ali della Villa che erano state chiuse per risparmiare.
<<Qui faremo le stanze degli ospiti. Può darsi che le mie sorelle vengano a stare qui per un po', prima di maritarsi, a imparare un po' di etichetta dalla tua Contessa madre, almeno nei momenti in cui è sobria>>
<<Senti Ettore, cerca di non fare delle battute pesanti sui miei. Non tanto per me, quanto per i miei fratelli, sono ancora troppo giovani e non capirebbero>>
Lui sbuffò:
<<Sì, sì... ma distruggi quella pendola, perché se la rivedo, giuro che la tiro in testa a qualcuno>>
<<L'ho già fatta sparire>>
<<Bene! Adesso bisogna organizzare un po' di feste da ballo per trovare marito alle mie sorelle, e anche alle tue. Dobbiamo imparentarci coi pezzi grossi, se vogliamo contare qualcosa. Ho in mente dei grandi progetti! Aspetta e vedrai!>>
mercoledì 8 febbraio 2017
I luoghi del Kalevala
Pohjola è una località a cui fa riferimento la mitologia finlandese, identificando in Pohja il centro della terra del Nord, la regione polare, e nel regno del Kaleva, la terra dei Sami. La parola pohja in finlandese corrente significa fondo, fondamenta, base, e dà origine alla parola pohjois che significa nord.
Nel mondo reale, Pohjola include territori della Lapponia e dell'antico Kainuu. Pohjola può anche essere pensata semplicemente come luogo mitico, la fonte del Male, una lontana terra del Nord, ostile e fredda, da cui provengono le malattie e il gelo. Pohjola è nemica di Väinölä, la terra di Kaleva.
Nella mitologia, la Signora di Pohjola è Louhi, una strega malvagia dotata di grandi poteri. Il grande fabbro Seppo Ilmarinen forgia Sampo su suo ordine e gliela consegna in pagamento per ottenere la mano di sua figlia. Sampo è una magica macina di abbondanza (come la Cornucopia), che produce abbondanza per la gente di Pohjola, ma il suo coperchio è un simbolo della volta celeste, trapuntata di stelle, che ruota attorno ad un asse o colonna centrale del mondo.
Altri personaggi del Kalevala cercarono il matrimonio con le figlie di Pohjola. Questi comprendono l'avventuriero Lemminkäinen e il grande saggio Väinämöinen. Louhi richiese ad essi miracoli simili alla forgiatura di Sampo, come abbattere il Cigno di Tuonela. Quando il pretendente riusciva ad ottenere una figlia, matrimoni e grandi feste si tenevano nel salone di Pohjola.
Le fondamenta della colonna del mondo, le radici di questo "albero del mondo", erano situate, dal punto di vista della mitologia finnica, in un punto appena oltre l'orizzonte settentrionale, nel Pohjola. La forgiatura di Sampo e lo sfruttamento della sua abbondanza da parte della strega Louhi, all'interno di una grande montagna nella zona più oscura del Pohjola; la lotta e la guerra delle genti del sud per liberare Sampo e usarla per i propri bisogni, e la conseguente rottura di Sampo e la perdita dell'importante coperchio (che implica la rottura dell'albero del mondo al polo nord) costituiscono assieme il nucleo del materiale del Kalevala.
I protagonisti del Kalevala
Väinämöinen, chiamato anche Vanemuine in estone e Вяйнямёйнeн (Vjajnjamëjnen) in russo, è un personaggio della mitologia ugro-finnica e uno dei protagonisti del poema Kalevala.
Nato già vecchio dopo una gestazione lunga settecento anni da parte di Ilmatar, Väinämöinen dopo sette anni in mare giunge sulla terra ferma, chiamando poi Sampsa Pellervoinen per la semina e la crescita della vegetazione.
È diffuso in Finlandia il nome proprio di persona Väinö, direttamente derivato da quello di Väinämöinen.
Ilmarinen, chiamato anche Ilmaris dagli estoni, è un personaggio della mitologia finnica. Si tratta di uno dei protagonisti del poema epico Kalevala assieme a Väinämöinen e Lemminkäinen.
