venerdì 3 febbraio 2017

Perché i nobili hanno molti cognomi

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Nell'immaginario collettivo, il prototipo del cognome dei nobili è e rimarrà sempre quello della contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare, reso immortale da Il secondo, tragico Fantozzi, forse il film più memorabile di Paolo Villaggio (è anche quello, per intenderci, della Corazzata Potionkin).
Per quanto possa sembrare comico il cognome della maldestra contessa fantozziana, non si discosta poi tanto dalla realtà.
Pensiamo ai cognomi di aristocratici noti e scegliamone uno che può essere esemplare: la contessina Beatrice Borromeo Arese Taverna Casiraghi Grimaldi.

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Innanzi tutto bisogna separare i cognomi di nascita da quelli del marito, Pierre Casiraghi Grimaldi, il quale porta sia il cognome del padre, Stefano Casiraghi, sia quello, ben più nobile, della madre, la principessa Carolina Grimaldi di Monaco e Hannover.
E' infatti di uso comune, nel caso la madre abbia un cognome aristocratico, di aggiungere il cognome materno a quello paterno.
Ma torniamo a Beatrice Borromeo Arese Taverna.
Per quanto nata al di fuori del matrimonio, da una relazione tra Paola Marzotto e Carlo Ferdinando Borromeo Arese Taverna, Beatrice è stata riconosciuta e legittimata dal padre, ed essendo nobile anche per parte di madre, anch'ella figlia di un conte, si è ritenuto opportuno, negli articoli di cronaca mondana, attribuirle il titolo di "contessina", che spetta di diritto alle figlie di un conte.
Il suo cognome più importante e principale è naturalmente Borromeo.
La famiglia Borromeo è di antica ed elevata nobiltà. vantando tra l'altro anche numerosi cardinali e un santo, tra i suoi esponenti più noti.
Il cognome Arese si è aggiunto nel Seicento, quando Renato Borromeo sposò Giulia Arese.
In questo caso il figlio di Renato e Giulia, Carlo Borromeo Arese, ereditò anche il cognome della madre, poiché la discendenza maschile degli Arese stava per estinguersi, e dunque, come spesso accadeva per evitare la scomparsa di un cognome nobile, era consuetudine renderlo trasmissibile anche per via femminile.
Quest'ultima ragione, e cioè la trasmissione del cognome nobile della madre nel caso ella sia l'ultima erede di tale cognome, è la principale ragione dell'accumularsi dei cognomi aristocratici.
C'è però un'altra ragione che tende ad allungare notevolmente il cognome dei nobili e cioè la presenza della località di cui questi aristocratici sono feudatari.
Luca Cordero di Montezemolo è così chiamato in quanto discendente dei Marchesi di Montezemolo.
Carlo Ripa di Meana è un caso analogo.
Altri esempi sono Marella Caracciolo di Castagneto, vedova di Gianni Agnelli, il quale a sua volta era figlio di Virginia Bourbon del Monte di San Faustino.
Un caso ancor più complesso fu quello della prima moglie di Umberto Agnelli, e cioè Antonella Bechi Piaggio Visconti di Modrone, la quale era nata Bechi, adottata da un Piaggio (quelli dei motorini) e sposata in seconde nozze a un Visconti di Modrone.
Ma il caso più eclatante in assoluto è stato quello dell'indimenticabile ed eccentica Doña María del Rosario Cayetana Alfonsa Victoria Eugenia Francisca Fitz-James Stuart de Tormes y de Silva Falcó Gurtubay, diciottesima Duchessa d'Alba, Grande di Spagna (Madrid, 28 marzo 1926 – Siviglia, 20 novembre 2014).


Vite quasi parallele. Capitolo 16. Il secondo, tragico appuntamento



Per porre rimedio all'esito increscioso del primo appuntamento, i Conti Orsini Balducci di Casemurate, con un' "astuta mossa padronale", decisero di invitare Ettore Ricci ad una cena di gala servita, per l'occasione, nella Grande Sala Rococò.
Ettore Ricci, consapevole di dover rimediare a una notevole serie di gaffes, cercò di sfoderare il meglio del suo repertorio.
Si presentò a Villa Orsini agghindato come per un ricevimento a Balmoral ai tempi della Regina Vittoria.
Indossava un frac che gli andava leggermente stretto in vita, per sembrare più snello, senza però riuscire ad evitare l' "effetto pinguino".
Come nella famosa canzone, portava "un cilindro per cappello, due diamanti per gemelli".
Il cilindro era di seta nera con interno foderato in viola.
Completavano il quadro i seguenti capi: papillon bianco inamidato, camicia con accenni di volant e colletto alto che gli impediva una corretta respirazione.
Questa volta, onde evitare gli spiacevoli inconvenienti dell'incontro precedente, era stato ben istruito da Ida Braghiri, la governante, su cosa dovesse fare e soprattutto evitare di fare.
All'inizio le cose sembrarono andare meglio.
In fondo Ettore Ricci non era uno stupido ed era consapevole di essere irrimediabilmente rude, tozzo, eccessivamente comico se si rilassava troppo, e sapeva quindi che, in mancanza di fascino e di attrattiva, avrebbe dovuto tirar fuori le unghie e i denti, e barare, per ottenere tutto quello (e non era poco) che desiderava dalla vita.
Il problema non erano tanto i Conti Orsini, due vecchi relitti il cui orologio si era fermato ai tempi della Belle Epoque, quanto piuttosto Diana, perché Ettore era ossessionato da lei e la trovava così perfetta e carismatica da fargli perdere il controllo della situazione.
Ad aprirgli la porta, quella sera, fu il Conte Achille in persona, un onore che era riservato soltanto ai creditori più insistenti.
Ettore mantenne un contegno formale, ingessato.
Arrivò persino, come gli era stato suggerito dalla governante, a lusingare il Conte Achille lodando il ritratto di un suo antenato.
Il Conte si illuminò:
<<Quel cavaliere che vedete nel ritratto è il fondatore del ramo casemuratense della famiglia Orsini, il Conte Bernardo, nipote di papa Niccolò III>>
In quel momento, come colto da un accesso di sindrome di Stendhal, Ettore Ricci si sentì quasi risucchiare dentro il ritratto di quel cavaliere feroce, intuendo immediatamente che tutti quei guerrieri, tutti quei Papi, si sarebbero sempre intromessi tra lui e Diana, vanificando ogni suo sforzo di apparire degno di lei.
Forse fu per questo che, invece di rispondere come la governante gli aveva suggerito, si ritrovò di nuovo senza parole e l'unica esclamazione che uscì dalla sua bocca fu un alquanto inopportuno:
<<Ostia!>>
Il Conte Achille perse ogni speranza e si limitò a fare strada al suo incorreggibile ospite, nonché creditore, sentendosi come un fallito, costretto a servire come maggiordomo i nuovi padroni di casa sua.
Nella Grande Sala Rococò, il lungo tavolo in stile Luigi XV era stato strategicamente apparecchiato in modo tale che Ettore si trovasse esattamente di fronte a Diana, mentre ai due capi, a una certa distanza, sedevano il Conte e la Contessa.
Nessun altro era stato invitato.
<<I vostri fratelli non si uniscono a noi, contessina Diana?>> chiese Ettore, perdendosi nell'intensità degli occhioni neri della donna che amava.
<<Questa è una cena di gala, e i miei fratelli devono ancora fare il loro debutto in società>>
E questo era, tra l'altro, uno dei tanti motivi per cui Diana si stava prestando a quella sceneggiata.
<<Oh, capisco. Ma quanti fratelli siete?>>
Si complimentò con se stesso per essere riuscito a intavolare un discorso con Diana senza aver fatto nessuna figuraccia.
<<Ho un fratello e due sorelle>>
Ettore si rilassò troppo presto.
<<Ah, pensavo foste di più>>
Diana sbiancò.
<<Un fratello e una sorella sono morti>>
Lui si sentì subito sprofondare e perse il controllo.
<<Oh, Cristo santo... spero di essere venuto al funerale!>>
Diana fece del suo meglio per rispondere in maniera garbata:
<<All'epoca la mia famiglia non aveva ancora il piacere di conoscere la vostra, signor Ricci. 
Mio fratello Ludovico morì di meningite a sei anni e mia sorella Annalisa morì di febbre spagnola, nel '19>>
Ettore assunse un'aria affranta e i suoi occhi divennero umidi:
<<Ah, che disgrazia, che perdita per la nostra comunità! Certo che il mondo è proprio bislacco: la spagnola avrebbe potuto portarsi via anche due paia dei miei fratelli, che io ne ho fin troppi!>>
<<Ma cosa dite?>>
<<Be', vedete, non tutti hanno la fortuna di avere fratelli simpatici. Insomma, in ogni famiglia c'è una pecora nera, ma nella mia ce ne sono troppe! Si dice pure: "fratelli coltelli". Ecco, due miei fratelli si stavano per prendere a coltellate, una volta, perché volevano tutti e due la stessa donna>>
Diana, che era una persona di mondo, cercò di inquadrare il tutto in un contesto letterario:
<<Un duello per amore! Del resto, come si dice in questi casi, cherchez la femme>>
Si pentì subito di aver usato una locuzione francese, ma non fece in tempo a tradurla.
<<Ma più che amore era una questione di gnocca. Lo dico francamente, perché i miei fratelli sono delle teste di ca... ehm, di cavolo>>
Diana notò che sua madre aveva già scolato mezza bottiglia del suo inseparabile Cabernet-Sauvignon, mentre suo padre era completamente immerso nel sezionare la sua pietanza.
Cercò di fare un ulteriore sforzo per risollevare le sorti della serata:
<<E le vostre sorelle, spero che almeno loro siano di vostro gradimento>>
Ettore si fece serio:
<<Mia cara contessina, io le rispondo col cuore in mano. Tanto vale essere sinceri, dico io. Perché poi le bugie hanno il naso lungo>> e meccanicamente fissò la Contessa Emilia, il cui naso era inguardabile <<o le gambe corte, come me, ah ah! Ma è meglio che stia zitto, perché è peggio il tacon del buso!>>
Diana stava per scoppiare a ridere, ma riuscì a bloccarsi:
<<Temo di non avere capito>>
Ettore Ricci era diventato viola come la fodera del suo cilindro:
<<Come dice mio padre, non valgono la corda per impiccarle. Eh, sì... è una croce! La vita è fatta così. Lei crede in Dio?>>
Non era un argomento da trattare a tavola.
<<Io ho ricevuto un'educazione religiosa>> rispose lei <<ma ultimamente la mia fede è stata messa a dura prova>>
<<Ah, ma voi siete una santa! Io ci credo in Dio, ai Santi e a tutte quelle balle lì. Solo che, devo essere sincero, mi scoccia andare alla Messa. Oltre tutto la chiesa è stretta, ci sono poche panche. D'inverno fa un freddo cane. E poi come si fa, con tutti quei vecchi scoreggioni...>>
Diana fu colta dalle convulsioni.
Non era epilessia, fortunatamente. Era solo che le risate trattenute troppo a lungo, si erano manifestate all'improvviso, come un singhiozzo.
E in mezzo a quel tripudio di comicità, Diana si rese conto che l'unica consolazione concessale dal destino, era che, nonostante tutto, il suo futuro marito l'avrebbe fatta ridere.

