martedì 3 giugno 2014

Mappe geopolitiche dell'Unione Euroasiatica



L'Unione eurasiatica è un' unione politica ed economica tra BielorussiaKazakistanKirghizistanRussiaTagikistan e altri paesi ex-sovietici nata il 29 maggio 2014.

MembriBielorussia Bielorussia
Kazakistan Kazakistan
Russia Russia
OsservatoriKirghizistan Kirghizistan
Tagikistan Tagikistan
Statistiche complessive
Superficie20 007 860 k
Popolazione169 669 400
Densità8,36 ab./km²
Fusi orariUTC+3 - UTC+12
ValuteRublo bielorusso
Rublo russo
Tenge kazako
L'idea, ispirata all'integrazione tra i paesi dell'Unione europea, è stata annunciata nell'ottobre 2011 dall'allora presidente russo Vladimir Putin, che riprese una proposta lanciata originariamente dal presidente kazako Nursultan Nazarbaev nel 1994. Il 18 novembre 2011 i presidenti di Bielorussia, Kazakistan e Russia hanno firmato un accordo che stabilisce l'obiettivo di fondare l'Unione eurasiatica entro il 2015.. L'accordo include piani per la futura integrazione e la creazione di una Commissione eurasiatica (modellata sulla base della Commissione europea) e di uno Spazio economico eurasiatico, entrato in vigore il 1º gennaio 2012





La bandiera provvisoria dell'Unione Eurasiatica è rappresentata nell'immagine sottostante.



Con l'Unione Eurasiatica la Russia di Putin volta le spalle all'Europa e si rivolge verso le economie asiatiche, in particolare la Cina, l'India e l'Iran.



Mentre in Ucraina si continua a combattere e morire, i presidenti di Russia, Bielorussia e Kazakistan firmano il documento che permetterà all’Unione Eurasiatica di partire regolarmente da gennaio 2015.

C'è un legame tra il disastro ucraino e il faraonico progetto di cooperazione economica fortemente voluto dal presidente russo Vladimir Putin: il sangue che si sta versando a Kiev e dintorni ha preso a scorrere quando l’ex presidente ucraino Yanukovich ha rifiutato le proposte di associazione all’Unione Europea e lasciato intendere che prima o poi il paese avrebbe fatto parte dell’altra Unione - quella Eurasiatica, appunto.

Putin e gli altri leader ex sovietici - il bielorusso Lukashenko e il kazako Nazarbaev - avevano da sempre fatto la corte a Kiev affinché questa concentrasse le sue attenzioni verso Est, piuttosto che verso Ovest. Troppo importante l’apporto strategico e economico dell’Ucraina per poterne fare a meno. 

Ai 170 milioni di persone, tra russi, bielorussi e kazaki che andranno a formare “un ponte commerciale” tra Europa e Asia (così lo ha pensato Putin) mancheranno i circa 46 milioni di ucraini (abitanti della Crimea esclusi) e la posizione strategica di un territorio dal quale passa gran parte delle condutture energetiche che dalla Russia viaggiano verso il Vecchio Continente.

Sarà comunque un cambiamento epocale, la "nuova realtà geopolitica del XXI secolo", rassicurava il leader del Cremlino dopo la firma del trattato il 29 maggio scorso. Il più grande mercato comune all’interno della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), al quale presto aderiranno anche l’Armenia, il Kirghizistan e il Tagikistan. 

Un potente centro di sviluppo regionale - sempre secondo Putin -che prenderà il posto di quell’Unione Doganale che dal 2010 ha convinto, dati alla mano, della validità del progetto: negli ultimi 3 anni gli scambi commerciali tra i paesi membri sono cresciuti del 50% e arrivati a 66,2 miliardi di dollari alla fine del 2013.

I 3 paesi fondatori dell’Unione Eurasiatica possiedono riserve energetiche importanti, pari a 1/5 di quelle globali di gas e al 15% di quelle petrolifere. Un tesoro che attirerà, insieme alle altre potenzialità dei paesi membri, interessi da ogni parte: “La nostra posizione geografica”, assicura Putin, “ci permetterà di creare una rete di trasporti e percorsi logistici d'importanza non solo regionale ma globale, attirando enormi flussi commerciali sia dall’Europa sia dall’Asia.

Scambi, ma soprattutto investimenti esteri dei quali la Russia e gli altri paesi dell’Unione Eurasiatica hanno bisogno per costruire le infrastrutture necessarie a competere su scala internazionale e sviluppare un mercato orientale così ricco di prospettive. 

