lunedì 15 novembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 168. La Disfatta




Per Roberto Monterovere gli esami del primo semestre non furono un'esperienza piacevole.
Le materie su cui vertevano tali esami semestrali erano: 

1) Economia Aziendale
2) Economia Politica I (Microeconomia)
3) Istituzioni di Diritto Privato
4) Matematica I (Analisi I e Algebra lineare)
5) Informatica
6) Lingua Inglese I.

Non c'erano ancora i crediti formativi, per cui gli esami si dividevano in due categorie: le annualità e le semestralità.
In Bocconi, all'epoca, i corsi erano tutti semestrali, ma sarebbe più indicato dire che erano annualità compresse in metà tempo, il che significava che il numero degli esami per semestre era 6, ed il programma era vasto e lungo. 

Se si voleva rimanere in pari, bisognava sostenere, in un anno, ben 12 esami.
Per completezza riferiamo anche gli esami del secondo semestre del primo anno e cioè: 

7) Contabilità e Bilancio
8) Economia Politica II (Macroeconomia)
9) Istituzioni di Diritto Pubblico
10) Matematica II  (Analisi II e Matematica finanziaria)
11) Seconda lingua straniera I (Tedesco o Spagnolo)
12) Terza lingua straniera I (a scelta tra Francese, Tedesco, Spagnolo, Arabo, Cinese, Giapponese e Russo)

All'inizio del I semestre, Roberto, ignaro di cosa lo aspettasse e scioccamente illuso che si trattasse di un programma impegnativo sì, ma fattibile, applicò lo stesso metodo di studio del Liceo, salvo poi accorgersi che quel metodo non bastava più per ottenere risultati ambiziosi in termini di voti e di numero degli esami dati.
Bisognava avere altri requisiti tra cui ottima memoria e nervi d'acciaio.

La mente del giovane Monterovere era stanca, la sua memoria meno efficiente, i suoi neuroni già compromessi dalla nevrosi, il suo apprendimento meno veloce  e il suo interesse per quelle discipline si rivelò inferiore del previsto.

Economia Aziendale era, per il 30%, aria fritta, (composta da definizioni ampollose, ambigue e infarcite di acronimi e di anglismi sulle varie questioni gestionali, strategiche e organizzative); per un altro 30% era studio degli indici o quozienti di redditività, solidità patrimoniale e liquidità più altre questioni di finanza aziendale, come fusioni e acquisizioni, joint venture, venture capital, leverage e altre amenità; per il rimanente 40% era un'introduzione alla ragioneria, cioè alla contabilità e al bilancio, e quindi noia allo stato puro e denso, un piccolo assaggio per prepararsi al mattone del secondo semestre, ossia l'esame specifico di Contabilità e Bilancio.


Il manuale di Economia Aziendale, il famosissimo "Airoldi, Brunetti, Coda" (detto ABC), era un enorme ammasso di affermazioni arbitrarie e concetti sfuggenti o quantomeno discutibili a partire dalla definizione stessa di azienda. Secondo Airoldi e soci, "si definisce azienda l'ordine economico degli istituti" dove per "istituti" gli autori dell'ABC intendono: le famiglie, le imprese e gli enti
pubblici. 
Perché dare una simile definizione quando il Codice Civile definisce l'azienda in un modo diverso e più convincente?
L'articolo 2555 ci dice che: l'azienda è il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa.
Ogni matricola bocconiana si trovava dunque di fronte al dilemma filosofico in stile "sesso degli angeli": l'azienda è un "ordine" o è un complesso di beni? 






L'ordine è un concetto vago e astratto, il complesso dei beni è un concetto chiaro, concreto, tangibile. 
Perché complicare le cose creando rivalità tra aziendalisti e giuristi? Non si sa.
Ma la rivalità esisteva anche e soprattutto all'interno dei cattedratici aziendalisti: non si trovano due manuali che definiscano l'azienda allo stesso modo: per alcuni è un istituto economico, per altri un'attività economica, per altri ancora un insieme di persone oppure un'organizzazione di beni e persone.




Su questioni di lana caprina come queste si andava avanti all'infinito, perché poi ogni docente interpretava le definizioni a modo suo, o le formulava in maniera diversa, aumentando la confusione. 
Perché gli aziendalisti non si limitavano a prendere atto della definizione del Codice Civile? Mistero.

A proposito di Codice Civile, il Diritto Privato si rivelò essere la materia più difficile, per Roberto, perché richiedeva la memorizzazione del Codice Civile e delle leggi ad esso collegate, cosa che può essere paragonata soltanto ad Anatomia umana, per il tipo di memoria da elefante che richiede.
Il manuale era quello di Gianguido Scalfi, in quattro tomi, da aggiungere al classico e monumentale Torrente-Schlesinger, come supporto quando lo Scalfi si perdeva in oscure elucubrazioni e fumisterie metafisiche sulla filosofia del diritto.

La prima parte del corso era relativamente semplice, in quanto trattava le fonti del diritto, l'interpretazione del diritto, le distinzioni tra diritto pubblico e privato, tra diritto civile e penale, tra diritti personali e diritti reali, tra possesso e proprietà, tra impresa e azienda, tra persone fisiche e persone giuridiche, tra fatti e atti giuridici, tra colpa e dolo, per poi concludere trionfalmente l'introduzione disquisendo sul tema del danno ingiusto, del risarcimento del danno e della colpa grave.
Fino a qui si poteva quasi credere che quel corso fosse una specie di filosofia del diritto, complice il primo volume dello Scalfi.
Ma era un'illusione destinata a non durare.

La seconda parte del corso era infatti molto specifica, estremamente cavillosa e difficile da memorizzare.
Gli argomenti erano le obbligazioni e i contratti, (tutti quelli previsti dal Codice, e sono tanti), più le basi del diritto commerciale (imprese, società, azioni, titoli, cambiali, inadempimento del debito, cenni di diritto tributario, cenni di diritto fallimentare, cenni di diritto del lavoro). Il Diritto Commerciale sarebbe stato poi ripreso nei minimi particolari da un poderoso esame del secondo anno.

La terza parte del corso riguardava il diritto di famiglia e il diritto ereditario.