giovedì 2 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 15. Le trame della famiglia Braghiri

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<<E Diana cos'ha detto, dopo che Ettore è andato via?>> chiese Michele Braghiri, il marito della governante, mentre lei gli serviva la cena a base di patate lesse.
<<Ha riso come una matta per due ore. Non l'avevo mai vista così. Poi è andata dai suoi e ha detto: "Siete proprio sicuri di volerlo come genero? Perché lui si insedierà qui a Villa Orsini come un padrone, e a quel punto farà meno ridere". E allora il Conte ha risposto: "Sono disposto a sopportarlo. Del resto, non abbiamo altra scelta". E Diana "C'è sempre un'altra scelta", e lui "Dobbiamo pensare anche alle tue sorelle, a tuo fratello. La famiglia viene prima di tutto. In ogni dubbio, in ogni conflitto interiore, la famiglia deve vincere. Deve sempre vincere">>
Michele Braghiri annuì:
<<Sono d'accordo. La famiglia deve vincere. Anche la nostra famiglia. La nostra fortuna è legata a quel matrimonio. Ettore Ricci mi farà diventare il suo braccio destro, e tu, come governante, avrai al tuo servizio un esercito di domestici. Diventeremo ricchi anche noi e non dovremo più mangiare patate lesse al lume di una lampada ad olio in un seminterrato umido>>
Da quando gli Orsini erano finiti sull'orlo del fallimento, tutto il vecchio personale era stato licenziato e il peso dell'amministrazione (senza però gli onori corrispondenti) era caduto su Michele Braghiri e sua moglie Ida.
Il loro stipendio era basso, anche contando gli "anticipi" della famiglia Ricci.
E siccome tenere aperti gli alloggi della servitù costava troppo, Michele e Ida erano rimasti nella Cameraccia, come tutti chiamavano il seminterrato che dava sull'interno.
<<Mah, era meglio non confondersi con quella gente>> lo rimproverò Ida <<Ettore Ricci mi mette le monete d'argento in tasca come se mi facesse la carità. Non mi piace>>
Michele era un uomo magro, dagli zigomi pronunciati e dalla pelle cotta dal sole.
Guardò la moglie con severità, e i suoi occhi grigi s fissarono su quelli marroni di lei:
<<La boria dei Ricci non piace a nessuno, ma non saremo noi a fare il sacrificio più grande. Sarà Diana Orsini a doverselo portare a letto. Saranno gli Orsini il bersaglio dei suoi scherzi. Noi possiamo anche sopportare che ci metta i soldi in tasca. Siamo venuti dal niente, ma un giorno, io te lo giuro, questa Villa e questo Feudo diventeranno nostri!>>
Ida scosse il capo:
<<Nostri? I Ricci e gli Orsini sono molto più numerosi di noi, e molto più potenti>>
Lui continuò a fissarla, e nei suoi occhi grigi c'era una un luccichio particolare:
<<Per ora... ma se io divento l'amministratore del Feudo, e vengo a conoscenza di tutti i loro segreti, allora vedrai che le cose cambieranno. Ti dico che i nostri figli, o almeno i nostri nipoti, diventeranno i veri Signori di questa casa e di questa terra, e noi lo vedremo, quando saremo vecchi. Perché noi siamo forti. Noi sopravvivremo a tutti loro. Me lo sento. Li seppelliremo uno dopo l'altro>>
Ida intuiva che dietro a quelle parole c'era un disegno criminale, e proprio per questo preferì non chiedere nient'altro.
Aveva imparato che a questo mondo ci sono cose che è meglio non sapere.




N.d.A.
In copertina, il quadro I mangiatori di patate di Vincent Van Gogh

Ora sappiamo chi cavalcherà Viserion

L'immagine può contenere: una o più persone, persone in piedi e spazio all'aperto

Drogon (il nero) è per Daenerys, Rhaegal (il verde) è per Jon e Viserion (il rosso) è per Tyrion, figlio di Joanna Lannister e di Aerys Targaryen.

Situazione della guerra civile in Ucraina a inizio febbraio 2016

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

Il 28 gennaio il governo di Kiev ha dato inizio a un massiccio bombardamento aereo sulla città di Donetsk, causando numerosi morti tra la popolazione civile. E' seguita una vasta offensiva ai confini di Donetsk, a cui ha fatto seguito una controffensiva delle forze secessioniste.
Tutto questo sta avvenendo nel quasi totale silenzio dei media, dal momento che il governo di Kiev è sostenuto dalla Germania e dalla Commissione Europea.

Mappa della guerra (24 febbraio 2015)

mercoledì 1 febbraio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 14. Ettore e Diana: il più catastrofico primo appuntamento della Storia.