La recente firma del contratto tra Russia e Cina, infatti, per una mega-fornitura di gas russo a Pechino è un primo ma importante segnale di come, anche a seguito degli avvenimenti ucraini, Putin abbia intenzione di spostare il baricentro degli interessi economici e strategici di Mosca dall’Europa verso l’eldorado della regione Asia-Pacifico. 

Qui lo attende di nuovo lo scontro con gli Stati Uniti di Obama, decisi a fare della regione l’asse dei propri interessi negli anni a venire.

Per prepararsi alla battaglia il leader del Cremlino ha scelto le armi di un’alleanza finora soltanto “energetica” con la Cina e di una Unione Eurasiatica ancora tutta da valutare. Basteranno?



Mappa geopolitica del Medio Oriente dal primo dopoguerra ad oggi

La terra dei conflitti incrociati. Il massacro di Siria nella guerra civile regionaleIl collasso dell’ordine ottomano e la carente legittimazione degli Stati nazionali alimentano una rete di conflitti permanenti tra Mediterraneo e Golfo Persico. Le sub-regioni informali, soggetto e oggetto delle partite in corso. Molte identità, nessuna identità?di Lorenzo Trombetta

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, con la caduta dell'Impero Ottomano, il Medio Oriente fu suddiviso in vari stati, ognuno nella sfera di influenza delle potenze vincitrici, nel rispetto degli accordi di Sykers-Picot. In particolare la Francia, che ebbe il mandato sulla Siria e il Libano, e la Gran Bretagna, che ebbe il mandato sulla Giordania, la Palestina e la Mesopotamia
La Siria, il Libano e l'Iraq si presentarono fin dall'inizio come un coacervo di diverse culture e religioni e questo fu all'origine delle numerose guerre che da oltre un secolo hanno caratterizzato l'instabilità mediorientale (insieme al conflitto israelo-palestinese).

“Complotto” o “rivoluzione”, i due linguaggi della SiriaIl conflitto a Damasco passa anche attraverso il lessico usato dalle fazioni antagoniste per identificare chi è altro da sé. La scelta dei vocaboli svela le manipolazioni mediatiche e gli stereotipi che alimentano immaginari collettivi antitetici.di Elisabetta Di FrancescaChi sono gli islamisti sirianiL’universo ampio e variegato dei movimenti islamici in Siria: conservatori e progressisti, laici e reazionari. La loro forza scaturisce dalle umiliazioni coloniali del passato e da un presente vissuto tra clandestinità e persecuzioni. La rivincita è vicina.di Muhammad al-’Ammar

Attualmente in Siria è in atto una guerra civile tra i fedeli del presidente Assad e i ribelli.

In Siria, Asad riparte da Homs e convive con al QaidaDopo oltre 2 anni di assedio il regime riconquista quel che resta di   Homs e si rafforza in vista delle elezioni presidenziali (farsa) di   giugno. Damasco stringe rapporti con i qaidisti dell’Isis. Russia e Iran   stravincono, l’Occidente brancola nel buio. di Lorenzo TrombettaProve di Asadistan con l’aiuto di Hezbollah

Il Nobel all’Opac, la pace, e la seconda guerra di SiriaL’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che ha vinto il   premio quest’anno, non porterà la pace a Damasco ma scongiura, con la   sua stessa presenza, l’attacco americano (che neanche Obama vuole).di Niccolò LocatelliLa risoluzione Onu sulla Siria (testo integrale della bozza)

La guerra civile siriana ha visto una presa di posizione netta delle nazioni confinanti e delle potenze internazionali.

Il patto inattuabile ma decisivo sulla SiriaL’accordo di Ginevra tra Kerry e Lavrov non serve a distruggere le armi chimiche ma a limitare gli effetti regionali e mondiali della guerra siriana. Vince - ai punti - Mosca, perdono in primis i ribelli “ufficiali”.di Lucio CaraccioloRussia e Cina, un veto inevitabileCome smantellare le armi chimiche di Asad

I principali alleati di Assad sono la Russia, l'Iran e l'Iraq, mentre gli altri paesi sono contrari al presidente siriano, così come gli Stati Uniti. L'Unione Europea ha svolto un ruolo di mediazione che ha impedito l'intervento militare di potenze esterne.