Gli articoli del codice dovevano essere conosciuti e ripetuti all'esaminatore comma per comma, parola per parola.
Mai a parlare di affitto, quello riguardava solo i terreni, ma per le abitazioni si parla di locazione!

Il docente, prof. Emanuele Lucchini-Guastalla, era, bisogna ammetterlo, un uomo colto e spiritoso e dunque brillante a lezione e spietato agli esami.  
Un giorno, quando ancora si discettava della linea di demarcazione tra il civile e il penale, il prof se ne usci con una frase del tipo: "Certo il furto di un maiale è un reato efferato, per dirla tutta, ma il furto di due maiali, dico due maiali, rappresenta un violento attentato alla sacralità stessa della società umana"
Alcuni pensarono che parlasse sul serio, poi i più arguti capirono che era una battuta e infine scattò un applauso generale.
Meno felice fu l'esito di un'altra battuta, detta in tono serissimo:
<<Voi studiate economia e quindi farete tutti i commercialisti>>
Ci fu prima un attimo di sbigottimento, seguito da un mormorio sempre più intenso.
<<Perché reagite così? Cos'ho detto di male? Che altra professione seria potrebbe fare un laureato in economia?>>

Era l'autunno del 1994, e la magistratura, dopo aver azzerato la classe dirigente pubblica, tranne alcune eccezioni discutibili, aveva messo nel mirino la classe dirigente del settore privato, in particolare l'allora Presidente del Consiglio, il Cavaliere, che in Bocconi non godeva di particolare stima, nemmeno tra gli aziendalisti.
Il Cavaliere di Arcore aveva appena designato Monti come Commissario europeo, senza immaginare che così facendo si era scavato la fossa da solo, in quanto, molti anni dopo, il futuro senatore a vita gli avrebbe soffiato l'ambita poltrona di Presidente del Consiglio, su cui il prode Silvio aveva appoggiato le sue nobili terga per ben quattro governi.

A causa di questa nomina, il corso di Economia Politica I (o Microeconomia) fu tenuto da un suo associato, divenuto ordinario, di cui è cosa saggia tacere persino il nome, trattandosi di persona potente e molto permalosa.
Sulla carta gli argomenti del corso sembravano interessanti e, come in Diritto, la prima parte fu quasi filosofica: si partì dalla distinzione tra la Microeconomia e la Macroeconomia.

Fu subito chiaro che la prima, quella su cui verteva l'esame, era un'astrazione matematica piuttosto fine a se stessa, in quanto studiava il (presunto) comportamento dei singoli agenti economici, in sistemi con un numero limitato di agenti, che sostanzialmente si riduceva a tre: il soggetto offerente, che vendeva un bene in cambio di un prezzo; il soggetto acquirente (che costituisce "la domanda"), che è intenzionato ad acquistarlo ad un prezzo che sia però compatibile col proprio vincolo di bilancio e con l'utilità che attribuisce al bene stesso, e il terzo incomodo che è lo Stato che può imporre una tassazione.

La Macroeconomia invece era più utile e molto più interessante, perché studiava l'economia a livello aggregato: (e quindi tutti gli investitori, lavoratori, venditori, consumatori, ed enti pubblici e i rispettivi profitti, salari, tassi di interesse, tasse dirette o indirette, monete, bilanci, crediti e debiti) e dunque si occupava della struttura economica generale, dell'occupazione, dell'inflazione, del tasso di crescita della produzione e della performance economico-finanziari di interi Stati o di entità sovranazionali.

Ma tutto questo era rinviato al secondo semestre, perché nel primo si studiava solo la micro.
Il manuale di Hal R. Varian era un altro mattone di quelli molto pesanti, diviso in tre parti.

Nella prima parte vennero introdotti i concetti base degli economisti classici e neoclassici di matrice liberista: Mercato, Domanda, Offerta, Utilità, Vincolo di Bilancio, Teoria del Consumatore RazionaleMassimizzazione dell'Utilità

Nella seconda parte gli "attori" e i contesti cambiarono: si passò alla Teoria della Produzione e ai concetti di Impresa, Industria (intesa come settore industriale), Efficienza, Minimizzazione dei Costi, Ottimizzazione dei profittiPrincipio di Pareto (e "ottimo paretiano"), Monopolio, Oligopolio, Mercato del Lavoro e dei Fattori di Produzione, Teoria dei Giochi , e infine all'Equilibrio economico generale.



Nella terza parte si introdussero concetti e teoremi relativi alla Scienza delle Finanze Pubbliche, e cioè: Fallimenti del Mercato (EsternalitàSelezione Avversa, Asimmetrie InformativeAzzardo Morale), Beni Pubblici, Teorema di Coase, Economia del Benessere (Welfare Economics), Teorema di Arrow.

Tutto meraviglioso a parole, ma ogni discorso si traduceva in modelli matematici, e le loro rappresentazioni in termini di geometria analitica, curve, intersezioni, rette tangenti, con rispettive equazioni, funzioni e derivate.
Tutte cose che Roberto conosceva bene, ma non aveva tenuto conto dell'effetto soporifero del docente, che si limitava a proiettare dei lucidi pieni di dimostrazioni matematiche e a leggerli con voce e cadenza così monotona da generare negli studenti uno stato di ipnosi.
Roberto ci ha giurato di non ricordare quasi nulla di ciò che veniva detto, perché era in una condizione di trance.


 Il resto delle lezioni fu un susseguirsi di esercizi sui modelli presentati, variando le altre ipotesi di fondo relative al regime di libero scambio, alla concorrenza perfetta, al monopolio, al duopolio e all'oligopolio. Tali esercizi avevano l'effetto di due compresse di Tavor da 2,5 mg.
In fin dei conti, comunque, quegli esercizi erano banali dal punto di vista matematico e di per sé, quindi, non costituivano un problema.
Anzi, paradossalmente, l'unico esame per cui non ebbe bisogno di studiare fu Matematica I,  perché negli ultimi tre anni aveva fatto praticamente solo quello, per far fronte alle continue interrogazioni di Amelio Sarpenti. 