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Ettore Ricci si presentò a Villa Orsini, come convenuto, all'ora del tè.
Era vestito in modo eccessivamente elegante e vistoso, come spesso accade ai figli degli arricchiti.
Indossava un abito scuro gessato a tre pezzi, camicia bianca con gemelli, cravatta bianca a righe nere, fiore all'occhiello, sempre bianco, fazzoletto a pochette nel taschino, ancora bianco, orologio d'oro da con catenella legata al panciotto, enorme anello da mafioso al mignolo, cappello bianco con tesa rialzata sul di dietro e a punta sul davanti, scarpe laccate, ghette bianche.
Sembrava Al Capone.
Identico.
Aveva persino un enorme e pestilenziale sigaro acceso in bocca.
Oltre tutto la ricercatezza del vestire strideva con il carattere schietto e i modi ruvidi che contraddistinguevano i membri della famiglia Ricci.
Quando la signora Ida Braghiri, la governante, gli aprì la porta, lui subito tirò fuori qualche moneta e gliela infilò in tasca come se fosse una mancia per i camerieri al ristorante.
Appena fu ammesso nel Salotto Liberty, lo squadrò con lo sguardo dell'acquirente che valuta la convenienza del suo investimento.
I suoi occhi infuocati bramavano di possedere ogni cosa all'interno di quella stanza.
Quando il Conte Achille Orsini gli porse la mano bianca, dalle dita affusolate, Ettore Ricci la stritolò in una morsa d'acciaio.
Poi gli diede una pacca sulla spalla come se si trattasse di un compagno di bevute all'osteria e disse:
<<Come va, vecchio mio?>>
Senza attendere risposta si avvicinò alla Contessa Emilia e le baciò la mano premendo le labbra umide e colando saliva, per poi dichiarare:
<<Cara Contessa Emilia, ma lo sa che lei è proprio una bella donna? No, dico sul serio! Non li dimostra mica i suoi cinquant'anni!>>
Non attese risposta nemmeno questa volta.
Il suo sguardo si appuntò sull'oggetto del desiderio: Diana Orsini Balducci di Casemurate.
E qui si impappinò:
<<Ahhhh.... Contessina... io... io sono sbalordito... sì, sbalordito dalla vostra evenienza... no come si dice... la vostra... la vostra... oh Cristo santo... non mi viene la parola...>>
<<Avvenenza?>> suggerì Diana.
<<Sì, quella lì... mi ero preparato un così bel discorsetto, ma sapete com'è, l'emozione...>>
<<Non si preoccupi, signor Ricci, si accomodi pure>>
Ettore individuò una poltrona che faceva al caso suo e ci si sedette a peso morto, lasciandosi sfuggire un leggero peto. 
Seguì un attimo di silenzio.
Gli Orsini non sapevano cosa dire, cosa fare, dove guardare...
Fortunatamente, a distrarre i presenti dall'imbarazzo, comparve la governante con la teiera.
Ettore Ricci si fece versare una tazza abbondante con latte e tre cucchiaini di zucchero, e poi si avventò sui pasticcini, tenendo comunque acceso il sigaro, e facendo cadere la cenere dappertutto.
Con la bocca piena, tornò a rivolgersi a Diana:
<<Stavo dicendo che siete bellissima. Proprio un bel bocconcino, sì... sì... del resto, come si suol dire, tale madre, tale figlia, eh? Dico bene? Dico giusto? Ah ah>> e strizzò l'occhio alla Contessa Emilia, che si era versata di nascosto un primo calice di Cabernet-Sauvignon.
Diana lo osservava come si farebbe con uno strano animale selvatico.
<<Signor Ricci, la vostra gentilezza mi lascia senza parole>>
Lui sorbì il tè in maniera rumorosa e poi, con la bocca impastata, bofonchiò:
<<Ah, non importa, mia cara, ci sono io che parlo per due, anche per tre! Per esempio, lo sa perché i miei mi hanno chiamato Ettore?>>
<<Perché era uno degli eroi dell'Iliade>>
<<No, noi non siamo parenti con l'Iride, è una Ricci povera che non conta un... insomma, niente... mi hanno chiamato Ettore come il mio povero zio che è morto sparato>>
<<Gli hanno sparato, e perché?>>
<<Ah, cosa vuole, è sempre così, una questione di gnocca... solo che era la gnocca sbagliata e i suoi fratelli lo hanno sparato>>
E addentò un altro pasticcino, sempre tenendo il sigaro acceso.
<<Forse sareste più comodo se appoggiaste il sigaro sul portacenere, mentre mangiate>>
Lui aggrottò le sopracciglia irsute e osservò il sigaro, a bocca aperta:
<<Oh, non preoccupatevi, mia bella Diana, io sono un presti... prestidi... un pres... oh, cacchio! Oggi non mi vengono le parole!>>
Diana non riuscì a trattenersi dal ridere:
<<Prestigiatore?>>
Lui si illuminò:
<<Proprio quello! Eh, si vede subito che noi due ci intendiamo alla perfezione!>>
Diana non riusciva a smettere di ridere.
Non ricordava di aver mai visto niente di più ridicolo in vita sua.
<<Perdonatemi se rido, signor Ricci, ma la vostra verve è davvero singolare>>
Anche lui incominciò a ridere, con la bocca piena di pasticcini, sputacchiando a destra e a manca.
<<Ah ah, con me ci si diverte! Sicuro come la merd... ehm, come l'oro, volevo dire.
Ma voi, signor Conte, perché fate quella faccia da funerale, siete pallido come un morto! 
E voi, Signora Contessa, date da bere un po' di quel vinello a vostro marito! Perché come si dice a casa mia: "vinassa vinassa e fiaschi de vin"... dico bene?>>
La Contessa Emilia, il cui alcolismo era uno dei tabù più impronunciabili a Villa Orsini, si sentì come quando viene nominata la corda in casa dell'impiccato.
Diana non ricordava di aver mai riso tanto in vita sua:
<<E' un Cabernet-Sauvignon del 1862, un'ottima annata>>
<<Socc'mel! Però io preferisco la Cagnina>>
Ci fu un attimo di assoluto silenzio.
Poi Ettore ruttò.
Diana si piegò in due in dal ridere.
Lui si rese conto di aver esagerato, ma il rimedio fu peggiore del male:
<<Oh, oh, pardon! Cara mia, ma io dico che un vero uomo si deve comportare da uomo, eh! 
Io non mi fiderei di quei damerini con la puzza sotto al naso. L'uomo deve avere la puzza sotto le ascelle, un onesto lavoratore, dico bene?>>
Diana colse l'occasione per lanciare una stilettata:
<<E voi che lavoro fate, signor Ricci?>>
Ettore rimase a bocca aperta per un po', tanto che i Conti Orsini temettero che avrebbe eruttato una seconda volta, ma non fu così.
<<Mah, grosso modo... gli affari di famiglia... non ho mica paura di sporcarmi le mani, sa?
Se c'è da ammazzare il porco, io non mi tiro mica indietro. Perché poi, non bisogna mica dar retta a quel che dice la gente. Ho fatto anch'io la mia gavetta, sa... da bambino, quando mio padre non era ancora ricco sfondo, io tutte le mattine andavo nella stalla a munger le vacche! 
A spalare la mer... eh, volevo dire il letame. Perché poi il letame non puzza mica come la pollina... voglio dire, puzza di meno...>>
La governante scosse la testa e gli fece cenno di star zitto.
Lui cercò di darsi un contegno:
<<Chiedo scusa, a volte mi lascio trasportare dall'entusiasmo. Il fatto è che, di fronte a una bellezza come la contessina Diana, io perdo il controllo, porco Giuda! Lo capite anche voi, insomma, è una croce!>>
Diana non era sicura di aver capito:
<<Una?>>
Lui si fece serio e sbottò:
<<Una croce!>> Poi si commosse <<Sì, mia bella Diana, io da quando vi ho vista per la prima volta, sono diventato come un brodo di giuggiole. 
Lo capite anche voi... vedete come sono ridotto, porco cane... non mangio più, non dormo più, non trombo più... 
Io, io... Contessina, lasciate che vi esprima i miei sentimenti con una canzone... sapete, ho una certa dote di cantante, in osteria me lo riconoscono tutti... io vi faccio la mia dichiarazione con una canzonetta che ho sentito alla radio>> poi si portò la mano al cuore e intonò <<"Tuuuuuuuuu che m'hai preso il coooooooooor">>
E a quel punto partì il secondo rutto.
Diana incominciò a ridere in maniera quasi isterica.
La Contessa Emilia fissava il pavimento.
Il Conte Achille era immobile, una statua di sale.
La governante fece cenno a Ricci, toccandosi l'orologio.
Lui capì:
<<Oh, ma ridendo e scherzando si è fatto tardi>>
Nessuno replicò.
Lui si alzò, si stiracchiò, riprese in mano quel che restava del sigaro, si scrollò le briciole di dosso, fece un mezzo inchino
<<Be', ci vediamo domani alla solita ora! E buonanotte ai suonatori!>>
Con questa frase memorabile lasciò il Salotto Liberty.
Prima di uscire, tirò fuori alcune monete d'argento e le infilò nella tasca della governante, insistendo, con aria da benefattore.

martedì 31 gennaio 2017

Vite quasi parallele. Capitolo 13. Una vita per un'altra vita.