Ilmarinen viene descritto come un abilissimo fabbro, e la sua più importante opera è la forgiatura del mitico Sampo, oggetto che risulterà centrale nelle vicende del Kalevala. Ilmarinen compare per la prima volta citato da Väinämöinen come colui che ha le abilità per forgiare il Sampo, nel runo VII:
(FI)
« Vaka vanha Väinämöinen sanan virkkoi, noin nimesi:
«Taia en sampoa takoa, kirjokantta kirjoitella. Saata mie omille maille: työnnän seppo Ilmarisen, joka samposi takovi, kirjokannet kalkuttavi, neitosi lepyttelevi, tyttäresi tyy'yttävi. » | (IT)
« Il verace Väinämöinen disse allor queste parole:
«Non so il Sampo fabbricare, né il coperchio io so fregiare; ma tornato a casa mia Ilmari fabbro ti mando; ei può il Sampo fabbricare, il coperchio ei sa fregiare, la ragazza rallegrare, la tua figlia contestare. » |
(Kalevala, canto VII, versi 323-332, tratto da Bifröst.it) |
Nel runo IX, invece, viene narrata la genesi del fabbro ed il suo interesse per il metallo e la lavorazione, il passaggio tramite fuoco e acqua dal ferro al duro acciaio, estendendosi fino al verso 265. Nel canto decimo Väinämöinen convince con arti magiche il fabbro a recarsi a Pohjola per fabbricare il Sampo ed avere in sposa la fanciulla di Pohjola, una volta forgiata però la magica macina, la fanciulla oppone resistenza e Ilmarinen, ottenuta una barca, torna a casa raccontando la vicenda della fucinatura a Väinämöinen.
Il Kalevala offre a questo punto una sorta di gara tra spasimanti per la fanciulla di Pohjola, da una parte Väinämöinen, che dopo aver costruito una barca magica parte alla volta della terra del nord, e Ilmarinen che venuto a saperlo parte a cavallo. La strega Louhi consiglia alla fanciulla di scegliere il più anziano ma ella invece propende per Ilmarinen a cui vengono imposte prove difficili che egli supera anche grazie all'aiuto della fanciulla. Vengono predisposti i festeggiamenti per le nozze a cui vengono invitati tutti tranne Lemminkäinen
Lemminkäinen è il dio della magia nella mitologia finlandese, fratello di Ainikki e uno degli eroi di Kalevala. Tra i suoi appellativi vi sono:
- Ahti
- Saarelainen ("Isolano")
- Kaukomieli o Kauko ("Colui che guarda lontano")
- Lemminpoika ("Figlio di Lempi")
Lemminkäinen chiese a Louhi, signora delle terre del nord, la mano della figlia. Per dimostrare di esserne degno doveva superare tre prove: catturare l'alce di Hiisi, domarne lo stallone infuocato e uccidere il cigno a guardia del fiume dell'oltretomba Tuonela. Lemminkäinen superò le prime due prove ma fallì nell'ultima impresa poiché un pastore era di guardia sul fiume. Quest'ultimo, infatti, riuscì ad uccidere Lemminkäinen, lo fece a pezzi e lo gettò nel fiume. La madre di Lemminkäinen lo riesumò tuttavia dal fiume, ne ricompose il cadavere e lo riportò in vita.
Insieme a Väinämöinen e ad Ilmarinen tentò di rubare il Sampo a Louhi. Fu tuttavia distrutto durante il tentativo.
Louhi è secondo la mitologia ugro-finnica la regina della terra settentrionale di Pohjola. Promette agli uomini le sue figlie stupende in cambio di prove quasi impossibili. Uccide tutti coloro che terminano con successo le sue prove.
Louhi è in grado di trasformarsi in una ruota gigante e di rinchiudere in una grotta il sole e la luna.
Väinämöinen, Ilmarinen e Lemminkäinen vollero rubare a Louhi il Sampo. Louhi si tramutò in una ruota gigante per proteggere il sampo, ma così facendo lo distrusse.
Kalevala: il poema epico finlandese che ispirò il Silmarillion di Tolkien
Il Kalevala è un poema epico composto da Elias Lönnrot nella metà dell'Ottocento, sulla base di poemi e canti popolari della Finlandia (soprattutto in careliano, un dialetto strettamente correlato al finlandese).
"Kalevala" significa letteralmente "Terra di Kaleva", ossia la Finlandia: Kaleva è infatti il nome del mitico progenitore e patriarca della stirpe finnica, ricordato sia in questo testo che nella saga estone del Kalevipoeg. Il Kalevala è dunque l'epopea nazionale finlandese.
Lönnrot assemblò (come già fece Geoffrey di Monmouth con il ciclo arturiano) e ricostruì la memoria storica delle genti finniche attraverso la massa dei canti prodotti dalla loro poesia tradizionale, riunendone in una sola opera la cosmogonia iniziale e il ciclo eroico/mitologico.