Lingua Inglese I invece fu un trauma: il professore, un anziano lombardo-oxoniense, tale Cantarelli, che aveva insegnato, da italiano, Lingua Inglese sia ad Oxford che a Eton e pretendeva che la perfezione grammaticale e la pronuncia degli studenti bocconiani fosse migliore di quella degli oxoniensi e degli etoniani. 
Una delle sue più grandi ossessioni era la Duration Form, su cui Roberto aveva sempre avuto delle difficoltà.
Ovviamente parlava solo in inglese e interloquiva in continuazione con gli studenti così velocemente e con termini così desueti, che faticavano a capire cosa aveva chiesto e anche se lo avessero capito, non avevano la minima idea di come formulare una risposta decente. Tutti tranne Aurora, di cui il vecchio Cantarelli si innamorò perdutamente.

Ma Informatica fu il peggio del peggio, in quanto, la prima parte del corso si basò sul sistema operativo antidiluviano dell'MS-DOS.
Temiamo che i nostri lettori non siano sufficientemente attempati per ricordarsi cosa fosse il DOS della Microsoft, che precedette il Windows nelle sue infinite versioni.
Per darne un'idea, facciamo uno scherzetto a Bill Gates, andando su Google, suo nemico, e facciamo un bel copia e incolla da Wikipedia: "MS-DOS era un sistema operativo di Microsoft, attualmente non più in produzione, dedicato ai personal computer con microprocessore x86. Commercializzato dal 1982 al 2000, fu il principale esponente della famiglia di sistemi operativi DOS utilizzata nei PC IBM e compatibili, che negli anni ottanta arrivarono a rappresentare l'80% del mercato mondiale. Fino all'avvento di Windows 95, uscito nel 1995, è stato il sistema operativo per computer più diffuso al mondo"
Pensate un po' che sfiga era toccata a Roberto: il 1994/95 fu l'ultimo anno accademico in cui venne richiesta, nell'esame di Informatica, la conoscenza del DOS, che oggi apparirebbe tale e quale a un dinosauro, ed egualmente ingombrante e soprattutto inutile.
Sei mesi di tortura per imparare qualcosa che non sarebbe mai più servito a niente: questa era la grande efficienza bocconiana!

Per tutti questi insegnamenti erano previsti degli esami scritti nella seconda settimana di gennaio seguiti da esami orali nella prima settimana di febbraio.

Il primo scritto fu quello di Matematica e lì Roberto andò bene ed ebbe 29.
Poi ci fu lo scritto di Microeconomia e andò un po' meno bene, ma comunque bene: 27.
Il terzo fu quello di Economia Aziendale e non andò gran che bene, almeno per i suoi standard: 24.
Poi ci fu quello di Diritto Privato e andò ancora peggio: 21
Ma la mazzata furono gli esiti degli altri due esami:
Inglese: "insufficiente";
Informatica : "insufficiente".

Roberto, che nei momenti normali era ansioso, nelle crisi diventava stranamente calmo.
Accolse i risultati degli scritti con freddo pragmatismo, mettendosi subito a pianificare una strategia per limitare i danni.
Avrebbe sostenuto gli orali di Matematica, Microeconomia ed Economia Aziendale a febbraio.
Rifiutò il voto dello scritto di Diritto Privato, rimandandolo a dopo l'estate, insieme ad Inglese ed Informatica.

La sua fidanzata, Aurora Visconti, ebbe 29 in tutti questi scritti, e Roberto si complimentò con lei, ma fu irremovibile sulle proprie decisioni.
La lasciò libera di andare a festeggiare dove voleva e con chi le pareva e si ritirò per tre settimane in clausura volontaria nel monolocale del quinto piano, facendo voto di silenzio e di castità.

Applicò a se stesso una regola più severa di quella di San Bernardo di Chiaravalle, e poi, come un Crociato, si presentò agli orali pronto al martirio.
Matematica si risolse come previso con un 30 e lode in meno di un minuto.

In Microeconomia riuscì a spuntare un 29 mostrando un simulato entusiasmo per l'Equazione di Slutsky, la Legge di Walras, le Allocazioni Pareto-efficienti e il classico dei classici, ossia l'Equilibrio di Nash.
Si trattava di quello stesso John Nash che, dopo aver trascorso metà della sua vita rinchiuso in una clinica psichiatrica con la diagnosi di schizofrenia paranoide, aveva ottenuto, proprio nel 1994, in virtù del suo teorema che fu alla base della Teoria dei Giochi, il Premio Nobel per l'Economia.
Dalla sua esperienza fu tratto il film "A beautiful Mind", con un improbabile Russell Crowe nei panni di John Nash.

Quei due bei voti tamponarono l'emorragia di autostima che gli era piombata sulla testa a gennaio.
Roberto però non si faceva illusioni: il suo punto debole erano gli esami dove la memoria contava di più del ragionamento.

E infatti in Economia Aziendale ci furono problemi fin dalla prima domanda.
Esaminatrice era la prof. Dubini, che a lezione era tanto spiritosa, ma agli esami era terribile, per quella famosa regola che abbiamo già enunciato: i professori più spiritosi si rivelano quasi sempre i più pericolosi.
Ecco in sintesi come si svolse l'orale.

Dubini: <<Ho qui il suo scritto. Si vede che lei ha studiato, però in alcune risposte lei è andato fuori tema. Per esempio, qui le chiedevamo cosa sono il ROE, il ROA e il ROI e poi volevamo un esempio di applicazione di questi indici e lei è andato a tirar fuori il Teorema di Modigliani-Miller... Allora, mi ripeta le definizioni e poi mi dica perché ha divagato, menando il can per l'aia, invece di entrare nel merito>>

Roberto (imperturbabile) : <<Il ROE, acronimo di return on equity, è il rendimento del capitale proprio dell'azienda, mentre il ROA, return on asset, è il rendimento dell'attivo netto e il ROI, return on investment. Sono tre quozienti, con al numeratore il reddito netto e al denominatore rispettivamente il capitale proprio, l'attivo netto e il capitale investito. Ho scelto come esempio di applicazione di questi indici il Teorema di Modigliani-Miller perché utilizza tali quozienti per dimostrare che in determinate condizioni la struttura del capitale investito è ininfluente sul valore dell'impresa>>

Dubini: <<Sì, ma lei ha frainteso la domanda. Noi chiedevamo un esempio concreto, non un teorema! Mi faccia un esempio concreto>>