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Pochi giorni dopo la nascita del primogenito di Romano Monterovere ed Elisa Lanni, nell'ottobre 1938, le condizioni di salute della madre di Elisa si aggravarono.
La signora Giulia Lanni soffriva infatti di un'insufficienza cardiaca, dovuta alla calcificazione delle valvole, e all'epoca non vi erano possibilità di guarigione, poiché la chirurgia non aveva ancora sviluppato la tecnica del trapianto valvolare.
Elisa sapeva che a sua madre restavano solo pochi giorni di vita, per cui si fece dimettere dal reparto di maternità il prima possibile e poi, insieme al bambino, a cui era stato dato il nome di Francesco, si recò nel reparto di cardiologia, per mostrare alla madre il nipote appena nato.
La signora Giulia faceva fatica a respirare, poiché l'insufficienza cardiaca impediva al sangue di arrivare normalmente ai polmoni, i quali incominciavano a riempirsi d'acqua.
La morte, in quei casi, sopravveniva per enfisema, e quindi per asfissia.
Nonostante la debolezza, Giulia volle, almeno per pochi istanti, tenere il braccio il bambino.
Poi, con grande fatica, a voce bassa e roca, disse:
<<Una vita incomincia e una vita finisce. Forse quando questo bambino sarà grande, il mondo sarà un posto migliore, e ci sarà un grande progresso, e si potranno curare le malattie come la mia. Io dono la mia vita a questo nipotino nella speranza che la sua vita sia migliore di quella di tutti noi. Una vita per un'altra vita>>
Queste furono le sue ultime parole, perché poi entrò in un sonno profondo, e gli unici suoni che emise furono i terribili rantoli della morte, di cui soltanto chi ha accudito un moribondo può riconoscere la gravità.
Elisa non poteva sapere che un giorno anche lei, prematuramente, sarebbe andata incontro alla stessa sorte di sua madre, per la stessa malattia.
Né poteva sapere che si trattava di una malattia ereditaria, che si trasmetteva con elevata probabilità dai genitori ai figli.
Non sapeva che anche il figlio che teneva in braccio, un giorno, si sarebbe ammalato allo stesso modo, ma a differenza della madre e della nonna, si sarebbe salvato, perché c'erano le cure e gli interventi chirurgici per rimettere in sesto il cuore e i polmoni.
Una vita per un'altra vita.
Elisa ripensò spesso alle parole di sua madre.
Le ponderò con attenzione nella sua mente, meditando sul destino e sulla fragilità della condizione umana.
Meditò sul sacrificio e sul dono, ma non se ne rallegrò, perché sapeva che, almeno in parte, erano presagi di morte e di sventura.
Sentiva che un destino particolare era stato deciso per il suo primogenito, un destino molto diverso rispetto a quello degli altri figli che sarebbero nati in seguito.
La vita di Francesco era destinata a intrecciarsi con quella di altre persone segnate da una sorte difficile e nel contempo straordinaria.
Diversa e più ordinaria sarebbe stata la sorte degli altri due figli di Romano Monterovere ed Elisa Lanni, e cioè Renata e Lorenzo.
Ordinaria non significa necessariamente mediocre, anzi, entrambi fecero strada in contesti importanti.
Ma l'avventura, il romanzesco, l'elemento perturbante, degno di una narrazione speciale... tutto questo fu riservato a Francesco, perché era stato in un certo senso elevato da un dono d'amore, pronunciato su un letto di morte.
E a questo dono si mescolavano insieme le leggende di un'eredità ancestrale: il bisnonno Ferdinando disarcionato all'Orma del Diavolo, l'apparizione degli elfi dei boschi, le peregrinazioni del nonno Enrico, la sabbia del deserto portata dal padre Romano, dopo la guerra d'Africa, con gli occhi ancora pieni del blu dell'Oceano Indiano e del Golfo di Aden.
Verso dove faceva rotta una simile Odissea?
Qual era la Terra Promessa verso cui si dirigeva la nuova generazione della famiglia Monterovere?
Non molto lontano nello spazio, ma lontanissimo nella concezione della vita e del mondo.
Il romanzo era appena iniziato e già si presagivano miracoli.

Il Vittoriale di D'Annunzio: tutti gli interni e gli esterni



Il Vittoriale degli Italiani è un complesso di edifici, vie, piazze, un teatro all'aperto, giardini e corsi d'acqua eretto tra il 1921 e il 1938, costruito a Gardone Riviera sulla sponda bresciana del lago di Garda da Gabriele d'Annunzio con l'aiuto dell'architetto Giancarlo Maroni, a memoria della "vita inimitabile" del poeta-soldato e delle imprese degli italiani durante la Prima guerra mondiale. Spesso, per sineddoche, tale nome è riferito soltanto alla casa di d'Annunzio, situata all'interno del complesso.
Il Vittoriale oggi è una fondazione aperta al pubblico e visitata ogni anno da circa 210.000 persone[1].
«Ho trovato qui sul Garda una vecchia villa appartenuta al defunto dottor Thode. È piena di bei libri... Il giardino è dolce, con le sue pergole e le sue terrazze in declivio. E la luce calda mi fa sospirare verso quella di Roma. Rimarrò qui qualche mese, per licenziare finalmente il Notturno» scrive d'Annunzio alla moglie Maria in una lettera del febbraio del 1921, cioè pochi giorni dopo il suo arrivo a Gardone; nelle intenzioni del poeta il soggiorno gardesano doveva durare dunque solo poche settimane per completare la stesura del suo ultimo romanzo, mentre oggi si sa che quella gardonese sarebbe diventata la sua ultima e definitiva dimora.

Il complesso monumentale


Vittoriale degli Italiani, L'ingresso a doppio arco
Il Vittoriale si estende per circa nove ettari sulle colline di Gardone Riviera in posizione panoramica, dominante il lago. Accoglie il visitatore l'ingresso monumentale costituito da una coppia di archi al cui centro è collocata una fontana che reca in lettere bronzee un passo del Libro segreto, ultima opera scritta da Gabriele d'Annunzio : «Dentro da questa triplice cerchia di mura, ove tradotto è già in pietre vive quel libro religioso ch'io mi pensai preposto ai riti della patria e dei vincitori latini chiamato Il Vittoriale». A sormontare la fontana una coppia di cornucopie e un timpano con il famoso motto dannunziano Io ho quel che ho donato. Dalle arcate d'ingresso si snoda un duplice percorso: il primo in leggera salita conduce alla Prioria, la casa-museo di Gabriele d'Annunzio, e salendo ancora alla nave militare Puglia e al Mausoleo degli Eroi con la tomba del poeta; il secondo porta verso i giardini, l'Arengo, e, attraverso una serie di terrazze degradanti verso il lago, si giunge alla limonaia e al frutteto.