L’attentato contro l’Iran e le lezioni di BeirutPer la prima volta un duplice attacco suicida viene compiuto contro l’ambasciata iraniana nella capitale libanese. Teheran comincia a pagare caro il prezzo del suo coinvolgimento nella guerra siriana.di Lorenzo TrombettaCon la Siria in testa, la Russia torna nel MediterraneoMosca schiera una dozzina di navi da guerra nel Mare Nostrum, che oltre vent’anni dopo la fine dell’Urss torna rilevante. L’appoggio anche militare al regime di Asad è parte di questa strategia.di Mauro De BonisCircassi, il Caucaso in Siria

Si tratta quindi di un conflitto interno allo stesso mondo islamico, che vede una rivalità tra i due stati che se ne contendono la leadership e cioè l'Arabia Saudita e l'Iran.

Jihadisti, sciiti e Iran: l’Arabia Saudita e il nemicoRiyad inquadra i suoi problemi interni e orienta la sua politica estera alla luce del conflitto con l’asse Damasco-Teheran. Una strategia che inizia a creare malcontento popolare. di Liisa LiimatainenNel solco di Roncalli e Wojtyla:l’appello di Francesco sulla SiriaCome Giovanni XXIII nel 1962 e Giovanni Paolo II nel 2003, papa Bergoglio invoca la pace e mette in guardia dalle conseguenze imprevedibili della guerra. Nella prima crisi internazionale del suo pontificato, scelto un approccio collegiale.di Piero Schiavazzi



Ritenere che in Libia il problema dell’ingovernabilità e della sicurezza possa essere semplificato attraverso la formula dello scontro tra i “cattivi islamisti” da una parte e i “buoni laici” dall’altra è un grossolano errore.

Ancora peggio, in conseguenza della banalizzazione di cui sopra, è considerare che i cattivi islamisti della Fratellanza Musulmana siano lo spin off di al Qaida in Libia, laddove i miliziani del generale Haftar - i "buoni laici" - siano arrivati per liberare il paese e la regione dalla piaga del terrorismo.

A quasi 13 anni dal fatidico 11 settembre 2001 che cambiò il mondo e la fisionomia del Medio Oriente, l’Occidente non si può più permettere di considerare ciò che è al di fuori della propria capacità di comprensione come un generico tutt’uno di radicalismo e terrorismo. Deve al contrario prendere coraggio e affrontare i nodi venuti al pettine delle relazioni con il Medio Oriente, facendo una seria riflessione su chi siano oggi gli amici e i nemici nella regione. Il caso della Libia offre un ottimo spunto per iniziare.

In Libia si ha a che fare con 2 golpe consecutivi, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Il 1° “golpe” sarebbe quello attuato il 5 maggio dalla Fratellanza Musulmana e dai suoi alleati islamisti nel parlamento, attraverso l’elezione Ahmed Maiteeq alla carica di premier, senza i necessari voti della maggioranza del Congresso, a danno del “moderato” Omar al Hassi. Il 2° è quello del 18 maggio, quando l’ex generale Haftar avrebbe liberato Tripoli dagli islamisti imponendo il volere delle forze armate e delle componenti laiche della politica libica.

Nessuno dei due episodi è successo come è stato descritto sopra, sebbene così sia stato riportato da buona parte della stampa.

Innanzitutto, né Maiteeq né al Hassi sono organici alla Fratellanza Musulmana, sebbene entrambi siano stati sostenuti da questa. La contestazione seguita all’elezione di Maiteeq - dovuta al fatto che non sarebbero stati raggiunti i 120 voti del Consiglio necessari per la sua proclamazione - è stata in primo luogo alimentata dalle forze islamiste, che fino a pochi giorni prima avevano ritenuto di individuare un punto d’incontro nella candidatura di al Hassi.

Stante il caos generale, non si è nemmeno chiarito se il conteggio dei voti abbia presentato errori o meno. Resta così pendente il giudizio sulla correttezza della tornata elettorale che ha consacrato Maiteeq primo ministro.

Men che meno quella di Haftar può essere considerata come la cacciata degli islamici fondamentalisti a opera dei laici promotori della democrazia. L’ex generale rappresenta poco più che se stesso, essendo alla testa di una milizia che di fatto non è ai suoi ordini. Soprattutto, non esiste nulla che in Libia oggi venga presentato come “laico”. La distinzione veramente importante è quella tra “islamista” e “non islamista”. Il problema è che ci ostiniamo a leggere le notizie che provengono dalla regione attraverso una lente interpretativa non solo errata, ma anche vecchia di quasi 2 decenni.