Roberto (fingendo una sicurezza che non aveva):  <<L'esempio concreto più evidente è quello del Gruppo Ferruzzi. Negli anni tra l'89 e il '93 hanno usato la Leva finanziaria in maniera, a mio parere, spregiudicata. E quando i tassi di interesse si sono alzati, il gruppo si è trovato in una condizione di insolvenza>>

Dubini: <<Sì, ma lei deve spiegare come i quozienti di redditività sono collegati al concetto di leverage e solo dopo può trarre le conclusioni in termini di solidità patrimoniale e liquidità. Quindi, per prima cosa mi definisca per bene il concetto di Leva finanziaria>>

Risposta di Roberto: <<La Leva finanziaria è l'effetto moltiplicativo sulla redditività operativa, che si ottiene investendo capitali presi a prestito da terzi, in aggiunta al capitale proprio: nel caso ci siano redditività positive, si aumentano i guadagni, nel caso ci siano redditività operative negative si aumentano le perdite>>

Dubini: <<Sì, però l'ha detto un po' così, con i piedi>>

Roberto: <<Con i piedi?>>

Dubini: <<E' un modo di dire! La sua definizione è troppo contorta e nello stesso tempo trascura alcuni aspetti terminologici appropriati.>>

Roberto: <<Ho ripetuto le parole dell'Airoldi, tali e quali. Pagina 234, ho il libro nello zaino, può verificare>>

Dubini: <<Non ho bisogno di verificare. Lei ha trascurato una parte della definizione>>

Roberto: <<Ma solo perché è implicita nella definizione. Comunque è chiaro che l'effetto leva dipede dall'indice di indebitamento, ossia il rapporto tra il capitale investito e il capitale proprio (quello dei titolari dell'azienda). Se si investono capitali presi a prestito, allora il capitale investito è maggiore del capitale proprio. Questo risulta conveniente quando si ottengono tassi di profitto più alti dei tassi di interesse da pagare ai creditori. Però poi quando i tassi di interesse si si alzano, l'esposizione debitoria può diventare insostenibile, in casi di abuso della leva finanziaria, e si fa la fine del Gruppo Ferruzzi>>

Dubini: <<E' molto severo nei confronti di Arturo Ferruzzi e Carlo Sama. E in generale lei descrive la Leva finanziaria facendola sembrare un reato da speculatori senza scrupoli, mente in periodi di crescita economica è un grande strumento di ripresa, per le aziende>>

Roberto: <<Sì, mai poi quando i tassi di interesse si alzano, oppure quando il tasso di crescita economica diminuisce...>>

Dubini:  <<Ma cosa sta dicendo? La crescita diminuisce? Cos'è, uno scherzo?>>

Roberto: <<No, è il tasso che diminuisce>>

Dubini: <<Si tolga la pistola dalla tempia>>

Roberto: <<Ma non ho detto una cosa errata. Il tasso è una percentuale e le percentuali possono diminuire. Parlavo del tasso di crescita, perché è collegato col tasso di rendimento del capitale investito. Se il rendimento è più basso degli interessi che l'azienda deve pagare ai creditori, è la leva ad essere una pistola alla tempia>>

Dubini (sorridendo malignamente): <<Ah, ecco, lei è il classico aspirante economista o finanziere che vuol far sembrare noi aziendalisti come dei sempliciotti che non sanno fare neanche le divisioni>>

Roberto (impassibile): <<Non ho ancora deciso cosa scegliere, come specializzazione>>

Dubini: <<Scelga Economia Politica. Lei è il classico teorico con la testa tra le nuvole, troverà tanti altri come lei, tra gli economisti. Le sconsiglio Finanza perché non ha il fegato dell'investitore che si assume il rischio, e non è sufficientemente astuto per fare lo strozzino.
E ovviamente la invito, per il suo bene,  a stare alla larga da Economia Aziendale. 
Ma tornando al caso Ferruzzi e all'intervento di Mediobanca: ha descritto il tutto come se fosse una questione personale. Lei è forse un parente di Enrico Cuccia?>>

Roberto: <<Eh, magari fossi parente di Cuccia! No, è chiaro che Cuccia ha pugnalato Arturo Ferruzzi alla schiena, però aveva le sue ragioni. Insomma, Arturo Ferruzzi non era all'altezza della situazione. Non ha accettato nessun compromesso con Mediobanca, che rivoleva indietro i soldi prestati. Arturo non aveva l'intuito di suo padre. Serafino Ferruzzi era un grande! Lui rischiava, ma sapeva investire nel settore giusto e nel momento giusto>>

Dubini: <<Ah, ma allora lei dev'essere di Ravenna! Sentivo la parlata romagnola. Sicuramente lei conosceva i Ferruzzi...>>

Roberto: <<Ehm, io sono di Forlì, ma mio nonno conosceva Serafino Ferruzzi. Era uno dei fornitori principali di barbabietole da zucchero per l'Eridania, che alla fine è l'unica azienda rimasta in piedi>>

Dubini: <<Uhm, quindi suo nonno aveva un'azienda agricola>>

Roberto: <<Sì, ora la gestiscono i miei zii>>

Dubini (sogghignano): <<Meglio così. Spero che non la voglia gestire lei. Andrebbe in malora nel giro di sei mesi, glielo garantisco>>

Roberto (serissimo): <<Mio nonno la pensava diversamente>>

Dubini (gelida): <<La ultima domanda è questa: lei che voto si darebbe?>>

Roberto (bluffando): <<28>>

Dubini (ridendo): <<Ah, ah! Ma neanche per sogno! Il massimo che le posso dare è 26>>

Roberto (sempre bluffando): <<Io credo di meritare come minimo un 27>>

Dubini (serissima) : <<E' la sua ultima parola?>>

Roberto (senza battere ciglio): <<>>

Dubini (compiaciuta): <<Aggiudicato! Le do 27 perché almeno sa contrattare! Noi qui formiamo la classe dirigente del futuro, e valutiamo non solo le nozioni, ma anche le attitudini. 
E le va riconosciuta la capacità di saper gestire una contrattazione anche in condizioni di stress.
Forse suo nonno non aveva tutti i torti, ma io resto dell'opinione che lei sia decisamente più portato per le questioni teoriche
Mi creda, lei potrebbe anche diventare un economista con qualche incarico prestigioso, come il nostro Rettore, ma non un aziendalista, non un direttore generale e nemmeno un finanziare, se ne faccia una ragione>>

Roberto annuì solennemente, firmò verbale e statino, mentre la prof. scriveva il voto nel libretto.
Poi uscì da quell'aula, consapevole di essere riuscito ad evitare la catastrofe, ma non la sostanziale sconfitta.
Incrociò Aurora, che aveva sostenuto l'esame con un assistente, un maschio molto sensibile alla bellezza femminile, che le aveva dato 30 e lode.
Insomma, Aurora, dopo gli orali, aveva avuto 29 in Matematica, 29 in Economia Politica, 30 in Diritto Privato, 30 e lode in Inglese, 29 in Informatica e 30 e lode in Economia Aziendale.