Vittoriale degli Italiani, il teatro all'aperto
Superato l'ingresso e presa la via verso la Prioria si incontrano il Pilo del Piave con la scultura della Vittoria incatenata dello scultore Arrigo Minerbi, il Pilo del Dare in brocca cioè colpire nel segno, imbroccare. Sulla sinistra l'anfiteatro progettato da Maroni fra il 1931 e il 1938 ma ultimato soltanto nel 1953. Ispirato ai teatri della classicità, e in particolar modo a quello di Pompei dove Maroni venne mandato in missione insieme allo scultore Renato Brozzi, gode di uno strabiliante panorama sul lago avendo come naturale scenografia il Monte Baldo, l'isola del Garda, la rocca di Manerba nella quale al poeta tedesco Goethe parve di ravvisare il profilo di Dante e la penisola di Sirmione. È sede ogni estate di una prestigiosa stagione di spettacoli che negli anni ha portato a calcare il palco i più grandi attori italiani, étoiles del mondo della danza come Carla Fracci ed Eleonora Abbagnato, star della musica internazionale come Lou ReedMichael Bolton e Patti Smith.

Vittoriale degli Italiani. L'Isotta Fraschini Tipo 8B Cabriolet, denominata dal Poeta "Traù"
Salendo ancora si giunge alla Piazzetta Dalmata che prende il nome dal pilo sovrastato dalla Vergine di Dalmazia. Su questo spazio si affacciano la Prioria, la casa-museo di Gabriele d'Annunzio, lo Schifamondo, le torri degli Archivi e il tempietto della Vittoria con una copia bronzea della celebre Vittoria alata di Brescia di epoca classica. Sul lato destro è possibile ammirare due delle ultime automobili possedute da d'Annunzio nel corso della sua vita: la Fiat T4, con la quale fece il suo ingresso a Fiume il 12 settembre 1919, e l'Isotta Fraschini.

La Prioria

La casa, precedentemente di proprietà del critico d'arte tedesco Henry Thode, è denominata dal poeta Prioria ovvero casa del priore, secondo una simbologia conventuale che si ritrova in molte parti del Vittoriale. L'antica facciata settecentesca della casa colonica viene trasformata e arricchita dal Maroni, tra 1923 e il 1927, con l'inserimento di antichi stemmi e lapidi che richiamano alla memoria la facciata del Palazzo Pretorio di Arezzo. Al centro della facciata un araldico levriere illustra il motto dannunziano Né più fermo né più fedele. Il pronao d'ingresso, in stile Novecento, è decorato con due Vittorie attribuite a Jacopo Sansovino, mentre sul battente della porta, sopra una bronzea Vittoria crocifissa di Guido Marussig, si legge il motto Clausura, fin che s'apra - Silentium, fin che parli.

Ingresso


Ingresso al Vittoriale degli Italiani, olio su tavola, pittore Augusto Lozzia (anno 1938)
Comincia qui un percorso iniziatico fra presenze simboliche che rammentano il valore sacrale della casa: il cancello dorato, i sette scalini, gli stalli di un coro seicentesco alle pareti, un pastorale e un'acquasantiera, la colonnina francescana in pietra d'Assisi sormontata da un canestro in cemento con melograni, frutto che d'Annunzio ha eletto a emblema di sé, in quanto simbolo di abbondanza e fertilità. Due porte, sormontate da due lunette del pittore salodiano Angelo Landi e raffiguranti santa Chiara e san Francesco d'Assisi conducono a due differenti anticamere, una riservata alle visite ufficiali e una per gli amici del poeta.



Sala del Mappamondo

Risultati immagini per stanza del mascheraio

È la biblioteca principale della casa. Qui sono collocati i circa seimila libri d'arte già appartenuti al critico d'arte tedesco Henri Thode sul totale dei 33.000 complessivi raccolti da d'Annunzio nel corso della sua esistenza. Il nome della stanza deriva dalla grande sfera geografica settecentesca che troneggia sopra un tavolo. Nella nicchia al centro della sala la xilografica di Adolfo De Carolis raffigurante il Dantes Adriaticus; poco oltre la maschera funeraria di Napoleone Bonaparte e alcuni oggetti realmente appartenuti al condottiero francese durante il periodo di esilio trascorso a Sant'Elena. Sul lato opposto gessi che riproducono il busto di Michelangelo e, nella nicchia sopra il divanetto, il celebre tondo Pitti di Michelangelo Buonarroti il cui originale è conservato al Museo nazionale del Bargello di Firenze. Tra le due finestre un organo americano al quale solitamente sedeva Luisa Baccara, giovane pianista veneziana ma soprattutto compagna ufficiale di d'Annunzio a Fiume e per tutto il periodo del Vittoriale.

Stanza del Mascheraio


Immagine correlata

La stanza è così denominata dai versi sopra lo specchio del camino, composti in occasione della visita di Mussolini al Vittoriale nel maggio del 1925: Al visitatore / Teco porti lo specchio di Narciso? / Questo è piombato vetro, o mascheraio. / Aggiusta le tue maschere al tuo viso / ma pensa che sei vetro contro acciaio.
Questa anticamera fungeva da sala d'attesa per le visite ufficiali. Al suo interno sono collocati circa novecento volumi, fra cui anche spartiti musicali e una ricca collezione di dischi, una radio e un grammofono. Da segnalare il lampadario in vetro di Murano raffigurante quattro cornucopie, il cavallo in bronzo di Dario Elting presentato all'Esposizione di Arti Decorative a Parigi nel 1925 (Esposizione internazionale di arti decorative e industriali moderne), le sedie con lo schienale a lira di Giancarlo Maroni e alcuni vasi faentini in stile déco di Pietro Melandri. Si dice che lo stesso Gabriele abbia fatto attendere due ore a Mussolini in quella stanza

Stanza della Musica


Risultati immagini per vittoriale stanza della musica

Inizialmente intitolata a Gasparo da Salò, ritenuto l'inventore del moderno violino, è una grande sala destinata ai concerti da camera. Qui in particolari occasioni suonava il Quartetto del Vittoriale. Per favorire l'acustica e il raccoglimento le pareti sono rivestite da preziosi damaschi neri e argento della ditta Ferrari di Milano raffiguranti bestie feroci e sostenuti da fermacorde a forma di lira: è un rimando al mito di Orfeo che con la musica riesce ad ammansire le fiere. Le vetrate gialle a imitazione dell'alabastro, di Pietro Chiesa, ricordano quelle già descritte nelle prime pagine del romanzo Il Piacere. Nella sala sono conservati due pianoforti e altri strumenti musicali: un clarino, uno zufolo e un arciliuto. Sulle pareti si trovano alcuni dipinti della collezione Thode fra i quali un ritratto di Cosima Liszt Wagner, opera di Franz von Lenbach, e le maschere funerarie di Ludwig van Beethoven e di Franz Liszt. L'arredamento accosta tra loro oggetti déco e statuette orientali, colonne romane sormontate da zucche policrome luminose e cesti di frutti in vetro di Murano di Napoleone Martinuzzi, calchi in gesso di sculture greche, pelli di serpenti come quella di pitone fissata al soffitto. Il gusto eclettico di d'Annunzio che mescola oggetti di diversa provenienza ed epoca trova qui la sua prima e immediata manifestazione.

Zambracca


Vittoriale, Prioria Zambracca
Il nome è derivato da un antico vocabolo provenzale che significa donna da camera. Anticamera alla stanza da letto e guardaroba, negli armadi e nei cassettoni ancora oggi vi è la biancheria del poeta, in questa stanza d'Annunzio sbrigava le ultime faccende della giornata e qui, seduto al tavolo, fu trovato morto la sera del 1º marzo 1938. Alle spalle della scrivania la fornita farmacia del poeta, sull'armadio riproduzioni in gesso dei cavalli fidiaci del Partenone. Sulla scrivania il completo da scrittoio firmato da Mario Buccellati, orafo del Vittoriale e soprannominato dal Poeta Mastro Paragon Coppella, la testa d'aquila in argento di Renato Brozzi, la testa dell'Aurora di Michelangelo.