Famosi alcuni cantori quali un certo Arhippa Perttunen (come venne chiamato dallo stesso Lönnrot nella prefazione dell'edizione del 1835), che si dice conoscesse a memoria più di mille canti. Il poema è tuttora cantato e conosciuto a memoria da alcuni anziani bardi dell'area dei laghi, in cui il Kalevala è nato e si è diffuso nei secoli. Nelle buie sere invernali, i convenuti si accomodavano su una panca ed ascoltavano le gesta dei vari eroi, creatori del mondo e della cultura di quel popolo. Il racconto, in metrica, veniva cantato dallo scaldo aiutato dal ritmo battuto su un tamburo col bordo di betulla e la pelle di renna. L'effetto era ipnotico ed atto a riprodurre uno stato di trance. Seppur in maniera non dichiarata, l'incontro portava in sé valenze sciamaniche e contenuti esoterici.
La versione del 1849 è composta da 50 canti, o runi (runot), i cui versi sono in metro runico (motivo per cui i cantori sono chiamati runoja). La precedente versione del 1835, di 32 canti, era incompleta. Entrambe le versioni sono corredate da una prefazione che riassume i metodi ed il contesto seguito dall'autore per la composizione del poema, oltre che la citazione di precedenti opere di raccolta del materiale sulla poesia tradizionale, come quella in cinque parti del medico Zachris Topelius tra il 1822 ed il 1831.
Traduzioni italiane
Quattro le traduzioni del Kalevala: la prima in endecasillabi di Igino Cocchi (1909), la seconda, in ottonari (il metro del testo finnico), di Paolo Emilio Pavolini (1910). La terza, in prosa, nel 1912 di Francesco di Silvestri-Falconieri. Dal novembre 2007 è disponibile la traduzione integrale di Pavolini in una nuova edizione italiana curata da Cecilia Barella e Roberto Arduini per la casa editrice Il Cerchio di Rimini. Nel 2010 è stata pubblicata la prima traduzione filologica in versi liberi a cura di Marcello Ganassini di Camerati per le edizioni Mediterranee.
Parti della prima versione del Kalevala sono state tradotte dall'attrice e drammaturga Ulla Alasjärvi e presentate in uno spettacolo che del Kalevala vuole riproporre spirito ed atmosfera.
Il poema
I personaggi
I personaggi principali sono Väinämöinen, eroe saggio e scaldo divino nato dalla Vergine dell'aria Ilmatar, il fabbro Ilmarinen, che rappresenta l'eterna ingegnosità, e il guerriero seduttore Lemminkäinen, simbolicamente il lato guerresco e sensuale dell'uomo. In breve, il Kalevala racconta della lotta dei tre protagonisti contro Louhi, signora del paese di Pohjola (la Terra del Nord, rivale di Kalevala, la Terra del Sud), per il possesso del Sampo, magico mulino forgiato da Ilmarinen, portatore di benessere e prosperità.
La vicenda
Analisi critica
Domenico Comparetti[1] ha definito il Kalevala come il solo esempio di poema nazionale veramente risultante da canti minori, non ritrovati in esso per principi presupposti o per analisi critica induttiva, ma noti come realmente esistenti indipendentemente dal poema.
Lo strato più antico del materiale presente nel poema presenta una connotazione mitologica prima ancora che eroica, come osservò nel 1845 Jakob Grimm. Nel corso poi degli anni, gli studi hanno individuato vari nuclei che componevano il poema. Nella postfazione al Kalevala italiano del 2007, Cecilia Barella individua:
- runi 1-10: primo ciclo di Väinämöinen
- runi 11-15: primo ciclo di Lemminkäinen
- runi 16-18: secondo ciclo di Väinämöinen
- runi 19-25: nozze di Ilmarinen
- runi 26-30: secondo ciclo di Lemminkäinen
- runi 31-36: ciclo di Kullervo
- runi 37-38: secondo ciclo di Ilmarinen
- runi 39-44: furto del Sampo, detto anche terzo ciclo di Väinämöinen
- runi 45-49: vendetta di Louhi
- runo 50: ciclo di Marjatta
Opere ispirate al Kalevala
- Nel 1893 il compositore finlandese Jean Sibelius ha scritto la suite Lemminkäinen, opera in quattro movimenti ispirata al Kalevala.