Roberto si congratulò con lei.
Dentro di sé, però, era furibondo per quell'ingiustizia.
Obiettivamente, lui aveva studiato molto, quell'ultimo mese, mentre Aurora era andata sempre in giro a sperperare denaro che non le apparteneva nemmeno, e alla fine lei era in pari con gli esami e aveva una media vicina al 30, laddove invece Roberto aveva dato solo tre esami su sei, con una media decisamente minore.
Sentì che gli mancava il terreno da sotto i piedi, gli sembrava di sprofondare.
Vista così, la sessione invernale degli esami diventava molto più seria: non era una semplice sconfitta, era una disfatta!
Per la prima volta nella sua vita sentì il bisogno di bere alcolici non per degustarli, ma per ubriacarsi sul serio, cosa che non aveva mai sperimentato.
I Prefetti del Quinto Piano lo capirono subito e trascinarono Roberto, da solo, in un rinomato pub della zona dei navigli, per una cameratesca serata senza le rispettive fidanzate.
E quella sera, come vedremo nel prossimo capitolo, il giovane Monterovere ebbe modo di farsi un'idea più completa della Milano by night.

lunedì 8 novembre 2021

Vite quasi parallele. Capitolo 167. La metamorfosi di Aurora

 


A metà degli Anni Novanta scoppiò una specie di "Rivoluzione estetica" destinata a cambiare il canone della bellezza femminile e anche, in un secondo momento, quello della bellezza maschile.
Il canone precedente valorizzava le curve, secondo la classica e abbondante formula 90-60-90.
Esistevano eccezioni illustri, ma non erano molte. 
Poi, all'improvviso, sulla scia del successo dell'aerobica, del fitness e della dietologia, a metà degli anni Novanta si impose un nuovo modello basato su un fisico decisamente più asciutto, dove la priorità assoluta era la magrezza.
Le dimensioni di seni e glutei non erano più rilevanti come in passato, almeno dal punto di vista della moda, e sembrava anzi che le curve fossero diventate un impiccio.
La magrezza divenne molto più importante delle curve (nel corpo femminile) e dei muscoli (in quello maschile)
Dietro a queste tendenze c'era un in nuce, un messaggio implicito, da parte degli stilisti, di cui ci stiamo accorgendo soltanto ora con l'affermazione mediatica del concetto di "fluidità di genere".

Il corpo femminile e quello maschile tendevano a convergere in una sorta di ideale androgino.
L'importante era essere magri e, possibilmente anche alti, il resto era un optional.
Il viso femminile poteva assumere tratti più ossuti e marcati, mentre quello maschile, al contrario, tendeva ad una maggiore dolcezza e a tratti più efebici.
I nuovi requisiti ideali del fisico femminile e di quello maschile si affermarono prima sulle passerelle, poi sulle copertine delle riviste e infine nel mondo dello spettacolo e nell'immaginario collettivo.
Dalla metà degli Anni Novanta in poi questa rivoluzione estetica apparve sempre più evidente: nelle sfilate fluttuavano top model evanescenti, creature fatate in dissolvenza bellezze "elfiche" dai corpi snelli come silfidi dell'aria.
Una delle principali icone di quel nuovo modello femminile era Kate Moss, che sembrava nutrirsi solo di luce e polvere bianca, perché la cocaina o le anfetamine potevano permettere alle nuove top model di mantenersi così magre, quasi anoressiche, senza essere torturate dai morsi della fame e dalla stanchezza.
Non era certo un modello sano, anche se ufficialmente la dieta ferrea e l'attività fisica vennero presentate come un imperativo categorico, cosa che trasformò l'esistenza di un'intera generazione di giovani, sia donne che uomini, in un inferno.
Quell'ossessivo insistere su una nutrizione ipocalorica e ipoglicemica, con portate microscopiche, insalate miste, cucina esotica o comunque alternativa, si sommava allo stramaledetto jogging o a quello spaventoso strumento di tortura che è la cyclette, generando un apparente entusiasmo che mascherava una vita di rinunce e privazioni.
Tutto questo era definito sano, ma produceva spesso disturbi alimentari, ansia e sensi di colpa.
Come poteva definirsi sano questo cercare di protrarre l'androginia dell'adolescenza in eterno?
Per non parlare del fatto che il nuovo canone di bellezza, in maniera implicita, spostava il desiderio in una direzione pericolosa, dal momento che la nuova generazione di modelle sembrava composta (e in buona parte lo era) da ragazze minorenni, e talmente esili da apparire poco più che adolescenti.
Si potrebbe obiettare dicendo che, in fondo, Nabokov aveva già detto tutto sull'argomento, narrando la passione malsana e autodistruttiva di un professore di mezza età nei confronti di Lolita.
Ma si trattava di casi isolati, mentre dopo divenne un fenomeno di massa.

Un'altra obiezione, però, potrebbe essere: "e allora il modello di Audrey Hepburn e di Coco Chanel? Non c'era forse anche prima? Sì, ma era solo uno dei possibili modelli di riferimento, dopo divenne "il" modello.
Sembrava quasi che tutto il mondo della moda e dello spettacolo fosse piombato in una versione estrema della sindrome di Peter Pan, dove anche il desiderio rimaneva bloccato in una fase adolescenziale, ambigua e immatura, che si protraeva sempre più a lungo.
Tutto questo, tra l'altro, spianò la strada ad un certo format televisivo pomposamente detto talent show, che, pur rivolgendosi ufficialmente a un pubblico giovane, strizzava l'occhio anche a un pubblico meno giovane, ma egualmente immaturo.
Nel giro di un decennio, con velocità sempre crescente, moda, cinema, televisione e internet imposero il modello ovunque, cosa che fece soffrire molto coloro che avevano una costituzione fisica robusta.