Stanza della Leda

Era la camera da letto del Poeta e prende il nome da un grande gesso posto sul caminetto raffigurante Leda amata da Giove trasformatosi in cigno. Sulla porta si legge il motto Genio et voluptati, al genio e al piacere, e dall'altro lato è appesa una piastrella proveniente dal Palazzo Ducale di Mantova con il motto Per un dixir, per un solo desiderio. Sul soffitto, decorato da Guido Marussig, sono riportati i famosi versi della canzone dantesca Tre donne intorno al cor mi son venute... Anche qui l'assortimento di oggetti è straordinario: dagli elefanti in maiolica cinese ai piatti arabo-persiani, dai bronzi cinesi alle maioliche azzurre e ai mobili in stile orientale. Notevoli il copriletto in seta ricamata persiana con animali selvaggi, dono a d'Annunzio della moglie Maria Hardouin di Gallese, un dipinto di Mario de Maria, il Ritratto di Dogaressa di Astolfo de Maria e il calco monumentale del Prigione morente di Michelangelo, i cui fianchi d'Annunzio cinge con un drappo a nascondere le gambe ritenute troppo corte rispetto al busto.

Veranda dell'Apollino


Vittoriale, Prioria Veranda dell'Apollino
Il piccolo ambiente fu aggiunto da Maroni alla struttura originaria della villa per schermare la luce diretta del sole nella stanza della Leda e fungeva da saletta di lettura suggestivamente affacciata sui giardini del Vittoriale digradanti verso il lago. Il nome del vano deriva dal gesso di un kouros arcaico decorato dal Poeta con occhi azzurri, un prezioso perizoma e un fascio di spighe dorate, simbolo di abbondanza; la stanza è decorata da riproduzioni di ritratti famosi della pittura italiana del Rinascimento, animali in porcellana Lenci e Rosenthal, tappeti e vasi persiani. Su un tavolino le fotografie della madre e di Eleonora Duse.

Bagno Blu

Nel bagno, suddiviso alla francese in sala da toilette e ritirata, sono collocati oltre 600 oggetti i cui toni dominanti sono il blu e il verde. Per la ristrutturazione Maroni si avvalse della consulenza di Gio Ponti. Sul soffitto si legge il motto, da PindaroOttima è l'acqua, e alle pareti, oltre alle riproduzioni degli Ignudi della Cappella Sistina di Michelangelo, troviamo a fianco della vasca da bagno una ricchissima collezione di piastrelle di ceramica da parete di produzione persiana, alcune delle quali risalenti anche ai secoli XVII e XVIII. Sul tavolo oggetti da toeletta di Buccellati in argento e pietre, vetri muranesi, collezioni di pugnali e spade. La ritirata contiene tre maschere lignee del teatro giapponese del secolo XVIII e una figurina femminile di porcellana Rosenthal del 1927. La vetrata con i coloratissimi alcioni è opera di Pietro Chiesa.

Stanza del Lebbroso

Questa stanza, chiamata anche Zambra del Misello o Cella dei Puri Sogni, fu concepita da d'Annunzio come luogo di meditazione ove ritirarsi negli anniversari fatidici della sua vita. Alle pareti pelli di daino e sul soffitto nei cassettoni dorati i simboli del martirio di Cristo inframmezzati da figure eteree di sante - Caterina da Siena, Giuditta di Polonia, Elisabetta d'Ungheria, Odilla d'Alsazia e Sibilla di Fiandra - dipinte da Guido Cadorin e che il poeta disse che gli apparvero in sogno per invitarlo ad abbandonare i piaceri del mondo. Su un podio rialzato la statua lignea di San Sebastiano di scuola marchigiana e il letto chiamato dal poeta delle due età perché simile a una bara e al tempo stesso a una culla. Nel quadro in fondo alla parete è raffigurato invece San Francesco nell'atto di abbracciare un lebbroso che altri non è che lo stesso d'Annunzio. Di Cadorin è anche il dipinto sulla parete di fondo raffigurante Gesù Cristo nell'atto di benedire la Maddalena. Su un tavolino i ritratti fotografici della sorella Elvira, della madre Luisa e di Eleonora Duse, insieme con la splendida Coppa delle Vestali in vetro smaltato di Vittorio Zecchin. Fra tutte le stanze del Vittoriale quella del Lebbroso è forse la più densa di simboli la cui fonte principale sembra essere invece la Storia di San Francesco d'Assisi di Chavin de Malan tradotta da Cesare Guasti, pubblicata a Prato nel 1879.[2] In questa stanza, per la veglia privata, venne esposta la salma del poeta nella notte fra l'1 e il 2 marzo 1938.

Corridoio della Via Crucis

Prende questo nome dalle formelle in rame smaltato che rappresentano le quattordici stazioni della Via crucis, opera di Giuseppe Guidi. Le pareti sono rivestite con tessuti “vaiati” di Lisio e Ferrari di Milano, recanti il motto "Pax et bonum - malum et pax". All'angolo il calco del frate piangente del sepolcro di Philippe Pot conservato al Museo del Louvre. Dalle finestre si possono vedere il Cortile degli Schiavoni, con lo stemma di Monte Nevoso e il Portico del Parente.

Sala delle Reliquie


Vittoriale, Prioria Sala delle Reliquie
È la stanza dove d'Annunzio raccoglie immagini e simboli delle diverse fedi: una piramide di divinità e idoli orientali sormontata da una teoria di santi e martiri della religione cristiana in una sorta di sincretismo religioso affermato anche a lettere d'oro sulla trabeazione che corre lungo le pareti: Tutti gli idoli adombrano il Dio vivo / Tutte le fedi attestan l'uomo eterno.
Ma reliquia, intesa come simbolo sacro, è anche il volante spezzato – significativamente collocato dinnanzi ad un tabernacolo – del motoscafo di sir Henry Segrave, morto nel 1930 durante un tentativo di superare un record di velocità nelle acque del lago Windermere in Inghilterra. Per d'Annunzio quel volante rappresenta quella che lui definisce la "Religione del rischio", il tentativo cioè dell'uomo di superare i vincoli impostigli dalla natura. Sul soffitto il rosso gonfalone con le sette stelle dell'Orsa Maggiore della “Reggenza del Carnaro”, lo stato rivoluzionario che il poeta aveva fondato a Fiume. Alle pareti troviamo il bassorilievo del leone di San Marco donato a d'Annunzio dalla città di Genova in occasione del discorso interventista del 5 maggio 1915 e quello dipinto da Marussig che era collocato nello studio di d'Annunzio a Fiume e che venne colpito da una granata durante il cosiddetto "Natale di sangue". Le pareti sono rivestite da cortinaggi con disegni a melagrana di Mariano Fortuny e da un grande arazzo di soggetto biblico appeso alla travatura che reca il motto Cinque le dita, cinque le peccata: dai sette peccati capitali d'Annunzio escludeva lussuria e avarizia.

Stanza del Giglio

È uno studiolo contenente circa tremila volumi di storia e letteratura italiana decorato dal Marussig con pannelli raffiguranti steli di giglio, forse con riferimento al progettato ciclo dei Romanzi del Giglio, di cui il poeta scrisse solamente il primo volume, Le Vergini delle rocce. L'ambiente è caratterizzato da un piccolo armonium e da due nicchie-confessionali decorate da una preziosa raccolta di vasi da farmacia dei secoli XVI e XVII.

Oratorio Dalmata


Vittoriale, Prioria Oratorio Dalmata
Era la sala d'aspetto riservata agli amici ammessi all'interno della Prioria ed è caratterizzata da stalli cinquecenteschi sui quali sono indicati i posti del priore, del vice priore, del cancelliere. Presso il camino, una colonnetta romanica sorregge un leone proveniente dalla città dalmata di Arbe. Sulle pareti immagini religiose della più varia provenienza e un grande dipinto raffigurante Giobbe, attribuito alla scuola del Ribera. Al centro della stanza è invece raccolta una serie di oggetti liturgici - navicelle, turiboli, aspersori – con forte valore simbolico, mentre al centro del soffitto, ulteriore reliquia, è appesa l'elica dell'idrovolante con il quale nel 1925 Francesco De Pinedo compì il volo a tappe di 55.000 chilometri da Sesto Calende a Melbourne e Tokio.