Khalifa Haftar è un ex generale dell’esercito di Gheddafi. Classe 1949, di lui si sentì parlare per la prima volta nel 1987, quando venne catturato dalle Forze armate ciadiane durante un combattimento alWadi Doum. Gheddafi l’aveva mandato già da 2 anni a combattere una guerra mai dichiarata contro il Ciad, che si protraeva per inerzia senza che nessuno potesse davvero vincere.

Quando cadde prigioniero, Haftar venne prontamente scaricato dal Colonnello, finendo in un limbo da cui riuscì a emergere passando dalla parte degli oppositori del regime e proponendo la creazione di una forza armata da abbinare all’azione del Fronte nazionale per la salvezza della Libia.

Raccogliendo attorno a sé alcuni militari defezionisti o prigionieri delle forze ciadiane, iniziò a operare sul fronte meridionale della Libia compiendo sporadiche azioni contro le forze di Tripoli, senza tuttavia conseguire risultati significativi sul campo di battaglia. Gheddafi aveva nel frattempo sapientemente fatto circolare informazioni sulla reputazione di Haftar, accusandolo di sevizie e torture sui prigionieri ciadiani prima e su quelli libici poi. Informazioni con ogni probabilità non corrispondenti al vero, in virtù anche della limitata azione bellica condotta, ma in grado in ogni caso di comprometterne la reputazione.

Haftar venne infatti nuovamente scaricato, questa volta dal presidente ciadiano Idriss Déby, all’indomani dell’uscita di scena di Hissène Habrè nel 1990, finendo costretto a un nuovo peregrinare nella regione, tra la Repubblica Centrafricana e lo Zaire. Da qui, con l’aiuto degli Stati Uniti, emigrò in Virginia, dove si ritirerà di fatto a vita privata, conducendo un moderato antagonismo al regime libico, essenzialmente fatto di proclami e insinuazioni.

Nel 2011, tuttavia, con l’inizio delle rivolte a Bengasi, Haftar riapparve all’improvviso in Cirenaica e si propose ai vertici delConsiglio nazionale transitorio come comandante in capo delle costituende forze armate del Cnt. Gli venne preferito il generale Abdul Fatah Younis, già comandante delle forze speciali e figura alquanto stimata tra i ribelli, cui si affiancò Omar Hariri come vice.Gli attacchi verbali anche violenti contro Younis portarono addirittura a includere Haftar nella lista dei sospettati per il suo omicidio, avvenuto a Bengasi nel luglio del 2011.

Nell’impossibilità di acquisire un ruolo politico di rilevo, Haftar ha vissuto in questi tre anni perlopiù a Bengasi cercando di coltivare un piccolo circolo di sostenitori di estrazione militare, progressivamente armatosi e trasformatosi in una della tante milizie che si spartiscono il controllo della Cirenaica. Da questa nuova - assai debole - posizione, Haftar lo scorso 14 febbraio ha annunciato di essere alla testa di una forza militare pronta a riprendere il controllo della situazione, scacciare il terrorismo islamico e ripristinare la legalità e la democrazia. Al proclama non ha fatto seguito alcuna azione sul terreno, tanto che gli stessi libici ironizzano definendolo il "golpe di san Valentino".

Intorno alla metà di maggio, invece, Haftar e i suoi sostenitori hanno ingaggiato un violento scontro con altre milizie di Bengasi - islamiste e non - provocando un centinaio di morti e dando avvio al tentativo del generale d'imporsi come leader della rivolta. Il 18 maggio una delle milizie di Zintan (la Qaqaa) ha dichiarato il proprio sostegno all’ex generale, muovendo verso Tripoli in direzione del Congresso, occupandolo e provocando la sospensione della seduta.

Le milizie entrate a Tripoli, tuttavia, non fanno parte di quelle che Haftar ha armato ed equipaggiato a Bengasi, che da lì non si sono mai mosse; si tratta invece delle milizie di Zintan (tra le quali i resti della 32° brigata delle forze speciali, un tempo al comando di Khamis Gheddafi), che hanno il loro riferimento politico in Mahmud Jibril, leader delle forze non islamiste in parlamento. Questi, in un temporaneo matrimonio di interessi con Haftar, ha colto l’opportunità di ritornare in campo nell’intento di porsi nuovamente alla guida di un esecutivo non islamista, senza riconoscere ad Haftar la supremazia politica della manovra contro le forze islamiste.