Che effetto ebbe questa rivoluzione estetica sulla nostra Aurora Visconti-Ordelaffi?
Possiamo rispondere dicendo che rafforzò una tendenza che in lei era già presente.
Nel ripercorrere le tappe della sua evoluzione, prendendo spunto da alcune immagini, riteniamo opportuno partire dal terzo anno del Liceo Scientifico, quando iniziò la sua relazione con Roberto Monterovere.
A sedici anni, nel 1992, Aurora si presentava come una adolescente "acqua e sapone", dai tratti dolci e regolari e dal corpo longilineo e fisiologicamente snello, in armonia col suo fenotipo "nordico".








A diciassette anni, nel 1993, aveva già incominciato ad assumere pose da modella e a seguire una dieta più rigida e provare diverse tinte per i capelli.






A diciannove anni e mezzo, nel 1994, il suo volto aveva assunto un aspetto più maturo, con tratti più marcati, ma più raffinati.
Roberto ricorda ancora con nostalgia lo sguardo radioso di Aurora quando, insieme a lui, arrivò a Milano: era una splendida ed entusiasta "matricola fuori sede", giunta in una città che le era congeniale, ed era consapevole di avere quel tipo di bellezza, che la moda di metà Anni Novanta stava esaltando. 
E sapeva altrettanto bene che il suo corpo, in virtù della dieta e dell'esercizio fisico, aderiva in toto al canone estetico che si stava affermando nella moda.
Tale consapevolezza, unita al fatto la propria bellezza era al suo apice, ebbe su di lei un notevole effetto euforizzante.
Era una reazione naturale: chiunque, nelle sue condizioni, si sarebbe sentito euforico.

Questa euforia si sommò al fatto di essere anche un'esperta di moda e di trovarsi a Milano, che era ed è una delle capitali della moda.
Anche la persona più equilibrata di questo mondo, trovandosi in una situazione simile, e godendo anche di ampie disponibilità economiche, avrebbe ceduto allo shopping compulsivo, per valorizzare ciò che la sorte le aveva donato.

Aurora era già mentalmente predisposta a questo comportamento, ma quella sorta di congiunzione astrale apparentemente così favorevole, abbatté ciò che restava dei suoi freni inibitori, dando vita a comportamenti eccessivi.
Il primo di questi fu appunto la spesa esagerata e incontrollata in beni e servizi di lusso, specialmente in capi di abbigliamento firmati e acquistati nel Quadrilatero della Moda, (dove trascorreva ormai gran parte del fine settimana e del tempo libero), ma anche in centri estetici e in saloni di bellezza come quello di Aldo Coppola, il Re dei coiffeur, anzi, pardon, degli hair stylist, l'inventore del Degradé Joelle, la tecnica rivoluzionaria che aprì la strada alle colorazioni più raffinate, come il Balayage, il Flamboyage e lo Shatush, per citare solo alcuni esempi.
All'epoca un trattamento completo da Coppola poteva raggiungere prezzi inimmaginabili per i comuni mortali. I capelli di Aurora, ormai, valevano tanto oro quanto pesavano.
Se poi a tutto questo aggiungiamo il make up e gli accessori vari tipo borsette, cinture orologi, occhiali da sole et similia, possiamo ottenere un'immagine di lei molto più elaborata e curata nei minimi dettagli.
A vent'anni, nel 1995, Aurora Visconti appariva come una elegantissima donna di classe, raffinata e carismatica, ossequiata e venerata ovunque andasse.

La sua metamorfosi specie quando era in "tenuta da shopping", raggiunse livelli miracolosi: sembrava davvero una top-model, o una giovane signora dell'Alta Società, o magari la moglie di un attore famoso, di un calciatore ricchissimo o di un oligarca russo dell'era Eltsin.
Di certo, quando era fresca di parrucchiere e di make up e agghindata con abiti e accessori che seguivano uno stile preciso, non sembrava più la diciannovenne matricola "fuori sede" dei primi giorni.
Era diventata un'altra persona.












E tuttavia, prima di diventare così, aveva dovuto risolvere un problema piuttosto serio, e cioè il fatto che pur essendo di famiglia ricca, non era sufficientemente danarosa per mantenere un simile stile di vita senza destare preoccupazioni persino in sua madre, che in fatto di shopping compulsivo la sapeva lunga.
Se in quegli anni ci fosse stata un'ampia diffusione di Internet con una connessione adsl, avrebbe potuto proporsi come fashion blogger, se poi ci fossero stati lo smartphone e Instagram avrebbe potuto fare l'influencer con ottimi guadagni, ma la storia non si fa con i "se".
Esistevano comunque opzioni alternative, tra cui, per esempio, il finanziare le spese con nuovi introiti derivanti da una attività lavorativa.
Le sarebbe piaciuto fare la modella, e ne aveva tutti i requisiti e le occasioni, ma su quel punto i suoi genitori furono inflessibili: posero un veto assoluto per varie ragioni facilmente immaginabili e minacciarono di tagliarle i finanziamenti.
Dissero che un eventuale impiego nel mondo della moda non era compatibile con quello negli studi, specie in un'università così difficile, e non avevano tutti i torti.
Lei ne era cosciente e sapeva di dover prendere una decisione chiara su cosa voleva realmente fare nella vita.
Di tutto questo parlò col suo ragazzo, che la rassicurò dicendo che l'avrebbe sempre sostenuta, in qualunque scelta e che credeva in lei e nelle sue possibilità di successo, sia nel mondo della moda che in quello degli affari, che peraltro potevano anche coincidere, in determinati casi.