- Il Kalevala è una delle fonti usualmente citate come ispirazione per l'opera Il Silmarillion di John Ronald Reuel Tolkien, sorta di corpus mitologico dell'immaginario mondo di Arda, nonché per le lingue elfiche create da Tolkien medesimo sulla base del finlandese.[2]
- Ispirata all'opera è un'avventura Disney di Don Rosa, Paperino alla ricerca di Kalevala, una storia a fumetti molto popolare in Finlandia.
- Al Kalevala sono ispirati numerosi album della band progressive death metal finlandese Amorphis, quali Tales from the Thousand Lakes e la tetralogia costituita da Eclipse, che narra la storia di Kullervo, Silent Waters, che segue le gesta di Lemminkainen, Skyforger il cui protagonista è appunto il fabbro Ilmarinen e The Beginning of Times, incentrato sulla figura di Vainamoinen.
- Il Kalevala ed i suoi personaggi vengono citati nei titoli e nei testi di alcune canzoni del gruppo Folk/Viking metal finlandese Ensiferum.
- Si ispira al Kalevala il poema epico estone Il figlio di Kaleva, successivamente pubblicato in Estonia.
- Prende il nome dal Kalevala il gruppo italiano Folk metal Kalevala Hms, autore dell'album "Musicanti di Brema" (2011).
Adattamenti cinematografici e televisivi
- Nel 1959 viene distribuito il film di co-produzione finnico-sovietica Sampo (titolo inglese: The Day the Earth Froze), ispirato alla vicenda inerente al Sampo, tratta appunto dal Kalevala. Il regista è il russo Aleksandr Ptushko (l'autore di Sadko, Il fiore di pietra, Il conquistatore dei mongoli, Il castello incantato, ecc.) e gli sceneggiatori Väinö Kaukonen, Viktor Vitkovich e Grigori Yagdfeld.
- Nel 1982, la Yleisradio (YLE) produce una mini-serie tv, Rauta-aika (L'età del ferro) diretta da Kalle Holmberg. La serie è ambientata "durante i tempi del Kalevala" e basata sugli eventi che accadono nella saga. La parte 3/4 del programma vince il Prix Italia nel 1983.
- Infine il curioso film d'arti marziali Jadesoturi (2006, titolo inglese: Jade Warrior) diretto da Antti-Jussi Annila, è anch'esso liberamente basato sul Kalevala, e ambientato in Finlandia e in Cina.
Note
- ^ Prefazione a Domenico Comparetti, Il Kalevala, o La poesia tradizionale dei finni: studio storico critico sulle origini delle grandi epopee nazionali.
- ^ Appendice 3 "Tolkien e il Kalevala", in Kalevala, traduzione in versi di Paolo E. Pavolini, a cura di Cecilia Barella e Roberto Arduini, il Cerchio, 2007.
Bibliografia
- Il Kalevala, poema finnico. Traduzione di Igino Cocchi, introduzione di Domenico Ciàmpoli. Firenze: Società Tipografica Editrice Cooperativa, 1909. Milano: Amiedi 2008.
- Kalevala: poema nazionale finnico, traduzione in versi di Paolo Emilio Pavolini, a cura di Cecilia Barella e Roberto Arduini. Firenze: Remo Sandron 1910. Rimini: Il Cerchio, 2007 ISBN 88-8474-148-3
- Domenico Comparetti, Il Kalevala, o La poesia tradizionale dei finni: studio storico critico sulle origini delle grandi epopee nazionali. Roma: 1891. Milano: Guerini, 1989. ISBN 88-7802-072-9.
- Kalevala epopea nazionale finlandese Traduzione di Francesco di Silvestri-Falconieri. Lanciano R.Carraba, Editore 1912
- Elena Primicerio (riduzione per ragazzi). Il Kalevala - Finlandia terra d'eroi. Bemporad, Firenze 1941. Giunti-Marzocco, Firenze 1961, 1971. Giunti, Firenze 2007.
- Ursula Synge (riduzione per ragazzi): Racconti finlandesi. Brescia: La Scuola 1980, 1987.
- Kalévala: Miti incantesimi eroi, a cura di Gabriella Agrati e Maria Letizia Magini. Milano: Mondadori 1988, 1991.
- Dario Giansanti, Il Kalevala, poema della natura e della parola creatrice, (articolo monografico sulla genesi, la religione e la mitologia del Kalevala). In "Minas Tirith" n. 22. Società Tolkieniana, Udine 2008.
- Kalevala, il grande poema epico finlandese, traduzione e note di Marcello Ganassini. Roma: Edizioni Mediterranee 2010. ISBN 88-272-2058-5
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