L’azione condotta a Tripoli, quindi, non è stata una vera e propria battaglia, ma semplicemente un esercizio muscolare delle milizie di Zintan che, muovendosi dalla loro zona di competenza in prossimità dell’aeroporto, si sono spinte nel centro della città, hanno provocato la fuga del Consiglio, per poi ritirarsi nuovamente sulle posizioni di partenza. Una mossa rapida e non definitivamente traumatica nella gestione degli equilibri di forza della capitale, condotta in modo da non provocare l’intervento a Tripoli delle milizie di Misurata, notoriamente più vicine alle forze politiche islamiste, che avrebbe provocato un bagno di sangue nelle vie della capitale.

Il generale Haftar non ha un proprio radicamento politico in Libia, soprattutto in conseguenza del lungo esilio durato quasi un quarto di secolo, che lo ha estromesso dalle dinamiche sociali di un paese isolato dall’esterno e refrattario sino al 2011 a qualsiasi tipo di influenza esogena. Haftar ha quindi costruito il suo ruolo grazie al sostegno di alcuni finanziatori del Golfo, che vedono in lui uno dei molteplici, possibili baluardi alla proliferazione degli interessi della Fratellanza Musulmana nella regione.

Ed è in questo ambito che viene a delimitarsi la natura dello scontro in atto in Libia – al pari di altri paesi del Medio Oriente. Non si tratta di uno scontro tra forze laico-democratiche da una parte e forze confessionali,radicali e terroristiche dall’altra, ma di una lotta senza quartiere nell’intera regione tra l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti da un lato e la Fratellanza Musulmana sul versante opposto. Quest’ultima con il sostegno più o meno palese del Qatar.

Non è in ballo né la democrazia, né l’interesse allo sviluppo e alla ricostruzione della Libia, ma solo il controllo regionale del predominio della fede islamica. Quest’ultima è sotto attacco - nell’ottica wahhabita - sia dall’eresia sciita sia dal pluralismo politico accettato dalla Fratellanza Musulmana. Si tratta di due modelli che rappresentano l’antitesi della visione dogmatica e ultra-conservatrice del wahhabismo saudita, risultando di conseguenza incompatibili col sistema politico che su questa dottrina poggia la propria legittimazione a Riyadh.

Dal 2011 a oggi tale scontro intra-islamico ha già insanguinato il Medio Oriente, dalla Siria al Bahrein, dallo Yemen all’Egitto: la Libia ela Tunisia sono i restanti due obiettivi da colpire per eliminare gli ultimi baluardi della Fratellanza Musulmana. Tali attacchi avvengono, chiaramente, col supporto del "laicissimo regime democratico" dei militari del Cairo, e di tutti coloro che, a distanza di oltre 10 anni dai disastri politici e militari iracheno e afghano, ancora vedono nell’interventismo militare contro la minaccia islamica la soluzione ai problemi della regione e del mondo.

Haftar rappresenta in Libia esattamente questo. L’illusione, a uso e consumo di un Occidente incapace di comprendere l’evoluzione della società mediorientale, di aver individuato un paladino della democrazia e della legalità, ma soprattutto un laico, nemico dei famigerati terroristi che insidiano il potere a Tripoli. Dalla sua parte la giustizia e la democrazia, dall’altra hic sunt leones.

Allo stato attuale è difficile formulare soluzioni che possano risolvere la pericolosa impasse in cui è piombato il paese all’indomani dell’ultima crisi politica. Come sempre, una soluzione interna sarebbe preferibile a qualsiasi ipotesi di ingerenza esterna. Il problema della Libia odierna, tuttavia, è quello della sicurezza e dell’arbitrarietà derivante dalla proliferazione di milizie e potentati che si spartiscono il territorio, senza alcun interesse a cedere posizioni o trovare formule di raccordo unitario in funzione dell’interesse nazionale.

Sarebbe di fondamentale importanza che la comunità internazionale agisse da mediatore. Essa dovrebbe cioè definire un tavolo negoziale attraverso il quale giungere a un accordo di unità nazionale, favorendo la costituzione di un governo e una road mappolitica condivisa da tutte le forze.

La Libia - dopo la dominazione coloniale, un breve periodo monarchico e oltre 40 anni di dittatura personale di Gheddafi - non deve essere ricostruita, ma costruita. Non esiste, di fatto, un’identità nazionale forte e capace di prevalere sui localismi e i personalismi; deve essere rifuggita in tal solco anche l’idea di una spartizione del territorio in zone d'influenza egiziane e algerine.

Questo è il compito che dovrebbe assolvere la comunità internazionale, dopo aver abbondantemente contribuito al collasso del paese nel 2011 alimentando spinte di disgregazione esterne al contesto sociale nazionale, di cui oggi i libici pagano il doloroso frutto.