A far pendere il piatto della bilancia verso una delle due scelte fu qualcosa di inaspettato.
Con sua sorpresa, già nel primo mese di lezioni, Aurora si era resa conto di essere portata per gli studi bocconiani, e questo si aggiunse a ciò che già sapeva, ossia che una laurea prestigiosa con un'alta valutazione le avrebbe permesso una carriera potenzialmente molto remunerativa e ben più duratura, con una posizione sociale più prestigiosa, agli occhi dei genitori, rispetto a quella nella moda. Dobbiamo pensare, infatti, che all'epoca, specialmente dal punto di vista di persone di mezza età e "di provincia", l'attività di modella era pregiudizialmente associata ad ambienti e situazioni "non del tutto rispettabili", una cosa che oggi nemmeno le nonne pensano più.

E dunque, quell'università e quella facoltà a cui all'inizio si era iscritta solo per accontentare i genitori ed essere vicina al fidanzato, le si rivelarono così congeniali che la sua media nei voti degli esami fu ottima fin dall'inizio e decisamente migliore di quella di Roberto.
Come sappiamo, i nervi di quest'ultimo erano stati messi a dura prova in precedenza, ragion per cui la sua mente era troppo stanca per essere ricettiva come in passato.
La giovane Visconti, invece, partiva fresca e riposata e la sua capacità di concentrazione e di memorizzazione, basata su una intelligenza pragmatica e motivata dal suo ferreo desiderio di far buona impressione agli occhi della famiglia e del fidanzato,  si rivelò eccezionale.
I meccanismi della mente sono complessi, ma nel caso di Aurora risultava evidente un punto, e cioè che la sua motivazione era accresciuta dall'idea che quell'impegno avrebbe potuto soddisfareoltre che il suo orgoglio, anche le sue esigenze economiche.
Questo insieme di considerazioni si dimostrò molto efficace nell'ottenere rendimenti universitari molto al di sopra delle aspettative, già alla fine del primo semestre.
A quel punto Aurora stipulò un patto con suo padre e sua madre: se lei avesse continuato ad avere una media dal 29 in su, loro l'avrebbero premiata con una consistente "iniezione di liquiditànel conto da cui la sua Mastercard attingeva.
E quella media fu mantenuta, dal momento che, per preparare gli esami, le occorreva molto meno tempo di quello che era necessario non solo al suo ragazzo, ma anche a studenti molto più portati per quelle materie.
Poteva trascorrere i weekend a fare shopping o a farsi bella costosamente senza che i rendimenti universitari calassero e persino senza che le sue spese fossero più contestate dai genitori, dal momento che si trattava di un premio concordato, e che comunque le si prospettava davanti una luminosa carriera, a prescindere dai conti dell'azienda di famiglia.
Sembrava, sotto tutti gli aspetti, la famosa quadratura del cerchio, o quanto meno il proverbiale uovo di Colombo.

Il look che scelse e a cui rimase fedele era adatto a ciò che voleva diventare: una donna in carrieraun po' come le protagoniste nel film omonimo, con Sigourney Weaver, Mellanie Griffith ed Harrison Ford, e con quella splendida colonna sonora, la canzone "Let the river run".
Aurora sarebbe stata perfetta come protagonista.

Ed era proprio così che lei si proponeva di diventare: un'elegante, bellissima ed emancipata donna in carriera.











Il suo aspetto divenne autorevole: era già alta di suo, per cui, quando metteva i tacchi alti e i pantaloni a palazzo o comunque svasati o flare, che coprivano quei tacchi per tre quarti o, a volte, del tutto, sembrava ancora più alta e acquisiva un'autorevolezza immediata, che quasi intimidiva i comuni mortali (specie quando indossava gli occhiali da sole e il cappello).


















Per completare quel look sceglieva camicie eleganti e bluse realizzate con tessuti preziosi e speciali, con balze, rouchesvolants o con un fiocco elaborato e "assertivo": una versione femminile della cravatta dei dirigenti maschi (escluso Marchionne, che si sarà presentato in maglione anche in Paradiso).
Quando sentiva quegli abiti e quei tessuti aderire alla propria pelle, Aurora era percorsa da un brivido di libidine: provava un vero e proprio piacere feticistico nell'essere vestita così e Roberto la trovava irresistibilmente sexy, per cui tra loro c'era un'intesa immediata.
Lui moriva dalla voglia di toccarla, e ormai era diventato un esperto nel sapere dove la sua fidanzata voleva essere toccata, per cui bastava solo un cenno da parte di lei, e lui faceva scivolare le sue dita su quei tessuti serici, a contatto con quella pelle dorata, facendosi strada verso zone proibite.
E se erano in pubblico, era tutto ancora più eccitante, e del resto nessun tassista o commesso o passante aveva avuto qualcosa da ridire, perché Aurora era così bella che tutti, uomini o donne che fossero, avrebbero desiderato di poterla anche solo sfiorare per un breve istante.
E invece Aurora concedeva questo privilegio a due sole persone: se stessa e il fidanzato.
Roberto traeva da quei momenti un piacere puramente tattile eppure così intenso da rivaleggiare con quello più specificamente sessuale.
Ed era consapevole che anche Aurora provava quel tipo di piacere, e molto superiore, perché ormai la conosceva bene e sapeva che quella determinata condizione, per lei, era la perfetta alchimia di tutti gli ingredienti che le provocavano un qualcosa di estatico anche solo al minimo contatto con lui.
Solo Roberto sapeva esattamente cosa fare e cosa dire per rendere perfetta e completa la soddisfazione che lei viveva in ogni istante, per ore e ore, mentre il mondo intorno a loro non sospettava nulla.
Per questo, anche se il numero dei corteggiatori di Aurora era cresciuto in maniera esponenziale, nessuno di loro poteva anche solo lontanamente immaginare quanto lei e Roberto fossero in sintonia.
Crediamo sia legittimo dire che si erano plasmati a vicenda, ma senza dubbio fu lei quella che maggiormente influenzò l'altro.
Anni dopo, quando la loro storia era finita, Roberto si accorse di aver acquisito molte caratteristiche della personalità di lei, e non riuscì a liberarsene, perché era come un tatuaggio impresso non sul corpo, ma sull'anima.