Scrittoio del Monco

Il nome deriva dalla scultura di una mano sinistra tagliata e scuoiata collocata sull'architrave della porta con il motto Recisa quiescit, tagliata riposa. Era la saletta adibita al disbrigo della corrispondenza: d'Annunzio, non potendo o non volendo rispondere a tutti, ironicamente si dichiarava monco e dunque impossibilitato a scrivere. Gli armadi sono gli unici mobili del Vittoriale provenienti dalla Capponcina, la famosa villa presso Firenze abitata dal Poeta dal 1898 al 1910. Sull'architrave degli scaffali quattro sentenze di Leonardo da Vinci: E chi non ha sepoltura è coperto dal cieloAcciocché tu più cose possa più ne sostieniSe tu vuoi che la tua casa ti paia grandissima, pensa del sepolcroNiuna casa è si piccola che non la faccia grande uno magnifico abitatore. Sul soffitto, un motivo di mani stilizzate con i motti spagnoli “Tuerto y derecho” e “Todo es nada”. Fra gli oggetti vi è il vaso Libellula, realizzato a Murano su disegno di Vittorio Zecchin intorno al 1914-1915.

Officina


Vittoriale, Prioria L'Officina
È l'unica stanza della Prioria nella quale entra liberamente la luce naturale del giorno ed è l'unica arredata con mobili di rovere chiaro semplici e funzionali. Era lo studio di d'Annunzio, al quale si accede salendo tre alti scalini e passando sotto un basso architrave che costringe chi entra a chinarsi. L'architrave è sormontato dal verso virgiliano hoc opus hic labor est (qui sta l'impresa e la fatica) con cui nell'Eneide si ammonisce Enea che si accinge a scendere nell'Ade di quanto sia facile l'accesso agli inferi ma riuscire a ritornare nel mondo dei vivi sia appunto la vera difficile impresa. In effetti dopo la penombra che caratterizza il resto della prioria la luminosità di questa stanza fa al visitatore l'effetto di una risalita dal buio verso la luce. Leggii, scaffali inclinati e teche girevoli circondano il tavolo e lo scanno senza schienale su cui d'Annunzio scrive; a portata di mano stanno le opere di consultazione frequente, a cominciare dai vocabolari e dai repertori di cui l'autore si è sempre servito.
Su una delle due scrivanie spicca il busto velato di Eleonora Duse, opera dello scultore ferrarese Arrigo Minerbi. La grande attrice scomparsa nel 1924, fu per d'Annunzio compagna e musa ispiratrice; un foulard di seta ricopre il volto della donna, “testimone velata” del suo impegno ininterrotto di scrittore. Ma ad arredare la scena della scrittura sono altresì i calchi della Nike di Samotracia e delle metope equestri del Partenone, le immagini fotografiche della Cappella Sistina. Qui d'Annunzio lavorava anche per sedici ore consecutive e qui, dopo aver ultimato il Notturno compose il Libro segreto, ultima sua opera.

Vittoriale, Prioria Sala della Cheli

Corridoio del Labirinto

Il nome deriva dall'emblema del Labirinto, che si ripete sulle porte e le rilegature dei libri, ricavato da quello celebre del Palazzo Ducale di Mantova; dal motto dello stesso Labirinto, d'Annunzio aveva tratto nel 1910 il titolo del romanzo Forse che sì forse che no.

Sala della Cheli

Ultimata nel 1929, l'unica sala non triste della casa come d'Annunzio ebbe modo di dire al Maroni, la stanza deriva il suo nome da una grande tartaruga in bronzo opera di Renato Brozzi, ricavata dal carapace di una vera tartaruga donata a d'Annunzio dalla Marchesa Luisa Casati e morta nei giardini del Vittoriale per indigestione di tuberose: la sua presenza vale un monito contro l'ingordigia. Era la sala da pranzo per gli ospiti: negli ultimi anni della sua vita d'Annunzio preferiva pranzare solo nella Zambracca. I vividi colori azzurro e oro, la lacca rosso fuoco o nera, le vetrate a imitazione dell'alabastro ne fanno l'ambiente più compiutamente déco della casa e lo avvicinano a certe soluzioni dei saloni dei contemporanei transatlantici da crociera. Fra gli oggetti il gruppo bronzeo del Fauno e della Ninfa di Le Faguays, i bellissimi piatti in argento incisi da Renato Brozzi con motti dannunziani, i pavoni segnaposto in argento e pietre dure e, nella nicchia sulla destra, entrando, il calco dell'Antinoo Farnese, il giovinetto amato dall'imperatore Adriano.

Schifamondo


L'Ansaldo S.V.A. del volo su Vienna.
Schifamondo è l'edificio destinato a diventare la nuova residenza del poeta, ma che non era ancora ultimato al momento della sua morte (1º marzo 1938). Il nome, ispirato da un passo di Guittone d'Arezzo e dalla residenza rinascimentale di palazzo Schifanoia degli Estensi di Ferrara, manifesta il desiderio di isolamento del poeta. L'edificio venne concepito dall'architetto Giancarlo Maroni come l'interno di un transatlantico: finestre come oblò, vetrate alabastrine, ambienti rivestiti in boiserie di legno, corridoi alti e stretti e uno studio del tutto simile al ponte di comando di una nave, con decorazioni déco. Oggi ospita il Museo d'Annunzio Eroe. In quella che doveva diventare la sua nuova stanza da letto, venne esposto il corpo del poeta per la veglia pubblica nei giorni immediatamente successivi alla sua morte.
Schifamondo comprende anche l'auditorium con una platea per duecento persone, utilizzato anche per convegni e manifestazioni; alla cupola è appeso l'aereo Ansaldo S.V.A. del celebre volo su Vienna. Negli spazi dell'auditorium è possibile vedere due piccole mostre fotografiche sulla vita di Gabriele d'Annunzio, sulla costruzione del Vittoriale e l'Omaggio a d'Annunzio, una mostra di artisti contemporanei che a d'Annunzio si sono ispirati: fra questi Giorgio De Chirico e Mario Pompei con i bozzetti per i costumi rispettivamente della Figlia di Iorio e di Parisina, Jonathan Meese, Luigi Ontani.

Museo d'Annunzio Eroe


Museo d'Annunzio Eroe. Ritratto di Gabriele d'Annunzio di Enrico Marchiani.
D'Annunzio, dopo aver arredato la Prioria, pensò di realizzare un museo che celebrasse l'eroismo suo e le imprese del popolo italiano nella guerra del 1915-1918. La morte del poeta sopraggiunse prima che vedesse iniziata questa nuova opera, anche se l'aereo SVA che troneggia appeso al soffitto dell'Auditorium ne rimane evidente testimonianza. Questo suo desiderio tuttavia è stato realizzato nel 2000 quando gli spazi di Schifamondo, sono stati aperti al pubblico valorizzando così il ricco e prezioso patrimonio storico legato all'esperienza militare di Gabriele d'Annunzio e alle grandi imprese che lo videro protagonista: il Volo su Vienna, la Beffa di Buccari, l'impresa delle bocche di Cattaro e la grande epopea fiumana.
Fra gli oggetti più significativi visibili nelle grandi sale arredate secondo il gusto déco dell'epoca, il medagliere personale di d'Annunzio con la medaglia d'oro al Valor Militare, quattro d'argento ed una in bronzo; le divise da Lanciere di Novara, da Bersagliere, da Ardito e da Generale dell'Aeronautica; le tenute complete utilizzate per il volo su Vienna e nella Beffa di Buccari; le bandiere fra cui quella nella quale si avvolse il corpo di Giovanni Randaccio, il Gonfalone della Reggenza italiana del Carnaro, il motore dell'aereo del volo su Vienna.
Nel luglio 2011 il Museo della Guerra ha cambiato titolatura in museo d'Annunzio Eroe e si è arricchito di due nuove sale che ospitano settantaquattro oggetti, fra armi, bandiere e autografi, della Collezione dannunziana dell'Ambasciatore Antonio Benedetto Spada. Fra questi una daga d'onore in avorio e acciaio, un versatoio in argento dorato con simbologie fiumane, un teschio in cristallo di rocca, il messaggio lasciato nella Baia di Buccari nella notte fra il 10 e l'11 febbraio 1918, il manoscritto autografo de La notte di Caprera. Nell'allestimento non si sono volutamente adottate tecnologie espositive moderne ma si è realizzato un museo che rispecchiasse nel suo complesso l'atmosfera della Prioria e continuasse lo spirito e l'essenza della casa così come d'Annunzio e Maroni l'avevano voluta e realizzata.