Per approfondire: (Contro)rivoluzioni in corso

Nicola Pedde è il Direttore di IGS – Institute for Global Studies.
Karim Mezran è Senior Fellow al Rafik Hariri Center for the Middle East dell’Atlantic Council di Washington DC.

Mappa geopolitica dell'Europa e del Mediterraneo nel 2014



L'Eurozona, in blu, comprende attualmente anche la Lettonia.

I paesi in azzurro sono membri dell'Unione Europea, ma non hanno aderito all'unione monetaria e all'euro.

In rosa c'è la Federazione Russa, che ha annesso la Crimea e controlla varie zone del Caucaso formalmente appartenenti alla Georgia e all'Azerbaigian. La Russia, insieme alla Bielorussia e al Kazakistan ha dato vita all'Unione Economica Euroasiatica, un colosso che mira a ricreare l'area di influenza dell'Unione Sovietica.

In color malva ci sono i paesi balcanici, tra cui la Serbia, alleata storica della Russia.

In rosso c'è la Siria, alleata principale della Russia, in Medio Oriente. Altri alleati della Russia sono l'Armenia e l'Iran.

In arancione ci sono i paesi che si trovano attualmente in una condizione di guerra civile e cioè la Libia e l'Ucraina.

"La balcanizzazione non è più specialità esclusiva della penisola eponima.

Il suo spazio è in rapida dilatazione a partire dal quasi contemporaneo crollo dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. Dal confine italo-sloveno a quello ucraino-russo, da Trieste a Kharkiv, dal Mare Adriatico al Mar Nero, cent’anni dopo il crollo degli imperi asburgico, ottomano e zarista non c’è quasi frontiera che non sia contestata o contesa.

Partendo dalla disputa fra Slovenia e Croazia sul Golfo di Pirano, che investe direttamente i nostri interessi, si può percorrere per un migliaio di chilometri in direzione est una via balcanica che fende senza soluzione di continuità territori oggetto di contenziosi sordi o vivissimi.

A cominciare da quelli di fatto aperti da Budapest con Slovacchia, Romania, Serbia e Ucraina in odio al trattato del Trianon (1920), di lì passando in Moldova, tanto cara agli apologeti della Grande Romania quanto a sua volta deprivata da Mosca e dalle sue mafie di riferimento della fascia transnistriana, sfociando nell’Ucraina contesa, già amputata della Crimea.

Sempre muovendo da Trieste è istruttivo percorrere la variante meridionale della via balcanica, lungo la dorsale che ci collega a Sarajevo, capitale di uno Stato inesistente, di qui dirigendo verso i contenziosi serboalbanesi, albano-greci, greco-turchi, curdo-turchi e turco-siriani, fino alla partita arabo-israeliana e oltre, verso il Nordafrica o il Medio Oriente.

Lì dove la caduta dell’impero ottomano ha prodotto cent’anni di conflitti permanenti, di cui quello siriano è oggi il più crudele".

La carta propone un quadro d'insieme sull'Europa, il Maghreb e il Medio Oriente nel quale la cifra comune è l'instabilità e la tensione, latente o esplicita. Ciò non soltanto nelle periferie, ma fin al cuore dell'Ue (in blu i paesi dell'Eurozona, in azzurro gli altri Stati membri dell'Ue). I tondi numerati indicano i separatismi: scozzese, basco, catalano, veneto.

Partendo da Trieste e percorrendo la via balcanica meridionale si incontrano altri focolai di tensione: la Bosnia-Erzegovina Stato fantasma (cerchio nero numero 2) e oggetto delle mire croate e serbe (freccia rossa); le mai sopite tensioni greco-albanesi (cerchio nero 3) e quelle greco-turche (circoli frecciati azzurri); i sogni della Grande Albania (trattini rossi); la questione turco-bulgara (cerchio nero 4) e il contenzioso israelo-palestinese (cerchio nero 5).

Il cerchio nero 1 indica la Crimea, propaggine meridionale della tensione che corre lungo la via balcanica orientale. Questa "via" è rappresentata come una linea che conduce da Trieste a Kharkiv, nell'Ucraina oggetto delle pressioni russe (frecce e semicerchi neri). Nel mezzo del percorso due tappe calde sono Budapest e Bucarest, in virtù rispettivamente della questione magiara (frecce gialle) e della pulsione romena verso la Moldova (freccia nera).