In quel periodo tra l'ottobre del 1994 e il febbraio del 1995 si sentivano entrambi molto forti, e il pericolo stava proprio in questo.
E' proprio nel momento in cui ci sentiamo più forti che corriamo i rischi maggiori.
Aurora e Roberto erano all'apice della felicità, e non si resero conto delle crepe che incominciavano a svilupparsi nel loro rapporto, e che solo anni dopo divennero visibili.
In lei c'era un lato oscuro, molto nascosto, il cui peso finì per gravare sempre più sulle spalle di lui.
Nonostante apparisse una persona sicura di sé, Aurora aveva i suoi punti deboli.
L'abbiamo scritto più volte e lo ripetiamo:  nessuno è invulnerabile, nemmeno una personalità energica e determinata come quella di Aurora. 













Lo shopping compulsivo era solo la punta dell'iceberg di un problema molto più serio.
Ora, i lettori più affezionati ricorderanno che sin dall'adolescenza Aurora aveva sviluppato un disturbo della personalità di tipo ossessivo-compulsivo con, ci si consenta la battuta un po' scontata, cinquanta sfumature di grigio, ossia con risvolti sado-masochistici non convenzionali, del tipo che i Giapponesi chiamano omorashi e anche quelli da dominatrice (non a caso spesso si vestiva in abiti maschili, con giacca, cravatta e pantaloni). Roberto subì tutto questo obtorto collo, ma che sopportò stoicamente pur di stare con lei, perché ne era follemente innamorato.
Già da quel momento, comunque, lui aveva capito che c'erano dei problemi difficili da risolvere.
Di tutto questo avremmo preferito non parlare, se non fosse stato così rilevante da costituire uno dei segreti inconfessabili della loro granitica stabilità di coppia.
Certo, anche per tutto questo, se ci fosse stato Internet con l'adsl diffuso, forse Aurora avrebbe potuto rendersi conto che tutto ciò che la rendeva insicura era molto più diffuso di quanto pensasse.
Aurora era riconoscente, nei confronti del fidanzato, per questo e per altri motivi, ancor meno limpidi, ma crediamo che comunque fosse in buona fede nel manifestagli i suoi sentimenti.
E tutto questo forse sarebbe anche potuto giungere ad un esito felice, se solo entrambi si fossero resi conto in tempo di cosa si stava sviluppando nella mente di lei.

Cercheremo di spiegarlo senza troppi giri di parole: l'autostima è un bene, l'eccesso di autostima no.
Negli anni milanesi, il narcisismo di Aurora assunse connotati patologici tali che gli psichiatri avrebbero potuto riscontrare in lei, in base al famigerato manuale statistico diagnostico (DSM), un numero sufficiente di sintomi del disturbo narcisistico della personalità.
Anche considerando che il senso "grandioso" di sé si può sviluppare con facilità se si è oggettivamente dotati sotto molti punti di vista, esiste comunque un limite oltre il quale c'è una patologia.
Aurora incominciò a prendersi troppo sul serio, ad attendersi dagli altri un trattamento di riguardo, a non perdonare più le fragilità altrui, a non rapportarsi bene con le visioni del mondo alternative alla propria, a manifestare un egocentrismo eccessivo.

Siamo tutti un po' egocentrici, chi più, chi meno: è la malattia della nostra generazione e forse anche della successiva, ma il punto è capire quando questo egocentrismo diventa eccessivo.
La giovane Visconti riusciva ancora, se lo voleva, a mascherare questi sintomi dietro ad una normale esigenza di galanteria che una donna con le sue qualità può considerare un atto dovuto, ma chi la conosceva bene si accorgeva che c'era qualcosa che non andava.
Roberto era ancora troppo innamorato per rendersene conto, e questo trascinò anche lui nel vortice di frenesia edonistica che la sua ragazza aveva creato intorno a sé.
Non vogliamo però scaricare le colpe su una sola delle parti.
Ognuno dei due ebbe le sue responsabilità riguardo a ciò che accadde in seguito.
Roberto avrebbe potuto dirle di no, una volta ogni tanto, ma non lo fece, e non solo per amore, ma perché gli piaceva immensamente essere al fianco di quella dea, ne era onorato e lusingato e si divertiva pure lui nel partecipare a quella vita edonistica e nel frequentare quell'ambiente così sfarzoso, invece di studiare.

Alla fine lei era riuscita a  trasformarlo in un dandy, perché anche lui lo voleva, e questo divenne parte integrante del suo "personaggio" per il resto dei suoi giorni.
Gli sembrava di essere un novello Julien Sorel, un Rastignac, un Lucien de Rubempré, ricalcando i passi di quegli studenti provinciali divenuti raffinati esteti dediti al piacere e alle donne, invece di studiare.
Quando girava per le strade del centro, mano nella mano con Aurora, si sentiva un dio, e si convinceva che lui e la sua ragazza, insieme, erano più fighi persino di Johnny Depp e Kate Moss!









Ora sappiamo tutti come l'alcolismo ha ridotto Johnny Depp e come la cocaina ha ridotto Kate Moss, ma all'epoca la loro storia era vista come l'archetipo della passione tra due personalità forti, colleriche e carismatiche, quel tipo di coppia che litiga furiosamente e al culmine della lite i due si arrapano e si fanno la scopata del secolo.
Tutti volevano essere come loro, in quegli anni, ed era normale che fosse così: dopo di loro, ben poche coppie raggiunsero, tali livelli di "divismo": Brad Pitt e Gwyneth Paltrow, Tom Cruise e Nicole Kidman, Leonardo Di Caprio e Gisele Bundchen, poi ognuno di loro è invecchiato, si è sposato due o tre volte, e ha lasciato il testimone a nuove coppie, meno carismatiche.
Tutto passa.
Ma in quei mesi tra il novembre del '94 e il febbraio del '95, Roberto visse una in specie di sogno ad occhi aperti, ed era un bel sogno. E così, ebbro di piacere, si lasciò trascinare dalla corrente e dimenticò tutto il resto.
La sua unica dipendenza (giudichino i lettori se tossica o meno) fu quella da Aurora Visconti-Ordelaffi.
Era lei la sua bevanda inebriante: Aurora era tutto per lui.





L'avrebbe seguita anche all'Inferno, e forse fu proprio quello che fece.
Sapeva che avrebbe pagato caro il prezzo di quei mesi di vita dissipata, e infatti il conto, in termini di voti, arrivò insieme agli esami di fine semestre.
Ma di tutto questo e di molto altro ancora parleremo nel prossimo capitolo.