Il Parco


La tomba di Gabriele d'Annunzio nel parco del Vittoriale
Dalla piazzetta Dalmata si sale al Parco attraverso il viale di Aligi che prende il nome dal personaggio dell'opera teatrale "La figlia di Iorio"; nel 1927 questa tragedia fu messa in scena proprio nel Parco del Vittoriale.
La sommità del Vittoriale è occupata dal Mausoleo, monumento funebre realizzato dal Maroni dopo la morte di d'Annunzio. Il monumento è ispirato ai tumuli funerari di tradizione etrusco-romana ed è costituito da tre gironi in marmo botticino a rappresentare le vittorie degli Umili, degli Artieri e degli Eroi. Al centro della spianata superiore è collocata la sepoltura di d'Annunzio e intorno le arche di nove fra eroi e legionari fiumani cari al poeta fra cui Guido Keller, Giuseppe Piffer, Ernesto Cabruna, Asso, Conci, Locatelli, Bacula, Siviero, Gottardo e lo stesso Gian Carlo Maroni.
Nei pressi del Mausoleo vi è anche l'hangar che ospita il MAS 96 a bordo del quale d'Annunzio con Luigi Rizzo e Costanzo Ciano partecipò alla Beffa di Buccari. Al tempo di d'Annunzio il MAS era ormeggiato alla darsena di Torre San Marco e veniva utilizzato dal poeta per escursioni sulle acque del Garda. All'esterno, l'acronimo Memento audere semper riproduce un motto latino coniato da d'Annunzio ("ricorda di osare sempre").
Sotto il colle mastio è collocata la nave militare Puglia, forse il più suggestivo cimelio del Vittoriale. La nave, sulla quale trovò la morte Tommaso Gulli nelle acque di Spalato, fu donata a d'Annunzio dalla Marina Militare nel 1923. I lavori per portarla al Vittoriale si rilevarono particolarmente impegnativi: si trattava di sezionare una nave e trasportarne per via ferroviaria la prora a 300 km da La Spezia; per l'impresa furono necessari venti vagoni ferroviari e numerosi camion militari. A coordinare l'invio dei materiali e dirigere i lavori di ricostruzione venne designato l'ingegner Silla Giuseppe Fortunato, allora tenente del Genio Navale. La prua, simbolicamente rivolta verso l'Adriatico e la Dalmazia, fu adornata da una polena raffigurante una Vittoria scolpita da Renato Brozzi.
Nel sottoscafo della nave, dal 2002, è stato allestito il Museo di Bordo che raccoglie alcuni preziosi modelli d'epoca di navi da guerra della collezione di Amedeo di Savoia, duca d'Aosta.

Vittoriale, la nave militare Puglia nel parco del Vittoriale
Dalla Nave Puglia si può ammirare la valletta formata dai corsi dei torrenti dell' Acquapazza e dell' Acquasavia che si uniscono a valle nel laghetto delle Danze a forma di violino. Questo luogo, pensato da d'Annunzio per spettacoli coreutici, è stato riaperto al pubblico nella primavera del 2013, dopo lavori di restauro per rimediare al dissesto idrogeologico dell'area restituendo così al pubblico un altro tassello del parco. Dal Maggio 2015 Sono state aggiunte al percorso le due vallette con interessanti scorci paesaggistici.

I Giardini

Dalla Piazzetta Dalmata si accede ai Giardini. Sulla sinistra si incontra dapprima il Cortiletto degli Schiavoni, ornato da vere da pozzo veneziane. Il cortile richiama nelle forme quello della casa natale di d'Annunzio a Pescara. Intorno al cortile corre il Portico del Parente, intitolato a Michelangelo Buonarroti, figura alla quale d'Annunzio si sentiva prossimo per affinità e genio. Il cortile e il porticato circostante, durante la permanenza gardonese di Gabriele d'Annunzio venivano spesso arredati con tappeti persiani, tavoli e altro mobilio trasformando questi spazi in una sorta di cenacolo all'aperto dove il poeta riceveva e intratteneva i propri ospiti.
Proseguendo nei giardini, oltrepassato un architrave in pietra sormontato da una Venere acefala e la scritta rossa Rosam cape, spinam cave, (cogli la rosa, ma stai attento alla spina), si arriva a un boschetto di magnolie al centro del quale si trova l'Arengo. Questo è il luogo simbolico dove d'Annunzio riuniva i fedeli fiumani per cerimonie commemorative. Un alto scranno, quasi un trono, e sedili in pietra sono collocati intorno alla Colonna del giuramento, dal capitello bizantino; fuori dal recinto dei sedili si ergono diciassette colonne simboleggianti le diciassette vittorie di guerra. La colonna raffigurante la vittoria della Battaglia di Caporetto è quella più scura e reca sulla sommità un'urna contenente terra del Carso. Unica statua, qui, la Vittoria in bronzo di Napoleone Martinuzzi, coronata di spine e con il motto: Et haec spinas amat Victoria.
Scendendo le terrazze verso il lago si incontra la limonaia con il Belvedere e più sotto la tomba di Renata, la sirenetta, figlia di d'Annunzio e protagonista del Notturno. Proseguendo, in prossimità di un gruppo di cipressi, si arriva al cimitero dei cani e al frutteto al centro del quale su di un'alta colonna è collocata la Canefora di Martinuzzi, una grande statua di bronzo raffigurante una donna accosciata che porta sul capo un canestro di frutti. Recingono il frutteto pilastri con grandi aquile e gigli simili a quelli che d'Annunzio aveva, molti anni addietro, ammirato nei giardini di Villa d'Este.
Il 19 settembre 2014 a causa di una forte tempesta abbattutasi sul Gardone, tra i vari danni ai giardini, c'è stata la caduta di alcuni cipressi secolari dai quali sono state ricavate delle rondelle messe in vendita dalla Fondazione Il Vittoriale. I proventi sono stati utilizzati per sostenere vari progetti di restauro del complesso.[3]

Museo d'Annunzio Segreto

Inaugurato nel 2010 nel grande spazio espositivo del sottoteatro, il museo d'Annunzio Segreto raccoglie quanto fino ad ora era rimasto sconosciuto al grande pubblico perché chiuso negli armadi e nei cassetti della Prioria: i vestiti del Vate, le scarpe e gli stivali, la biancheria, le vesti appositamente fatte confezionare da d'Annunzio per le sue donne, i collari dei cani, gli oggetti da scrivania, il vasellame da tavola, i gioielli. Un'intera sezione è dedicata alle eleganti valigie, alle cappelliere e ai bauli a incastro. Le gigantografie del poeta alla Capponcina o nel Parco del Vittoriale, le immagini di alcune fra le sue più note amanti, le lettere d'amore, i tessuti che arredano le stanze della Prioria, vestono l'emiciclo e le undici colonne della sala espositiva. All'ingresso sei schermi trasmettono filmati d'epoca dell'Istituto Luce o dell'Archivio storico RAI. Il museo d'Annunzio Segreto rappresenta dunque un incontro ravvicinato, intimo con il mondo quotidiano di Gabriele d'Annunzio nel suo stile di vita inimitabile e raffinatissimo.

Vittoriale: gli abiti di d'Annunzio nell'allestimento del nuovo museo d'Annunzio Segreto al Vittoriale

Nella cultura di massa

Una scena del film Ti amo in tutte le lingue del mondo di Leonardo Pieraccioni è stata girata sulla prua della nave "Puglia".

Note

  1. ^ visitatori vittoriale degli italianigardapost.it.
  2. ^ C. Arnaudi, Dal Misello al Lebbroso. Storia di una stanza francescana al Vittoriale, in Quaderni del Vittoriale n° 7, nuova serie, pagine 73-93, Cinisello Balsamo, Silvana 2011
  3. ^ Raffaele Cecoro, I Cipressi Dannunziani: Il Vittoriale Condivide Con Gli Estimatori Del Vate Un Pezzo Di Storia E Poesia, Scrigno Magazine, 2 Febbraio 2015.

Bibliografia