L'Ucraina e la Libia sono caratterizzate da una guerra civile a bassa intensità (tratteggio arancione). Attorno alla Libia si trovano l'incertezza algerina (giallo chiaro), la transizione costituzionale tunisina (arancione) e l'instabilità egiziana (giallo) che il neo-eletto presidente, generale al-Sisi, dovrà fronteggiare.

Completano la carta la guerra di Siria (in rosso), il Kurdistan informale (cerchio frecciato bianco) e i tre epicentri della cronica instabilità caucasica: l'Abkhazia (cerchio viola 1), l'Ossezia del Sud (cerchio viola 2) e il Nagorno-Karabakh (cerchio viola 3), conteso tra Armenia e Azerbaigian.

Carta e citazione tratte da "Sonnambuli di ieri e di oggi",
editoriale di 2014-1914: l'eredità dei grandi imperi

(3/06/2014)



Cos'è la domotica?



La domotica, dall'unione delle parole domus (che in latino significa "casa") + robotica, è la scienza interdisciplinare che si occupa dello studio delle tecnologie atte a migliorare la qualità della vita nella casa e più in generale negli ambienti antropizzati. Questa area fortemente interdisciplinare richiede l'apporto di molte tecnologie e professionalità, tra le quali ingegneria edile,ingegneria energeticaautomazioneelettrotecnicaelettronicatelecomunicazioni ed informatica.





La domotica è nata nel corso della terza rivoluzione industriale allo scopo di studiare, trovare strumenti e strategie per:
  • migliorare la qualità della vita;
  • migliorare la sicurezza[1];
  • semplificare la progettazione, l'installazione, la manutenzione e l'utilizzo della tecnologia;
  • ridurre i costi di gestione;
  • convertire i vecchi ambienti e i vecchi impianti.



La domotica svolge un ruolo importante nel rendere intelligenti apparecchiature, impianti e sistemi. Ad esempio un impianto elettrico intelligente può autoregolare l'accensione degli elettrodomestici per non superare la soglia che farebbe scattare il contatore.
Con "casa intelligente" si indica un ambiente domestico - opportunamente progettato e tecnologicamente attrezzato - il quale mette a disposizione dell'utente impianti che vanno oltre il "tradizionale", dove apparecchiature e sistemi sono in grado di svolgere funzioni parzialmente autonome (secondo reazioni a parametri ambientali di natura fissa e prestabilita) o programmate dall'utente o, recentemente, completamente autonome (secondo reazioni a parametri ambientali dirette da programmi dinamici che cioè si creano o si migliorano in autoapprendimento).
Ad un livello superiore si parla di building automation o "automazione degli edifici". L'edificio intelligente, con il supporto delle nuove tecnologie, permette la gestione coordinata, integrata e computerizzata degli impianti tecnologici (climatizzazione, distribuzione acquagas ed energia, impianti di sicurezza), delle reti informatiche e delle reti di comunicazione, allo scopo di migliorare la flessibilità di gestione, il comfort, la sicurezza e per migliorare la qualità dell'abitare e del lavorare all'interno degli edifici.
È bene notare che la domotica non sempre consente di ottenere risparmi energetici in abitazioni private, anzi il consumo stesso del sistema domotico potrebbe aumentare il fabbisogno energetico dell'abitazione. Grazie alla domotica, potranno essere adoperati impianti di questo genere, in altri contesti quali: ospedali, case per persone disabili, oppure nelle aziende per gestire l’illuminazione notturna, supervisionare un impianto fotovoltaico


La casa intelligente può essere controllata dall'utilizzatore tramite opportune interfacce utente (come pulsantitelecomanditouch screentastierericonoscimento vocale), che realizzano il contatto (invio di comandi e ricezione informazioni) con il sistema intelligente di controllo, basato su un'unità computerizzata centrale oppure su un sistema a intelligenza distribuita. I diversi componenti del sistema sono connessi tra di loro e con il sistema di controllo tramite vari tipi di interconnessione (ad esempio rete localeonde convogliateonde radiobus dedicato, ecc.).




Il sistema di controllo centralizzato, oppure l'insieme delle periferiche in un sistema ad intelligenza distribuita, provvede a svolgere i comandi impartiti dall'utente (ad esempio accensione luce cucina oppure apertura tapparella sala), a monitorare continuamente i parametri ambientali (come allagamento oppure presenza di gas), a gestire in maniera autonoma alcune regolazioni (ad esempio temperatura) e a generare eventuali segnalazioni all'utente o ai servizi di teleassistenza. I sistemi di automazione sono di solito predisposti affinché ogniqualvolta venga azionato un comando, all'utente ne giunga comunicazione attraverso un segnale visivo di avviso/conferma dell'operazione effettuata (ad esempio LED colorati negli interruttori, cambiamenti nella grafica del touch screen) oppure, nei casi di sistemi per disabili, con altri tipi di segnalazione (ad esempio sonora).
Un sistema domotico si completa, di solito, attraverso uno o più sistemi di comunicazione con il mondo esterno (ad esempio messaggi telefonici preregistrati, SMS, generazione automatica di pagine web o e-mail) per permetterne il controllo e la visualizzazione dello stato anche da remoto. Sistemi comunicativi di questo tipo, chiamati gateway o residential gateway svolgono la funzione di avanzati router, permettono la connessione di tutta la rete domestica al mondo esterno, e quindi alle reti di pubblico dominio.
Esempio di funzioni di un impianto di illuminazione intelligente: accensioni multiple anche automatiche di luci in base all'instaurarsi di condizioni specifiche scenari (es. ci sono ospiti, diamo un party, mi vedo un DVD); autoaccensione secondo schemi copiati dalla realtà delle luci dopo il riconoscimento automatico di una prolungata assenza; centralizzazione dello spegnimento o autospegnimento delle luci quando viene riconosciuta l'assenza di utenti; gestione completamente autonoma e automatica dell'illuminazione.
Esempio di funzioni di un impianto elettrico intelligente:
  • Coordinamento autonomo del funzionamento degli elettrodomestici;
  • Riduzione dei campi magnetici nelle stanze in cui sono presenti utenti;
  • Isolamento e protezione automatica in caso di temporale;
  • Disalimentazione completa isole tecniche (esempio gruppo televisore, decoder, videoregistratore ecc.) a comando o in automatico di notte o quando non c'è nessuno in casa.
Esempio di funzioni di un impianto di climatizzazione intelligente:
  • funzionamento automatico in base al riconoscimento della presenza di persone;
  • adeguamento del funzionamento in base al tasso di umidità;
  • spegnimento automatico del calorifero sotto una finestra aperta;
  • autoprogrammazione della pre-climatizzazione (es. preriscaldamento in inverno) in base al riconoscimento degli "usi e costumi" degli utenti.
Esempio di funzioni di un impianto di sicurezza intelligente:
  • Rilevamento di eventi come fughe di gas, allagamenti e incendi;
  • Connessione a distanza con servizi di assistenza (soccorso medico e vigilanza);
  • Monitoraggio a distanza degli ambienti con telecamere;
  • Interazione TV, telefono, videocitofono e impianto telecamere.
Esempio di funzioni di un impianto di automazione domestica intelligente:
  • Chiusura o apertura in autonomia delle tende esterne (c'è il sole si aprono, c'è vento si chiudono);
  • Chiusura o apertura in autonomia degli oscuranti (tapparelle, persiane, ecc.) e coordinamento con l'automazione per la ventilazione in base a parametri di aero-illuminazione dettati dalla legge e coordinamento con gli scenari di illuminazione (aziono il videoproiettore, l'automazione oscura la stanza, l'impianto di illuminazione accende le luci soffuse).
Le aree di automazione possibili in una casa sono:
  • Gestione dell'ambiente (microclima e requisiti energetici)
  • Gestione degli apparecchi
  • Comunicazione e informazione
  • Sicurezza
Ogni area è, a sua volta, suddivisa in sottoaree specifiche del settore.
Il settore dei cosiddetti elettrodomestici “bianchi” è quello in maggior evoluzione, grazie alla massiccia introduzione di componenti elettronici che ne consentono il miglioramento delle prestazioni, delle funzionalità, dell'affidabilità e che rendono possibile la telegestione e la telediagnostica manutentiva per ogni singolo apparecchio.
In un sistema domotico integrato rientra poi la gestione delle comunicazioni entranti e uscenti dalla casa. Le chiamate telefoniche o citofoniche, interne o esterne, sono automaticamente, e non indistintamente, indirizzate ai giusti apparecchi.
Un gateway fornisce una connessione permanente e a banda larga per permettere l'accesso ad Internet alle apparecchiature domotiche o ai computer dell'abitazione, per la trasmissione di dati e per il controllo remoto.
Un sistema di gestione delle sorgenti audio-video permette la loro diffusione nei vari ambienti dell'abitazione in base alle richieste dell'utente.o87jj9jy89jj